PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1987/88, 46/47: 50-54

"Sintesi critica" del Seminario "Quando si parla di terapia familiare..."
(organizzato da Il Ruolo Terapeutico a Milano il 6-6-87, con interventi di Bonomo & Lenisa, Boscolo, Saccani, Carta et al., Cigoli, Erba, Ventavoli, e Vita & Vinci, pubblicati su Il Ruolo Terapeutico, 1987/88, 46/47)

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Mi sembra che questa serie di seminari proposti da Il Ruolo Terapeutico sul tema della terapia familiare sia un esempio di come sono cambiate le cose in questo campo negli ultimi anni. Il primo aspetto che balza agli occhi scorrendo i titoli dei seminari e i nomi dei relatori è che coloro che si riferiscono al modello psicoanalitico o in generale psicodinamico sono la maggioranza: questa cosa sarebbe stata impossibile solo 10 anni fa, e soprattutto in una città come Milano. A Milano infatti esiste una importante scuola di terapia familiare, nota ormai in tutto il mondo, che ha avuto tradizionalmente un forte tono antipsicoanalitico, e che ha formato molti operatori, soprattutto dell'Italia settentrionale. Ma la vena fortemente antipsicoanalitica non era presente solo nella scuola di Milano, bensì in gran parte del movimento di terapia familiare italiano.

Quando, più di 10 anni fa, mi sono interessato alla terapia familiare, sia nei suoi aspetti teorici che clinici, sono stato molto colpito da questa contrapposizione frontale tra scuole, come se esse lottassero per l'egemonia culturale della psicoterapia. Sono stato allora stimolato a studiare più a fondo le premesse teoriche della terapia familiare (altrimenti detta relazionale o sistemica) e a confrontarle con quelle psicoanalitiche, per chiarire meglio dove e quali fossero le divergenze. Ne è scaturito un lavoro, presentato al Congresso Nazionale di Roma del novembre 1979 "La prospettiva relazionale nelle istituzioni e nei servizi territoriali", e pubblicato anche in Psicoterapia e Scienze Umane, 1980, 1: 54-76.

Le mie conclusioni in sintesi erano che la terapia familiare non possedeva una reale dignità di teoria autonoma rispetto ad altri schemi di riferimento, come quello psicoanalitico o comportamentale, e che il suo successo come teoria "alternativa" dipendeva più che altro da motivi sociologici (per vedere in dettaglio i passaggi logici del mio discorso, raccomando di leggere l'articolo). Praticamente nessuno allora sosteneva queste posizioni, e il mio contributo passò largamente inosservato; allora vi era un forte bisogno di negare o ignorare le posizioni critiche, in quanto queste disturbavano il bisogno di appartenenza e di identificazione in questo giovane movimento di terapia familiare (ricordo che al Congresso di Roma del 1979, dopo che lessi il mio contributo, un partecipante mi attaccò in modo quasi offensivo, rifiutandosi nello stesso tempo di entrare nel merito delle mie posizioni). Molti dei giovani che si dedicavano alla terapia familiare infatti provenivano direttamente dalle ceneri del movimento antipsichiatrico, e qui trasferivano pari pari la stessa carica ideologica, e portavano con sé la stessa mancanza di cultura psicoterapeutica. In un certo senso la terapia familiare o sistemica, con le sue caratteristiche così peculiari (aspetto interdisciplinare di per sé affascinante, teoria apparentemente alternativa o rivoluzionaria rispetto al precedente modello psicodinamico, coinvolgimento della famiglia e quindi del contesto sociale, promesse di "guarigioni" anche in situazioni proibitive quali l'anoressia mentale e la schizofrenia, ecc.) era proprio il prodotto più appetibile in quel momento per una buona fetta di operatori di quella generazione, i quali divennero subito tutti dei "militanti dello specchio unidirezionale".

