PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1995, 69: 28-33

Terapia o ricerca della verità? Ancora sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Vorrei fare alcune considerazioni sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia prendendo spunto dalla lettera di Franco Baldini a Erba ("Guaritori e cercatori di verità") apparsa sul Ruolo Terapeutico, n. 68/1995, pp. 39-40 (Baldini era intervenuto in merito alla risposta di Erba a Angelo Villa apparsa sul n. 67, pp. 23-25, nella quale Erba a sua volta aveva fatto riferimento alle differenze tra psicoanalisi e psicoterapia sottolineate da Baldini nella sua intervista a Emilio Gramegna, sempre sul n. 67, pp. 35-37). I lettori sanno che il tema delle differenze tra psicoanalisi e psicoterapia mi sta molto a cuore, essendomene occupato in passato anche sul Ruolo Terapeutico (vedi il n. 59/1992, pp. 4-14, "Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica?", e il n. 60/1992, pp. 44-47, "Ancora sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia" [vedi anche le rubriche nei numeri 69/1995 e 86/2001).

Cercherò di essere sintetico, e di vedere se riesco a contribuire alla discussione. Quello che è da chiarire è se si tratta di una "controversia più sui nomi che sulla cosa", come dice Erba (Il Ruolo Terapeutico, 68, p. 40), oppure se si tratta di una vera e propria differenza di opinioni. Baldini sottolinea che lo scopo della psicoanalisi è la ricerca della verità, e questo non sempre implica risultati "terapeutici". Vede insomma una contrapposizione tra terapia e ricerca della verità, anche se nulla vieta che la ricerca della verità possa produrre effetti terapeutici (nel qual caso, tanto meglio); ma se la verità non produce effetti terapeutici, allora lo psicoanalista dovrebbe privilegiare la ricerca della verità, non la terapia, altrimenti diventerebbe uno psicoterapeuta.

Questo, in sintesi, mi sembra il discorso di Baldini, se io non l'ho frainteso. Ma anche nel caso l'avessi frainteso, lo utilizzo ugualmente come pretesto per discutere questa posizione così come io l'ho enunciata, posizione che è interessante e che ha una sua dignità teorica, e che mi sembra sia seguita in vari settori della psicoanalisi. Cercherò di dimostrare che questa discussione su una eventuale differenza tra psicoanalisi e psicoterapia basata sul fatto che l'una cercherebbe la verità e l'altra no, oppure che l'una baderebbe più dell'altra agli aspetti terapeutici, sia un po' una polemica ormai superata, e che la domanda interessante è chiedersi perché ancora ci poniamo questi problemi, cioè cosa può nascondersi dietro ad essi. In questo mio intervento voglio prescindere dal problema del significato che noi possiamo dare al termine "verità" (quale verità? secondo chi o secondo quale teoria? e che dire della problematica filosofica posta dalla critica ermeneutica che ha relativizzato il concetto di verità dell'interpretazione? ecc.). Discutere il significato della parola "verità" ci porterebbe lontano e non è lo scopo di questo mio breve intervento. Vediamo se il mio discorso riuscirà a stare comunque in piedi, ad avere una sua coerenza, qualunque sia il significato che noi diamo alla parola "verità", e assumendo ovviamente che sia diverso da quello della parola "terapia", altrimenti cadrebbe tutto il senso della puntualizzazione di Baldini in favore della psicoanalisi come scienza dotata di uno statuto diverso da quello della psicoterapia.

Io ho sempre ritenuto che la psicoanalisi sia una forma di terapia, nel senso che il nostro mestiere è quello di aiutare i pazienti, i quali vengono da noi appunto per questo; negarlo sarebbe ipocrita. Questa era anche l'idea di Freud, che scoprì la psicoanalisi proprio come una forma di terapia. La migliore definizione che trovo del nostro lavoro è quella di "helping profession" ("professione di aiuto"), definizione semplice, chiara, che scavalca tutte le altre definizioni e le questioni delle diverse teorie. Per "terapia" però intendo, in senso lato, operare dei cambiamenti nel paziente in risposta a una sua domanda di aiuto. Sicuramente aiutare un paziente a scoprire la sua verità è un tipo di questi cambiamenti, che può avere delle ripercussioni sul suo "benessere" o sul suo comportamento, ripercussioni che, tra l'altro, possono essere sia positive che negative.

