PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1990, 53: 27-30 (prima parte), e 1990, 54: 19-24 (seconda parte)
(una versione anche in: Psicoterapia e Scienze Umane, 1987, XXI, 4: 83-89)

Storia del processo degli psicologi americani contro gli psicoanalisti
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Non si può certo dire che le istituzioni psicoanalitiche americane attraversino un periodo tranquillo. Sono ben lontani gli anni 1950 in cui la psicoanalisi in America godeva di un alto prestigio scientifico e sociale. Oggi essa non solo è sempre più accerchiata dal successo della psichiatria biologica, ma ad incrinare l'immagine sociale della psicoanalisi recentemente si sono aggiunti anche vari scandali e processi. Si erano appena sopiti i clamori suscitati dal "caso Masson" (Migone, 1984a, 2002), quando è scoppiato un altro scandalo, anche questo culminato con una denuncia. Nel primo caso, come si ricorderà, Masson aveva denunciato gli Archivi Freud e il loro direttore Kurt Eissler, unici depositari di molti documenti segreti di Freud, in quanto, come recitava la denuncia, «invece di promuovere la ricerca storica e le pubblicazioni su Freud e il suo lavoro, per motivi privati e personali hanno inibito, messo a tacere e soppresso tali conoscenze». Eravamo nel 1982, e il prezzo pagato allora a Masson affinché ritirasse la denuncia fu di 150.000 dollari (anche se, in un secondo processo iniziato dallo stesso Masson, ebbe meno fortuna).

Ma il prezzo che hanno dovuto pagare nel 1989 varie istituzioni psicoanalitiche di fronte a un'altra denuncia, questa volta mossa da alcuni psicologi, è stato ancor più alto, 650.000 dollari. Qual'è stato qui il motivo della denuncia? Questa volta la posta in gioco è stato il diritto per gli psicologi di accedere al training psicoanalitico, che negli Stati Uniti è sempre stato privilegio quasi esclusivo dei medici; questi, secondo l'accusa, riusci­vano così a monopolizzare la pratica della psicoanalisi per tenere alti i prezzi delle sedute.

Gli autori di questa denuncia sono stati quattro psicologi, due uomini e due donne, i quali, appoggiati dalla loro potente American Psychological Association (APA), allora forte di circa 90.000 membri, sono riusciti a costringere le istituzioni psicoanalitiche a modificare le regole di ammissione al training aprendolo agli psicologi. Questo processo, che è durato vari anni e che ha fatto molto discutere nei circoli psicoanalitici, si è concluso il 17 aprile 1989 alla Corte Federale di New York con la vittoria degli psicologi, e, come si è detto, con un risarcimento di 650.000 dollari per spese processuali. Gli psicologi hanno facilmente dimostrato che il vero motivo per cui la pratica della psicoanalisi rimaneva privilegio dei medici non era affatto "scientifico" o "terapeutico" ma, al contrario, puramente economico: vi era il piano di limitare la diffusione della psicoanalisi nel paese impedendone la pratica da parte di molti validi terapeuti e senza alcun riguardo per i bisogni dei cittadini, al solo scopo di mantenere alti i prezzi.

Ritengo che sia importante conoscere bene questa vicenda, in quanto mostra con esemplare chiarezza il reale funzionamento di certe società psicoanalitiche e le loro responsabilità nello sviluppo della psicoterapia. Ho seguito da vicino lo svolgimento di questo processo in stretto contatto con Bryant Welch, psicologo e avvocato, principale autore della denuncia, il quale mi ha mostrato parte degli atti processuali dove ho potuto conoscere meglio i dettagli di questa azione legale. Ho cercato di far conoscere la storia di questo processo raccontandolo su varie riviste (Psicoterapia e Scienze Umane, 4/1987; Tempo Medico, 313/1989; Psicologia Italiana, 3/1989; Psicologia e Lavoro, 73/1989; Gnosis, 4/1989; Il Ruolo Terapeutico, 53-54/1990; Legge e Psiche, 1-2/1994; AUPI Notizie, 7/1996). In Italia abbiamo vissuto un periodo critico riguardo al problema della regolamentazione della psicoterapia, in quanto è stata approvata la Legge 59/1989 sull'albo degli psicologi, e questa vicenda avvenuta negli Stati Uniti può far riflettere anche su alcuni aspetti di certe nostre istituzioni. Ma veniamo al racconto, e procediamo con ordine.

L'antefatto

Come è noto, in vari paesi del mondo vigono delle restrizioni per gli psicologi nell'accesso al training psicoanalitico presso gli istituti affiliati alla International Psychoanalytic Association (IPA). Queste restrizioni sono sempre state massime negli Stati Uniti, dove l'American Psychoanalytic Association (chiamata comunemente l'American), non ammetteva l'iscrizione di psicologi ai suoi istituti di training accreditati, bensì solo quella di medici. Alcuni psicologi in via eccezionale potevano essere accettati se avevano particolari meriti scientifici, e non a pari titolo con la qualifica di members, ma con quella di research scientific members, che alludeva al fatto che sarebbero stati impegnati nella ricerca scientifica e non nel loro ruolo terapeutico. Questi pochi psicologi, che in genere venivano limitati a uno per istituto, erano ammessi al training tramite un permesso speciale (waiver) di una commissione dell'American chiamata Committee on Research and Special Training (CORST).

Ci si può chiedere il motivo di questa scelta, tenendo conto che lo stesso Freud era molto contrario a restringere la pratica psicoanalitica ai medici. Si pensi che alcuni dei più importanti analisti e teorici della psicoanalisi (tra cui Anna Freud, Melanie Klein, Eric Fromm, Bruno Bettelheim, Ernst Kris, David Rapaport, George Klein, Roy Schafer, Robert Holt, Morris Eagle e tanti altri) non hanno mai conseguito la laurea in medicina. Lo stesso statuto dell'IPA definisce la psicoanalisi come una "tecnica psicoterapeutica [basata sulle] scoperte psicologiche di Freud", il quale - hanno sottolineato gli accusatori - fu estremamente chiaro sul fatto che la psicoanalisi non dovesse essere limitata ai medici: «La psicoanalisi non è una branca particolare della medicina (...) [ma piuttosto] è parte della psicologia - e neppure della psicologia medica in senso tradizionale (...) ma semplicemente della psicologia», disse Freud (1927). Inoltre Ernest Jones, discepolo e biografo di Freud, scrisse che era «indifferente se un candidato per il training psicoanalitico fosse un medico oppure no». La posizione di Freud era che la psicoanalisi dovesse essere aperta a tutti, alle persone più capaci nei vari rami delle scienze. Viene qui in mente Bettelheim (1983), un analista che conobbe Freud personalmente e che poi, emigrato negli Stati Uniti dopo essere sopravvissuto al campo di concentramento, denunciò quella che a suo parere era una deviazione in senso eccessivamente medicalizzante dello spirito originario della disciplina fondata da Sigmund Freud, che voleva avere una impronta invece più umanistica. Nell'attraversare l'oceano la psicoanalisi secondo Bettelheim avrebbe "perso l'anima". Egli, che non aveva una formazione di medicina ma di storia dell'arte, filosofia ed estetica, ricorda che quando fu esaminato (tra l'altro da Anna Freud) per intraprendere il training analitico, Freud si congratulò personalmente e gli disse che la psiconanalisi aveva bisogno proprio di persone come lui, dotate di una cultura non medica ma umanistica, in quanto più capaci di comprendere e di avvicinarsi all'anima dell'uomo.