Dopo aver finito quel lavoro, mi sembrò di aver chiarito alcuni punti che prima non mi erano chiari, e ciò mi diede una certa soddisfazione. Rivolsi il mio interesse quindi ad altri argomenti che stimolavano maggiormente la mia curiosità; nel frattempo mi trasferii negli Stati Uniti, dove lavorai alcuni anni e dove tra le altre cose continuai la mia formazione in psicoterapia sia individuale che familiare. Il confronto con la cultura psicoterapeutica nordamericana, molto più matura di quella italiana, confermò ancor di più le mie convinzioni: qui la terapia familiare non veniva concepita come un qualcosa di rivoluzionario o di antagonistico alla psicoterapia dinamica, anzi vi era in genere un buon accordo tra i terapeuti dinamici e quelli familiari, i quali erano considerati semplicemente degli operatori specializzati a lavorare con le famiglie e in situazioni difficili.

Il fatto curioso è che ho notato che negli ultimi tempi (quasi 10 anni dopo!) ho incominciato a ricevere da varie parti d'Italia delle lettere di richieste di estratti di quell'articolo, nelle quali anche si esprimevano apprezzamenti per aver fatto questa analisi teorica sulla terapia familiare con così tanto anticipo. Allora mi sono chiesto cosa stesse succedendo, e pensai che probabilmente il movimento italiano di terapia familiare stava cambiando, crescendo in maturità, correggendo precedenti posizioni naturalmente un po' settarie ed emotive dovute a un periodo iniziale di rapida espansione. Questa impressione mi fu confermata dalla lettura di un numero speciale della rivista Terapia Familiare (1985, 19) intitolato Famiglia-individuo, di cui mi fu chiesta una recensione (che suggerisco di leggere: "Terapia relazionale o terapia eclettica?", Psicoterapia e Scienze Umane, 1987, 2: 86-93). Questo fascicolo contiene una intervista ai principali terapeuti familiari italiani su alcuni problemi di fondo, e ne emerge che il movimento italiano di terapia familiare sta attraversando una pausa di riflessione, se non addirittura una fase di autocritica rispetto alle prese di posizione emotive tipo "guerra di religione" dei primi tempi.

Passo a questo punto ad esporre, anche se molto sinteticamente, alcuni passaggi della analisi che ho fatto anni fa, rimandando per un approfondimento ai miei lavori che prima ho citato.

 

Critica teorica

Discuterò brevemente i seguenti cinque aspetti, che sono tra i più caratterizzanti della cosiddetta terapia relazionale o sistemica: 1) il concetto di contesto; 2) il concetto di relazione; 3) la teoria generale dei sistemi; 4) la cibernetica; 5) il paradosso e il doppio legame.

1) Il concetto di contesto

Spesso si ricorre al concetto di contesto per connotare meglio una impostazione di tipo relazionale differenziandola da altri approcci. Quello che voglio dimostrare è che questa operazione da una parte è priva di originalità, e dall'altra si basa su una confusione terminologica. Il concetto di contesto viene impiegato in almeno due modi diversi, per cui li prenderò in considerazione separatamente:

a) si afferma: per comprendere un determinato fenomeno (per esempio la schizofrenia), è indispensabile prendere in considerazione il contesto in cui si sviluppa. Tra i molti esempi, si veda Watzlavick e coll., 1967 (Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 1971, p. 13 sg.), o Cancrini (Verso una teoria della schizofrenia, Boringhieri, 1977, p. 13 sg.) dove, riportandolo da Laing, cita l'esempio del rapporto tra Kraepelin e una sua paziente in cui la definizione di schizofrenia può essere applicata all'uno o all'altra indifferentemente a seconda del contesto di osservazione. Queste considerazioni sono scontate e, se poste in questi termini, portano inevitabilmente su posizioni esistenzialiste (non a caso è Laing che parla) e come tali paralizzanti. Infatti da un punto di vista scientifico non ci interessa sapere "chi è schizofrenico e chi no" (il criterio di verità non appartiene alla scienza) ma in che modo e rispetto a che cosa (a quale contesto) un fenomeno viene caratterizzato. In altre parole non è possibile prescindere da un contesto, o schema di riferimento, o punto di vista, o complesso di variabili fisse: una volta accordatici su questo e sugli strumenti usati per l'osservazione, ci si deve chiedere come mai da quel contesto si sviluppa il fenomeno X e non Y. La psicoanalisi tra l'altro ha sempre prestato la massima attenzione al contesto: si pensi ad esempio alle concettualizzazioni sul setting (cfr. ad esempio E. Codignola, Il vero e il falso, Boringhieri, 1977), sulle quali qui non è possibile soffermarsi.

