PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1996, 73: 4-10

Cosa è la psicoanalisi: discussione di un contributo di Giovanni Hautmann
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Vorrei rivolgermi ai colleghi di SpazioZero, e alle undici riviste aderenti a questo movimento, per stimolare il dibattito attorno ad un tema che ci coinvolge tutti: definire "cosa è la psicoanalisi". Questa può essere una occasione per conoscerci meglio e confrontare le nostre posizioni, eventualmente continuando il dibattito sia all'interno dei singoli gruppi che con altri interventi.

Intendo però parlare di questo tema in un modo particolare. Non lo affronterò direttamente (per certi aspetti, ho cercato di differenziare la psicoanalisi da altri approcci - in particolare dalla cosiddetta "psicoterapia psicoanalitica" - mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995; vedi anche la mia rubrica sul n. 59/1992 del Ruolo Terapeutico), ma discuterò lo sforzo fatto da un altro autore: farò riferimento ad un lavoro di Giovanni Hautmann intitolato "Psicoanalisi, istituzione psicoanalitica, psicoterapia in Italia (SPI)", pubblicato nel libro a cura di Sergio Benvenuto & Oscar Nicolaus, La bottega dell'anima, Problemi della formazione e della condizione professionale degli psicoterapeuti (Milano: Franco Angeli, 1990). Questo scritto è abbastanza autorevole in quanto fu scritto da Hautmann in qualità di allora Presidente della Società Psicoanalitica Italiana (SPI).

Il libro La bottega dell'anima

Prima di entrare nel merito del contributo di Hautmann, ritengo utile descrivere brevemente come è organizzato il libro, anche per capire meglio il contesto in cui si inserisce questo contributo. Questo libro è il risultato di una ricerca dell'Istituto di Ricerche sull'Organizzazione Socio-territoriale dei Servizi (IROSS) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Nella prefazione si legge che scopo di questa ricerca, della quale questo libro segna la conclusione di una prima fase, era quello di studiare "chi e cosa sono gli psicoterapeuti", in particolare analizzando i vari processi di formazione, tema oggi diventato di attualità dopo della legge 56/1989 che regolamenta la professione della psicoterapia. Per fare ciò, il libro raccoglie una serie di interventi da parte di esponenti delle varie scuole di psicoterapia italiane e di figure significative di questo campo. Più precisamente, il libro si divide in tre parti.

Nella prima parte ("I percorsi formativi delle principali scuole di psicoterapia in Italia") vi sono gli interventi da parte di esponenti di primo piano di una scelta di tredici scuole di psicoterapia, e precisamente: Hautmann, appunto, per la SPI; due esponenti junghiani (Carotenuto per l'AIPA e Zoja per la CIPA); Fabrizio Napolitani per la gruppoanalisi foulkesiana; tre contributi della terapia familiare: Andolfi (ITF), Nicolò Corigliano & Pede ("Famiglia e psicoterapia psicoanalitica"), e Ancora & Fischetti ("Costruttivismo e terapia familiare sistemica"); Rispoli per la terapia corporeo-caratteriale (SIF); Blanco, Guidano & M.A. Reda per la terapia cognitiva; Piro ("Sperimentazione didattica sistematica nel campo delle scienze umane applicate, della psicologia della persona, della psichiatria"); Giannotti & Sabatello per la psicoterapia dei bambini e degli adolescenti; Barnà ("formazione degli operatori nei servizi di salute mentale"); Rosati per lo psicodramma. Da queste principali scuole italiane sono state omesse scuole quali quella adleriana, rogersiana (IACP), della Gestalt, della Analisi Transazionale, ecc., che in certi casi forse superano per rilevanza sociale alcune delle scuole qui incluse, mentre può essere comprensibile la scelta di escludere tecniche mirate o "minori" come l'ipnosi, le terapie sessuali, il training autogeno, ecc.