Ma questo è il punto: cosa significa ripercussioni "negative" e ripercussioni "positive" della scoperta della verità? Prima ho tenuto in sospeso la discussione sul significato della parola verità, e ora potrei fare la stessa cosa per gli aggettivi "negativo" e "positivo". In fondo, i significati di questi due aggettivi dipendono dai punti di vista: uno "psicoanalista" può ritenere che un paziente che peggiora per il fatto di aver scoperto la verità (o addirittura si scompensa, viene ricoverato, o magari si suicida) è migliorato da un punto di vista psicoanalitico, perché si è avvicinato maggiormente alla verità. Non mi interessa per ora discutere se questo sia "giusto" o "sbagliato", perché bisognerebbe definire rispetto a che cosa un comportamento è giusto o sbagliato, e questo mi porterebbe fuori dal filo logico che voglio cercare di seguire.

La parola sulla quale vorrei attirare l'attenzione è "ripercussioni". Ritengo infatti che faccia parte integrante del compito dello psicoanalista (o dello psicoterapeuta che dir si voglia) prestare attenzione a tutte le possibili ripercussioni che ogni intervento (compresa la scoperta - o la non scoperta! - di una supposta verità) può avere sul paziente, cioè sul suo funzionamento globale, su quelle strutture che con la terminologia classica si chiamavano Io, Es, e Super-Io, e oggi magari si direbbe sul suo Sé, sulla sua persona, ecc. Si tratta di saper capire il significato di quello che facciamo, saperlo analizzare, cercare di vedere, o prevedere, le "ripercussioni" dei nostri interventi "su qualcos'altro" della personalità del paziente. La scoperta della verità fa bene al paziente? Fa male? Intendo dire che prima ancora di discutere cosa significa "bene" o "male", ci interessa essere consapevoli che vi possono essere comunque delle ripercussioni.

E' talmente scontato che la verità può far male, che non occorre ripeterlo, così pure come è noto che a volte essa possa far bene (ciò vale per il paziente come per il terapeuta). Io per esempio posso ritenere che sia utile per un certo paziente farlo star male nel breve periodo perché penso che questo gli sia utile nel lungo periodo (un esempio tipico: il lavoro sul lutto, dove è stato dimostrato che aiutare il paziente a non rimuovere il ricordo doloroso può accorciare sensibilmente la durata delle sue sofferenze). Oppure posso ritenere il contrario, cioè che sia utile farlo star bene soggettivamente nel breve periodo, secondo l'ipotesi (giusta o sbagliata che sia) che questo sia l'unico modo per convincerlo a non interrompere la terapia, così potrò lavorare con lui e farlo stare ancor meglio nel lungo periodo. Questi sono dettagli tecnici. Quello che mi interessa sottolineare è il principio secondo il quale noi dobbiamo considerare le ripercussioni di quello che facciamo.

Stabilire se determinate ripercussioni sono positive o negative potrebbe essere una questione etica, cioè inerente ai valori che adottiamo. E' Baldini, tra l'altro, che accenna al problema dell'etica (Il Ruolo Terapeutico, 68, p. 39): a questo proposito non sono sicuro di aver capito bene come si concilia una posizione etica con un privilegio della verità a scapito del benessere del paziente o degli aspetti "terapeutici" della psicoanalisi (come ho detto, qualunque definizione noi diamo al termine "terapia", è chiaro che in questo contesto essa significa qualcosa di diverso dalla ricerca della verità, altrimenti tutta la nostra discussione non avrebbe senso). Se si vuole dire che privilegiare la ricerca della verità a scapito del benessere del paziente è una posizione etica possibile, ebbene, io non mi sento di aderire a questa posizione; con questo intendo dire che non sono d'accordo con un atteggiamento che persegua la ricerca della verità senza nessuna considerazione per le ripercussioni o le conseguenze che essa può avere (ripeto, questo vale qualunque cosa noi intendiamo per la parola "terapia", l'importante è che essa non sia sinonimo di ricerca di verità); ritengo pericolosa questa assunzione di valori (tra le altre cose, mi viene in mente la Santa Inquisizione), e non mi sembra che questa sia l'etica della psicoanalisi. Sarebbe comunque interessante approfondire questo punto, che mi rendo conto che è complesso e denso di implicazioni anche filosofiche.