b) si afferma: in terapia familiare "si allarga il contesto", nel senso che si passa da una impostazione individuale a una familiare. Ma qui non si tratta del contesto, bensì del campo di osservazione, il quale a sua volta è sempre inserito in un determinato contesto. Siamo di fronte quindi a una confusione terminologica. Inoltre trattare "l'intera famiglia come paziente" non è una prerogativa solo della terapia relazionale, ma di tutte le terapie di gruppo, comprese quelle psicoanalitiche.

2) Il concetto di relazione

Il passaggio "dall'individuo alla relazione" è un punto nodale, e uno dei più intriganti, delle teorizzazioni della terapia familiare. La dicotomia individuo/relazione può creare dei fraintendimenti, in quanto essa non è una vera dicotomia, dato che individuo e relazione sono due facce della stessa medaglia: la relazione esiste solo se esiste l'individuo. Bisogna chiarire un possibile equivoco: una cosa è parlare di individuo, e un'altra è parlare di intrapsichico. In altre parole il vero passaggio in terapia relazionale vorrebbe essere dall'intrapsichico alla comunicazione "obiettiva" tra gli individui, in un senso quindi più comportamentale o descrittivo che non interpretativo. La terapia relazionale infatti, mentre risente dell'influenza dei neofreudiani e della scuola interpersonale americana (Sullivan, ecc.), si inserisce direttamente nella tradizione del comportamentismo: si vogliono evitare inferenze sull'intrapsichico (la scatola nera) perché non dimostrabili, passare dallo studio della intention a quello dell'effect (la comunicazione), dalla interpretazione (insight) alla prescrizione (change), e così via. L'uso del videotape, come quello dello specchio unidirezionale, o la presenza della équipe degli osservatori che convalidano nel modo più obiettivo possibile le osservazioni, discendono direttamente da questa impostazione. E' importante ricordare la qualità behavioristica della terapia relazionale, perché in questo modo possiamo comprendere anche altri aspetti di questo approccio. Ad esempio forse capiamo di più l'enfasi data al concetto di contesto: non dare importanza tanto all'intrapsichico o all'individuo, quanto a quello che accade attorno a lui, "non a quello che pensa ma a quello che fa" (si noti qui che ci troviamo ancora di fronte a un uso non rigoroso dei termini).

Stabilito comunque che la terapia relazionale ha una forte componente comportamentale, in che modo viene analizzato il comportamento umano, una volta che ci si astenga dal fare inferenze o interpretazioni sull'intrapsichico? L'operazione fatta in terapia relazionale è la seguente: si cambia linguaggio in psicologia, e precisamente si prende a prestito il linguaggio formale dei calcolatori che ha una apparenza di "neutralità" rispetto al livello del contenuto. Questa operazione di innesto di un nuovo linguaggio dà l'illusione che si cambi anche la sostanza, mentre invece non è così, poiché il linguaggio dei calcolatori, una volta sottratto dal suo contesto originario, perde il suo significato preciso e ne acquista un altro. Farò un solo esempio. I terapeuti relazionali, mentre affermano di fare l'analisi formale della comunicazione, usano i termini di codice digitale e analogico. A questi due termini vengono date varie attribuzioni, che qui per brevità non sto ad elencare (vengono avvicinati da Watzlavick persino al processo primario e secondario di derivazione psicoanalitica!). Mi interessa solo ricordare che una di esse si riferisce al concetto di ambiguità: il modulo analogico, contrariamente a quello digitale, sarebbe quello proprio anche dell'ambiguità. Ora è evidente che la ambiguità e al chiarezza di un messaggio si riferiscono al contenuto e non al livello formale o descrittivo del comportamento. Così vediamo che un termine, che originariamente aveva un preciso significato all'interno dell'analisi formale, viene ora utilizzato a livello dell'analisi del contenuto.

