PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1998, 78: 16-21

Chi ritiene indissolubile il binomio divano/psicoanalisi si pone fuori dalla logica psicoanalitica
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Vorrei intervenire a proposito della questione del lettino in psicoanalisi, da alcuni ritenuto una componente indispensabile al processo psicoanalitico. Non mi interessa la questione del lettino in quanto tale, ma la logica sottostante alla posizione secondo la quale il lettino sarebbe un prerequisito per la cosiddetta psicoanalisi. Questa logica sottostante è la stessa utilizzata in analisi per qualunque altro intervento, è la logica che utilizziamo quando lavoriamo. In breve, riguarda la definizione stessa di psicoanalisi, e quindi la differenza da quello che psicoanalisi non è, ad esempio dalla cosiddetta psicoterapia. Dunque una questione di fondo e ben più interessante, in quanto da essa dipende non solo l'eventuale uso dello stesso lettino, ma anche qualunque altro intervento analitico.

Cerchiamo allora di analizzare la logica sottostante alla affermazione secondo la quale il lettino sarebbe indispensabile all'analisi. Questa logica presuppone che un oggetto fisico, presente nel setting analitico, sia direttamente collegato a un preciso significato ad esso attribuito da parte del soggetto (se non fosse così, il binomio lettino/psicoanalisi non si porrebbe).

Ebbene, sappiamo che ogni oggetto fisico che ci circonda acquista uno o più significati a seconda di determinate variabili. Quali sono queste variabili che determinano il tipo di significati che gli oggetti del mondo circostante acquistano per noi? A costo di dire cose ben note, la psicoanalisi ci ha insegnato che la variabile principale che determina il significato che assume un determinato oggetto nel mondo esterno è rappresentata dall'assetto di fantasie consce e inconsce così come si sono formato nel tempo, dalle esperienze precedenti, insomma, per dirla in breve, dal transfert. Se una persona, a causa di una determinata fantasia inconscia riguardo al colore rosso, o a causa di una determinata esperienza passata (traumatica o non) collegata al colore rosso, entra nella stanza d'analisi e la vede con le pareti tutte colorate di rosso, oppure vede l'analista vestito di rosso, è probabile che provi determinate emozioni, fantasie, ecc. Lo stesso dicasi di ogni altro elemento del setting.

E qui arriviamo al punto che vorrei discutere, il lettino. Alcuni ritengono che sia indispensabile, per quel lavoro che vogliono fare e che loro chiamano psicoanalisi, far utilizzare ai pazienti quel determinato oggetto, il lettino. E' scontato, come ho cercato di spiegare prima, che non stiamo parlando qui del lettino in quanto tale (o divano che dir si voglia), ma di qualunque elemento del setting, quindi questo ragionamento vale anche per la sedia o poltrona. Varrebbe anche se ritenessimo che per fare la psicoanalisi il paziente dovesse necessariamente stare su un trespolo come un uccello. In altre parole, coloro che ritengono che la psicoanalisi (o la "psicoterapia psicoanalitica") si deve fare sulla sedia compiono lo stessa operazione logica.

Qual è dunque questa operazione logica che sottende tutto il lavoro "analitico" di coloro che ritengono che un determinato aspetto fisico del setting sia indispensabile alla psicoanalisi? Ritengo che sia una operazione squisitamente antipsicoanalitica. Infatti si caratterizza per l'assenza della analisi del transfert, nel senso che viene assegnato a priori al paziente, senza che sia analizzato, un determinato significato (è ovvio che un certo tipo di lavoro sul transfert viene fatto comunque, e sappiamo che il transfert non può mai essere analizzato "completamente", ma con questa ottica ci si mette nella condizione di non poterlo analizzare correttamente, anche volendo). Non venendo analizzato il transfert, il terapeuta (che a questo punto diventa un vero e proprio psicoterapeuta, con buona pace della sua convinzione conscia di essere uno psicoanalista) opera tramite pregiudizi, ovvero con la teoria delle etichette, incapace di vedere cosa può celarsi dietro ad esse. Possiamo intendere varie cose col termine "teoria delle etichette", ma penso che possiamo essere d'accordo sul fatto che la teoria delle etichette sia qualcosa di abbastanza diverso da quello che comunemente si intende per psicoanalisi. Se si assegna un significato aprioristico ed univoco al modo con cui il paziente vive un determinato oggetto (ciò ricorda le terapie non psicoanalitiche, ad esempio il comportamentismo), non si chiede quale è il personale e idiosincratico modo di reagire, sentire, fantasticare del paziente, perché si sa già prima quel significato. Questo elemento del setting significa una cosa, quest'altro elemento ne significa quest'altra, e così via (ad esempio: il lettino significa "apertura verso l'inconscio", "lasciarsi andare alle fantasie", o addirittura "rapporto medico-paziente" - mentre secondo alcuni sarebbe il divano, non il lettino, a avere appiccicata l'etichetta di "rapporto analista-paziente" - e altre simili stereotipie). L'elenco aggiornato di questi significati è probabilmente contenuto in qualche trattato di psicoanalisi, che lo psicoterapeuta apprende bene a memoria, un po' come certi psicoterapeuti interpretano i sogni, cioè decodificando una serie di simboli.