Di fatto alle origini dello sviluppo della psicoanalisi negli Stati Uniti vi erano vari psicologi e studiosi delle scienze umane, i quali erano degli emigrati dall'Europa che avevano una tale autorità da sfidare le organizzazioni mediche. Me negli anni il potere medico ha sempre più preso piede, fino ad escludere quasi completamente gli psicologi. Ironicamente però gli psicologi di una volta avevano una formazione clinica molto inferiore a quella degli psicologi attuali: mentre ai tempi di Freud vi era una reale differenza tra medici e "laici", oggi un laureato in psicologia in una università degli Stati Uniti ha una notevole formazione psicologica e psicoterapeutica, sicuramente superiore a quella di un medico, il quale apprende sinteticamente le basi della psicologia solo nel corso della successiva specializzazione in psichiatria. Eppure l'opposizione delle istituzioni psicoanalitiche americane nei confronti degli psicologi è stata tale che fino a poco tempo fa un medico veniva preferito a uno psicologo anche se non aveva fatto la specialità in psichiatria (negli Stati Uniti vi sono addirittura casi di medici che dividono il loro tempo tra la pratica della dermatologia e della psicoanalisi!). In quasi tutti i paesi del mondo (a parte l'Argentina, dove durante la dittatura la psicoanalisi era stata dichiarata una branca della psichiatria e quindi della medicina) gli psicologi hanno sempre avuto maggiore facilità di accesso al training psicoanalitico che negli Stati Uniti.

Non solo, ma se consideriamo la grave "crisi delle vocazioni" che ha attraversato la psicoanalisi in America, per la quale negli istituti vi erano pochissimi candidati per anno (nel New York Psychoanalytic Institute, che è uno dei più grossi, negli anni 1980 le classi a volte erano formate da 5 a 10 candidati, e in alcuni anni si è rischiato di cancellarle), l'apertura agli psicologi avrebbe costituito un innesto di linfa vitale, anche in termini di nuove idee e intelligenze, grazie alla maggiore cultura in psicologia scientifica e capacità di elaborazione concettuale degli psicologi americani.

Le motivazioni ideologiche per l'esclusione degli psicologi sono sempre state abbondanti e facilmente immaginabili, inerenti ad esempio al bisogno di attribuire a questa disciplina una maggiore dignità e rispettabilità (come se vi fosse una eccessiva paura che la psicoanalisi da sola non le avesse), e così via. Molti invece hanno da sempre sospettato che le ragioni erano essenzialmente economiche: mantenendo limitato il numero dei fornitori di servizi, si potevano tenere i prezzi più alti, insomma la legge del monopolio. Non si deve sottovalutare che gli interessi economici legati alla psicoanalisi sono altissimi: basti pensare che una seduta di 45-50 minuti negli anni 1980 costava da 75 a 150 dollari, e tenendo conto della frequenza di 4-5 volte alla settimana per 4-7 anni o più, un paziente rappresentava un guadagno di 60.000-200.000 dollari, e in certi casi ancor maggiore. Come è stato notato nel Wall Street Journal del 13 ottobre 1988, alla fin fine è in ballo è la possibilità che le assicurazioni americane, compreso la Medicare, rimborsino gli psicoterapeuti non medici. Non vi è da stupirsi quindi, come hanno affermato gli psicologi nella loro denuncia, che se in tutti gli stati USA la competizione tra le varie forme di psicoterapia è sempre stata accettata e incentivata, la psicoanalisi è stata rigidamente monopolizzata dall'American, la quale, soprattutto in certi stati, ha impedito ogni forma di competizione.

Erano anni che da parte dell'APA venivano fatte delle pressioni affinché l'American aprisse le porte dei suoi istituti di training agli psicologi. Vi erano stati numerosi dibattiti e riunioni, e molte promesse che questo passo sarebbe stato fatto presto, ma veniva risposto che per ora non era il momento. Ai vari congressi annuali dell'American le discussioni si concludevano sempre con una maggioranza in favore del mantenimento della vecchia regola.

L'impazienza negli psicologi crebbe a tal punto che alcuni di loro decisero di passare direttamente all'azione tramite una denuncia, ritenendo quindi che non vi fossero altri modi per cambiare le cose. Chi ebbe l'ardire di iniziare questa causa fu, nel marzo 1985, Bryant Welch, uno psicologo clinico che è anche avvocato, affiancato da altri tre psicologi clinici, Helen Desmond, Arnold Schneider, e Toni Bernay. Costoro, assieme ad altri, si organizzarono in un gruppo chiamato Group for the Advancement of Psychotherapy and Psychoanalysis in Psychology (GAPPP), che è servito anche per la campagna nazionale di raccolta dei fondi. Dietro ovviamente vi era l'APA e soprattutto la sua Division 39 (Psicoanalisi), che è un po', fatte le debite proporzioni, simile a quella che in Italia era la "Divisione Professionale di Psicologia Clinica" della nostra Società Italiana di Psicologia (SIPs). Assieme alla Division 39, diedero sostanziosi contributi finanziari per le spese processuali anche la Division 29 (Psicoterapia) e la Division 42 (Psicologi in pratica privata).

Ma vediamo brevemente le storie personali di questi quattro psicologi, per comprendere cosa gli ha spinti a denunciare le istituzioni psicoanalitiche; sono storie esemplari, simili a quelle di centinaia di altri psicologi americani, nelle quali potranno identificarsi anche degli psicologi italiani che hanno tentato invano di entrare nella nostra Società Psicoanalitica Italiana (SPI).

La parte civile

Il primo e principale accusatore, Bryant Welch, studiò ad Harvard dove si laureò in legge nel 1972, per poi laurearsi anche in psicologia alla University of North Carolina nel 1976. Qui fino al 1982 fu Direttore di Training e supervisionò gli specializzandi di psichiatria e psicologia. Lavorò in pratica privata come psicoterapeuta fino al 1986 quando, per i suoi meriti, gli fu assegnato l'importante incarico nazionale di Direttore Esecutivo Associato dell'Ufficio della Pratica Professionale dell'APA. Dal 1972 al 1977 fece una analisi personale, spinto dall'interesse per la psicoanalisi, e nel 1981 fece domanda per entrare nel North Carolina Psychoanalytic Institute, dove fu respinto con la motivazione che "gli psicologi potevano essere ammessi se facevano solo ricerca, ma non clinica". Nel 1984 fece domanda una seconda volta, e fu accettato, ma solo per un "training parziale" (partial training), e non "completo" (full training), indispensabile quest'ultimo per la pratica clinica. Egli comunque, non avendo altre alternative in quella area geografica (fare il pendolare in aereo a New York o Chicago sarebbe stato impraticabile), accettò, ed entrò in "analisi didattica". Gli fu detto che poteva ottenere il training completo solo con uno speciale permesso dall'American, ma gli fu sconsigliato di chiederlo perché l'American era restìa a concedere permessi agli psicologi. Ma il dr. Welch non era uno psicologo come gli altri, poiché era anche avvocato e conosceva i suoi diritti e le leggi federali, per cui pensò bene a questo punto di inviare all'American non una richiesta di permesso, ma una denuncia.

Helen Desmond, una psicologa clinica di Los Angeles, moglie di uno psichiatra psicoanalista membro dell'American, fece domanda di ammissione nel 1978 al Southern California Psychoanalytic Institute ma fu respinta con la sola ragione che era una psicologa in pratica privata. Fece allora domanda a un altro istituto della zona anch'esso affiliato all'American, il Los Angeles Psychoanalytic Institute, dove fu accettata ma solo per il training parziale, che non le dava il diritto di praticare la psicoanalisi. Lei allora accettò e poi chiese per ben tre volte consecutive all'American il permesso di ricevere il training completo, ma fu respinta tutte e tre le volte. In una di queste occasioni, il presidente del CORST rispose testualmente: «è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago, che uno psicologo clinico ottenga il permesso di ricevere un training psicoanalitico». Questo verdetto biblico comunque non si rivelò tale dopo che fu fatta la denuncia, perché allora vari psicologi furono subito accettati dal CORST. La dott.sa Desmond cercò quindi anche lei di approfittare di quello che l'allora presidente dell'American, Homer Curtis, chiamò "fattore catalitico" della denuncia, e fece nuovamente domanda, ma questa volta senza apparente ragione la richiesta fu "differita". La sua carriera professionale fu bloccata, anche perché alla dr.ssa Desmond nel frattempo era stato richiesto di firmare, come di regola in questi casi, un "Voto di Fede" (Pledge of Faith) secondo il quale si impegnava a non praticare la psicoanalisi fino a che non avesse terminato il training completo.

