PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1992, 59: 4-14
(una versione anche in: Psicoterapia e Scienze Umane, 1991, XXV, 4: 35-65)

Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica?
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

é un diffuso luogo comune quello secondo il quale vi sarebbe una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica: la psicoanalisi sarebbe applicabile solo in studi privati dotati di un preciso setting (privacy, anonimità, sedute frequenti, stabilità del luogo e degli orari, responsabilità del pagamento da parte del paziente da taluni ancora ritenuta importante, e così via); inoltre essa sarebbe indicata solo per determinati pazienti (i famosi "classici nevrotici"), e, essendo "più difficile" e "più profonda" della psicoterapia, dovrebbe essere praticata solo dopo un training lungo e rigoroso. In tutti gli altri casi quindi (servizi psichiatrici pubblici, pazienti gravi o che per motivi economici non possono permettersi sedute frequenti, terapeuti giovani o meno preparati, gruppi, emergenze, terapie brevi, ecc.) sarebbe indicata una "psicoterapia".

Intendo guardare meglio dietro a questi luoghi comuni, cercando di dimostrare invece che non è più facilmente sostenibile una differenza teorica tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica. Cercherò di analizzare la logica sottostante a varie affermazioni spesso date per scontate, e di affrontare lo studio dei concetti da una prospettiva storica. Dopo una introduzione sul problema della "psicoterapia psicoanalitica", presenterò un panorama storico del dibattito sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, per illustrare infine in maggiore dettaglio la recente revisione teorica di Merton Gill, perché la ritengo una delle più significative oggi in quanto egli, diversamente da altri ex allievi di Rapaport (quali Schafer, Holt, George Klein, ecc.), cerca di dare una risposta alla crisi di certi concetti mantenendo una coerenza col discorso psicoanalitico [i recenti contributi tradotti di Gill, ai quali faccio riferimento, sono il libro Teoria e tecnica dell'analisi del transfert (1982), Astrolabio, 1985, e soprattutto l'articolo "Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione" (1984), pubblicato nel libro a cura di F. Del Corno & M. Lang Psicolgia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale, Franco Angeli, 1989, pp. 128-157. Per una bibliografia completa rimando a una versione ampliata di questo mio lavoro pubblicata sul n. 4/1991 di Psicoterapia e Scienze Umane]. [Una bibliografia parziale viene pubblicata alla fine di questo lavoro]

Il Ruolo Terapeutico tradizionalmente ha sempre sostenuto l'applicabilità dei principi psicoanalitici nei servizi psichiatrici pubblici e in setting diversi da quelli considerati classici, ed ha accumulato molta esperienza al riguardo. E' mia impressione che il tipo di psicoterapia insegnata e praticata al Ruolo Terapeutico abbia elementi simili a quella che cercherò di esporre oggi, anche se essa non è sempre stata esplicitamente teorizzata. Spero di riuscire a dimostrare questo, arricchendo quindi il dibattito interno a questa scuola.

Il problema della psicoterapia psicoanalitica

La cosiddetta "psicoterapia psicoanalitica" o "ad orientamento psicoanalitico" rappresenta sicuramente la forma di psicoterapia più diffusa nei paesi occidentali. Eppure, con un paradosso che sconcerta lo studioso, è alquanto controversa da un punto di vista teorico, tanto che il dibattito sul suo preciso statuto è ancora molto vivo. Di fatto, la dizione "psicoterapia psicoanalitica" spesso ha un significato solo evocativo, o peggio, viene usata come un cliché o una frase fatta, tanto spesso ripetuta quanto ambigua, dietro alla quale si nascondono teorie e modalità di lavoro che possono essere diverse tra loro. Uno dei principali problemi è il fatto che la sua identità dipende necessariamente da quella della psicoanalisi, da cui essa dovrebbe differenziarsi, la quale si è andata modificando considerevolmente nel corso di questo secolo, fino ad assumere oggi una connotazione non più unitaria.

Si è incominciato a parlare di "psicoterapia psicoanalitica" ovviamente solo dopo la nascita della psicoanalisi: dato che Freud, a torto o a ragione, affermò che alcune patologie più gravi non erano trattabili con la psicoanalisi in quanto i pazienti secondo lui erano incapaci di sviluppare un transfert sull'analista, divenne presto comune l'uso del termine "psicoterapie psicoanalitiche" per quelle terapie derivate in un qualche modo dalla psicoanalisi, le quali venivano applicate a questi disturbi più gravi.

Ma a ben vedere, il termine "psicoanalisi" significava, nelle parole dello stesso Freud, contemporaneamente tre cose diverse: un metodo di ricerca, una tecnica terapeutica, e una teoria psicologica. Questi tre livelli erano concepiti come intrecciati l'uno con l'altro, non autonomi tra di loro: in questo senso, se consideriamo la teoria psicologica della psicoanalisi come una teoria generale che può essere declinata in diverse tecniche a seconda delle applicazioni, possiamo legittimamente parlare di "psicoanalisi breve", "psicoanalisi monosettimanale", "psicoanalisi senza lettino", "psicoanalisi agli psicotici", e così via. Se invece frammentiamo questa triade di significati data da Freud, e per psicoanalisi intendiamo solo una tecnica (ad esempio quella che si è andata formalizzando nella tradizione classica, basata su quattro o cinque sedute alla settimana, sull'uso del lettino, sulla interpretazione come intervento privilegiato, ecc.), siamo costretti poi a chiamare "psicoterapie psicoanalitiche" quelle tecniche che, pur mantenendo la psicoanalisi come teoria generale, prevedono alcune modificazioni formali, quali una sola seduta alla settimana o il setting vis-à-vis.

Una complicazione a questo proposito è dovuta al fatto che secondo una certa concezione psicoanalitica (come quella espressa, tra gli altri, dalla Macalpine nel 1950) vi sarebbe uno stretto legame tra metodo psicoanalitico e setting classico, nel senso che sarebbero proprio determinati aspetti formali (il lettino, le sedute frequenti, la costanza dell'ambiente, ecc.) quelli che costituirebbero un "setting infantile" che sarebbe all'origine di fenomeni quali la "nevrosi di transfert" e la "regressione", indispensabili al processo analitico in quanto costituiscono proprio quei fattori che devono poi essere elaborati ed interpretati nel corso dell'analisi.

Si potrebbero così delineare due diverse posizioni: una secondo la quale un determinato setting (nella fattispecie, quello classico) è la condizione necessaria ed esclusiva per permettere la messa in moto del processo analitico (e quindi l'emergere del transfert, che in quanto tale non si manifesterebbe al di fuori della terapia, o in terapie diverse da quella psicoanalitica classica); e un'altra posizione secondo la quale invece il transfert non sarebbe esclusivo della psicoanalisi, ma un fenomeno naturale che si manifesta in svariate situazioni umane (dai rapporti interpersonali, all'innamoramento, ecc.) e che nell'analisi verrebbe "massimizzato", o semplicemente "analizzato", cioè sottoposto a maggiore attenzione che altrove.