Nella seconda parte ("Testimonianze e riflessioni sui percorsi formativi. Itinerari formativi personali") vi sono i seguenti dieci interventi: Mauricio Abadi per l'International Psychoanalytic Association (IPA); Ugo Amati per la "psicoterapia istituzionale"; una conversazione di Didier Anzieu con M. Pelagalli per la Associazione Psicoanalitica Francese; una conversazione di Elvio Fachinelli con S. Benvenuto sui problemi di formazione della SPI (uno stralcio di questa intervista fu pubblicato su L'Espresso del 9-4-89); P.F. Galli ("Psicoterapia in Italia: ieri e oggi"), il cui intervento, che si rifà ad una intervista a S. Benvenuto che fu pubblicata sul n. 1/1986 del Bollettino IROSS, riporta parte di un vecchio dibattito tra Galli e Musatti del 1965 (da una giornata di studio sulla psicoterapia i cui Atti furono pubblicati dal Centro Studi di Psicoterapia Clinica di Milano), stralci di un articolo apparso sul n. 2-3/1988 della rivista Per la salute mentale/For Mental Health edita a Trieste dalla Regione Friuli-Venezia-Giulia, e di un altro articolo apparso sul n. 2/1989 del Giornale Italiano di Psicologia intitolato "Dal caos all'ordine"; una conversazione di Donald Meltzer con Marc Du Ry sulla eredità kleiniana; una conversazione di Claudio Neri con M. Pelagalli sulla formazione dell'analista di gruppo; Salomon Resnik ("Formazione dell'analista e psicosi); una conversazione di Mara Selvini Palazzoli con O. Nicolaus sulla ricerca e la formazione in terapia familiare; Mario Trevi ("Contradditorietà della didattica junghiana").

Infine, la terza ed ultima parte di questo libro ("L'autorizzazione tra immaginario e realtà: ricerche e studi sulla condizione sociale e professionale degli psicoterapeuti, questioni di loro statuto giuridico ed etico") riporta i seguenti nove contributi: Robert Castel ("Lo statuto dello psicoanalista come analizzatore della situazione attuale della psicoanalisi"); G. Corlito, P. Nascimbeni, G. Cesari, A. Pennacchioni & M. Petrillo sulla teoria e pratica psicoterapeutica nei servizi di Arezzo; Sergio De Risio ("Il momento psicoterapeutico nel campo psichiatrico"); Gianni Tibaldi ("La psicoterapia e il programma di intervento psicologico nella salute dell'OMS"); M. Antonietta Trasforini sulla professionalizzazione della psicoanalisi in Italia (versione di un articolo apparso sul n. 2/1988 della rivista Polis, che riassume i risultati di una ricerca sulla figura professionale dello psicoanalista dal 1945 ad oggi, ed esposta nel suo libro pubblicato da Bollati Boringhieri); Carlo Viganò ("Nella psicoterapia non c'è pratica senza etica"); infine, gli ultimi tre contributi sono ad opera di membri del gruppo di ricerca dell'IROSS, e precisamente S. Benvenuto, che è uno dei curatori ("Riflessioni sulla formazione degli psicoanalisti"), M. Corsale, che è direttore dell'IROSS e autore della presentazione del volume ("Il modello pluralistico e la regolamentazione delle professioni"), e O. Nicolaus, che è l'altro curatore ("Un'inchiesta sulla formazione degli psicoterapeuti nei servizi").

Ho voluto riportare tutto il contenuto di questo libro per dare un'idea del suo estremo interesse, in quanto fornisce un panorama della cosiddetta "galassia psi" in questo momento così caldo per la recente legge sulla psicoterapia. Una delle impressioni che ho avuto scorrendo queste pagine è stata di sgomento, confrontandomi ancora una volta con lo stato di una disciplina caratterizzata da confusione concettuale e frammentazione in scuole spesso legate a personalismi e a retaggi storici utilizzati per meccanismi di sopravvivenza istituzionale. Vorrei poter dimostrare queste affermazioni entrando nel merito dei singoli contributi, ma ovviamente occorrerebbe troppo spazio. Per gli scopi che mi sono proposto discuterò qui, come ho detto, solo il contributo di Hautmann; la SPI, di cui Hautmann allora era Presidente, è sicuramente tra le scuola di psicoterapia di dimensioni maggiori, e non a caso il suo intervento è posto all'inizio del volume.

