PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2001, 86: 17-20

La differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica è solo una questione politica
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Ho letto lo scambio di interventi tra Erba, Rocco, e Merlini sui numeri 84 e 85, 2000, del Ruolo Terapeutico a proposito della annosa (o ormai noiosa?) questione della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, e non posso trattenermi dal fare un breve commento dato che, come sapete, me ne sono occupato in più occasioni. Dirò quello che penso senza peli sulla lingua, con affermazioni generali che qui non posso argomentare nei dettagli perché occorrerebbe molto spazio. Ci tengo però a citare, soprattutto per i lettori più giovani, alcuni miei lavori a cui vorrei che fosse fatto riferimento per comprendere i passaggi logici sottostanti alle mie affermazioni: innanzitutto, sul Ruolo Terapeutico, il mio articolo nel n. 59/1992 dal titolo "Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica?" e le mie rubriche dei numeri 60/1992 e 69/1995; si veda poi anche il mio intervento nel n. 78/1998, pp. 16-21, intitolato "Chi ritiene indissolubile il binomio divano/psicoanalisi si pone fuori dalla logica psicoanalitica", dove al posto del lettino si può mettere il numero di sedute settimanali e fare le stesse identiche considerazioni (per chi avesse difficoltà a reperire i numeri arretrati, ricordo che tutti i miei scritti sul Ruolo Terapeutico sono pubblicati integralmente su Internet alla pagina www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt-rubri.htm). Vorrei ricordare inoltre il mio articolo "La differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: panorama storico del dibattito e recente posizione di Merton M. Gill" su Psicoterapia e Scienze Umane n. 4/1991, e il cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica [Milano: Franco Angeli, 1995] che è la trattazione più completa che ho scritto su questo argomento (a proposito della posizione di Gill, su Internet si può reperire il suo importante articolo del 1984 "Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione", che è fondamentale a questo riguardo, e un dibattito si di esso). [Si veda anche il dibattito tra me, Otto Kernberg e Andrè Green, pubblicato a pp. 215-234 del n. 2/2009 di Psicoterapia e Scienze Umane, in cui confronto in modo serrato Kernberg il quale mi ha in parte dato ragione]

Passo dunque al mio stringato commento. Ritengo che la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica sia solamente una questione politica, e che la continua esigenza di porla in termini teorici o clinici possa indicare una debolezza della identità della disciplina, cioè una paura che della psicoanalisi non rimanga più niente. Chi ha questa paura forse ha sempre pensato che la psicoanalisi fosse qualcos'altro da quello che in realtà è, qualcosa che esisteva solo nella letteratura psicoanalitica, cioè sulla carta e non nella realtà clinica concreta. In genere questa questione viene posta da chi ha un forte interesse a far credere che la psicoanalisi abbia una identità distinta, per esempio dagli esponenti delle istituzioni psicoanalitiche, perché ciò ha precise ripercussioni sulla formazione e sul mercato della cosiddetta "psicoanalisi" (un "marchio" che in certi paesi tuttora funziona) distinta dalla psicoterapia. Fu posta ad esempio da Wallerstein, ex presidente dell'International Psychoanalytic Association (IPA), ai due congressi di Roma nel 1969 e nel 1989, senza riuscire a sanare nemmeno una delle tante contraddizioni che caratterizzano questa disputa (più tardi Wallerstein riprenderà il tema del "common ground" e di "una o molte psicoanalisi", anche qui a mio parere con interventi politici). Kernberg, attuale presidente dell'IPA, l'ha ripresa nel n. 6/1999 dell'International Journal of Psychoanalysis, identificando tre tecniche (tutte, si badi bene, "orientate psicoanaliticamente"): psicoanalisi, psicoterapia psicoanalitica, e psicoterapia supportiva. Ritengo che questa presa di posizione di Kernberg nasca da esigenze politiche, dato il suo ruolo istituzionale. Come ho argomentato chiaramente con lo stesso Kernberg nel dibattito che ne è seguito (pubblicato sul n. 2/2000 dell'International Journal of Psychoanalysis a cui rimando, e ripubblicato da Kernberg a pp. 126-132 del suo libro del 2004 Narcisismo, aggressività e autodistruttività nella relazione psicoterapeutica. Milano: Raffaello Cortina, 2006), non penso che abbia senso fare questa differenze, perché nella migliore delle ipotesi sono delle tautologie, semplici descrizioni di quello che fa il terapeuta, quindi poco interessanti (Kernberg nel dibattito ha preso in considerazioni molte delle mie argomentazioni, ma a mio parere ha risposto in modo non convincente e ha glissato sulle questioni centrali). Lo sappiamo da soli che a volte il terapeuta interpreta e a volte non può far altro che dare supporto, non c'è bisogno che ci venga ripetuto, quello che interessa è perché fa una cosa o l'altra. Come ha ben dimostrato lo stesso Wallerstein nel follow up di 30 anni in 42 pazienti seguiti nella famosa ricerca della Menninger Foundation [Forty-two Lives in Treatmemt: A Study of Psychoanalysis and Psychotherapy. New York: Guilford, 1986], che Kernberg conosce bene perché la aveva personalmente diretta, nelle "psicoanalisi" vi sono sempre, e inevitabilmente, interventi anche supportivi. Quello che è interessante, come Erba e Merlini hanno giustamente argomentato, è capire come mai si interviene in un modo o nell'altro. E qui casca l'asino: se abbiamo una sola teoria alle spalle e se il criterio è la diagnosi del paziente (cioè i suoi bisogni), è quest'ultima la variabile indipendente, non le tecniche, per cui non serve suddividerle in psicoanalisi e psicoterapia, a meno che non si vogliano usare indipendentemente dai bisogni del paziente. La soluzione più logica e con meno contraddizioni è che vi sia una sola teoria (quella psicoanalitica) declinabile in diverse tecniche a seconda delle situazioni, della diagnosi del paziente e così via (cioè a seconda dei criteri estrinseci con cui ci troviamo a lavorare). Questa soluzione però mal si confà alle esigenze di una istituzione, quella psicoanalitica, che ha tanto bisogno di diffondere la idea che la psicoanalisi esista come pratica diversa dalla psicoterapia psicoanalitica, e che come tale vada insegnata e praticata (nota bene: a quattro volte la settimana).