E' evidente che, a seconda di quale di queste due opzioni teoriche noi seguiamo, possiamo parlare rispettivamente di "psicoterapie psicoanalitiche" oppure di "psicoanalisi declinata in diverse tecniche" (psicoanalisi breve, psicoanalisi agli psicotici, psicoanalisi di gruppo, ecc.), intendendo con queste ultime accezioni l'applicazione di una teoria generale a diverse situazioni cliniche a seconda del campo di intervento (istituzioni, gruppi, emergenze, ecc.), del materiale umano a disposizione (pazienti più o meno gravi), o degli scopi che ci prefiggiamo (cambiamenti più o meno profondi del paziente).

Nella storia del movimento psicoanalitico non è stata presa una posizione chiara riguardo alla definizione del termine "psicoanalisi". Da un lato, come osservò Sandler nel 1982, in certi casi non si è riusciti a fare di meglio che definire in modo tautologico "psicoanalisi" la terapia praticata dagli "psicoanalisti", e circolarmente gli "psicoanalisti" coloro che praticano la "psicoanalisi" (e, potremmo aggiungere, gli "psicoterapeuti" coloro che praticano la "psicoterapia", e viceversa). In certi paesi a livello sociologico vi è stata addirittura la consuetudine a identificare gli psicoanalisti unicamente nei membri dell'International Psychoanalytic Association (IPA); questa tendenza, oltre che di dubbia legalità (in quanto motivata da intenti monopolistici, come dimostrato anche dal recente processo degli psicologi americani contro gli psicoanalisti [vedi le mie rubriche sui nn. 53 e 54, 1990, del Ruolo Terapeutico]), è pericolosa, poiché, riducendo il problema a una questione di appartenenza istituzionale, mette in pericolo l'identità scientifica della disciplina. Dall'altro lato, la tendenza presente nel movimento psicoanalitico a separare teoria e tecnica (e quindi a frammentare la triade di significati che Freud invece aveva concepito come inscindibili) ha purtroppo favorito la consuetudine di riservare il termine psicoanalisi solo a una determinata tecnica, e precisamente a quella classica.

Ciò ha provocato un fenomeno interessante. Mentre, come si è detto, per il fondatore della psicoanalisi teoria e tecnica erano interdipendenti, nel senso che se avvenivano dei progressi nella teoria subito questi venivano riflessi nella tecnica e viceversa, in seguito, a causa di questa più o meno implicita tendenza a connotare la psicoanalisi prevalentemente come una pratica professionale codificata da una serie di regole comportamentali, la teoria e la tecnica sono andate progressivamente scollandosi, incrinando lo statuto scientifico della disciplina. Per fare un esempio, quando Freud era convinto della teoria secondo la quale la cura avveniva riportando alla coscienza i ricordi rimossi, egli non esitava a fare pressioni sui pazienti affinché ricordassero, a massaggiarli sulla fronte, a incitarli, ipnotizzarli, ecc.; in seguito, quando si rese conto che il ricordo raggiunto tramite ipnosi non era curativo in se stesso quanto lo era invece l'esperienza emozionale del faticoso lavoro conscio teso a superare le resistenze nel ricordare, egli coerentemente cambiò tecnica, e lavorò sulle "associazioni libere", aprendo la strada a quella che con l'analisi delle difese doveva poi trasformare la psicoanalisi in "Psicologia dell'Io". Mano a mano però che, nel corso di questo secolo, la teoria psicoanalitica si è andata decisamente modificando in vari suoi assunti di base, fino ad arrivare al punto in cui oggi essa è frammentata in diverse scuole e anche scossa nelle sue fondamenta da una crisi epistemologica (si pensi solo alla crisi del concetto di "verità" dell'interpretazione, e a quello che ciò implica per tutto l'impianto teorico [rimando qui alla mia rubrica sul n. 50/1989 del Ruolo Terapeutico]), la tecnica "classica" è risultata essere sempre più una attività ritualizzata, priva dei significati originari, tramandata dalle generazioni di analisti in modo quasi sacralizzato. Risultano quindi più comprensibili le motivazioni che possono aver spinto nella direzione di identificare la psicoanalisi solo con una tecnica: frammentandosi o vacillando il polo teorico, vi è stata la naturale tendenza a trovare un comune denominatore nel polo tecnico, anche perché apparentemente più oggettivabile, più concreto, e più funzionale per i pressanti interessi di un gruppo professionale ormai ben organizzato anche a livello internazionale.

Il divario tra teoria e tecnica si è manifestato molto presto nella storia del movimento psicoanalitico: si pensi che [come dice Cremerius su Psicoterapia e Scienze Umane, 3/1983, p. 5] già negli anni '20 "dissidente" era lo stesso Freud nei confronti degli istituti di Londra e di Berlino che erano più "ortodossi". Nei decenni seguenti questa situazione acquistò proporzioni sempre maggiori, fino ad arrivare al punto in cui si è incominciato a notare in ambito tecnico l'uso di concetti (quali "anonimità", "astinenza", "associazioni libere", ecc.) ormai avulsi dal contesto teorico nel quale erano stati formulati, come se essi potessero legittimarsi autonomamente. La tecnica era stata mostruosamente innalzata al rango di teoria: non vi erano più dei precisi principi teorici, ma solo delle regole di comportamento da rispettare all'interno di un setting prestabilito, così come erano state imparate dai propri supervisori e analisti didatti, i quali a loro volta le avevano apprese dalla generazione precedente. Non a caso, come più volte ha osservato Galli [ad esempio nei nn. 38 e 40 del Ruolo Terapeutico], gradualmente alcuni precedenti concetti forti del metodo psicoanalitico (come "insight", "interpretazione", ecc.) incominciarono ad essere accantonati e a diventare concetti deboli, e da più parti si tentò di innalzare altri concetti, fino ad allora periferici al metodo e vicini al polo tecnico (come quello di "setting"), al rango di concetti forti.