Ma vengo alla osservazione che voglio fare più precisamente a Baldini. Tutte queste problematiche non sono nuove in psicoanalisi: esse sorsero già dagli anni 1920-30 quando si impose la tematica della Psicologia dell'Io, cioè dell'analisi delle difese, e più tardi dell'adattamento, dello sviluppo, del lavoro con pazienti più difficili, e così via (Freud scrisse L'Io e l'Es nel 1922; Anna Freud scrisse L'Io e i meccanismi di difesa nel 1936; Hartmann scrisse Psicologia dell'Io e problema dell'adattamento nel 1937). In sostanza, queste problematiche sorsero quando si capì che la Psicologia dell'Es (che sottolineava l'importanza di far emergere il rimosso come compito essenziale dell'analista) doveva essere sostituita dalla Psicologia dell'Io (che sottolineava l'importanza non tanto di interpretare il rimosso, quanto di capire perché è necessario rimuovere; non tanto di analizzare l'Es ma prima di tutto le difese dell'Io, ecc.), quando si capì cioè che l'analisi degli aspetti strutturali doveva avere preminenza su quelli del contenuto. Freud sapeva bene queste cose, quando sottolineava l'importanza del lavoro sulle resistenze, e non quello sulla semplice trasmissione della verità. Baldini, che è un profondo conoscitore dei testi freudiani, sa queste cose. Cito ad esempio, per coloro che non lo conoscessero, uno dei tanti passaggi di Freud (molto esplicito al riguardo, scritto ben 12 anni prima dello scritto L'Io e l'Es in cui introdusse il concetto di Io, cioè il modello strutturale):

E' un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l'ammalato soffrirebbe per una specie d'insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. Non è un tale "non sapere" per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di questo "non sapere" nelle resistenze interne del malato, le quali in un primo tempo hanno provocato il "non sapere" e ora fanno in modo che esso permanga. Il compito della terapia sta nel combattere queste resistenze. La comunicazione di quanto l'ammalato non sa perché lo ha rimosso, è soltanto uno dei preliminari necessari alla terapia. Se la conoscenza dell'inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l'ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame (S. Freud, Psicoanalisi "selvaggia", 1910. Freud Opere, 6: 325-331. Torino: Boringhieri, 1974, p. 329).

Degno di interesse, a questo proposito, è anche il seminario che John Gedo ha tenuto al Ruolo Terapeutico il 7-3-94, pubblicato sul n. 67, in cui l'autore cerca di ricostruire storicamente il concetto di "elaborazione" (working through), formulato appunto non appena Freud si rese conto che la ricerca della verità non sempre pagava in termini terapeutici, e che la psicoanalisi doveva per forza trasformarsi in una attività anche "rieducativa", in un lavoro psicoterapeutico "a tutto campo" in cui i fattori emotivi, e non solo quelli cognitivi, facessero parte integrante della tecnica.

E' mia convinzione, esposta in vari scritti tra cui quelli prima citati apparsi sul n. 59/1992, 60/1992, 69/1995 e 86/2001del Ruolo Terapeutico (rimando comunque anche a vari capitoli del mio libro Terapia psicoanalitica. Milano: Franco Angeli, 1995), che la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia non ha più senso di esistere, almeno nei termini con cui si poneva una volta. Questa differenza aveva senso prima che nascesse la Psicologia dell'Io, ma dopo l'introduzione dei concetti di difesa, di adattamento, ecc., necessariamente psicoanalisi e psicoterapia si sono sempre più identificate. Non a caso il dibattito sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia è continuato per decenni senza mai raggiungere una conclusione soddisfacente, e avanzo un'ipotesi per spiegare il motivo di questa difficoltà a dirimere la questione: il problema sottostante era soprattutto un altro, di natura politica, cioè il bisogno della corporazione degli psicoanalisti di difendere, per una questione di mercato, la identità della psicoanalisi come professione (limitare il marchio "psicoanalisi" a una ristretta cerchia di professionisti, senza farne appannaggio anche della più vasta schiera degli psicoterapeuti, permetteva di mantenere tariffe più alte grazie ai vantaggi del monopolio - ho parlato del monopolio della psicoanalisi medica ai danni degli psicologi nelle mie rubriche dei numeri 53 e 54, 1990, del Ruolo Terapeutico).