Arnold Schneider si laureò in psicologia a Boston e poi fece lavoro clinico in vari ospedali e università di medicina. Interessato in psicoanalisi, nel 1982 si trasferì a Topeka, nel Kansas, attratto dalla prestigiosa Menninger Foundation, dove scrisse vari articoli di tecnica psicoanalitica e lavorò come supervisore di specializzandi in psichiatria e psicologia clinica. Una delle ragioni per cui si era trasferito a Topeka era il fatto che il Topeka Psychoanalytic Institute godeva la fama di essere più liberale nell'accogliere psicologi per il training completo in psicoanalisi. Fatto sta che egli fu accettato, ma solo per il training parziale, per l'accettazione del quale gli fu richiesto di firmare il solito "Voto di Fede" che dice testualmente: «Io sottoscritto prometto di non condurre trattamenti psicoanalitici né di qualificarmi come uno che pratica la psicoanalisi fino a che non ne sarò autorizzato da un Istituto riconosciuto dall'American» (questo documento fu poi inserito negli atti processuali). Il dr. Schneider fu valutato a Topeka come un candidato eccezionale. Ecco alcune delle valutazioni che ricevette dall'Education Committee nel 1983: «I suoi istruttori uniformemente hanno apprezzato la sua acuta intelligenza, introspezione, interesse nella ricerca, calore e creatività. Appare molto dotato nei campi della psicologia e della psicoanalisi». Nell'anno successivo si espressero in questi termini: «Lei è un candidato capace e ricco di rare doti, colto, creativo, pieno di dedizione, e con una capacità non comune di afferrare i problemi teorici. Ha sempre illuminato le discussioni e mostrato una sensibilità ai problemi sia teorici che clinici. Meritano di essere menzionate le sue letture che hanno ecceduto quelle consigliate. Offriamo alte raccomandazioni per il suo lavoro e speriamo che riescano gli sforzi che sta facendo per ottenere il permesso dall'American». Tuttavia il dr. Schneider non ottenne il permesso perché era soprattutto un clinico e non un ricercatore; la sua carriera fu danneggiata in vari modi per il fatto che non aveva fatto un training completo, e persino il suo livello salariale risultò inferiore agli altri per questo motivo, come testimoniano i registri dell'Economato della Menninger Foundation in cui si legge che gli scatti dello stipendio dipendono anche del conseguimento del training psicoanalitico completo. Al processo il dr. Schneider testimoniò anche che dopo che esporse denuncia molti suoi colleghi che erano membri dell'American si rifiutarono di parlare con lui, rendendogli la vita impossibile al lavoro, tanto che preferì licenziarsi. Quando uscì la cosiddetta "proposta Gaskill" (una nuova regola dell'American, introdotta subito dopo che fu fatta la denuncia, volta ad allargare le possibilità ai non medici di accedere al traning), all'idea di doversi sottoporre all'umiliante processo di intraprendere un'altra analisi didattica (con tutte le spese che ciò comportava), egli decise di rinunciare del tutto, e si limitò a esporre denuncia.

Toni Bernay si laureò in psicologia nel 1976 a Los Angeles dove lavorò per come psicoterapeuta, scrisse vari articoli, un libro, tenne conferenze, ecc. Fece domanda al Southern California Psychoanalytic Institute e al Los Angeles Psychoanalytic Institute ma fu respinta da entrambi con la sola motivazione che era una psicologa clinica. Ripresentò entrambe le domande tre anni dopo e fu nuovamente respinta. Nel 1987 cercò di approfittare della "proposta Gaskill", e ritentò, ma inutilmente, e senza ricevere una motivazione. Insistette per ottenere una dichiarazione che motivasse la sua bocciatura, e le fu finalmente risposto che lei era ormai un "prodotto finito" come professionista, per cui non poteva essere formata. Lei ripresentò la domanda, sottoponendosi a una ennesima serie di umilianti interviste e presentazioni di documenti, ma neanche questa volta riuscì: la sua domanda fu "differita" senza motivo. Fu a questo punto che la dott.sa Bernay decise di fare denuncia.

Ma questi psicologi esattamente chi hanno denunciato, su che base hanno iniziato un'azione legale, e quali sono state le loro accuse? [fine della prima parte (n. 53/1990) e inizio della seconda parte (n. 54/1009]

Gli imputati

Sono state denunciate quattro istituzioni, e precisamente: la International Psychoanalytic Association (IPA), l'American Psychoanalytic Association (detta l'American), e due dei 28 istituti allora affiliati all'American entrambi con sede a New York, e precisamente il New York Psychoanalytic Institute (comunemente chiamato il "New York") e il Columbia University Center for Psychoanalytic Training and Research (il "Columbia"). I motivi per cui sono stati scelti questi due istituti dipendevano probabilmente sia dal fatto che erano tra i più rigidi nell'opposizione agli psicologi (soprattutto il "Columbia"), sia dal fatto che entrambi hanno sede legale a New York, luogo dove è stata depositata la denuncia. Vediamo brevemente alcune caratteristiche di queste quattro istituzioni.

L'IPA è la storica associazione fondata ai tempi di Freud. Fu "incorporata" in Svizzera, ha sede a Londra, e i capitali in dollari negli Stati Uniti. Per statuto le riunioni si tengono nel paese del Presidente, il quale, essendo il più delle volte americano, le convoca negli Stati Uniti. L'American infatti ha sempre avuto una influenza preponderante nell'IPA, non foss'altro che per l'alto numero di membri statunitensi: negli anni 1950 i 2/3 dei membri erano americani, e negli anni 1980, a causa della rapida crescita soprattutto in Argentina, Brasile, Francia, Italia e Germania, e della contemporanea crescita zero in USA, i membri dell'American erano pur sempre il 33% dei circa 6.500 membri dell'IPA, quindi avevano una notevole forza.

L'American è l'associazione nazionale USA affiliata all'IPA. Ma, per la posizione di potere di cui ho accennato, godeva di un privilegio particolare rispetto alle associazioni di tutti gli altri paesi del mondo: esisteva infatti un accordo, valido fin dal 1938, che le concedeva la qualifica di Regional Association, cioè di poter controllare tutte le affiliazioni all'IPA provenienti dagli Stati Uniti. In altre parole, se in America un istituto psicoanalitico indipendente voleva fare domanda all'IPA, doveva prima essere a sua volta affiliato all'American. Alla fine degli anni 1980 contava oggi circa 3.500 membri, dei quali il 98,5% erano medici; in 30 anni solo 140 psicologi sono stati ammessi al training (una media di meno di 5 all'anno), mentre di medici ne sono stati accettati migliaia.