A livello storico, il problema si è fatto più sentire mano a mano che la psicoanalisi veniva tentata per diverse forme cliniche, quando cioè un numero sempre crescente di terapeuti incominciarono a sperimentare il metodo psicoanalitico con pazienti che non erano i classici nevrotici, andando contro la direttiva freudiana secondo la quale la psicoanalisi non era applicabile alle forme più gravi. Come è noto, tra i primi che tentarono la psicoanalisi in quadri precedentemente esclusi fu Sullivan, il quale lavorò con gli psicotici: qui la tendenza fu quella di parlare di "psicoterapia" (se non di "psichiatria" tout court), e non di psicoanalisi. La stessa cosa successe per coloro che lavorarono nel campo delle terapie brevi: queste in genere furono chiamate "psicoterapie brevi ad orientamento psicoanalitico", e non "psicoanalisi brevi". Ugualmente, per le terapie di gruppo vi fu una tendenza a evitare di parlare di "psicoanalisi di gruppo": aneddoticamente, vi sono stati casi in cui le istituzioni psicoanalitiche, di fronte alla proposta di fondazione di associazioni di psicoanalisi di gruppo, hanno imposto una dicitura in cui non comparisse la parola psicoanalisi, ma semplicemente "psicoterapia di gruppo" o "gruppoanalisi" [Di Marco G., a cura di, I fattori di cambiamento in terapia. Riviste a confronto. Chieti: Métis, 1990, p. 216]. Si potrebbe continuare con esempi come questi. Curiosamente però, questo problema non si presentò quando fu proposta la psicoanalisi per i bambini, dove si mantenne la parola "psicoanalisi infantile", e non psicoterapia infantile: questo sembra paradossale, considerata anche la grande diversità tecnica della psicoanalisi per adulti rispetto a quella per bambini (in cui viene stravolto il setting classico, con per esempio la tecnica del gioco - senza considerare le grosse differenze teoriche con una delle correnti principali di psicoanalisi infantile, quella kleiniana) ma forse ciò è spiegabile (oltre che per la autorevole presenza della figlia di Freud in questo settore) col fatto che rappresentava un pericolo minore per l'identità della disciplina mantenere il termine psicoanalisi per pazienti di un'altra fascia di età (dove era meno sentita la competizione con altre psicoterapie), mentre nella terapia degli adulti il problema della minaccia all'identità (anche a livelli di mercato) era maggiore.

Parallelamente all'ampliamento della applicazione della psicoanalisi a diversi quadri clinici (lo widening scope della psicoanalisi, come ebbe a chiamarlo Leo Stone nel 1954), si approfondirono gli studi psicoanalitici sull'Io (Hartmann, Kris & Loewenstein, Rapaport, ecc.), i cui albori si possono datare, prima ancora del contributo L'io e i meccanismi di difesa di Anna Freud del 1936, alla formulazione freudiana della seconda topica ne L'Io e l'Es del 1922, cioè dalla introduzione della struttura tripartita Io, Es e Super-Io, che segnò il lungo cammino che doveva trasformare la psicoanalisi da "Psicologia dell'Es" a "Psicologia dell'Io" (mentre, secondo alcuni autori recenti non ortodossi - in particolare i seguaci di Kohut - la fase attuale della psicoanalisi può essere definita "Psicologia del Sé"). Secondo la più primitiva concezione della "Psicologia dell'Es" (termine che a rigore è improprio, in quanto il concetto di Es appartiene già alla struttura tripartita, e quindi è inseparabile da quello di Io) il lavoro terapeutico veniva concepito essenzialmente nel far riemergere il rimosso, mentre con l'introduzione dei concetti strutturali si incominciò naturalmente a dare più importanza al lavoro sull'Io, sulle difese, sull'adattamento, e, più tardi, sempre più sullo sviluppo [vedi Blanck G. & Blanck R., Teoria e pratica della psicologia dell'Io (1974). Boringhieri, 1978]. Questo nuovo approccio comportò necessariamente una diversa tecnica, in cui venne legittimata una modificazione della tecnica classica a partire da questa nuova impostazione teorica, secondo la quale non erano più i pazienti quelli che dovevano essere selezionati per la tecnica psicoanalitica, ma era la tecnica quella che doveva essere adattata ai pazienti, prendendo quindi questi ultimi, non la tecnica, come variabile indipendente. Si può dire che questi studi sull'Io e sul punto di vista dello sviluppo fornirono le basi concettuali di parte importante di quello che poi doveva diventare il dibattito sulla psicoterapia psicoanalitica, cioè sulla possibilità di modificare la tecnica standard a seconda delle condizioni dell'Io del paziente. Ciò è importante, se si pensa che invece secondo scuole psicoanalitiche diverse dalla Psicologia dell'Io, e precisamente secondo quella kleiniana, è stata teorizzata l'utilizzazione della tecnica standard con tutti i pazienti, anche gravi, e nella loro letteratura non a caso trova ben poco spazio il dibattito sulla psicoterapia.

A questo proposito, voglio tracciare ora un sintetico panorama della storia del dibattito ufficiale sul rapporto tra psicoanalisi e psicoterapia.

Il dibattito sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: panorama storico

Per non appesantire questo scritto, riassumo qui il dibattito, e rimando all'articolo su Psicoterapia e Scienze Umane (4/1991) per maggiori dettagli. Wallerstein nel 1989 ha diviso la storia del dibattito sul rapporto tra psicoanalisi e psicoterapia in tre fasi principali: 1) la "preistoria della psicoterapia dinamica"; 2) il periodo del "consenso psicoanalitico"; 3) il periodo del "consenso frammentato".

1) La "preistoria della psicoterapia dinamica". In questo periodo, espresso da Freud, Jones, Glover, e più tardi anche da Gitelson, ecc., si riteneva che esistevano solo due tipi di psicoterapie: la psicoanalisi da una parte, e tutte le altre psicoterapie dall'altra, le quali erano "nient'altro che suggestione".

2) Il periodo del "consenso psicoanalitico". In questo periodo (che va dagli anni '40 agli anni '70) vi furono due posizioni. La posizione maggioritaria (il "consenso"), fu espressa nel 1954 da Bibring, Gill, Rangell, e Leo Stone, e prevedeva che, anche se psicoanalisi e psicoterapia utilizzavano la stessa cornice teorica psicoanalitica, vi erano precise differenze in termini di indicazioni, tecniche, scopi, ecc. La posizione minoritaria invece, rappresentata da Alexander, Fromm-Reichmann, ecc., sosteneva che non vi era alcuna differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, ma una totale sovrapposizione; questi autori si rifacevano a Sullivan, il quale a sua volta si riallacciava a Freud quando disse che per psicoanalisi si può intendere ogni psicoterapia che si basa sui concetti di transfert e di resistenza.