Abbiamo dunque ragione di ritenere che questo psicoterapeuta non abbia interesse a conoscere il mondo interno del paziente, perché lo conosce già, ad esempio sa già che il lettino significa una determinata cosa (altrimenti non insisterebbe sulla sua importanza). La scappatoia con la quale spesso molti a questo punto potrebbero rispondere è la seguente: "Non è vero che noi, insistendo sull'uso del lettino, conosciamo già il mondo interno del paziente, noi cerchiamo di analizzare il suo mondo interno a partire da questo setting, cioè il lettino è solo uno stimolo per la produzione di fantasie che poi noi attentamente analizziamo, ad esempio con le associazioni libere..."). Certo, il setting (come una delle "rappresentazioni finalizzate") è sempre uno stimolo da cui il paziente costruisce le sue specifiche reazioni transferali, ma l'insistenza sull'uso del lettino tradisce il fatto che, per quanto riguarda il significato specifico di questo elemento del setting, si dà per scontato il modo con cui il paziente risponde ad esso. Come ho detto prima, se questo non fosse vero, come si spiegherebbe il binomio lettino/psicoanalisi? Il binomio lettino/psicoanalisi può significare una sola cosa: ritenere di conoscere a priori, con una operazione tipicamente antipsicoanalitica, il significato che un oggetto ha per il paziente.

Come esempio estremo e caricaturale di questa logica utilizzata per giustificare l'uso del lettino (o divano che dir si voglia - ripeto che il ragionamento sarebbe identico se si volesse giustificare la sedia o altri armamentari), si veda l'argomentazione [Il Ruolo Terapeutico, 1997/76, pp. 4-5] secondo la quale per il divano varrebbe un criterio di ospitalità: "se l'ospitalità è rifiutata... l'analisi non può cominciare". Di fronte a questa argomentazione, colpisce innanzitutto come non ci si accorga che questo criterio di ospitalità è in realtà un "criterio di maleducazione": l'ospite (con quella che sembrerebbe una sua proiezione) conosce già come l'invitato dovrebbe sentirsi a suo agio, non si interessa di chiederglielo, ritiene che il divano (come dicevo prima) sia comodo per tutti gli invitati di questa terra, non importa se per esempio l'invitato ha la lombaggine e non può sedersi su cuscini soffici ma solo su sedie rigide per tenere il tronco eretto, oppure è un indiano e si sente ben accolto se può sedersi per terra incrociando le gambe (questa non è solo una battuta, in un clima interetnico come questo, e mi chiedo perché devono essere proprio certi "psicoanalisti" ad accorgersene per ultimi). Spero che qui non mi si fraintenda: gli esempi che faccio (il mal di schiena e l'indiano) sono solo esempi, quello che mi interessa è la coerenza logica della "teoria della ospitalità" e quello che ciò implica per tutto l'impianto teorico successivo se si prende questa strada (è scontato poi che quello a cui voglio alludere sono cose per certi versi ben più rilevanti di queste nella pratica clinica, cioè l'analisi delle mille e variegate reazioni emotive agli stimoli del setting e del comportamento dell'analista). Non solo, ma non entro assolutamente nel merito delle giustezza o meno di essere ospitali con i pazienti, che è una questione qui irrilevante. Per quanto qui ci riguarda, potremmo teorizzare che è corretto essere poco ospitali, per niente ospitali o addirittura maleducati, ospitali a tratti o a certe condizioni, e così via: queste intenzioni dell'analista, legittime o meno che siano per l'instaurarsi del processo psicoanalitico, appartengono a un altro livello logico (a parte il fatto che rimangono pie intenzioni, e prescindono dall'analisi del significato specifico ad esse attribuito sempre e comunque dal paziente). Per tornare al terapeuta "ospitale", con quello che sembra un impressionante esempio di noncuranza per l'altro e di indisponibilità a conoscerlo, questo psicoterapeuta dunque è già pronto a interpretare i significati a partire da questo criterio di ospitalità. Se la "ospitalità" viene rifiutata, l'invitato è pregato di uscire. Se l'invitato invece accetta di coricarsi, possiamo immaginare con quali significati esso verrà "interpretato" mano a mano che procede questa psicoterapia (suggestiva).