Baldini però, giustamente, solleva anche un'altra questione, e dice che non si può semplificare troppo la differenza tra la psicoanalisi e le altre psicoterapie, perché, ad esempio, certe psicoterapie "nemmeno ammettono l'ipotesi dell'inconscio" (Il Ruolo Terapeutico, 68, p. 39): dovremmo chiamare anche queste psicoanalisi? Ovviamente no. Ma vorrei, a mia volta, problematicizzare anche questa osservazione di Baldini, perché ritengo che a questo riguardo le cose sono molto cambiate. Quali sono le psicoterapie che "nemmeno ammettono l'ipotesi dell'inconscio"? Ormai quasi tutti coloro che si autodefiniscono psicoterapeuti la ammettono. Uno psicoterapeuta che oggi affermasse che non esiste un funzionamento mentale al di fuori della consapevolezza farebbe la stessa figura di un medico che dicesse che il cuore non esiste. Infatti, i comportamentisti puri sono scomparsi, e i loro eredi sono i cognitivisti, i quali fanno ora a gara con gli psicoanalisti nel dare importanza all'inconscio; vi sono molte più somiglianze tra certe scuole cognitiviste e psicoanalitiche che tra scuole psicoanalitiche tra di loro (si pensi solo all'interesse per la teoria dell'attaccamento di Bowlby, divenuta il cavallo di battaglia di molte scuole cognitiviste). La stessa cosa si può dire dei sistemici, i quali (anche se per anni molti di loro non se ne rendevano conto, e negli ultimi anni finalmente ne stanno prendendo coscienza) hanno sempre "interpretato" la psicodinamica familiare inconscia, poco importa se preferivano usare il termine "ridefinizione" piuttosto che "interpretazione"; anche tra sistemici e psicoanalisti assistiamo negli ultimi anni a impressionanti convergenze (ho discusso queste tematiche sul Ruolo Terapeutico, n. 46/47, 1987/88, pp. 50-54). E che dire degli ipnotisti? Alcuni di loro sono così bravi che per determinati scopi riescono a utilizzare l'ipnosi all'intero di una psicoterapia dinamica, e poi ad analizzarne successivamente le ripercussioni sul transfert. La stessa cosa vale per certe tecniche di rilassamento, sessuali, di decondizionamento rispetto a certe fobie (come faceva già Freud), farmacoterapiche, ecc., cioè per tutti quei "parametri" che inevitabilmente, in misura maggiore o minore, tutti gli analisti sulla faccia della terra hanno sempre adottato (per il significato del concetto di "parametro" di Eissler, rimando al Ruolo Terapeutico, 59/1992, pp. 7-8, e all'articolo dello stesso Eissler del 1953 su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/eiss53-1.htm). La tecnica analitica classica o "pura" è sempre stata una finzione teorica, un modello ideale, utile nella misura in cui ci serve per chiederci perché poi nella maggior parte dei casi non riusciamo a seguirlo. E' proprio questa l'analisi delle difese, cioè la Psicologia dell'Io: chiedersi perché non si riesce sempre a fare l'analisi dell'Es, perché non si riesce sempre a dire la verità. La Psicologia dell'Io inoltre ci ha insegnato a concepire il comportamento difensivo del paziente non solo come qualcosa da eliminare con l'interpretazione (il che tra l'altro potrebbe avere anche un sapore moralistico), ma come l'unico modo che lui ha per funzionare, in certi casi per esempio per permettersi di venire in terapia: quindi qualcosa da valorizzare.

Per quale motivo potremmo avere interesse a non dire la verità - se ve ne è una da dire - a un paziente? Siamo costretti a "non fare l'analisi", a impiegare parametri (anche massicci, in certi casi, supponiamo, fino al ricovero coatto!) quando non possiamo farne a meno, nell'interesse del paziente, sempre pronti però a tornare a una situazione di dialogo, a una aperta ricerca della verità appena il paziente se lo può permettere. Ho fatto l'esempio del ricovero coatto, che sembra provocatorio, perché a ben vedere è solo un esempio macroscopico di tutte quelle situazioni microscopiche che si presentano quotidianamente nel lavoro coi nostri pazienti, quando siamo costretti, sempre a causa del livello difensivo del paziente, a posporre un approccio interpretativo.