Ma qui merita di essere segnalato anche il contributo di Eissler del 1953 sul "parametro" (tradotto su Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1981), contributo di enorme importanza che doveva poi avere una grossa influenza nei decenni seguenti. Eissler cercò di sistematizzare le modificazioni che sempre più analisti andavano introducendo nel setting, in parte dietro la spinta provocata dal cambiamento del paziente medio in termini di una più severa patologia a causa dell'allargamento della applicazione della psicoanalisi, e in parte a partire dalle nuove acquisizioni teoriche in tema di Psicologia dell'Io. Egli teorizzò, a scopo euristico, una "modello di tecnica di base": questo è un modello ideale, difficilmente attuabile in pratica, in cui si suppone che l'analista lavori con un paziente che abbia un Io intatto, e in cui gli interventi riescano a essere limitati solamente all'interpretazione, senza che le regole di base vengano modificate. In questo caso l'Io del paziente è talmente forte da tollerare ed elaborare i significati trasmessi dalle interpretazioni. Ci si accorse presto, nella pratica analitica con pazienti difficili (soprattutto fobici, schizofrenici, delinquenti, ecc.), che questa tecnica di base non poteva essere tollerata da tutti, e che era inevitabile modificarne vari aspetti. Eissler così coniò il termine "parametro di tecnica" per indicare una modificazione della tecnica resa necessaria dalle condizioni deficitarie dell'Io del paziente; queste modificazioni possono includere vari tipi di interventi diversi dall'interpretazione, quali ad esempio la rassicurazione, il consiglio, il ritorno alla posizione vis-à-vis, la prescrizione di un comportamento (come il suggerire l'esposizione a un oggetto fobico), lo stabilire di autorità la data del termine della analisi per mobilizzare eventuali resistenze (queste ultime due tecniche furono praticate da Freud con l'Uomo dei lupi), e così via. Però secondo Eissler, e in questo consiste il suo principale contributo, una tecnica può essere chiamata ancora "psicoanalisi" quando l'introduzione di un parametro è giustificata dai seguenti quattro criteri: 1) deve essere introdotto solamente quando sia provato che la tecnica di base non è sufficiente; 2) non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile; 3) deve condurre alla sua autoeliminazione; 4) le sue ripercussioni sul transfert non devono mai essere tali che non possa più essere abolito dall'interpretazione. In questo modo Eissler propose una giustificazione razionale della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: per operare una reale modificazione della struttura dell'Io, il parametro eventualmente introdotto deve essere poi eliminato, altrimenti si incorrerebbe in un pericolo dell'uso di un parametro (contro il quale mise acutamente in guardia lo stesso Eissler), quello del "sequestro di materiale analitico" come conseguenza dell'introduzione del parametro stesso, in quanto "ogni introduzione di un parametro incorre nel pericolo che una resistenza venga eliminata senza essere stata analizzata" (p. 65). Quindi secondo Eissler per "psicoterapia" si potrebbe intendere una terapia basata su parametri non analizzati e non eliminati, introdotti in modo fisso nel setting (quindi a rigore non definibili come "parametri" nel senso dato ad Eissler del termine, ma come vere e proprie "modificazioni" della tecnica). Questa terapia potrebbe avere un effetto benefico nel paziente, ad esempio lo rassicurerebbe, ma, non permettendogli di introiettare determinate funzioni (mantenendolo così dipendente da certe caratteristiche dell'ambiente per funzionare), né di acquisire l'insight sulle ragioni del benessere ottenuto tramite il parametro, non opererebbe quelle modificazioni strutturali dell'Io che sono l'obiettivo della psicoanalisi.

A questo proposito, sempre inerente al tema della differenza tra psicoterapia e psicoanalisi, può essere molto utile andare a rivedere anche la critica di Eissler del 1950 al concetto di "esperienza emozionale correttiva" di Alexander del 1946, in cui polemicamente Eissler differenzia un approccio basato sulla "cura razionale", dovuta alla psicoanalisi che produce l'interiorizzazione di cambiamenti "strutturali", da uno basato sulla "cura magica", secondo Eissler indotta dalla tecnica di Alexander che produce cambiamenti solo "di contenuto" (l'articolo di Eissler fu tradotto in due parti su Psicoterapia e Scienze Umane, 3 e 4, 1984). Come è noto, Alexander, per il fatto di proporre una attiva modificazione del setting analitico allo scopo di fornire una "esperienza emozionale correttiva", fu accusato di manipolare il transfert anziché analizzarlo, trasformando così la psicoanalisi in psicoterapia.

3) Il periodo del "consenso frammentato". Esso data dagli anni '70 fino ai giorni nostri, e ufficialmente da un Simposio del 1979 in cui furono invitati tre autori (Gill, Rangell, e Stone) che erano intervenuti al dibattito del 1954, affinché esponessero le loro posizioni a 25 anni di distanza. Come ho detto prima, intendo presentare qui solo il contributo di Gill, perché si differenzia nettamente dagli altri due autori e compie una decisa revisione delle posizioni che egli stesso aveva sostenuto nel 1954.

La "analisi del transfert" di Gill

Gill fu un importante esponente della Psicologia dell'Io nordamericana, già stretto collaboratore di Rapaport e autore di importanti lavori teorici che furono consideati pietre miliari, per cui le sue posizioni possono essere considerate particolarmente autorevoli. Un altro motivo di interesse della posizione di Gill è che le idee espresse nel 1954 sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, considerate da molti come un importante punto di riferimento, sono state ora modificate, così che possiamo discutere in modo più problematicizzato questo tema e seguirne le evoluzioni in quello che è stato un po' il dibattito in questi ultimi decenni.

Gill (1984) usa i termini di criteri "intrinseci" ed "estrinseci" della psicoanalisi (che corrispondono a quelli che Leo Stone nel 1954 chiamò rispettivamente "funzionali" e "formali"). I primi, cioè i criteri intrinseci, includono quegli aspetti che fanno parte direttamente della teoria della tecnica (quali, come vedremo, la interpretazione del transfert, la neutralità dell'analista, ecc.), e i criteri estrinseci sono invece quelli esteriori o descrittivi di una tecnica, ed includono sedute frequenti, uso del lettino, un paziente "analizzabile" (cioè una determinata diagnosi), e anche uno psicoanalista preparato, e così via.

Gill nel 1954 elencò quattro criteri intrinseci della psicoanalisi, che sono i seguenti: 1) centralità dell'analisi del transfert (mentre, come è noto, nella psicoterapia il transfert non viene analizzato ma manipolato); 2) neutralità tecnica dell'analista; 3) induzione di una "nevrosi di transfert regressiva"; 4) risoluzione di questa nevrosi transferale regressiva solo o prevalentemente con lo strumento dell'interpretazione. La concezione quindi della psicoanalisi si manteneva all'interno dei canoni classici, e veniva legata a criteri intrinseci; anche se Gill lasciava aperta la possibilità che il lavoro analitico potesse essere svolto anche con criteri estrinseci non ottimali, non definiva però quanto questi criteri estrinseci potessero essere ampliati affinché si potesse ancora parlare di psicoanalisi.

Ma nel 1979 Gill, quando fu invitato a esprimere le sue posizioni un quarto di secolo dopo gli storici contributi del 1954, rivide il suo pensiero, che io cercherò ora di riassumere. Sostanzialmente, egli modifica i quattro criteri intrinseci che aveva proposto nel 1954 in modo tale che ora possono cambiare anche i criteri estrinseci, nel senso che ritiene che la psicoanalisi sia applicabile nelle più diverse situazioni (servizio pubblico, terapie brevi, ecc.), e a una più vasta gamma di pazienti di quanto si credeva prima, rendendo le indicazioni della psicoanalisi sovrapponibili a quelle tradizionalmente considerate della psicoterapia. Cerchiamo di seguire i passaggi che lui ha fatto per sostenere questa tesi, ricca di implicazioni per la pratica della psicoanalisi.