Il "New York" è uno dei più antichi e più prestigiosi istituti del mondo, del quale hanno fatto parte figure storiche quali Heinz Hartmann, Margaret Mahler, Edith Jacobson, Charles Brenner, Jacob Arlow, Leo Stone, Kurt Eissler, e tanti altri. In quasi 30 anni, dal 1957 al 1985, ha accettato solo uno psicologo. è un luogo in cui le ambizioni di potere sono massime, poiché è probabilmente il centro più influente della psicoanalisi mondiale. Qui non a caso le animosità tra fazioni opposte sono state così forti che non di rado sono avvenuti litigi e in certi casi anche denunce. Per fare un esempio, pochi anni fa lo scontro tra la base e l'oligarchia, cioè tra gli analisti regolari e i didatti, è stato così forte che nel marzo 1983 l'American ha dovuto fare un sopralluogo per supervisionare l'istituto e ha redatto un rapporto. Ma questo rapporto non fu mostrato ai membri perché trattenuto da un'apposita commissione dell'istituto con la motivazione che conteneva delle inesattezze. Le proteste furono così vivaci che il rapporto fu poi distribuito, ma un anno dopo e in una seconda versione riveduta. Una giornalista chiese di vederlo per scrivere un articolo, ma le furono mostrate solo 3 delle 51 pagine del rapporto. La stessa giornalista cercò di intervistare vari analisti su questo fatto ma ricevette un rifiuto dalla maggior parte di essi con la motivazione che "ciò avrebbe danneggiato il lavoro coi loro pazienti". Non si dimentichi che negli istituti psicoanalitici è sempre stato molto difficile muovere delle critiche all'istituzione: troppe volte infatti le proteste sono state etichettate come "transfert" o "Edipo non risolto", secondo una perversa logica circolare che serve a mantenere gli equilibri di potere minacciando gli avanzamenti di carriera a coloro che esprimono posizioni diverse.

Il "Columbia", un altro prestigioso istituto di New York, vanta il primato di non aver mai voluto accettare uno psicologo nella sua storia. Neppure dopo la "proposta Gaskill", tesa a favorire l'iscrizione dei non medici, il "Columbia" ha voluto sponsorizzare alcun psicologo, e questo, come affermò un didatta del "Columbia" (Robert Michels, che dirigeva anche il Dipartimento di Psichiatria della Cornell University), «nonostante il fatto che alcuni di essi fossero superiori alla media dei normali candidati».

L'accusa

Essa fu la seguente: le quattro organizzazioni imputate hanno violato lo Sherman Antitrust Act, cioè la legge che vi è negli Stati Uniti contro i monopoli. In pratica avrebbero monopolizzato il training, e quindi la pratica della psicoanalisi, operando un boicottaggio di gruppo sugli psicologi allo scopo di mantenere basso il numero di terapeuti e quindi alte le tariffe delle sedute psicoanalitiche. In particolare, le accuse sono state di quattro tipi: 1) la regola secondo la quale i candidati per il training dovevano essere medici era ingiustamente discriminatoria nei confronti dei non medici; 2) l'American proibiva ai suoi membri di insegnare la psicoanalisi al di fuori dei suoi istituti; 3) le suddette quattro organizzazioni scoraggiavano i suoi membri dall'inviare pazienti a psicoanalisti qualificati che non erano medici; 4) l'American scoraggiava vari istituti di training internazionali dall'accettare l'iscrizione di non medici. Nel loro complesso, questi quattro tipi di comportamenti sono stati intrapresi a scopo "anticompetitivo", e hanno avuto l'effetto di elevare artificialmente i prezzi dei servizi psicoanalitici.

La parte civile aveva fatto le seguenti richieste: 1) che gli imputati cessassero tutte le attività discriminatorie e anticompetitive; 2) un risarcimento economico pari a tre volte il danno subito; 3) che la Corte certificasse questo caso come una class action, vale a dire riguardante una classe omogenea di psicologi da loro stimata come formata da almeno 2.000 membri. Questo numero corrisponde a coloro che avrebbero potuto entrare nel training psicoanalitico se non gli fosse stato impedito, e i quali quindi avrebbero guadagnato una determinata cifra di denaro in più per ogni ora di lavoro, e avrebbero avuto anche un maggior numero di pazienti. Gli psicologi hanno chiesto di stimare la cifra perduta da ognuno, moltiplicare per 2.000 e poi triplicare, e così calcolare il risarcimento richiesto: una quantità di denaro di proporzioni inimmaginabili. La parte civile ha chiesto inoltre di aver accesso a tutti i documenti rilevanti dell'American riguardo a questo problema, cioè le domande di iscrizione agli istituti, le motivazioni dei rifiuti, i verbali delle riunioni, ecc. (dopo varie discussioni sul pericolo della rottura del segreto professionale, l'American ha concesso di vedere parte dei documenti).

La linea difensiva dell'American è stata inizialmente quella di sostenere che la legge antitrust qui non era applicabile, in quanto non si trattava di una questione commerciale ma "educativa e terapeutica". Ma il 4 aprile 1986 il giudice Keenan della Corte Federale di New York affermò che a quel punto dell'indagine non si poteva assolutamente escludere che la legge antitrust non potesse essere applicata, anzi, che «vi erano seri sospetti che dietro le pratiche degli imputati vi fossero dei motivi commerciali», per cui la denuncia non fu archiviata. L'American lentamente si rese conto che la sua situazione era molto difficile, e tentò un negoziato per interrompere l'azione legale tramite un compromesso monetario. Vi furono vari incontri tra l'American, l'IPA e gli psicologi, ma questi ultimi (consigliati dal loro legale Clifford Stromberg) si convinsero di avere delle grosse chances di vittoria, per cui rifiutarono per anni qualsiasi somma di denaro per ritirare la denuncia.

L'American allora si mosse in varie direzioni. Innanzitutto decise di contribuire in gran parte alle spese processuali dell'IPA (il 60%, per l'esattezza), in quanto le responsabilità di questa causa legale erano praticamente tutte dell'American, che aveva coinvolto l'IPA in questa faccenda. Vi era infatti da tempo una certa animosità dell'IPA nei confronti dell'American a questo riguardo, ed alcuni paesi avevano minacciato una rottura dell'IPA a causa dei danni economici per questa denuncia. Oltretutto, essendo i fondi dell'IPA in dollari, vi è una grossa disparità tra i membri di paesi diversi: se le quote di iscrizione all'IPA sono un centinaio di dollari all'anno, e quindi paragonabili al valore di una seduta per un americano, esse sono molto care per esempio in India, dove le sedute costano pochi dollari l'una. Non a caso le quote di iscrizione all'American sono enormemente più alte di quelle dell'IPA. Comunque l'American ha dovuto sostenere un notevole sforzo finanziario per far fronte alle spese processuali, che in America sono altissime.

In secondo luogo, l'American decise di proporre all'IPA (la cosa fu fatta formalmente al business meeting dell'IPA del luglio 1987 a Montreal) di abolire la vecchia regola del 1938 secondo la quale l'American era l'unica organizzazione legittimata ad accreditare gli istituti USA che si vogliono affiliare all'IPA. Questa modifica fu fatta apparentemente senza alcuna relazione con la denuncia, ma la stessa Irene Auletta, Direttore Esecutivo dell'IPA di Londra, ammise che le modifiche di Montreal erano diretta conseguenza della azione legale. L'IPA tra l'altro era da tempo molto desiderosa di abolire questo vecchio accordo. Non va dimenticato comunque che, a causa della forte influenza dell'American all'interno dell'IPA di cui dicevo prima, i requisiti per l'affiliazione all'IPA sono praticamente gli stessi dell'American, a volte espressi anche con le stesse parole. Fatto sta che dopo la decisione di Montreal, che fu votata a larga maggioranza (al referendum per posta risposero circa 1.000 membri dell'IPA sui 4.000 aventi diritto al voto, che si può considerare un record di risposte, e circa il 90% fu in favore della modifica dello statuto), già ben 23 istituti americani fecero domanda all'IPA: 13 a New York, 5 in California, 1 a Denver, Chicago, Boston, in Michigan, e in Florida. Al Congresso dell'IPA di Roma del 1989 già 3 di questi istituti sono stati ufficialmente accettati, e gli altri restano in attesa. Inoltre molti altri importanti istituti hanno discusso in modo informale con alti esponenti dell'IPA sulla eventualità di presentare domanda di ammissione o meno; in genere, le questioni più spinose sono il requisito del numero minimo di ore settimanali di analisi (che per l'IPA erano quattro), e la valutazione del curriculum di tutti gli analisti didatti, da alcuni percepita come umiliante. Uno di questi istituti indipendenti, il William Alanson White di New York, che è anche uno die più grossi e prestigiosi, formato prevalentemente da psicologi ed erede della tradizione di Sullivan e di Fromm, alla fine decise di non fare domanda di ammissione all'IPA e di ignorare questa questione di appartenenza, segno questo della forza e dell'autonomia di questo istituto.