3) La teoria generale dei sistemi

Non è vero che l'utilizzo della teoria generale dei sistemi sia una prerogativa della terapia relazionale. Qui siamo di fronte a una confusione tra metodo e campo privilegiato di osservazione. Quello che differenzia la psicoanalisi dalla terapia relazionale non è l'utilizzo o meno della teoria generale dei sistemi, ma il diverso campo di applicazione che entrambe hanno di questo modello: la terapia relazionale privilegia lo studio dei rapporti tra le persone, mentre la psicoanalisi, oltre a questo, si rivolge anche all'intrapsichico, per il quale è stato teorizzato per esempio un "sistema" strutturale (Io, Es, Super-Io), ecc. Una delle principali caratteristiche della teoria generale dei sistemi è l'isomorfismo, cioè la scoperta che certe leggi generali siano applicabili isomorficamente in campi diversi.

E' interessante a questo proposito anche notare che le critiche di certi terapeuti relazionali nei confronti della psicoanalisi si rivolgono prevalentemente al modello topico anziché a quello strutturale, cioè a un'immagine della psicoanalisi ormai superata. Con l'introduzione del modello strutturale si è data in psicoanalisi maggiore importanza agli aspetti formali, non solo di contenuto, del conflitto psichico.

4) La cibernetica

Anche la cibernetica, coi concetti di feedback, causalità circolare, ecc., è ben conosciuta alla psicoanalisi, anche se ovviamente ai tempi di Freud certi termini non erano ancora in circolazione. Si pensi al concetto di Io come feedback tra Es e Super-Io, oppure a quello di sovradeterminazione dei sintomi, o di interpretazione parziale, ecc. La causalità lineare, cioè diretta, propria del ragionamento paleopositivistico delle scienze naturali, non è mai appartenuta alla psicoanalisi, come osserva Codignola (ibid., p. 43) e come affermano altri autori come Loch, Lorenzer, Hartmann, ecc. Non è corretto sostenere quindi che la causalità circolare, solo per il fatto che Freud appartenne alla cultura positivista, è estranea alla psicoanalisi.

5) Il paradosso e il doppio legame

Di questo complesso argomento accennerò solo ad alcuni punti. Come è noto, la teoria del doppio legame, ritenuta inizialmente una intuizione geniale, viene ritenuta ora non più esplicativa della eziologia della schizofrenia, la quale è ben più complessa. Un autore, John Kafka (Arch. Gen. Psychiatry, 1971, 25: 232-239), ha addirittura reinterpretato la teoria del doppio legame in termini praticamente opposti a quelli originari, dimostrando che i messaggi paradossali o con doppio legame sono ubiquitari, e che in ogni caso con la sola analisi formale non è possibile distinguere quelli patogeni da quelli "terapeutici" (come il paradosso terapeutico); ha inoltre parlato della importanza che i genitori sappiano trasmettere ai figli, anche col loro esempio, la capacità a tollerare l'ambiguità e l'ambivalenza, e quindi in un certo senso a non avere paura dei messaggi a doppio legame cercando di evitarli a tutti i costi.

Per quanto riguarda la prescrizione paradossale, non si dimentichi che essa ha senso per un paziente solo se ("paradossalmente") viene resa non paradossale, cioè ridefinita in termini comprensibili per il paziente stesso.

 

Conclusioni

Concludendo quindi questa breve discussione teorica sulla terapia familiare (che qui è solo accennata, e che è più approfondita negli articoli suaccennati), si può dire che l'aspetto di originalità teorica che essa sembrava avere agli inizi non ha retto col tempo. Ma il bilancio non è assolutamente negativo, poiché si è accumulata una quantità enorme di esperienza in questi anni da parte di questi coraggiosi terapeuti familiari, i quali hanno scelto di lavorare nelle situazioni cliniche più difficili (diagnosi gravi come le psicosi, le tossicomanie, la delinquenza minorile, l'anoressia mentale, ecc.), e in situazioni istituzionali complicate, caratterizzate dalla presenza di più operatori e da diversi membri familiari contemporaneamente. Se osserviamo la storia della psicoanalisi, notiamo che i più grossi passi avanti fatti nella teoria della tecnica sono avvenuti proprio grazie alla sua sperimentazione in situazioni di confine, ai margini dell'ortodossia (gli esempi storici sono la Klein con i bambini e Sullivan con gli psicotici). Anche i terapeuti familiari hanno dato validi contributi alla storia della tecnica psicoterapeutica, e le loro intuizioni cliniche sono sono ormai patrimonio comune di tutti gli psicoterapeuti.