Come si è detto, la concezione di Gill del 1954 non si discostava dalla tradizione classica, secondo la quale la principale differenza tra psicoanalisi e psicoterapia era che in psicoanalisi il transfert è analizzato, mentre in psicoterapia esso viene manipolato. Ora Gill non si limita a dire che possono essere ampliati i criteri estrinseci (il che presupporrebbe che rimangono fissi quelli intrinseci), anzi, dice che ciò non farebbe altro che peggiorare la situazione attuale in termini di errori tecnici. I criteri estrinseci, tra l'altro, sono già andati modificandosi da Freud in poi, anche dietro la pressione di fattori socioeconomici. Vediamo brevemente come.

I criteri estrinseci

Esaminerò i tre principali criteri estrinseci che si sono modificati, e precisamente: 1) frequenza delle sedute; 2) uso del lettino; 3) selezione dei pazienti.

1) Frequenza delle sedute. Già Freud decise di passare da sei a cinque sedute alla settimana quando fu costretto a dividere tra sei pazienti anziché tra cinque le 30 ore settimanali di cui disponeva. Negli Stati Uniti presto si passò da cinque a quattro (limite minimo attualmente adottato dall'IPA), e molti ora considerano anche tre sedute come frequenza possibile. Questa evoluzione è andata parallelamente alla diminuzione di pazienti e di motivazione ad investire denaro in questa terapia, fenomeni legati alla crisi della psicoanalisi avvenuta negli Stati Uniti. Freud disse comunque che sarebbe un errore scendere sotto le tre sedute settimanali, specie all'inizio del trattamento, ma molti analisti oggi possono prendere i pazienti a una o due sedute, sperando di poterle aumentare in seguito. Non esistono studi controllati che mostrino la frequenza ottimale, né questo problema è stato discusso a fondo. Una eccezione è Alexander (et al., 1946), che propose di influenzare il transfert modificando il ritmo delle sedute: Gill concorda con coloro che criticarono Alexander dicendo che questa tecnica non è psicoanalitica ma psicoterapeutica, in quanto manipola il transfert anziché analizzarlo, violando così il principale criterio intrinseco, l'analisi del transfert. Ma ora Gill a questo proposito fa due osservazioni: a) e se noi analizzassimo le ripercussioni sul transfert di questa modificazione della frequenza, non rispetteremmo forse il principio della analisi del transfert? b) non solo, ma l'insistenza da parte nostra su una certa frequenza (ad esempio, quattro sedute settimanali), non è forse anche questa, se non analizzata nelle sue ripercussioni transferali, una manipolazione del transfert simile a quella di cui fu accusato Alexander? (già vediamo qui che tipo di argomentazioni fa Gill, che approfondirò meglio più avanti).

2) Uso del lettino. Ormai tutti sanno che esso da una parte è una eredità della tradizione ipnotica, e dall'altra il risultato di una difesa controtransferale di Freud, che potremmo considerare non analizzata, quando ne giustificò l'uso col fatto che lui non sopportava di essere fissato negli occhi per molte ore al giorno (la regola del lettino comunque non fu sempre osservata, basti ricordare l'Uomo dei topi che nei primi tempi camminava su e giù per la stanza). Ormai vi è un accordo quasi unanime sul fatto che anche il lettino può essere fonte di resistenza, non solo per il terapeuta, ma anche per il paziente, che per esempio può avere un desiderio eccessivo di sprofondarvisi; quello che è importante è analizzare perché, come e quando un paziente si sdraia o si siede.

3) Selezione dei pazienti. Riguardo infine alla diagnosi dei pazienti adatti alla psicoanalisi, ormai solo una piccolissima minoranza di analisti ritiene che la tecnica classica possa essere applicata a tutti i pazienti, e si accettano delle modificazioni. Anche questo criterio estrinseco dunque è cambiato, dietro la spinta della applicazione della psicoanalisi ai casi più gravi.

I criteri intrinseci

Quelli che ora vanno modificati secondo Gill invece sono i criteri intrinseci, e sopratutto il primo criterio, l'analisi del transfert, in quanto gli altri tre dipendono da esso. Le modifiche del primo sono a loro volta inserite all'interno di una più ampia revisione teorica della interazione tra paziente e analista: in breve, egli passa da una concezione "a una persona" a una concezione "a due persone" della situazione analitica (da una "one body psychology" a una "two bodies psychology"), cioè a una visione da lui definita "relativistica e prospettica" della realtà interpersonale; nelle parole di Hoffman (uno stretto collaboratore di Gill), si passa da una concezione "asociale" a una concezione "sociale" della situazione analitica. Mentre prima si tendeva a concepire il transfert come una distorsione della realtà alla luce del passato, ora Gill, in linea con la tradizione interpersonale espressa da Sullivan già dagli anni '20, ritiene che il transfert non sia altro che una delle tante possibili visioni della realtà. In altre parole, il paziente parte sempre dal setting e dal comportamento dell'analista per dare una interpretazione verosimile della realtà (recentemente questa concezione del transfert si è spostata sempre di più verso posizioni costruttivistiche: Hoffman propone ad esempio una "social-constructivistic view" della situazione psicoanalitica).

Ma vediamo in dettaglio i passaggi teorici fatti da Gill riguardo alla modificazione dei quattro criteri intrinseci.

1, 2) L'analisi del transfert e la neutralità. Per quanto riguarda i primi due criteri intrinseci, è ovvio che essi sono strettamente connessi: non presupponendo più che il transfert sia una pura e semplice ripetizione del passato, ma innanzitutto una risposta, tra le tante possibili, al comportamento dell'analista, crolla anche il mito della neutralità analitica, la quale in origine presupponeva che l'analista potesse rimanere veramente fuori dal campo senza influenzare il transfert del paziente. Dato che questa influenza esiste comunque, che lo si voglia o no, tanto vale esserne coscienti ed analizzarla, altrimenti operiamo una suggestione involontaria, e quindi una manipolazione del transfert non analizzata, e a rigore la psicoanalisi scivola in psicoterapia, con buona pace dell'analista "ortodosso". Inoltre, nell'analisi del transfert si deve sempre partire dal presente, cercando di capire bene cosa prova o dice il paziente, senza fingere di capire, anche a costo di essere più attivi, di fare domande, ecc. Non bisogna avere paura di evitare quell'atteggiamento che purtroppo è diventato tipico degli psicoanalisti, basato sull'uso frequente del silenzio, poiché esso è andato diffondendosi come tecnica a partire dal presupposto che possa esistere la neutralità analitica, cioè che il terapeuta possa non influenzare il paziente non impegnandosi attivamente nella interazione, scordando che è impossibile la non interazione; tanto vale esporsi comunque, e la nostra maggiore "attività" verrà comunque considerata uno stimolo per il transfert del paziente, al pari dell'eventuale nostro silenzio, sempre vissuto anch'esso diversamente da caso a caso a seconda del transfert.