Il contributo di Hautmann

Lo scritto di Hautmann è di difficile lettura per le frasi prolisse e lunghe (fino a dieci e più righe), per cui deve essere letto più volte per afferrarne bene il senso. Farò quindi un lavoro di "traduzione" in frasi più semplici, per poi brevemente discuterle, e mi scuso con l'autore se in questo modo a volte posso averlo frainteso. E' improbabile che questo scritto rispecchi le vedute di tutti i membri della SPI; d'altra parte, si può pensare che se esso contenesse delle affermazioni non condivise, data l'importanza di questo argomento qualche membro della SPI avrebbe potuto intervenire con una recensione critica, e non mi risulta che fin'ora sia stata fatta. La mia critica quindi vuole anche essere un tentativo di combattere quella che potrebbe essere una forma di "omertà culturale", così poco rispettosa per la nostra disciplina.

L'autore inizia con una disamina della legge 56/1989 (pp. 21-22); nota come il legislatore, mentre nell'art. 1 per la professionalità degli psicologi non usa la parola "terapia" (che sarebbe competenza dei medici), ma solo "abilitazione-riabilitazione", "sostegno" e "diagnosi", nell'art. 3 si occupa di un nuovo soggetto, la "attività psicoterapeutica" (quindi una terapia) e ne estende la competenza agli psicologi, oltre che unicamente ai medici come in precedenza si poteva ritenere trattandosi di una "terapia". Poi sottolinea che dall'art. 3 è stata tolta la dicitura "comprese quelle analitiche" a sostegno della tesi che la psicoanalisi non è contemplata da questa legge, perché diversa dalla psicoterapia. Infatti la formazione in psicoanalisi, come

«la SPI ha ufficialmente e ripetutamente informato il parlamento,... non si basa su un apprendimento cognitivo, ma... su una trasformazione emozionale della personalità, condizione perché anche l'apprendimento cognitivo della psicoanalisi possa essere effettivamente interiorizzato e verificato e quindi adeguatamente gestito... anche a garanzia di una capacità autentica di teorizzare in psicoanalisi elaborando l'inconscio. A garanzia cioè sia della formazione psicoanalitica che a difesa dello statuto scientifico della psicoanalisi» (pp. 22-23).

Compare qui la parola "statuto scientifico", sulla quale tornerò dopo. Questa "trasformazione emozionale", continua l'autore,

«è incompatibile con... qualunque tipo di insegnamento universitario. Privilegiando la scelta universitaria e, quindi, coerentemente a ciò, espungendo le terapie analitiche, incompatibili con la formazione universitaria, dalla attività terapeutica, il legislatore non ha legiferato sulla psicoanalisi, che infatti non è una "attività psicoterapeutica", ma una disciplina scientifica completa, teorica e pratica, implicante contemporaneamente conoscenza e terapia, il cui concetto di "terapeuticità" ha un senso peculiare che si dissocia dalla "quantificazione" propria del concetto di terapia nella accezione medica. Scientificamente autosufficiente, la psicoanalisi è aperta alle più diverse provenienze culturali che integrano la sua prevalente base culturale medica» (p. 23).