La mia definizione di "psicoanalisi" può sembrare troppo inclusiva, e non corrispondente a quella che si ha comunemente (si badi bene però che la definizione comune di psicoanalisi è legata solo ai criteri estrinseci - lettino, alta frequenza settimanale, ecc. - per cui è una definizione molto scorretta; rimando qui al mio articolo sul n. 59/1992 del Ruolo Terapeutico). Non a caso Merton Gill [Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione. In Del Corno F. & Lang M., a cura di, Psicolgia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 128-157] propose di trovare un altro termine per questa concezione allargata di psicoanalisi legata solo ai criteri intrinseci (cioè al criterio della analisi del transfert): la sua proposta fu di usare il termine "terapia psicoanalitica" (anche se Gill era consapevole che ciò presentava il rischio di usare lo stesso termine che usò Alexander, il quale intitolò il suo famoso libro del 1946 Psychoanalytic Therapy, libro - allora tanto contestato - che presenta una concezione un po' diversa). La stessa scelta di usare il termine "terapia psicoanalitica" fu fatta da Thomä & Kächele (1985, 1988), che tagliarono la testa al toro intitolando i loro due importanti volumi Trattato di terapia psicoanalitica (Torino: Bollati Boringhieri, 1990, 1993; vedi la mia rubrica del n. 67/1994). A me sembra che usare un aggettivo o un sostantivo sia un po' la stessa cosa, di psicoanalisi pur sempre si tratta. Inoltre ritengo che sia molto più utile una definizione legata solo ai criteri intrinseci, in quanto questa è una soluzione più "rivoluzionaria", ricca di implicazioni per il training, la professione, gli interessi corporativi delle scuole, e la teoria stessa.

Gli psicoterapeuti che "nemmeno ammettono l'ipotesi dell'inconscio" dunque non esistono praticamente più, quindi la "psicoterapia" vera e propria (quella non psicoanalitica) arriva quasi a scomparire, come Gill molto coerentemente arrivò a concludere. Mi rendo conto che questa proposta suona provocatoria, ma secondo me è meno contraddittoria di quelle posizioni che cercano (arrampicandosi sugli specchi) di dimostrare la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia ricorrendo a concetti quali ricerca della verità, terapia, se non addirittura criteri estrinseci quali l'uso del lettino, l'alta frequenza settimanale, ecc.

Una obiezione che si può fare è che esistono vari modi con cui si ammette "l'ipotesi dell'inconscio", oppure vari modi con cui si intendono i contenuti dell'Es. Questo sicuramente è un punto dolente per la psicoanalisi, perché il concetto di Es, ovvero la teoria della motivazione, è l'aspetto della teoria freudiana che ha maggiormente subìto revisioni (alludo alla critica alla concezione "duale" delle pulsioni, al concetto di "scarica", ecc.). Si può dire che oggi la componente maggioritaria del movimento psicoanalitico ha modificato le ipotesi sull'inconscio dinamico e sulla motivazione, tanto da avvicinarsi molto alle concezioni di altre tradizioni psicoterapeutiche, per cui anche su questo terreno diventa sempre più difficile trovare delle differenze tra psicoanalisi e psicoterapia.

Vorrei dedicare l'ultima parte di questo mio intervento facendo alcune osservazioni su quella schiera (sempre più vasta!) di professionisti che aiutano gli altri in vari modi, operatori che sono psicoterapeuti senza che loro lo sappiano: i pranoterapeuti, i maghi, gli omeopati, i chiromanti, ecc. (ovviamente parto dalla premessa che queste siano solo terapie suggestive - non voglio qui entrare in una discussione di questa mia affermazione, ma assumiamo che sia corretta). Come dobbiamo chiamare queste professioni di aiuto? Potremmo chiamare "psicoterapia" tutte le professioni di aiuto che dichiaratamente e consapevolmente utilizzano il rapporto interpersonale e la sua "psicodinamica" (necessariamente anche inconscia) come agente di cura, e in cui lo psicoterapeuta è disposto a parlarne col paziente, cioè non ha nessun interesse a nascondere quello che capisce o le "verità" che scopre. Se noi sappiamo che il pranoterapeuta, che è il moderno mesmerista, è di fatto uno psicoterapeuta, intendiamo dire che lo è malgré lui, cioè inconsapevolmente; se lo fosse consapevolmente, utilizzerebbe meglio il suo ruolo suggestivo, e in modo più colto, ottenendo maggiori risultati, e potrebbe domandarsi anche perché dovrebbe usare la suggestione in tutti i casi e non ottenere cambiamenti (magari più stabili) in determinati pazienti senza suggestione, aprendo così la strada alla psicoterapia dinamica proprio come fece Freud. Il pranoterapeuta si offenderebbe a sentirsi chiamare psicoterapeuta, perché non usa consapevolmente il rapporto interpersonale come agente di cura, ma proprio una supposta energia che lui ritiene emanata dal calore delle mani. Ma bisogna fare attenzione a non deridere troppo i pranoterapeuti, perché essi agiscono proprio come quei medici che prescrivono le vitamine o i ricostituenti credendo che siano quelli ad aiutare il paziente (sono ignoranti tanto quanto i pranoterapeuti). La stessa cosa si può dire dello psichiatra che prescrive un determinato psicofarmaco credendo che sia proprio solo quello ad aiutare il paziente (è ignorante delle più elementari nozioni di psicodinamica tanto quanto il pranoterapeuta), o dello psicoanalista che profferisce la sua interpretazione "vera" (vera a seconda delle scuole, delle epoche storiche, ecc.) e crede che sia quella l'agente della cura, proprio come il mesmerista crede che siano le sue mani a curare (ho sviluppato questi argomenti nella mia prima rubrica sul Ruolo Terapeutico, quella del n. 44/1987). Non dimentichiamo dunque la trave che è nel nostro occhio, prima di vedere la pagliuzza in quello del collega pranoterapeuta. La sfida per la ricerca della verità è sempre aperta, ed è sicuramente un merito della psicoanalisi quello di aver intuito la complessità che si può nascondere dietro alle verità solo apparenti.