Bisogna quindi come prima cosa chiarire il più possibile il tipo di esperienza che il paziente ha del rapporto. Poi si procede in modo per certi versi opposto a quello tradizionale: invece di sottolineare come il transfert sia una distorsione del presente, si sottolinea come esso sia comprensibile data la situazione attuale col terapeuta. E' con questo lavoro sull'hic et nunc che il paziente arriva a capire come il suo transfert verosimile sia, appunto, solo verosimile, e che potrebbe essere determinato anche da fattori interni dovuti al passato: solo ora può emergere materiale genetico che va attentamente analizzato. Non si dimentichi infine, come ha descritto bene tra gli altri Sandler nel 1976, che il paziente non si limita a percepire la situazione analitica transferalmente, ma inconsciamente induce il terapeuta a conformarsi al ruolo richiesto dal transfert, cioè stimola il suo controtransfert. Queste osservazioni cliniche, descritte accuratamente anche da Searles, Langs, e altri, hanno portato a considerare il paziente come uno strumento per conoscere il proprio controtransfert, o come interprete della nostra esperienza, se non addirittura come nostro supervisore (questa prospettiva è sviluppata a fondo da Langs, il quale però differisce a livello teorico poiché ritiene che il paziente percepisca correttamente l'inconscio del terapeuta, mentre Gill ritiene che egli ne abbia solo una visione verosimile tra le tante possibili).

Questa enfasi posta da Gill all'analisi del presente potrebbe sollevare la critica che egli sottovaluta l'analisi del passato: ma Gill parla solo di priorità del lavoro sul presente rispetto a quello sul passato, in quanto ritiene che una analisi volta primariamente al passato rischia di subire gli effetti duraturi della suggestione involontaria del presente, l'analisi del quale permette di guardare al passato capendolo meglio e senza aggirare difensivamente il transfert.

3) La induzione di una nevrosi di transfert. Per quanto riguarda il terzo criterio intrinseco, anche qui Gill cambia opinione, in modo conseguente alle considerazioni appena fatte. Gill sostiene che è stato sempre sottovalutato il comportamento involontariamente suggestivo del terapeuta nell'indurre la nevrosi transferale, e che una analisi precoce del transfert, centrata sul presente, può modificare il quadro che tipicamente evolve nella cosiddetta nevrosi di traslazione. Inoltre egli mette bene in luce un paradosso presente nella teoria della tecnica classica: da un lato si ritiene che la nevrosi di transfert regressiva sia un fenomeno spontaneo e determinato internamente dal paziente, dall'altro si prevede un particolare setting per farla emergere (setting che, come si è visto, non a caso la Macalpine chiamò infantile). Gill qui ha buon gioco nel mostrare come il setting classico sia manipolatorio e suggestivo, nel senso che è volto a provocare una infantilizzazione del paziente, a creare artificialmente una nevrosi di transfert che poi ci illudiamo sia spontanea; sostiene inoltre che è indispensabile analizzare le ripercussioni sul transfert di questa infantilizzazione indotta, cosa quasi mai discussa nella letteratura. E' una totale illusione che si possa veramente regredire a una nevrosi infantile, anzi, la nevrosi deve essere vissuta come si manifesta nel presente, e se occorrono misure speciali per farla rivivere, già queste misure di per sé stesse dimostrano che essa non è la riproduzione dell'infanzia, ma prima di tutto la risposta a queste misure. Inoltre dice che non serve far regredire il paziente al di là di quella che è già la sua patologia; se ci proponiamo di indurre una ulteriore regressione oltre a quella presentata dal paziente, i risultati positivi della terapia avvengono nonostante questa regressione, non a causa di essa. In sostanza, dice Gill, la pratica analitica classica induce una ulteriore regressione non solo inutile, ma dannosa. Questo è un criterio intrinseco tra i maggiormente bisognosi di revisione.

Connesso al concetto di regressione, vi è quello della regola delle associazioni libere, la cosiddetta regola aurea o fondamentale della psicoanalisi: anche questo concetto va rivisto, perché, come è facile immaginare, Gill dimostra che l'analisi è sempre una conversazione, mai un soliloquio, come peraltro disse lo stesso Freud, il quale affermò anche che le associazioni libere in realtà libere non sono, ma legate principalmente agli stimoli presenti, in special modo a quelli del terapeuta e della malattia.

4) Uso privilegiato della interpretazione. Per quanto riguarda l'ultimo criterio intrinseco, anche qui Gill rivede le sue posizioni del 1954, sostenendo che allora aveva enfatizzato il primato della interpretazione nel tentativo di differenziare ulteriormente la psicoanalisi dalla psicoterapia. Aveva minimizzato l'altro fattore terapeutico, quello legato al rapporto con l'analista, basato su una nuova esperienza mai fatta prima: ma questa esperienza è soprattutto quella con l'analista nel momento in cui interpreta! Si tratta comunque di un fattore terapeutico complesso, discusso anche da altri autori, tra i quali Strachey, Loewald, ecc., i quali hanno espresso la convinzione che nel processo analitico esista un altro aspetto importante oltre all'attività interpretativa, che è una nuova esperienza interpersonale, ineliminabile da esso (ma si vedano anche le posizioni espresse già nel 1925 da Ferenczi & Rank riguardo l'importanza relativa dell'esperire e del ricordare).

La proposta di Gill: riassunto e implicazioni

L'unico vero fattore intrinseco che differenzia psicoanalisi e psicoterapia è l'analisi sistematica del transfert, o, sarebbe meglio dire, della relazione. Ma se da un lato in psicoterapia per definizione il transfert non viene interpretato ma manipolato, dall'altra in qualunque terapia, compresa la psicoanalisi, vi è una manipolazione per lo meno involontaria, e se questa non viene attentamente ricercata e interpretata, si scivola di fatto in una psicoterapia. Non solo: se da una parte crolla il mito secondo il quale in psicoanalisi il transfert non viene mai manipolato, dall'altra si incrina anche quello secondo il quale in psicoterapia esso possa essere tranquillamente "controllato" o "regolato" adottando determinate misure (sedute meno frequenti, non utilizzo del lettino, maggiore attività e direttività, limitata interpretazione del transfert, ecc.). Interpretare poco il transfert, così come spesso si fa in psicoterapia, limita la consapevolezza che può avere il paziente del proprio comportamento, ma non limita certo la possibilità che esso si manifesti. Questa concezione della psicoterapia secondo la quale il transfert può essere regolabile con determinate manipolazioni del setting, è errata e speculare alla concezione della psicoanalisi classica dove si ritiene che la neutralità analitica può far emergere un transfert non manipolato. Come abbiamo visto, credere nella neutralità, arrivando a negare o nascondere il proprio impatto emotivo, può solo portare a rendere implicito il transfert così da permettergli di esercitare i suoi effetti senza accorgersene.

Sembra così possibile risolvere l'annosa questione della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, non a caso discussa da decenni senza raggiungere conclusioni soddisfacenti. La revisione teorica operata da Gill rende più coerenti i criteri intrinseci della psicoanalisi, e riduce molto le indicazioni della psicoterapia fino a quasi annullarle, in questo senso ritornando all'originario Freud il quale "praticava solo l'analisi, qualunque fossero le circostanze". In questo modo la psicoanalisi diventa applicabile ai setting più diversi, e quindi sovrapponibile alla psicoterapia.