Ma questa è solo una delle osservazioni che si possono fare, la prima, quella che salta subito agli occhi di fronte alla "teoria della ospitalità" come giustificazione del divano. Una seconda osservazione è ben più importante: colpisce l'improvviso viraggio teorico utilizzato per giustificare il divano rispetto alle argomentazioni molto diverse fatte precedentemente dalla tradizione psicoanalitica, dove l'uso del divano da alcuni ad esempio poteva essere giustificato in modo opposto al criterio della "ospitalità" (si pensi al concetto di "astinenza"); questo improvviso viraggio fa venire il sospetto che le altre argomentazioni (magari usate con convinzione da altrettanti colleghi dello stesso orientamento teorico) vengano considerate deboli, scartate o considerate sbagliate, in quanto per un problema così importante sarebbe strano usare una serie di argomentazioni ben diverse tra loro, basta l'argomentazione necessaria e sufficiente, quella essenziale.

Si potrebbe continuare a lungo a parlare della coerenza logica di altre giustificazioni variamente addotte dai colleghi per giustificare l'uso del lettino in psicoanalisi (ad esempio la questione dello sguardo, lasciata completamente no  analizzata come possibile tematica controtransferale e immediatamente eretta a "normalità" di tutti gli "ospiti", oppure la questione dell'Edipo, a mio parere usato in modo riduttivo e anche per degradare la concezione della cosiddetta psicoanalisi a livello puramente contenutistico, oppure l'utilizzo di varie metafore e giochi di parole [Il Ruolo Terapeutico, 1997/75, pp. 4-5] che non spiegano niente e ripropongono il problema di partenza, ecc. - non interessa qui chi ha esposto queste posizioni, ma interessano le posizioni stesse, che sono importanti perché presenti nel dibattito psicoanalitico). Quello che mi colpisce è quella che a me sembra una peculiare contraddizione in questi tentativi di definizione della psicoanalisi fatti da questi colleghi: da una parte, come sappiamo, viene giustamente rifiutata una legittimazione da parte di un autorità esterna come criterio dell'essere psicoanalisti, e dall'altra, quando viene tentata una definizione autonoma, interna alla teoria, si cade in una serie imbarazzante di affermazioni, tutte legate a criteri esteriori e non psicoanalitici, come ad esempio il lettino (criteri che sono da sempre quelli prediletti dalle associazioni psicoanalitiche ufficiali).

Arrivati a questo punto del nostro ragionamento, sorge una domanda: come mai nella tradizione psicoanalitica viene data tanta importanza al lettino? Cosa ha portato a questo stato di cose? E se il lettino non è indispensabile, quale è l'elemento indispensabile, caratterizzante, della psicoanalisi?

E' indubbio che è solo ora che il discorso si fa interessante, e che riguarda direttamente la annosa questione della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia. Questo problema, essendo direttamente connesso alla identità della psicoanalisi, mi ha sempre interessato. Non mi è possibile, nello spazio limitato di questo intervento, ripercorrere in dettaglio le argomentazioni che ho esposto in più lavori negli anni passati. Per chi volesse approfondirle, rimando soprattutto al cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica (Milano: Franco Angeli, 1995, 2010), oltre che a vari articoli, tra cui anche la rubrica in questo stesso numero del Ruolo Terapeutico (78/1998) dove riprendo alcuni dei passaggi di quelle argomentazioni (ma si veda anche la rubrica del n. 69/1995, intitolata "Terapia o ricerca della verità? Ancora sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia", dove discutevo anche le posizioni di un collega lacaniano, il quale aveva originariamente promesso di inviare un intervento di risposta che purtroppo non è pervenuto; vedi inoltre le rubriche dei numeri 60/1992, 65/1994, 73/1996 (intervento), 78/1998, 86/2001 (intervento).