Tornando ai pranoterapeuti, si può fare l'ipotesi che vi sia un profondo motivo inconscio per cui questi moderni mesmeristi adoperano in modo così massiccio il meccanismo di difesa della negazione della più elementare cultura psicoterapeutica (sarebbe semplicistico parlare di ignoranza, quando questi operatori proliferano sempre di più nella civiltà occidentale, nelle nostre moderne città, lavorano dietro l'angolo di casa, molti di loro sono laureati, ecc.). Possiamo ipotizzare che se il pranoterapeuta ammettesse di essere uno psicoterapeuta il suo senso di onnipotenza potrebbe essere incrinato: l'atteggiamento scientifico dello psicoterapeuta è più umile, più consapevole dei suoi limiti. Non solo, ma la richiesta aperta di suggestione (e non di energia emanata dalle mani) da parte di certi pazienti richiederebbe un livello maturativo più alto, una qualche consapevolezza di una dinamica psicologica, una assunzione di responsabilità senza delega al somatico, un coraggio di conoscere i "veri" motivi del malessere. Si instaura così col terapeuta una particolare folie à deux, una collusione difensiva basata su una "fusione folle", sulla negazione stabile della verità. E' stato Robert Langs, tra gli altri, che ha studiato questi interessanti fenomeni nel rapporto analitico in modo molto acuto; si veda il suo libro del 1985 dal titolo molto indicativo Follia e cura (Torino: Bollati Boringhieri, 1988) - Langs inizialmente voleva infatti intitolare questo libro "Cura attraverso al follia" (su Robert langs, vedi la mia rubrica sul Ruolo Terapeutico, 45/1987). I pranoterapeuti (come altri "curatori"), si prestano inconsciamente a rispondere ai bisogni di questi pazienti, fornendo in effetti un tipo di cura, di sollievo momentaneo rispetto ad angosce più pressanti.

Ebbene, la caratteristica principale della psicoanalisi (o della psicoterapia come noi comunemente la intendiamo) è quella di capire veramente le cose, di aiutare il paziente dandogli tutti gli strumenti per conoscere se stesso e per rendersi autonomo, di analizzare insomma per quanto possibile la suggestione: ma tutto questo nella misura in cui ciò è consentito dalla cultura di appartenenza, della struttura difensiva del paziente e anche del terapeuta.

Sono perfettamente consapevole che questo mio modo di impostare la discussione sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia sia molto radicale e contenga aspetti provocatori, ma ritengo che abbia il merito di costringere a vedere meglio quali sono gli aspetti veramente caratterizzanti del nostro lavoro. Mi piacerebbe molto sentire l'opinione di altri colleghi.

Nota:
    Il tema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia è trattato anche nelle rubriche dei numeri 59/1992, 60/1992, 65/1994, 69/1995, 73/1996 (intervento), 78/1998, 78/1998 (intervento)86/2001 del Ruolo Terapeutico. Vedi inoltre l'intervento "La psicoanalisi, la legge, il pubblico", tenuto alla tavola rotonda "Psychoanalysis and the law. An Italian discussion", organizzata dal Journal of European Psychoanalysis il 14 marzo 2004. 
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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