Infine, l'American decise, di sua iniziativa, anche di aprire maggiormente il training agli psicologi. Ciò apparì a molti come una ammissione di colpa o un segno di debolezza, dato che contraddiceva il precedente rigore sul ruolo medico. Finalmente infatti nel marzo 1986 fu indetto un referendum nazionale sulla famosa "proposta Gaskill", che appunto proponeva una maggiore apertura del training ai non medici, la quale passò con il 68% dei voti. Nel dicembre dello stesso anno il Board on Professional Standards ha votato all'unanimità il piano presentato dalla neoistituita commissione chiamata Committee on Non-Medical Clinical Training (CNMCT), la quale appunto seguì le direttive della vecchia "proposta Gaskill" per facilitare l'accesso al training per gli psicologi.

Le testimonianze

Ma vediamo più in dettaglio qual'è stato il dibattito processuale. Per documentarmi meglio mi sono fatto dare da Bryant Welch tutta la documentazione inerente alla richiesta fatta il 14 ottobre 1987 al Tribunale di New York per ottenere la certificazione di class action, cioè tutte le testimonianze e le argomentazioni a sostegno della tesi che questa causa riguardava non solo quattro psicologi, ma un'intera "classe" di individui con gli stessi interessi, tutti psicologi danneggiati dalle istituzioni psicoanalitiche, stimati essere in un numero di circa 2.000 (secondo altre stime, in realtà 5.000). è impossibile qui riassumere le più di 100 pagine della documentazione, per cui riporterò, un po' a caso, alcune delle testimonianze che mi hanno colpito.

Innanzitutto, tra i testimoni vi sono alcuni dei più importanti psicoanalisti americani con incarichi di responsabilità in varie istituzioni. Tra questi figurano Edward Joseph e Robert Wallerstein (Presidenti dell'IPA e dell'American), Adam Limentani (Presidente dell'IPA), Edward Weinshel (Vice-Presidente dell'IPA), Arnold Cooper, Homer Curtis e Richard Simons (Presidenti dell'American), Bernard Brodsky, Kenneth Calder e George Gross (Presidenti del "New York"), Fred Pine (uno psicologo del "New York"), Ethel Person (Presidente del "Columbia"), Robert Michels (didatta del "Columbia"), Carl Davis, Alan Eisnitz, Herbert Gaskill, Shelley Orgel e Vann Spruiell (membri di varie commissioni dell'American), e così via. Come testimoni figurano anche i quattro psicologi che hanno esposto denuncia, Murray Meisels (Presidente della Division 39 [Psicoanalisi] dell'APA), e altri.

Gli psicologi sono entrati in possesso di molti verbali delle riunioni ad alto livello delle commissioni di varie istituzioni psicoanalitiche, dove, soprattutto prima che fosse fatta la denuncia, molti autorevoli analisti candidamente dicevano come stavano le cose, in questo modo come si suol dire "dandosi la zappa sui piedi" e contraddicendo apertamente le affermazioni che essi stessi facevano pubblicamente. Vari imputati ad esempio (cito a caso) «continuamente si lamentavano della diminuzione delle domande di ammissione ai loro istituti, e contemporaneamente ammettevano che gli psicologi potevano essere formati bene in psicoanalisi e condurre ottime analisi per il pubblico, e che essi potevano essere un grande pool da cui trarre validi candidati» (American). Ma il principale motivo per non allargare la psicoanalisi agli psicologi «era la competizione economica: vi sono troppo pochi pazienti ora; i non medici potrebbero adottare tariffe più basse» (Vann Spruiell). E inoltre: «Come aspetto positivo, vi è un alto numero di individui non medici molto qualificati che potrebbero diventare eccellenti analisti. Sarebbe un pubblico servizio formarli. Ma come aspetto negativo, la nostra alleanza medica e psichiatrica potrebbe essere messa in pericolo, e la potenziale competizione economica renderebbe tale cambiamento nell'Associazione inopportuno in questo momento» (American); «Dobbiamo tenere la popolazione dei pazienti tutta per noi, per i medici» (Wallerstein); «Abbiamo paura della marea, dell'alluvioneğ (Curtis); «Gli psicologi potrebbero fare tariffe più basse, e dato che molti di loro sono ottimi analisti, il nostro campo ne verrebbe arricchito, ma a causa di una competizione economica è preferibile non accettarli» (Calder); e così via.

La versione ufficiale ovviamente era ben diversa, e cioè che «la psicoanalisi richiedeva una formazione medica, e che la politica di esclusione degli psicologi era necessaria e saggia»; ma dopo, sotto giuramento, molti ammisero che «la formazione medica non era assolutamente necessaria, che era giusto aprire agli psicologi, e che la restrizione in realtà era illegale».

Impressionanti sono anche le esplicite prese di posizione contro l'insegnamento fuori dagli istituti. Prima che gli psicologi facessero causa, molti psicoanalisti si erano espressi chiaramente al riguardo, ed erano state anche promulgate regole precise dall'American, ma dopo, quando l'illegalità di questi comportamenti monopolistici era diventata sempre più evidente, essi cessarono di esprimersi in questi termini, e alcuni addirittura negarono che fossero mai esistiti dei comportamenti anticompetitivi, o tutt'al più dissero che si trattava solo di una persuasione morale (moral suasion), cioè usarono un eufemismo. In realtà le cose andarono diversamente, perché sono state accumulate prove schiaccianti sui ricatti materiali, sulle minacce di espulsione, ecc., se certi membri continuavano a insegnare fuori dagli istituti. Solo un esempio: alla Detroit Psychoanalytic Society alcuni membri, che erano stati invitati a insegnare in un istituto indipendente, furono ammoniti e gli fu richiesto di smettere, ma essi non risposero e continuarono a insegnare; allora il Presidente dell'American propose di istituire una commissione che procedesse alla "deaffiliazione" della Detroit Psychoanalytic Society, cioè all'espulsione dell'intero gruppo. Non si deve dimenticare che in molte zone, se si esclude New York e altre grosse città, le opportunità di ricevere un training psicoanalitico al di fuori dell'American sono veramente nulle, per cui in questi luoghi la diffusione dell'insegnamento psicoanalitico è stata veramente strangolata. Meisels così testimoniò riguardo alla sua difficoltà a ottenere l'insegnamento di analisti dell'American per un istituto indipendente: «Jack Novick insegnò da noi per circa un anno, poi mi disse che fu convocato da un analista anziano della Michigan Psychoanalytic Society che lo interrogò sul perché lui insegnava da noi. L'anno dopo si rifiutò di continuare a insegnare da noi, e mi disse che era stata discussa la sua nomina ad analista didatta, e che fu bocciato perché quello stesso analista anziano aveva detto alla commissione per le nomine di bocciarlo perché insegnava da noi». Altri due prominenti analisti dell'American furono espulsi per "training non autorizzato". Vigeva un sistema non dichiarato di intimidazione: ai membri che violavano le regole non venivano più inviati pazienti, venivano tolti dei privilegi e bloccata la carriera verso la nomina ad analista didatta.