Riassumo qui, molto succintamente, quale è la mia posizione, posizione che mi ha confortato aver ritrovata, teorizzata in modo molto coerente, nell'ultimo Gill ["Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione" (1984). In: Del Corno F. e Lang M., a cura di, Psicolgia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 128-157], che a mio parere è riuscito finalmente a risolvere le innumerevoli contraddizioni insite in molti tentativi precedenti di differenziare psicoanalisi da psicoterapia (tra i tanti, si vedano ad esempio i vani tentativi di Wallerstein nelle sue relazioni ai due congressi dell'IPA di Roma, rispettivamente del 1969 e del 1989). Ritengo che la psicoanalisi non possa essere legata ad alcun criterio "estrinseco" (lettino, frequenza settimanale, ecc.), ma solamente a criteri intrinseci, cioè interni alla teoria. Per psicoanalisi intendo, in modo molto allargato, "analisi del transfert": con questo intendo un atteggiamento dell'analista volto ad analizzare le implicazioni della relazione col paziente (questo non implica che l'analista debba necessariamente rivelare al paziente quello che eventualmente emerge da questa analisi, che cioè debba "sempre interpretare" o non nascondere niente: tutt'altro, è la valutazione dello stato difensivo che guida l'intervento, che quindi è rivolto all'Io, non all'Es - forse è questo quello di cui parlano quelli che sottolineano il ruolo dell'etica in psicoanalisi).

La relazione analitica, come ogni relazione, si costruisce sulla base di un determinato setting e di un contesto di significati, e quindi è scontato che se ne dovrà sempre tener presente. Ma non vi è alcun setting universale o "classico", in quanto è il paziente, col suo transfert, che decide i significati che avrà ogni setting. Credere in un setting classico implica solo il rischio di evocare un "transfert classico", cioè iatrogeno, come nel caso della teorizzazione del "setting infantile" della Macalpine [Lo sviluppo della traslazione (1950). In: Genovese C., a cura di, Setting e processo psicoanalitico. Milano: Cortina, 1988] così ben discussa da Gill (per un approfondimento, rimando ai lavori citati prima). Un paziente può prediligere la sedia perché teme che il lettino sia una minaccia rispetto al suo bisogno di controllare (magari con lo sguardo) l'analista, un altro invece può non reggere lo sguardo dell'analista e può non vedere l'ora di raggomitolarsi sul lettino: è ovvio che sarebbe un grave errore interpretare solo il primo comportamento come resistenza. Un setting ortodosso può essere vissuto come eterodosso e viceversa, e gli esempio sono innumerevoli. I motivi per cui un analista sceglie un determinato setting sono complessi, ma legati prevalentemente a fattori socioculturali e al modo con cui ha imparato a lavorare dai propri analisti e supervisori. In genere usa il setting in cui si trova più a proprio agio (Freud, molto coerentemente, con la sua esplicitata difficoltà a reggere lo sguardo dei pazienti per otto ore al giorno usò questo criterio - e non ci interessa qui se questo fu un problema controtransferale non analizzato, ci interessa la questione teorica sottostante). L'importante, quindi, è non escludere la possibilità che siano in gioco dinamiche controtransferali (sia in senso stretto, cioè legate a problemi personali dell'analista, sia in senso lato, cioè legate alla "risonanza di ruolo" col paziente - di cui ha parlato Sandler nel 1976 - o a quelle che vengono chiamate identificazione proiettive). Analista e paziente sono alla pari, a questo riguardo, perché entrambi lavorano allo stesso scopo (l'analisi della relazione); l'analista si distingue solo per il suo ruolo professionale, tutto il resto è nel campo delle dinamiche consce o inconsce che sono appunto oggetto di analisi. Il paziente può essere analista molto più del suo analista, e questo non è un male, anzi è proprio quello che si spera avvenga in ogni analisi.

Mi rendo conto che i risvolti teorici e clinici di questi problemi sono molti, e devo necessariamente terminare questo intervento che voleva essere breve. La mia speranza è di aver fornito alcuni stimoli, di aver aperto dei problemi, senza assolutamente la pretesa di aver convinto nessuno, perché nel nostro campo vi saranno sempre opinioni divergenti, sostenute da complessi fattori anche affettivi dai quali nessuno penso possa ritenersi immune. Per un approfondimento, rimando comunque al cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica, prima citato, dove anche espongo un dettagliato esempio clinico (pp. 87-89 ediz. del 1995) in cui si vede l'utilizzo del lettino come possibile fonte di resistenza, e mostro un tipo di "psicoanalisi sulla sedia" e di "psicoterapia sul lettino".

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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