Un luogo comune della psicoanalisi classica è quello di ritenere che l'analisi debba essere "senza tempo". Riscattando una dignità alle terapie brevi (vedi Psicoterapia e Scienze Umane, 3/1988, p. 53), Gill dice che è sbagliata una concezione della psicoanalisi tipo "tutto o niente", come se producesse risultati solo se completata in modo perfetto. Invece si può usare la tecnica analitica anche se l'analisi non sarà completa, poiché i benefici si accumulano progressivamente, e l'analisi può essere interrotta in vari momenti e non è detto che si perda quello che si è conquistato. Ed è anche sbagliato sia porre una meta ambiziosa predeterminata per i pazienti "classici nevrotici", sia una meta limitata per gli altri: in entrambi i casi questi sono interventi che possono condizionare, anche in modo silente, tutta la terapia. Se ad esempio si ha meno tempo a disposizione, come accade nelle terapie brevi o nel servizio pubblico, se ne analizzeranno le ripercussioni sul transfert. Certamente, sottolineando l'hic et nunc si sposta ad un secondo momento la eventuale ricostruzione del passato; ma questo non è necessariamente negativo, in quanto, come disse Freud, "non si può uccidere un nemico in effigie", nel senso che è il lavoro sul transfert quello più produttivo, come del resto sembrano dimostrare varie ricerche (ad esempio quelle di Luborsky). Inoltre il procedere dalla superficie al profondo aiuta a controllare meglio la regressione, che non viene più ricercata in quanto tale.

Infine, alcune parole riguardo alla formazione. Il training appare indispensabile, ma ci si può chiedere quanto a lungo e quando bisogna insegnare la psicoanalisi così come è stata ora ridefinita. Coerentemente con le premesse di Gill, bisogna evitare di porre il problema nei termini di insegnare o non insegnare la psicoanalisi agli psicoterapeuti, o di quando insegnarla (all'inizio o avanti nella formazione). Il fatto è che non si può evitare di usare la psicoanalisi (nella accezione intesa da Gill), quindi è meglio insegnarla a tutti gli psicoterapeuti fin dall'inizio, considerando che i più giovani l'apprenderanno meglio, e che ognuno la impiegherà a seconda delle proprie capacità. E' un errore insegnare a un principiante a star lontano dal transfert, perché ne è sempre coinvolto, ed è impossibile insegnargli a non gestire un transfert di cui si accorge. Non vi è un'alternativa all'insegnamento della psicoanalisi, conclude Gill, poiché essa è più facile da apprendersi della psicoterapia, la quale non offre una chiara teoria della tecnica riguardo a come comportarsi nei confronti delle ubiquitarie manifestazioni transferali.

Un esempio clinico

Per far capire meglio quali implicazioni cliniche può avere questa revisione teorica, può essere utile fare un breve esempio, dove si vede con molta chiarezza il ruolo giocato dai fattori intrinseci rispetto a quelli estrinseci, bene esemplificati con l'uso del lettino che ancora oggi da molti è considerato parte integrante del setting psicoanalitico e non di quello psicoterapeutico. Si tratta di un episodio che mi accadde alcuni anni fa con una paziente in terapia trisettimanale vis-á-vis, che durante una fase difficile della terapia incominciò a mostrare, assieme a varie manifestazioni di cosiddetto "transfert negativo" (aggressività, sensazione di non essere capita, minacce di interruzione, ecc.), una notevole difficoltà a tollerare il contatto visivo con me, lamentando il fatto che la terapia era faccia a faccia, mentre lei avrebbe preferito il lettino che le avrebbe permesso di sentirsi più "contenuta", "protetta", "rilassata", di esprimere con minore difficoltà i suoi "veri sentimenti", e così via.

L'elaborazione interpretativa di questa situazione comportava, tra le altre cose, le seguenti considerazioni. I genitori della paziente, che non erano sposati ma solo conviventi, si erano lasciati poco prima della sua nascita; il padre avrebbe voluto che la convivente abortisse, e si rifiutò di riconoscere la figlia. Per una serie di litigi che non erano mai stati chiariti né capiti a fondo dalla paziente, da allora erano cessati del tutto i rapporti col padre. Questi, che era di classe sociale molto superiore a quella della madre, viveva nella stessa città, e qualche rara volta si incontravano per strada, ma sempre facendo finta di non conoscersi nonostante entrambi sapessero chi erano. I sentimenti della paziente erano di forte aggressività, mista a paura, affetto, e sentimenti di inferiorità causati dalla ambivalente fantasia che il padre per un qualche motivo avesse "fatto bene" ad abbandonarla, o che comunque avesse avuto le sue buone ragioni. Naturalmente la paziente avrebbe potuto prendere l'iniziativa e andare a parlare col padre, ma ne era impossibilitata da una forte paura di esplodere di rabbia con lui. Inoltre l'avvicinarsi al padre avrebbe comportato una rottura della loyalty con la madre, con cui viveva ancora insieme e a cui era molto legata, la quale per problemi propri non era stata capace di elaborare il rapporto con lui, e per motivi di orgoglio aspettava che fosse lui a fare il primo passo. Inutile dire che questa situazione pesava come un lutto non risolto per la paziente, avendo contribuito per esempio a crearle una forte inibizione a farsi una famiglia e ad avere essa stessa un figlio nonostante le molte occasioni che le si erano presentate, poca assertività nel fare carriera, un forte senso di inferiorità, indegnità di meritare i diritti di tutti gli altri, ecc. (questa problematica, tra l'altro, era qui ben razionalizzata anche dal fatto che la paziente ambivalentemente svalutava me - e, a ben vedere, se stessa - per il fatto che io secondo lei non usando il lettino non le facevo una "psicoanalisi" ma una "psicoterapia", anche perché io ero un terapeuta indipendente dalla associazione psicoanalitica "ufficiale", la quale sola la avrebbe finalmente "riconosciuta" e "legittimata"; ma ero ben consapevole che nella sua ambivalenza lei aveva scelto proprio me perché sapeva bene che, in un certo senso, ero un suo alleato in quanto anch'io ai suoi occhi ero un "non riconosciuto"...).

Ebbene, con molta probabilità dietro a questa difficoltà del contatto emotivo e visivo diretto con me c'era anche una difficoltà a provare ed esprimere tutti questi dolorosi sentimenti ambivalenti verso il padre (odio, amore, ecc.). La richiesta del lettino poteva significare anche un ripetere il dramma del "non rapporto" col padre, e se avessi accettato di introdurre questo cambiamento, forse avrei dato inconsciamente alla paziente l'immagine di un padre che non vuole fare veramente i conti con la forza delle emozioni che la paziente appunto voleva evitare: si può far l'ipotesi che in questo caso io sarei stato "risucchiato" dal transfert della paziente, la quale sarebbe riuscita ad evocare inconsciamente in me la "risposta di ruolo" (Sandler, 1976) voluta dal transfert, e così via.