Altrove (vedi ad esempio i capitoli 4 e 15 del libro Terapia psicoanalitica prima citato) ho ipotizzato che questa esigenza di separare la psicoanalisi dalla psicoterapia psicoanalitica nasca in realtà da intenti monopolistici e anticompetitivi (controllo del mercato della formazione, tenere alti i prezzi delle sedute dei membri della associazione psicoanalitica facendo leva sul marchio "psicoanalisi", ecc.). Qui abbiamo l'occasione di vedere esplicitate le motivazioni "scientifiche" di questa scelta. Ma a questo proposito vorrei fare alcune domande. La formazione ad una tecnica quale la psicoterapia psicoanalitica si basa solo su un apprendimento cognitivo, e non su una "trasformazione emozionale" della personalità? Nel caso, per quali motivi? A quale "statuto scientifico" si riferisce l'autore quando parla della "capacità autentica di teorizzare in psicoanalisi elaborando l'inconscio"? In che modo comunque questa elaborazione dell'inconscio differisce in psicoanalisi e in psicoterapia psicoanalitica? Perché la psicoanalisi è incompatibile con la formazione universitaria, essendo "una disciplina scientifica completa, teorica e pratica", e addirittura a "prevalente base culturale medica"? Se il suo "concetto di 'terapeuticità'... si dissocia dalla 'quantificazione' propria del concetto di terapia nella accezione medica" (p. 23), come può nel contempo avere una "prevalente base culturale medica" (p. 23)? E ancora: se la psicoanalisi "non è una 'attività psicoterapeutica', ma una disciplina scientifica completa, teorica e pratica, implicante contemporaneamente conoscenza e terapia" (p. 23), forse che l'autore intende dire che la psicoterapia psicoanalitica avviene senza conoscenza? Come si può curare senza conoscere? Inoltre, in che senso l'autore usa il termine "quantificazione"? Con questo vuole alludere alla differenza tra scienze umane e scienze naturali, e in questo modo accennare alla questione dell'appartenenza o meno della psicoanalisi a queste ultime? Forse l'autore aderisce alla corrente ermeneutica e ritiene che la psicoanalisi dovrebbe appartenere alle scienze umane, ma allora non si spiegherebbe la sua affermazione secondo cui la psicoanalisi ha una "prevalente base culturale medica", e neppure il riferimento costante a Freud, al suo credo nell'unione inscindibile tra conoscenza e terapia, cosa che come è noto costituisce il bersaglio primo della critica ermeneutica. Più avanti (p. 24) potrebbe sembrare invece che l'autore aderisca ad una corrente ben diversa, quella post-kleiniana che si rifà a Bion (basandosi su alcune parole da lui usate quali "funzione psicoanalitica della mente", "reverie", contenitore/contenuto, ecc.), che è sicuramente minoritaria (anche se forse non in Italia), e comunque agli antipodi di quello che si intende comunemente per scienza, se non altro per l'importanza data da Bion a concetti quali il "mistico", la "fede", ecc.

L'autore poi procede a illustrare in maggiore dettaglio lo "statuto scientifico" della psicoanalisi, e sottolinea come sia fondamentale la triplice definizione metodo di conoscenza/cura/teoria psicologica datale da Freud, e afferma:

«L'unità pratica-teorica di conoscenza e terapia intrinseca a questa definizione [è stata] verificata puntualmente in tutte le fasi del Movimento psicoanalitico» (p. 23).

Si rimane perplessi di fronte a questa affermazione, dato che uno dei principali sviluppi della psicoanalisi contemporanea, proprio perché si sono incontrati dei problemi nel verificare l'unità conoscenza-terapia, consiste nell'aver relativizzato questo progetto freudiano accantonando sempre di più, ad esempio, concetti quali "interpretazione vera", "insight", ecc., per avvicinarsi ad altri concetti, una volta marginali e oggi non a caso di moda e ripresi dall'autore stesso, quali appunto quelli di setting, contenitore/contenuto (p. 29), e così via (per un approfondimento, rimando a P.F. Galli, Le ragioni della clinica. Psicoterapia e Scienze Umane, 1988, XXII, 3: 3-8, pag. 5).

Più avanti (p. 23 in basso) l'autore parla di "relazione analitica", "processo analitico", "pensiero creativo", ecc. (tutte accezioni in corsivo nel testo): in che modo questi concetti sono specifici della psicoanalisi e non della psicoterapia psicoanalitica? Riesce difficile trovare formulazioni precise e caratterizzanti, anche dopo aver semplificato attraverso la cortina fumogena dei sinonimi. Poi introduce un altro concetto:

«Il pensiero dell'analista nella stanza dell'analisi... è anche il luogo delle caratteristiche in cui potenzialmente tutti gli analisti possono riconoscersi e sperimentare la loro identificazione nella mente di Freud, cioè nel completo articolarsi, contrapporsi, reciprocamente lumeggiarsi delle sue formulazioni quale si può cogliere in una lettura della sua opera che al di là dei singoli contenuti colga la correlazione strutturale tra di essi nell'inafferrabile figuralità del suo pensiero, quasi vero modello campione della mente analitica al lavoro» (p. 24).