Di fatto lo statuto dell'IPA proibisce ai propri membri di fornire training psicoanalitico a istituti che non siano riconosciuti dall'IPA stessa; il training degli istituti indipendenti infatti viene spesso chiamato, poco eufemisticamente, "training pirata" (bootleg training). Adam Limentani, Presidente dell'IPA, in un memorandum del 16 novembre 1984 scrisse: «Dobbiamo fare tutti molta attenzione nell'accettare inviti a visitare organizzazioni che notoriamente in vari paesi conducono un training parallelo o che si definiscono "psicoanalitiche" nel nome o nelle loro dichiarazioni di intenti, ma che non appartengono all'IPA. Molte di queste organizzazioni creano difficili problemi alle società psicoanalitiche locali a noi affiliate». Vi sono state quindi regole precise che vietavano la formazione fuori dall'American, tutt'altro che "persuasione morale": fin dal 1954, e poi molte altre volte, l'American ha pubblicato regole secondo le quali «non appartiene alle responsabilità di un membro dell'American formare o supervisionare un individuo per la pratica della terapia psicoanalitica eccetto che sotto i diretti auspici di una istituzione di training riconosciuta da questa associazione». Arnold Cooper, nel suo ruolo di Presidente dell'American, all'incontro del Comitato esecutivo del 1982 addirittura affermò che tutto questo non dovrebbe essere scritto nero su bianco «in un codice deontologico a causa delle implicazioni legali», sebbene egli fosse d'accordo che «questo era un principio che i membri dovevano osservare in modo estremamente serio»; nel 1983 l'American poi incluse nel codice deontologico «la terminologia più forte che gli avvocati giudicarono che potesse essere scritta senza rischiare di violare le regole di mercato o le leggi antitrust».

L'esito del processo

Nell'ottobre 1988, dopo più di tre anni di processo e cinque mesi di negoziati, e dopo aver buttato via centinaia di migliaia di dollari (e questo in faccia alla grave crisi economica degli istituti, alla cronica mancanza di fondi per la ricerca, ecc.), finalmente le due parti raggiunsero un accordo. Questo fu firmato e presentato alla Corte Federale di New York, che il 17 aprile 1989 lo approvò, avendolo giudicato non lesivo degli interessi della classe degli psicologi. Gli imputati firmarono questo accordo solo a patto di non risarcire alcun danno agli psicologi (a parte, come si è detto, i 650.000 dollari per spese processuali), di non essere nuovamente denunciati in futuro per eventuali torti fatti in passato ai danni degli psicologi collegati a questa causa, e che l'accordo non costituisse in se stesso una ammissione di colpa. In cambio, l'IPA si è impegnata ad accettare immediatamente tutti gli "psicologi qualificati", per i quali sarebbe stata adottata una regola di "equivalenza funzionale" degli standard della formazione. Vale a dire che avrebbero potuto entrare nell'IPA anche quegli psicologi che si erano formati presso istituti indipendenti, con una analisi didattica fatta con un analista non membro dell'IPA e anche a meno di 4 volte alla settimana, cioè 3, e a patto che la formazione sia avvenuta in un certo periodo di tempo e con certi requisiti (una volta accettati dall'IPA però avrebbero dovuto adeguarsi alle 4 sedute settimanali). Viene permessa una diversità teorica, a patto che possa rientrare entro il campo "freudiano", il che, viene detto ufficialmente, comprende i sullivaniani (ma non gli junghiani e altri indirizzi genericamente intesi come fuori dal campo freudiano). Inoltre i membri dell'American avranno libertà di insegnamento, ad esempio in istituti diretti da psicologi, anche fondati in futuro, senza per questo subire ritorsioni o minacce. L'American e l'IPA si sono impegnate a garantire per iscritto a tutti i membri questa loro nuova libertà.

L'American si è poi impegnata ad accettare in modo non discriminatorio gli psicologi per il training, e precisamente per un minimo del 38% delle nuove iscrizioni per anno per almeno i prossimi 10 anni. Per comprendere come mai ci si è accordati su questa percentuale minima, bisogna ricordare che prima della "proposta Gaskill" era permesso l'accesso a psicologi qualificati, in genere a non più di uno per istituto. Nel 1987, al primo anno di applicazione della "proposta Gaskill" (che fu approvata solo dopo che fu fatta denuncia, e quindi anche per smorzare le accuse della parte civile al processo) furono accettati ben il 28% di non medici, a cui si devono aggiungere altri 10% che rientravano nelle categorie di "ricercatori non medici" e "amministratori collocati in luoghi strategici" (strategically placed administrators). Così fu scelta la quota di non medici di quell'anno, il 38%, come percentuale minima per gli psicologi; si decise di chiedere questa percentuale per un minimo di 10 anni perché si calcola che allora in molti istituti vi saranno almeno il 50% di candidati psicologi ed esisteranno parecchi istituti diretti da psicologi.

Infine, gli imputati si sono impegnati a non perseguitare i quattro rappresentanti della parte civile e tutti gli psicologi nella loro carriera psicoanalitica e negli istituti ai quali eventualmente faranno domanda. Per garantire ciò, l'American si è impegnata a nominare un rappresentante che seguirà l'iter burocratico delle domande e il curriculum formativo, per assicurarsi che non vi siano ritorsioni.

La situazione italiana

Vorrei fare ora alcuni commenti sulla situazione in Italia, peraltro solo accennati anche perché essa è ampiamente conosciuta. Da noi non vi è una discriminazione nei confronti degli psicologi simile a quella che vi è stata negli Stati Uniti; nella Società Psicoanalitica Italiana (SPI) vigeva comunque la regola che gli psicologi non dovessero superare il 35%, il che è pur sempre una discriminazione (prima questa percentuale era addirittura del 25%). In passato era comunque difficile per chiunque, medico o psicologo che fosse, entrare nella SPI, il che può far sorgere il sospetto che vi fosse un interesse a tener basso il numero di analisti per motivi di monopolistici. Chi faceva domanda alla SPI doveva venire selezionato tra molti candidati per estrarre i tre o quattro fortunati con alcuni brevi colloqui, peraltro estremamente inaffidabili (per una dettagliata critica alla tecnica di selezione dei candidati negli istituti psicoanalitici, vedi Castiello d'Antonio, 2008). Il ristretto numero di posti poteva essere motivato dal fatto che vi erano pochi analisti didatti. Ma non si comprende come mai, con tutti i professionisti esperti e preparati disponibili all'interno della SPI, per tanti anni si è voluto tenere basso il numero dei didatti: in una città come Firenze erano tre, a Bologna due, e solo dal 1986 sono stati leggermente aumentati per raggiungere il numero di cinque. Questi sono fatti che parlano da sé.

Pare comunque che questa politica elitaria alla lunga non abbia pagato, nel senso che in varie città italiane si sono formate associazioni di psicoanalisti indipendenti che offrono ottime opportunità di formazione: si pensi solo agli istituti psicoanalitici italiani appartenenti all'International Federation of Psychoanalytic Societies (IFPS), che è una organizzazione internazionale che raccoglie istituti psicoanalitici indipendenti dall'IPA, o alla Organizzazione di Psicoanalisti Italiani - Federazione e Registro (OPIFeR). La crescita, sia in Italia che in vari altri paesi, di tanti gruppi qualificati al di fuori dell'IPA è un effetto collaterale di questa politica monopolistica, un effetto che, quando raggiunse certe proporzioni, incominciò a preoccupare i vertici dell'IPA poiché la rendeva sempre meno egemone. Ad esempio Kernberg, quando era Presidente dell'IPA, decise di adottare una politica completamente diversa, e precisamente quella di favorire la domanda di ammissione all'IPA da parte di tutti i gruppi indipendenti qualificati che esistevano nei vari paesi. Dato che da tanti anni ho con lui un rapporto di amicizia, mi disse ad esempio di spargere la voce in Italia in questo senso, ma senza dire che questa indicazione proveniva da lui se non dopo il 42° congresso IPA di Nizza del 2001, in cui terminava il suo mandato, poiché non voleva rischiare che fossero minati gli sforzi che stava facendo per far entrare nell'IPA la seconda associazione tedesca (la Deutsche Psychoanalytische Gesellschaft [DPG]), che dai tempi della seconda guerra mondiale era rimasta esclusa dall'IPA (la DPG, come è noto, si era compromessa col regime nazista). Kernberg riteneva che i tempi fossero maturi per questa riconciliazione. Questa impresa gli riuscì, ed è ovvio che questa politica illuminata di Kernberg - che è un autore che si è sempre battuto per migliorare i difetti del training psicoanalitico scrivendo importanti contributi critici (vedi ad esempio Kernberg, 1986, 1996, 1998, 2001, 2006, 2007) - può essere interpretata anche come una forma di "cooptazione", un modo cioè per evitare il rischio che in certi paesi gli istituti affiliati all'IPA diventassero minoritari anche in termini di prestigio e di influenza.