Per rendere meglio l'idea di quello che voglio dire, e per brevità, riporto qui un mio brano (tra i tanti che potrei citare) del dibattito sulle posizioni di Kernberg in cui ponevo delle domande precise: "Perché uno psicoterapeuta supportivo 'orientato psicoanaliticamente' non dovrebbe analizzare il transfert e il controtransfert? Se questo terapeuta, dato che conosce la teoria psicoanalitica, è consapevole dell'esistenza del transfert e del controtransfert, e se crede che la loro analisi sia utile, perché dovrebbe deprivare il paziente di questa opportunità? Quale è il razionale di questa tecnica? D'altro lato, se uno psicoanalista crede che con un certo paziente in un dato momento una analisi del transfert o del controtransfert possa esser dannosa o inutile, perché dovrebbe farla? Se non la fa, diventa improvvisamente uno psicoterapeuta? E se la fa, e quindi danneggia il paziente, che tipo di tecnica psicoanalitica sta usando?". Kernberg non ha risposta direttamente a queste domande.

La questione della inevitabile sovrapposizione tra psicoanalisi e psicoterapia si è incominciata a porre già fin dagli anni '30 e '40, da quando cioè si è fatto strada il concetto di difesa, da quando l'analisi è diventata analisi delle difese, Psicologia dell'Io (una volta discussi queste cose personalmente con Wallerstein, che dovette ammettere che avevo ragione). Prima poteva ancora avere un senso parlare di differenza con la psicoterapia, ma si era in piena psicologia dell'Es, quando si credeva che l'analisi fosse solo interpretare il rimosso. Questa tecnica ora non viene neanche più considerata psicoanalisi, ma semplicemente un errore tecnico. Forse che i sostenitori della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia vogliono dirci che aderiscono a una tale concezione superata della psicoanalisi?

Altra questione: il numero delle sedute (o altri fattori estrinseci, come il lettino ecc.). Qui si continua a ignorare che questi fattori non hanno un significato in sé, ma acquistano un significato alla luce del modo con cui li vive il paziente, cioè del suo transfert. Rimango sempre colpito di fronte a questa manifestazione di realismo ingenuo da parte di tanti colleghi. Ma - mi chiedo - un analista che non capisce queste cose come può fare una analisi? Come può capire un paziente? Capirà sempre quello che vuole capire lui, non facendo attenzione a quello che prova il paziente. Come Gill argomentò molto bene e con una certa ironia, certe analisi "classiche" condotte in questo modo sono semplicemente delle psicoterapie, mentre certe psicoterapie in cui non si assegna ai criteri estrinseci un valore universale e si analizza il transfert sono delle psicoanalisi.

Capite bene che potrei andare avanti all'infinito. Ripeto la mia convinzione che la questione della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica non ha più senso di essere posta, rivela solo una imbarazzante confusione di cosa sia a psicoanalisi. Il fatto che ancora tanti la sostengono è essenzialmente un dato sociologico, rivelatore delle stereotipie psicoanalitiche che hanno caratterizzato il modo con cui è stata trasmessa la tecnica psicoanalitica, la pesante influenza della logica istituzionale e così via. Rivela anche uno stato di sudditanza culturale da parte di coloro che si definiscono "psicoterapeuti psicoanalitici": quelli che, per intenderci, non hanno altro modo di definire la propria identità se non dicendo che vedono i pazienti una o due volte alla settimana, che non usano il lettino, o che fanno le supervisioni ogni 15 giorni anziché ogni settimana, altrimenti, poveretti, sarebbero costretti a chiamarsi psicoanalisti, magari temendo di diventare invisi a quei colleghi della istituzione "ufficiale" che vogliono tenere il titolo di psicoanalista tutto per sé. E non si rendono conto che questo modo di ragionare è quello che distrugge la psicoanalisi come disciplina scientifica, perché rompe definitivamente il legame tra teoria e tecnica.

Infine, cosa che rende il tutto ancor più curioso, si parla di qualcosa che non esiste più da tempo: come so bene e come mi hanno anche confermato vari amici che sono didatti della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) a Roma e Milano (senza contare colleghi di New York, Londra ecc. - me lo confermò anche un vicepresidente dell'IPA), le terapie a quattro sedute alla settimana sono ormai quasi scomparse, nessuno vede più pazienti con quella frequenza, solo i candidati in psicoanalisi si sottopongono alle quattro sedute. Anche se so benissimo che può avere un interesse teorico discutere di una terapia ad alta frequenza settimanale, è curioso che si discuta tanto di qualcosa che non esiste, e che i candidati degli istituti psicoanalitici vengano formati a praticare qualcosa che non praticheranno mai.

Nota:
    Il tema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia è trattato anche nelle rubriche dei numeri 59/1992, 60/1992, 65/1994, 69/1995, 73/1996 (intervento), 78/1998 e 78/1998 (intervento) del Ruolo Terapeutico. Vedi anche l'intervento "La psicoanalisi, la legge, il pubblico" tenuto a Milano il 14-3-2004 alla tavola rotonda "Psychoanalysis and the law".
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel. 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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