Se il nuovo concetto che qui si è voluto introdurre è quello di una identificazione (affettiva?) in Freud, allora questo appare ben lontano da un piano scientifico, a parte la curiosa affermazione secondo la quale la "figuralità" del pensiero di Freud sarebbe "inafferrabile". Per favorire questa identificazione in Freud, è certo utile suggerire "la lettura della sua opera", seppur nel "completo... reciprocamente lumeggiarsi delle sue formulazioni", ma sarebbe interessante conoscere con più precisione i motivi delle posizioni dell'autore, sicuramente critiche, nei confronti delle conclusioni di quei tanti studiosi dell'opera di Freud che sono giunti a conclusioni opposte, sollevando delle domande riguardo alla coerenza tra le varie implicazioni filosofiche sottostanti (tra i tanti, vedi R.R. Holt: Ripensare Freud [1989]. Torino: Bollati Boringhieri, 1994; Una perestroika per la psicoanalisi: crisi e rinnovamento. Psicoterapia e Scienze Umane, 1990, XXIV, 3: 37-65).

Al termine di questo tentativo di descrizione dello "spessore della psicoanalisi" e del suo "statuto scientifico", l'autore conclude con un plauso al legislatore che ha "operato una distinzione tra psicoanalisi come scienza unitaria e tipi di psicoterapie..." (p. 24). La psicoanalisi quindi sarebbe unitaria, al contrario delle psicoterapie? Si possono avere molte idee diverse in psicoanalisi, ma una delle poche cose chiare, sulla quale concordano proprio tutti (a cominciare dai vari presidenti dell'IPA) è che la psicoanalisi non è unitaria, ma un coacervo di scuole e idee diverse le une in contraddizione con le altre, pur proponendosi come terapia per disturbi simili, e questo è sicuramente uno degli ostacoli al suo "statuto scientifico". Forse l'autore qui però non allude alla psicoanalisi come teoria (già poco prima aveva ammesso l'esistenza di diversi modelli e teorie, a patto però che vengano "risoggettivizzati" nella identificazione con il "modello-campione" Freud, "anche a garanzia di una capacità autentica di teorizzare in psicoanalisi elaborando l'inconscio" [p. 23]), ma alla psicoanalisi come istituzione, come IPA o SPI, per l'esattezza. Siamo da capo: come si fa a riconoscere la maggiore autenticità di una teorizzazione o "elaborazione dell'inconscio" di una associazione rispetto a un'altra, quando entrambe affermano di riferirsi allo stesso profeta Freud? La somiglianza qui con le chiese e le religioni è molto imbarazzante, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la scienza (che è tradizionalmente considerata, qualunque definizione si adotti, diversa dalle religioni).

Nel paragrafo successivo l'autore parla della formazione in psicoanalisi, e riprende alcuni adagi bioniani (rêverie, ecc.), forse a riprova delle sue simpatie per questo autore. Poi sottolinea un aspetto: l'identificazione degli allievi o candidati nell'analista, che è "'magister'", e "depositario del sapere psicoanalitico" (p. 25, corsivo e virgolette nel testo), perché

«la sua creatività è tutt'uno con il suo sapere psicoanalitico e quindi con la sua identità di psicoanalista, e tale non può essere per l'analizzando» (p. 25).

Sembra sia esplicitato qui un pericoloso integralismo. Poco più avanti infatti dice:

«Naturalmente l'identità di maestro in ultima analisi ha a che fare con l'identificazione nei leader del Movimento psicoanalitico a cominciare da Freud. Questa è la radice del formarsi di gruppi attorno a determinate figure» (p. 25).

Ma non era la psicoanalisi "unitaria"? Comunque poche righe dopo riconosce i rischi di "deterioramento [della] istituzione psicoanalitica", e la sua proposta sembra si limiti a un ulteriore incitamento a una identificazione in Freud, purché ciò sia fatto in modo "corretto", senza chiedersi come mai questo semplice incitamento a seguire il "magistero" (p. 25) dell'istituzione fin'ora non sia servito a evitare la diaspora.