Ma non voglio soffermarmi sull'analisi di queste dinamiche, perché sono facilmente alla portata di qualunque terapeuta esperto. Quello che voglio discutere è il ruolo degli elementi del setting nella logica interpretativa. Nel caso in questione fortunatamente il lavoro interpretativo, incentrato sul significato inconscio della sua richiesta del lettino, riuscì a sbloccare la paziente e a farle evocare tutta una serie di ricordi e sentimenti dolorosi, sia su di sé che sul padre, facendo così procedere la terapia positivamente. Ma supponiamo che il mio lavoro non fosse riuscito, che cioè la paziente non avesse retto nel rapporto faccia a faccia con me e avesse minacciato di interrompere la terapia se non la mettevo sul lettino, quale sarebbe stata la condotta da seguire? Pongo questa domanda qui solo come esercizio teorico, e supponendo ovviamente che l'analisi da me fatta sulla genesi delle resistenze della paziente sia corretta. Una possibilità in effetti sarebbe stata, seguendo Eissler (1953), quella di introdurre, a causa della "debolezza dell'Io" della paziente, un "parametro" nella "psicoanalisi con la sedia" e metterla in "psicoterapia col lettino" per continuare il lavoro, fino a quando non si riuscisse ad eliminare il parametro (il lettino) per poi farla ritornare alle condizione della mia tecnica di base (che in questo caso comportava l'uso della sedia). Così, qui paradossalmente la psicoanalisi si sarebbe fatta con la sedia e la psicoterapia col lettino, reso necessario dalla paziente per la quale non era sufficiente il lavoro di interpretazione verbale sulla difficoltà a guardarmi in faccia, per cui avrebbe richiesto un "agito", cioè l'introduzione di un parametro proprio secondo la concezione di Eissler (è mia impressione che in questo caso specifico probabilmente non sarebbe stato indicato comunque il passaggio al lettino, perché avrebbe indotto nella paziente una ulteriore sensazione di insicurezza o umiliazione, ma queste sono considerazioni di altro tipo).

Trovo questo esempio utile, anche perché in modo divertente capovolge i termini del problema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia così come sono intesi se si considerano solo i criteri estrinseci, e nel contempo ci può far pensare a quale può essere il rischio che si corre in molte psicoanalisi ortodosse, dove si può scivolare in una psicoterapia "manipolatoria" nella misura in cui, proprio come dice Gill, permettiamo che parte del materiale sfugga dal lavoro interpretativo se crediamo nella neutralità e nella universalità del setting classico.

Conclusioni

Ritengo quindi di aver dimostrato come oggi non sia più possibile riposare su precedenti certezze riguardo alla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia. Al contrario, anche nella psicoanalisi ufficiale è ormai diffusa una crescente consapevolezza, sulla scia delle intuizioni di vari pionieri della psicoanalisi (Sullivan, Alexander, Fromm-Reichmann, ecc.), di quanto sia più corretta (come ha più volte sostenuto Galli) una concezione "trasversale" della psicoanalisi, la quale, senza perdere la sua specificità, faccia ormai parte del bagaglio teorico non solo della psicoterapia ma anche della psichiatria, permettendo di rompere vecchi steccati e di raggiungere una gamma di pazienti precedentemente considerati esclusi. Da questa prospettiva, si può affermare che il tentativo a differenziare ancora psicoanalisi e psicoterapia risponda essenzialmente a esigenze monopolistiche, volte a ritagliare uno spazio nel quale gli "psicoanalisti" (intesi qui come i membri dell'IPA) possano continuare indisturbati, senza la libera competizione dei tanti e validi terapeuti indipendenti, a fornire servizi, tra cui soprattutto quelli per il grosso mercato della formazione dei molti giovani alla ricerca di una identità professionale.

Vorrei terminare lasciando comunque aperto il discorso ponendo una domanda che, a ben vedere, rimane di non facile risposta: perché questa revisione teorica della psicoanalisi, le cui premesse erano già chiare da decenni come implicazioni dell'approccio interpersonale, viene fatta da parte ufficiale solo alla fine degli anni '70? Personalmente, non sono riuscito a trovare una risposta convincente a questa domanda, nel senso mi sembra riduttivo attribuire le ragioni di questo ritardo solamente a fattori sociologici (paura di andare contro l'autorità della associazione, minaccia all'identità professionale con ovvie implicazioni economiche, ecc., mentre oggi, a causa della crisi della psicoanalisi, può addirittura essere funzionale al sistema prendere queste posizioni, e così via): molti analisti americani non dipendevano dalla pratica professionale per la propria sopravvivenza economica, ed avevano una sufficente autonomia di pensiero da non farsi condizionare dalle pressioni, anche sottili, della psicoanalisi organizzata; inoltre, fatto ancor più curioso, vari analisti "progressisti" o su posizioni politiche apertamente "di sinistra", sia in Europa che negli Stati Uniti, rimanevano fermamente su posizioni ortodosse a livello teorico, mostrando quindi anch'essi una forma di ritardo culturale. Non riuscendo quindi a darmi una risposta soddisfacente, ho voluto togliermi la voglia di discutere questo problema con lo stesso Gill, il quale mi ha dato questa sua spiegazione: la cultura che lui ha definito come "obiettivante", basata su una "psicologia monopersonale" e derivata dall'approccio medico, è stata così pesante ed ha talmente impregnato la cultura psicoanalitica, perlomeno nordamericana, che ha reso impossibile a tanti analisti della sua generazione di riuscire a compiere questa revisone teorica prima di ora. Anche se ho ancora delle perplessità sulla spiegazione di questo ritardo, mi è stato utile comunque sapere che neanche Gill conosce altre risposte.

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Note:
    Conferenza tenuta al Ruolo Terapeutico di Milano il 21-3-1991. Questo articolo è stato ripubblicato in: AA.VV., Un primo nucleo del nostro pensiero (Scritti di autori vari, comparsi su Il Ruolo Terapeutico dal n. 41/1986 al n. 61/1992). Milano: Il Ruolo Terapeutico, 1993, pp. 23-33. Una versione ampliata di questo lavoro, dal titolo "La differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: panorama storico del dibattito e recente posizione di Merton M. Gill", è pubblicata su Psicoterapia e Scienze Umane, 1991, XXV, 4: 35-65. Il tema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia viene trattato anche nei seguenti successivi lavori: 60/1992, 65/1994, 69/1995, 73/1996 (intervento), 78/1998, 78/1998 (intervento), 86/2001 (intervento).
    Per una versione ampliata e aggiornata di questo lavoro, vedi Migone P., Terapia psicoanalitica. Milano: Franco Angeli, 1995, cap. 4. Vedi inoltre l'editoriale del n. 4/2007 di Psicoterapia e Scienze Umane.
 
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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