I contributi presentati a questa serie di seminari mi sembra che testimonino molto bene la creatività di questi terapeuti familiari, così pure come l'eterogeneità degli approcci, per niente legati in modo dogmatico e settario a un determinato modello. Voglio accennare brevemente ad alcuni di essi.

Bonomo e Lenisa ad esempio nel loro intervento ("Divano a più piazze") mostrano come sia un momento questo nel quale un "modello ottimale" in terapia familiare debba essere relativizzato, e quasi messo da parte, in favore di una "originalità creativa" a partire dal lavoro clinico. Precedenti rigidità teoriche o dogmatismi (come la regola usata dagli autori in passato di vedere sempre tutti i membri della famiglia, nessuno escluso) vengono ora abbandonate e il cambiamento tecnico viene apertamente riconosciuto e discusso. Il loro retroterra teorico, come del resto è rivelato dal titolo allusivo, è quello psicoanalitico, ma anche qui mi sembra in modo per niente dogmatico.

Boscolo ("L'approccio sistemico in psicoterapia"), membro della originaria e gloriosa "scuola di Milano", racconta in questo suo intervento le autocritiche e i cambiamenti avvenuti all'interno del gruppo e a livello delle varie teorizzazioni in questi ultimi 20 anni (il passaggio dalla psicoanalisi alla teoria sistemica, poi dalla prima alla seconda cibernetica, ecc.). E' ammirevole in Boscolo e coll. lo sforzo di non rinunciare al tentativo di formulare un modello autonomo dalla psicoanalisi e da altre teorie psicoterapiche, particolarmente ad esempio riguardo alla seconda cibernetica, dove le aree di sovrapposizione con la psicoanalisi sono ancor più esplicite e dove sembra che le differenze rimaste siano solo linguistiche. Si pensi solo al "passaggio dalla fenomenologia alla semantica", e alla reintroduzione della "dialettica tra pensiero e comportamento, che prima era stata interrotta dal periodo della scatola nera". Non discuto qui criticamente queste posizioni, perché rimando alle osservazioni da me fatte precedentemente.

L'intervento di Saccani ("Psicoterapia individuale e psicoterapia congiunta: un caso particolare") mi sembra un buon esempio del lavoro che uno psicoanalista esperto può fare con le famiglie. Quello che viene maggiormente evidenziato qui è la possibilità che la terapia familiare, o la richiesta di terapia familiare da parte sia del terapeuta che del paziente, possa servire allo scopo della resistenza a fare un preciso lavoro emotivo all'interno della terapia individuale. I casi clinici presentati sono molto eloquenti. Sarebbe interessante però anche discutere di casi in cui risulta il contrario, cioè che è la terapia individuale quella che costituisce una resistenza alla terapia familiare. Penso infatti che sicuramente siamo d'accordo sul fatto che non vi sia nessun motivo per ritenere aprioristicamente una delle due forme di terapia (quella individuale o quella familiare) "superiore" all'altra, a meno che non si specifichino chiaramente i criteri che si usano per dare questo giudizio di superiorità; entrambe le forme di terapia siano molto efficaci, a seconda del singolo caso e di quello che si vuole cambiare.