Nel passaggio seguente parla della importanza della "creatività" dello psicoanalista, e del passaggio dal testo orale a quello scritto, quindi della importanza della ricerca; parla di tre "condizioni minime necessarie" per "l'elaborazione scientifica":

1) la sufficienza della cultura psicoanalitica, 2) la disponibilità democratica..., 3) l'accettazione e la conservazione della passione per ogni operazione psicoanalitica (p. 26).

Non mi è chiaro quale sia la pregnanza di queste osservazioni. Nelle altre discipline, o, se è per questo, nella psicoterapia, non vi è forse passione, né democrazia? E non è di cattivo gusto associare "sufficienza della cultura psicoanalitica" a termini quali "elaborazione scientifica" e "disponibilità democratica"?

Più oltre, l'autore accenna alla storia delle istituzioni ufficiali: l'IPA è progettata nel 1908, e nasce nel 1910; la SPI è costituita nel 1932 ed accolta nell'IPA nel 1935 (p. 26). Tace però sui lunghi anni di "sonno" della SPI, e anche, dopo il suo risveglio, sul fatto che l'IPA fu costretta a mettere la SPI sotto "supervisione" della Società Svizzera dal 1962 al 1967 a causa dei litigi tra i cinque didatti italiani che non riuscivano a mettersi d'accordo per formare candidati (vedi anche Parin, 1984). Come sappiamo, negli anni recenti la SPI ha avuto ulteriori problemi che hanno provocato una scissione e che hanno indotto l'IPA nuovamente a commissariarla (da questa vicenda si è formata una seconda associazione psicoanalitica italiana affiliata all'IPA, chiamata Associazione Italiana di Psicoanalisi (AIPsi) - il pretesto è stato il noto scandalo, di cui hanno parlato tutti i giornali, di un didatta della SPI di Roma che ha avuto rapporti sessuali con una paziente; dietro a questa esigenza di fondare un'altra associazione vi era, nella opinione di molti, la scontentezza di vari analisti della SPI che non riuscivano mai a diventare didatti).

L'autore poi si accinge a specificare meglio la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, differenza che va dimostrata bene per sostenere tutta la logica del suo pensiero. All'inizio pare dica che mentre la psicoanalisi è una "disciplina scientifica" (p. 26 in basso), le psicoterapie avrebbero "pregnanti finalità direttamente curative" (p. 27 in alto), come se vi fosse contraddizione tra scienza e cura (ma se fosse così, ciò contraddirebbe l'affermazione precedente riguardo alla "unità pratica-teorica di conoscenza e terapia" [p. 23]); poi dice che le psicoterapie possono allontanarsi più o meno dalla psicoanalisi, alludendo forse a una differenza quantitativa tra le due e non quindi qualitativa. Nel paragrafo seguente, a scanso di equivoci, pare dia per scontato che la psicoanalisi è quella insegnata nella SPI, usando quindi come criterio l'appartenenza istituzionale, criterio che, ovviamente, non ha niente di scientifico, anzi minaccia la identità scientifica della disciplina. Seguendo comunque questa logica, nota però un "complesso problema" (p. 27): quello delle motivazioni degli analisti che insegnano fuori dalla SPI. Questo in realtà è un vecchio problema, come sanno bene tutti quei membri della SPI ai quali per decenni fu esplicitamente impedito di insegnare a gruppi indipendenti, anche se ciò comportava un oggettivo danno allo sviluppo della psicoterapia e della psicoanalisi in Italia. Esistono peraltro direttive precise dell'IPA al riguardo (anzi, esistevano fino al 1989, quando l'IPA e altre associazioni psicoanalitiche sono state costrette a fare marcia indietro, ma non per un'improvvisa "disponibilità democratica", quanto perché sono state costrette dal giudice a seguito della denuncia legale di alcuni psicologi americani; per un resoconto dettagliato di questo processo, vedi il cap. 15 del mio libro prima citato, Terapia psicoanalitica, riassunto anche nelle mie rubriche n. 53 e 54, 1990 del Ruolo Terapeutico). Ma, dice l'autore, "accantonando in questa sede il complesso problema" (p. 27) - di quello che, diremmo noi, a volte poco eufemisticamente viene chiamato "training pirata" (bootleg training) - rimane il fatto che esso minaccia comunque la identità della psicoanalisi (identità solo "istituzionale", s'intende). Ma potremmo chiederci perché vi è questo timore della perdita di identità, dato che secondo l'autore la psicoanalisi ha una forte e precisa identità scientifica. Eppure l'autore sente il bisogno, nella frase seguente, di fare riferimento ancora una volta a una identità debole, come quella appunto istituzionale, quando parla