Kernberg riteneva, a mio parere giustamente, che non fosse utile che in certi paesi vi fosse una sola associazione affiliata all'IPA, ma che fosse preferibile una competizione tra più associazioni indipendenti tra loro. In Italia, come sappiamo, la SPI dal 1992 ha cessato di essere l'unica associazione affiliata all'IPA poiché alcuni analisti (tra cui alcune figure di spicco, ad esempio Emilio Servadio, Simona Argentieri, Jorge Canestri, Jacqueline Amati Mehler, ecc. - quest'ultima aveva uno stretto rapporto di amicizia con Joseph Sandler, allora presidente dell'IPA) si dimisero dalla SPI e fecero domanda all'IPA di fondare una società separata, che chiamarono Associazione Italiana di Psicoanalisi (AIPsi): l'occasione di questa scissione fu lo scandalo, di cui parlarono anche i giornali, di un analista didatta di Roma (Carlo Traversa) che aveva avuto rapporti sessuali con una o più pazienti in analisi didattica. Ma secondo alcuni questo fu solo il pretesto (scandali del genere infatti sono sempre esistiti) utilizzato da alcuni analisti per fondare un proprio gruppo in cui avere quei ruoli di prestigio che non riuscivano ad avere nella SPI, dato che, pur essendo bravi ed esperti, non riuscivano mai ad essere nominati didatti a causa di equilibri interni di potere.

Per tornare alle attività anticompetitive delle società psicoanalitiche, è stato abbastanza grave, soprattutto in passato, il comportamento della SPI nei confronti di esperienze di formazione esterne alla propria associazione. Vi sono stati molti esempi, anche in Italia, simili a quelli degli Stati Uniti in cui veniva proibito di insegnare o di fare supervisione a gruppi indipendenti. Pier Francesco Galli (fondatore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane), che ha vissuto in prima persona gli sviluppi della psicoterapia in Italia fin dagli anni 1950-60, potrebbe raccontare vari episodi al riguardo (per una preziosa documentazione sul modo di funzionamento di certe società psicoanalitiche, vedi anche Redazione di Psicoterapia e Scienze Umane, 1975; Bolko & Rothschild, 2006). Tantissimi sono gli analisti della SPI che hanno dovuto interrompere la loro attività di insegnamento in gruppi esterni alla SPI a causa della più o meno velata minaccia che la loro nomina a didatti sarebbe stata bloccata, e tuttora alcuni devono rinunciare a tenere docenze in scuole di psicoterapia riconosciute dal Ministero, a volte confessando apertamente i motivi di questa loro sofferta rinuncia. Inutile dire quanto questi comportamenti anticompetitivi danneggino la diffusione della formazione in psicoterapia. In alcuni casi di episodi anticom­petitivi vi sono anche documentazioni scritte (vedi ad esempio Migone, 1994a, p. 56), che però in genere vengono evitate, preferendo comunicazioni orali per non lasciare prove della infra­zione degli accordi che l'IPA si è ufficialmente impegnata a rispettare a conclusione del processo (chi disponesse di prove documentabili riguardo a manovre monopolistiche, dovrebbe subito farle avere all'American Psychological Association, 750 First Street, NE, Washington, DC 20002-4242, USA, tel. 800-3742721, 202-336-5500, di cui Bryant L. Welch era Senior Policy Advisor. Il suo attuale indirizzo è il seguente: Bryant L. Welch, J.D., Ph.D., 19 Shelter Cove Lane, Suite 204, Hilton Head Island, SC 29928, USA, tel. 843-6862260, fax 843-3419331).

Anche altre prese di posizione della SPI nei confronti della Legge n. 56/1989 sull'ordinamento della professione di psicologo e della pratica della psicoterapia possono avere avuto un significato monopolistico. Ad esempio è stata tentata l'operazione da parte di alcuni esponenti di primo piano della SPI (per la precisione da Glauco Carloni, quando era presidente) di non far rientrare la psicoanalisi nella legge sulla regolamentazione della psicoterapia, differenziando la psicoanalisi (che servirebbe a "conoscere") dalla psicoterapia (che servirebbe invece a "curare"): ciò potrebbe aver avuto lo scopo di ritagliare uno spazio per gli psicoanalisti della Spi nel quale potessero continuare indisturbati, senza la libera competizione dei tanti e validi psicoanalisti italiani non membri della SPI, a fornire servizi, tra cui soprattutto quelli per il grosso mercato della formazione dei molti giovani alla ricerca di una identità professionale (come è noto, quello della formazione rappresenta ormai il mercato principale della psicoanalisi, e questa è un'altra peculiarità di cui sarebbe interessante parlare). La contraddizione è evidente: da una parte si dà importanza al ruolo medico, tanto che agli psicologi è permesso essere solo una minoranza, poi si afferma che il compito degli psicoanalisti non è quello di curare (attività tipicamente medica), ma solo di "conoscere"! Questa iniziale presa di posizione, con buona pace delle improvvisate razionalizzazioni "teoriche" che erano state avanzate, dovette subito rientrare e si ammise che la psicoanalisi era anche una psicoterapia (se non altro perché si accorsero che gli "psicoanalisti" avrebbero dovuto fare fatture con IVA, e anche perché molti potenziali candidati non avrebbero fatto domanda alla SPI poiché non si sarebbero sentiti tranquilli senza la qualifica di "psicoterapeuta"). Ma quella iniziale incertezza fu fatale per la SPI, poiché fece slittare la domanda al Ministero quel tanto che bastava per entrare nel periodo di sospensione di attività della Commissione ministeriale causato dai noti pareri negativi del Consiglio di Stato (vedi Borsci, 2005), per cui la domanda poté essere fatta solo vari anni dopo, col risultato che, in modo imbarazzante, la SPI fu riconosciuta molto tardi rispetto ad altre scuole, il 29 gennaio 2001, ben dodici anni dopo l'approvazione della Legge 56/1989.

Riguardo al problema oggi più che mai attuale della differenza tra "psicoanalisi" e "psicoterapia psicoanalitica" si può fare un ultimo commento. Nel movimento psicoanalitico vi è sempre stata la tendenza a separare nettamente queste due pratiche professionali, con ovvie implicazioni di mercato. In Italia è stata addirittura fondata una Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (SIPP), dove la SPI formava professionisti che però erano all'esterno della stessa SPI (erano una sorta di "ascari", come una volta li definì Galli [vedi a questo proposito Erba, Galli et al., 2005]). Ad un certo punto però, a metà degli anni 1990, comprensibilmente la SIPP decise di affrancarsi dalla SPI e di utilizzare anche i propri membri a scopo formativo - e non solo i membri della SPI, dato che questa era la regola - ma allora la SPI, incredibilmente, decise di ritirarsi completamente abbandonando del tutto la SIPP, con un ovvio danno per entrambe le parti!). Molte teorizzazioni sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia hanno avuto forti componenti ideologiche, oltre che scientifiche, e anch'esse in certi casi sono servite agli psicoanalisti a scopo monopolistico.