Il contributo di Carta e coll. ("Conflittualità e compatibilità tra terapia familiare e altre terapie") illustra la possibilità, anzi l'utilità nel caso di pazienti schizofrenici, della terapia familiare contemporanea e parallela a quella individuale; i terapeuti sono diversi, ma vi è uno stesso supervisore che ha una funzione "integrativa" e nello stesso tempo impedisce che si crei una situazione di confusione. Gli schemi di riferimento sono la psicoanalisi da un lato e il modello strutturale di Minuchin dall'altro. Mi sembra che una delle preoccupazioni in questo lavoro sia quella di fornire una giustificazione teorica all'uso della terapia familiare e individuale contemporaneamente, dato che in molti ambienti psicoanalitici vi sono ancora pregiudizi al riguardo, e certe sperimentazioni come questa sono viste come troppo eterodosse. Suppongo che gli autori siano molto condizionati da queste preoccupazioni "ortodosse", o che comunque lavorino in un ambiente troppo informato a una cultura psicoterapeutica ancora arretrata, per cui il loro contributo può considerarsi coraggioso. Non si deve dimenticare però che in varie parti del mondo (ad esempio largamente negli Stati Uniti, come ho potuto constatare personalmente) la terapia familiare e individuale contemporanee vengono praticate abbastanza comunemente. A livello tecnico i problemi sono gli stessi che si incontrano quando si pratica la terapia individuale e di gruppo contemporaneamente. L'importante è saper sempre cogliere ed elaborare il significato delle singole esperienze psicoterapeutiche. Può essere più difficile e può crescere il rischio di "confusione", ma sappiamo benissimo che neanche la rigidità del setting dell'analista ortodosso dà garanzie assolute a questo riguardo.

Il contributo di Cigoli ("La mela bacata e la pepita d'oro. Marginalità familiare e lavoro terapeutico") è molto suggestivo; mi sembra che il caso che ha presentato sia un esempio della sua sensibilità alla psicodinamica familiare. Il suo tono quasi letterario (non sobrio come in genere sono i saggi scientifici), dimostra una capacità a vedere gli aspetti artistici e di romanzo nelle storie dei pazienti, direi quasi a trasformare le "mele bacate" della nostra pratica clinica quotidiana in "pepite d'oro".

Erba ("Interventi con la coppia e con la famiglia") pone giustamente l'accento sul significato del setting in terapia familiare, e mostra (richiamandosi a Codignola) come in realtà ad esso faccia parte anche la persona e il ruolo dell'analista, e la domanda di aiuto che la famiglia "malata" fa a lui. Uno degli aspetti più delicati della terapia è infatti il saper interpretare questa domanda di aiuto, rendendola una domanda "sana", e riuscendo a renderla diversa dalle tante altre eventuali domande "malate" (inappropriate, difettose, fuorvianti, che non esprimono i suoi veri bisogni, ecc.) che la famiglia continuamente fa.

L'intervento della Ventavoli ("Interventi su famiglie con adolescenti tossicomani") mostra la notevole esperienza acquisita con una delle categorie di pazienti più difficili, i tossicodipendenti, con i quali notoriamente è quasi impossibile lavorare senza coinvolgere la famiglia. Anche questo contributo, come altri, fa riferimento al modello psicoanalitico.

Infine, Vita e Vinci ("Il cambiamento terapeutico") espongono un interessante materiale clinico. Esse, nelle loro considerazioni teoriche, cercano di mantenersi aderenti a una specifica identità della teoria sistemica-relazionale, che dichiarano di seguire, e che comporterebbe "un salto concettuale dal paradigma della materia a quello delle strutture che connettono, dal concetto di energia a quello di scambio di informazione...", e così via. Ho già parlato prima delle mie perplessità a questo riguardo. Queste terapeute però affermano che i concetti di una certa teorizzazione sistemica, anche se necessari, non sono sufficienti, e enfatizzano a questo proposito la necessità di includere l'analisi "semantica" dei sistemi umani. Mi interessa qui fare solo questa osservazione: l'analisi semantica, cioè l'interpretazione dei "significati" dei comportamenti umani, è da sempre stato il problema affrontato dalle psicoterapie per così dire "non sistemiche" (psicoanalisi, terapia cognitiva, ecc.), mentre l'aspetto distintivo della teoria sistemica-relazionale sarebbe quello dell'analisi formale, non semantica. Si ripresenta quindi il problema della autonomia teorica della terapia sistemica. Ma di questo ho già discusso prima.

Nota:
    Per un approfondimento sulla critica alla terapia sistemica, vedi Migone P., Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995, cap. 3.
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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