«di "rigore" nella formazione e nella prassi, ... Istituti, convegni, congressi, e pubblicazioni, e dei collegamenti di analisti italiani con analisti di società straniere, nonché di istituzioni a forte connotazione psicoanalitica coma la Tavistock Clinic» (p. 27).

A parte la circolarità (la identità della psicoanalisi si fonda sulla forte connotazione psicoanalitica della Tavistock, che a questo punto andrebbe definita) oggi moltissime scuole di psicoterapia hanno legami internazionali (anzi, sono tra le poche cose che riescono ad avere con facilità, e che si vantano di avere), se non altro perché sono state spinte a cercarli a tutti i costi nella speranza di essere prese in considerazione dalle commissioni previste dalla legge 56/1989, che privilegia appunto criteri formali.

Stabilito comunque che la psicoanalisi ha una identità, il problema, dice l'autore, è l'identità della psicoterapia, e cerca di definirla in uno sforzo teorico che mi sembra il maggiore fatto dall'autore in questo scritto. Dice che la psicoterapia nasce come risposta a un "bisogno" che comincia a descrivere

a partire da un carattere negativo, quello di chi... non è in grado... di farsene carico... responsabilmente,... quindi... coinvolge... gli altri... [diventando] problema del gruppo sociale di appartenenza, così come nasce... una relazione "curativa" e solo faticosamente ed eventualmente... "trasformativa" quale accade nella esperienza primariamente analitica (p. 27).

Mentre prima (p. 23) la psicoanalisi veniva definita anche una cura, ora è "trasformazione", ma non viene spiegato in che modo questa differenza è sostanziale e non solo nominale. Poi afferma che psicoterapia significa prendersi "in carico attivamente" (p. 28) il paziente, dove spesso l'intervento è sollecitato dalla famiglia o dal gruppo di appartenenza, ed è spesso sul gruppo, o corregge un "errore comunicativo" (qui ricorrono termini presi dal linguaggio della terapia sistemica: "errore comunicativo", "nodo relazionale", "paziente designato", ecc. [p. 28]). Mi sembra questa una concezione riduttiva della psicoterapia, dove invece, anche in molte terapie non psicoanalitiche, occorre una precisa responsabilità dell'individuo per intraprenderla (altrimenti la terapia semplicemente non avrebbe luogo). Comunque quello che andrebbe maggiormente chiarito qui è il concetto di "responsabilità": la si intende inconscia o solo fenomenologico-descrittiva?

In un passaggio sembra che la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia sia una questione di gradi (pp. 28-29), ma nel paragrafo seguente afferma che la caratteristica

«specifica della psicoanalisi, e pertanto caratterizzante, è l'elaborazione interpretativa del transfert che è resa possibile dalla costituzione della situazione analitica che è, come ormai ben noto, il risultato metodologico dell'integrazione dinamica del pensiero fantasmatico, del setting e del pensiero interpretativo» (p. 29, corsivi nel testo),

ripetendo che ciò richiede "responsabilità" dell'analizzando, la quale addirittura diventa "lo spartiacque tra possibilità di psicoanalisi e psicoterapia" (p. 29). Se si perde l'unità del triangolo "setting-fantasmi-interpretazione", si fa psicoterapia (p. 29). Riguardo a questi tre poli del triangolo, si possono fare le seguenti domande: come si differenzia l'interpretazione dei fantasmi (se di questo si tratta) in psicoanalisi e in psicoterapia? Come tutto ciò si lega a un tipo di setting? Il setting della psicoterapia è diverso da quello della psicoanalisi, e perché? In psicoanalisi si deve per forza usare il lettino e fare sedute frequenti? Nel caso, perché, e come ciò incide sul processo interpretativo dei fantasmi? Questi problemi, che sono sempre stati all'ordine del giorno di tutti quegli autori che hanno affrontato il tema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, qui non vengono toccati.