Ma questo problema della differenza tra "psicoanalisi" e "psicoterapia psicoanalitica" mi offre lo spunto per concludere queste mie riflessioni parlando più in generale di questa e di altre malcelate operazioni anticompetitive.

Quattro esempi di operazioni monopolistiche

Per allargare il discorso dalla questione del processo degli psicologi americani contro gli psicoanalisti medici alla questione più generale - e per certi versi più interessante - delle pratiche anticompetitive nel nostro campo, vorrei concludere elencando quattro esempi di operazioni monopolistiche comunemente adottate.

Una prima operazione è quella di associare, con varie manovre di propaganda culturale, il marchio "psicoanalisi" solo a certe associazioni psicoanalitiche, di modo che i membri di altre associazioni o i terapeuti indipendenti vengano chiamati in altro modo (ad esempio usando la nota giaculatoria "psicoterapeuti ad orientamento psicoanalitico"). Secondo questa logica, sarebbe psicoanalista solo chi è iscritto ad una determinata associazione psicoanalitica "ufficiale" (in genere una associazione affiliata all'IPA). è evidente che imboccare questa strada significa negare in modo definitivo lo statuto scientifico della disciplina, dato che implicitamente si dichiara che non vi sono altri modi per definire la propria identità se non con la membership. Questa logica incredibilmente viene ancora seguita da alcuni, e ricorda quell'altra patetica logica di chi cerca di definire la psicoanalisi utilizzando solo a criteri formali quali il lettino o le quattro sedute settimanali (dimenticando che, se è per questo, anche nell'ipnosi - che è l'opposto della psicoanalisi - si può usare il lettino e fare sedute frequenti).

Una seconda operazione monopolistica, come si è visto, è la restrizione delle domande di ammissione a queste associazioni, o l'adozione virtuale del numero chiuso per gli "psicoanalisti" tramite un blocco delle nomine degli analisti didatti, ovvero una loro lentissima crescita.

Una terza e molto potente operazione, quella documentata dal processo avvenuto negli Stati Uniti, è stata l'esclusione dei non medici dal training (andando contro le stesse direttive di Freud che era favorevole all'analisi laica); colpisce come questa ideologia della psicoanalisi solo medica sia stata accettata per anni in modo passivo da molti psicologi in vari paesi. Sia chiaro però che non vi è una sostanziale differenza per quanto riguarda l'aspetto monopolistico, si tratta solo di uno spostamento di equilibri (in fondo, medici e psicologi possono continuare a mantenere alte le tariffe se sono pochi rispetto ai clienti): infatti ora entrambi i medici e gli psicologi "psico­terapeuti" sono uniti contro altre categorie professionali che ne minacciano il mercato. In America, ad esempio, gli assistenti sociali ricevono un training qualificato e possono essere psicoanalisti esperti (si pensi a figure storiche come Rubin e Gertrud Blanck, o a Patrick Casement e ad altri che anche grazie al loro ruolo hanno potuto essere esposti ai casi difficili, alle famiglie, ecc., dando validi contributi teorici alla Psicologia dell'Io). Negli Stati Uniti gli assistenti sociali hanno ormai tariffe che si avvicinano a quelle dei colleghi di più "alto rango" di cui conquistano sempre più fette di mercato (anche gli assistenti sociali, e non solo gli psicologi, a Manhattan coi loro studi invadono le strade un tempo territorio incontrastato degli analisti medici, come la Park Avenue, la tradizionale "via degli analisti"). Tra l'altro, la potente associazione psicoanalitica degli assistenti sociali americani, la National Membership Committee on Psychoanalysis in Clinical Social Work, è una delle cinque associazioni psicoanalitiche (assieme all'American, all'IPA, alla Division 39 ["Psicoanalisi"] dell'APA, e all'American Academy of Psychoanalysis) che si sono associate per costituire la task force del PDM, il nuovo manuale diagnostico psicodinamico (vedi Migone, 2006), per cui gli assistenti sociali in USA sono una componente della professione psicoanalitica di tutto rilievo. In Italia, come sappiamo, il problema non è tanto quello degli assistenti sociali, quanto quello di varie altre professioni che premono per aver un loro albo e fare lo stesso lavoro degli psicoterapeuti psicologi e medici chiamandolo semplicemente con un altro nome: si pensi a nuove professioni emergenti come la pedagogia clinica, il counseling, il counseling filosofico, il coaching, e così via fino ad una miriade di professioni di aiuto più o meno alternative (quali ad esempio la pranoterapia, che peraltro, in modo divertente, pretende anch'essa un suo albo con tanto di documentazione del calore delle mani ai raggi X).

Ma, come si diceva, vi è una quarta operazione monopolistica, diversa, più sottile e forse più importante di tutte: quella di differenziare a livello teorico la "psicoanalisi" dalla "psicoterapia psicoanalitica", e di riuscire a convincere pazienti e terapeuti della legittimità di questa divisione, aggrappandosi magari a criteri formali come il lettino, la frequenza delle sedute, ecc. Del reale dibattito teorico è rimasto ben poco, si tratta solo di una questione di mercato: gli uni devono essere di serie A, gli altri di serie B; le tariffe devono essere diverse, come pure devono essere diversi i risultati terapeutici. Mi sono occupato a lungo di questo problema, e sono d'accordo con importanti autori (come ad esempio Gill, 1982, 1984, 1994) che - grazie a una revisione teorica e sulla scia delle intuizioni avute già fin dagli anni 1920-30 da Sullivan e altri autori della scuola interpersonale americana (Fromm-Reichmann, Horney, Thompson, Fromm, ecc.) - non considerano più giustificata questa separazione (non è un caso che Gill fosse guardato con sospetto da parte ufficiale, e mai fece carriera politica nella istituzione psicoanalitica). La graduale sovrapposizione tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica avvenne già a partire dagli anni 1930-40 come naturale implicazione, a livello di teoria della tecnica, degli sviluppi teorici della Psicologia dell'Io, che sottolineava ad esempio il concetto di difesa, ponendo il paziente come variabile indipendente e la tecnica come variabile dipendente che doveva essere modificata a seconda della struttura dell'Io del paziente, cioè della sua diagnosi. Una volta confrontai su questo punto lo stesso Wallerstein - che è sempre stato un sostenitore della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica (Wallerstein, 1969, 1989) scontrandosi con Gill a più riprese (vedi ad esempio Gill, 1990; Wallerstein, 1990, 1995a), e non a caso fu presidente dell'IPA (e anche figura di rilievo nella vicenda del processo contro gli psicologi [Wallerstein, 1988, 1998, 2002]) - il quale alla fin fine dovette darmi ragione (Wallerstein, 1995b; vedi Migone, 2001a). Ovviamente non posso qui entrare nel merito di questo importante problematica perché occorrerebbe molto spazio (per approfondimenti, rimando a Migone, 1991c, 1992-99, 1992a, 1992b, 1994b, 1995a cap. 4, 1995c, 1996b, 1998a, 1998b, 1998c, 2000, 2001a, 2001b, 2003). Si badi bene comunque che io non dico che non vi siano terapeuti meno esperti di altri e che questi non vadano differenziati, ma non ritengo che, anche per rendere chiari i termini di una sana competizione, sia questo il modo migliore per differenziarli.

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Nota:
Versione ampliata di un articolo pubblicato su Psicoterapia e Scienze Umane, 1987, XXI, 4: 83-89, e in: Migone P., Terapia psicoanalitica. Milano: Franco Angeli, 1995, cap. 15. Per altre versioni, vedi: Migone, 1989a, 1989b, 1989c, 1989d, 1990, 1994a, 1995a cap. 4, 1996a.
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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