Dopo dice che l'essenziale è che il terapeuta sappia adottare un atteggiamento mentale che definisce "funzione psicoanalitica della mente", che sta con la situazione analitica "in un rapporto contenitore/contenuto quale Bion ha descritto" (p. 29). Questa funzione può essere acquisita attraverso i vari aspetti del training della SPI. Non mi è possibile qui discutere approfonditamente questi concetti bioniani (nati tra l'altro nel contesto della terapia con pazienti gravi, quelli che la tradizione psicoanalitica alla quale si rifà Hautmann considera indicati per la psicoterapia e non per la psicoanalisi), ma sottolinea che "un certo grado di 'funzione psicoanalitica del pensiero' può essere sviluppata anche al di fuori dell'analisi personale" (forse qui vuol dire che anche gli psicoterapeuti possono averla?). Comunque,

«il compito degli psicoanalisti è... di contribuire alla formazione diretta degli psicoterapeuti secondo la linea che ho descritta» (p. 30).

D'accordo, ma dentro o fuori la SPI? Nel primo caso, perché per tanti anni si è attuata una politica elitaria basata sulla nomina di pochi didatti che ha costretto a respingere le tante richieste di ammissione al training che ogni anno si presentavano? Nel secondo caso, perché per tanti anni i membri della SPI sono stati ostacolati ad insegnare la psicoterapia a gruppi indipendenti? L'autore continua:

«L'insieme degli orientamenti in atto nel nostro paese, oggi, presenta qualche confortante indirizzo in questo senso, tuttavia sempre sul confine del terreno scivoloso di pseudo-training psicoanalitici, che è diventato luogo comune indicare come di "serie B", ed il cui rischio è quello di diffuse infiltrazioni, nella psicoterapia, di intellettualizzazioni e degenerazioni della psicoanalisi. La funzione psicoanalitica della mente... trova già nelle strutture del training dell'istituzione psicoanalitica il pur necessario momento del perennemente rivitalizzare e problematicizzare» (p. 30).

In che modo insomma si prevengono "intellettualizzazioni e degenerazioni della psicoanalisi"? Per fortuna la legge farà chiarezza: medici e psicologi faranno "soltanto" la psicoterapia, e, con un altro ragionamento circolare,

«la psicoanalisi - in quanto disciplina scientifica e non psicoterapia [la psicoterapia quindi non è scientifica?] - potrà, nella SPI, trovare la istituzione privata collegata internazionalmente, atta a preservare le radici culturali "laiche" le più ampie, grazie alla garanzia che la completezza dell'essere psicoanalista conferisce...» (p. 31).

Le psicoterapie dovranno essere insegnate nella università, ma

«ci si può comunque chiedere se "il pubblico" non si prospetti nell'insieme il luogo privilegiato dei futuri psicoterapeuti» (p. 31).

Ecco dunque la proposta del past-president della SPI per l'iter degli psicoterapeuti: l'università come luogo di formazione, il servizio pubblico come luogo in cui andranno ad operare. Insomma, se non altro da questo scritto sembra emergere chiaramente questo concetto: il mercato privato deve rimanere alla SPI. Non mi sembra però che siano state date argomentazioni coerenti a sostegno di questa proposta.

Bibliografia

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Parin P. (1984). Adeguamento o opposizione. Nota al saggio di Hans Füchtner "Tristi psicotropi". Psyche (20-1-84), 38: 627-635.

 
Nota:
Una versione abbreviata di questo articolo, dal titolo "Cosa 'non è' la psicoanalisi. Discussione critica di un contributo di Giovanni Hautmann sulla identità della psicoanalisi", è stata pubblicata nell'area "Psicoterapia" di POL.it al sito http://www.psychiatryonline.it/ital/documig2.htm.
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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