PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2008, 109: 51-60

Riflessioni sul problema della pluralità dei metodi di ricerca in psicoterapia
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Nelle ultime rubriche mi sono occupato di alcuni problemi della ricerca in psicoterapia, e voglio continuare anche questa volta a riflettere su questo tema. Mi si dirà che la ricerca in psicoterapia è uno dei miei principali interessi, ma non è così: chi legge quello che scrivo sa che mi interesso delle cose più svariate, quelle che di volta in volta, anche in modo casuale, attirano la mia curiosità o su cui sono costretto a riflettere perché mi invitano a convegni su argomenti specifici (e comunque la ricerca in psicoterapia, così come tutti gli argomenti di cui mi occupo, non mi ha mai interessato in quanto tale, ma solo per i problemi che essa implica). Spesso le mie rubriche sono tratte dagli appunti, a volte scritti in modo estemporaneo, preparati per relazioni a convegni, ed è così anche questa volta. Infatti recentemente mi hanno invitato in due convegni a parlare del problema della pluralità dei modelli psicoterapeutici, e, collegato a questo, della pluralità dei metodi di ricerca per studiare il processo psicoterapeutico.

Il primo convegno, organizzato sotto gli auspici della SPR-Italia (la sezione italiana della Society for Psychotherapy Research - vedi la mia rubrica del n. 74/1997), si intitolava "Nodi e prospettive di sviluppo della ricerca sul processo in psicoterapia" (Lecce, 14-15 dicembre 2007; i relatori invitati a questo dibattito, oltre a me, erano Nino Dazzi, Girolamo Lo Verso, Antonio Semerari e Vittorio Lingiardi, e il moderatore era Sergio Salvatore), e il secondo convegno (a cui ho accennato nella rubrica del numero scorso) era il Terzo Congresso Nazionale della SEPI-Italia (la sezione italiana della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration) e si intitolava "Quale scienza per la psicoterapia?" (Roma, 18-20 aprile 2008). Dato che questi due convegni toccavano temi per certi versi collegati tra loro, ho messo assieme gli appunti che avevo scritto per entrambi; prima riporto le riflessioni che ho esposto a Roma, poi quelle del convegno di Lecce.

Uno dei dibattiti che attraversano il movimento psicoterapeutico, e che il III Congresso Nazionale della SEPI-Italia ha scelto come tema, riguarda quello che alcuni hanno chiamato great divide (grande divisione, o spartiacque) tra clinici e ricercatori (Carere-Comes & Migone, 2001-03, 2004; Alberti & Carere-Comes, 2002; Carere-Comes, Adami Rook & Panseri, 2006; tra i tanti esempi a livello internazionale, si veda il dibattito avvenuto nel 2007 sulla discussion list del Journal of the American Psychoanalytic Association stimolato dall'articolo di Luyten, Blatt & Corveleyn, 2006a, 2006b), cioè quella che viene percepita come una spaccatura tra i due mondi della psicoterapia (e a ben vedere anche della psicologia): da una parte vi sono i clinici, che si muovono sulla base della "esperienza clinica" e di tutta una serie di conoscenze induttive organizzate più o meno come gestalt inconsce e preconosce di modi di agire col paziente, imparati nel corso della formazione in modo "artigianale" o per identificazione (soprattutto in supervisone e discussione di casi); dall'altra vi sono i ricercatori che invece operano in laboratorio, utilizzano dati sperimentali, prevalentemente quantitativi ed extraclinici, elaborati statisticamente e così via. Non vi è dubbio che questi due modi di procedere siano diversi, e che può non essere facile colmare questo divario, divario il cui superamento viene auspicato ormai da più parti, anche se ovviamente vi è che si arrocca da una parte o dall'altra della barricata e afferma che non vi può essere un dialogo, anzi, che si tratta di due mondi che sono e devono rimanere separati (per le argomentazioni usate da una parte e dell'altra dello steccato, vedi Migone, 1998, 2001, 2002, 2004, 2006, 2008a, 2008b).

Rimane però il fatto che si tratta di due settori che hanno entrambi lo stesso scopo, quello di individuare modalità sempre più efficaci per migliorare la pratica psicoterapeutica. Non solo, ma queste due modalità di funzionamento, quella della ricerca "clinica" e quella della ricerca "sperimentale" (quest'ultima chiamata anche "empirica" o "ricerca" tout court), a ben vedere sono anche due modalità di funzionamento che coesistono in qualunque essere umano, incluso lo psicoterapeuta impegnato nel lavoro clinico. L'essere umano (il cui cervello, ad esempio, è dotato di due emisferi con caratteristiche abbastanza diverse tra loro) si è selezionato nel corso della evoluzione appunto diversificando determinate sue capacità allo scopo di dare una migliore soluzione ai problemi di adattamento di volta in volta incontrati: a tratti può servirgli riflettere, fare calcoli, prendere tempo per imparare determinate abilità, e a tratti può aver bisogno di agire in modo rapido, con la cosiddetta "intuizione", utilizzando l'insieme delle conoscenze accumulate in passato e depositate nella parte inconscia o tacita della propria mente, bypassando la coscienza poiché essa, essendo per sua natura seriale e non parallela, costituirebbe un intralcio alla rapidità dell'azione o della decisione da prendere. La coscienza e il ragionamento, insomma, costituirebbero una sorta di "collo di bottiglia" per certe modalità di funzionamento inconscio, alcune delle quali fanno parte di quello che viene definito "inconscio cognitivo" (Migone, 2007a). Per quanto riguarda lo psicoterapeuta al lavoro, mano a mano che diventa esperto ed integra conoscenze lungo il suo percorso formativo il suo funzionamento diventa sempre più rilassato e "spontaneo", esattamente come accade nella guida dell'automobile, che può arrivare al punto di diventare quasi una attività automatica, regolata da centri di funzionamento "paralleli" per cui diventa possibile, in una certa misura, svolgere altre attività minori (altrettanto automatizzate, come ad esempio accendere l'autoradio o chiacchierare col compagno di viaggio) o "pensare" ad altre cose mentre si guida (vedi anche il concetto di "spontaneità tecnica" elaborato da Galli, 1960, 1962, 2006). Esiste quindi un continuum nei codici cognitivi utilizzati nella psicoterapia, esattamente come in altre professioni o attività umane, e il livello di integrazione o di armonizzazione di questi codici (la loro "attività referenziale", volendo usare la terminologia della Bucci [1997]; vedi Migone, 2007b) dipende dal livello di conoscenze, di "cultura", di esperienza del soggetto, e anche dal compito che ha di fronte (per fare un esempio, nel momento in cui come relatori del III Congresso Nazionale della SEPI-Italia cerchiamo di riflettiamo sulla complessa questione del rapporto tra le "due scienze" della psicoterapia, ci collochiamo da una parte dello spartiacque, prevalentemente sul versante riflessivo e non su quello intuitivo, altrimenti non faremmo alcun passo avanti in termini di teorizzazione consapevole, mentre funzioneremmo in modo diverso se messi di fronte ai nostri pazienti; quindi è il compito da svolgere ciò che determina in ogni singolo momento quale codice cognitivo deve essere usato in modo privilegiato). Non va dimenticato poi che alle origini dell'evoluzione della specie questo problema delle "due scienze" non si poneva, perché è solo con l'evoluzione dell'Homo sapiens, quando cioè è comparso il linguaggio e la coscienza di ordine superiore, che è potuto avvenire lo sviluppo della scienza empirica (con la logica, la matematica, ecc.), cosa che ha arricchito enormemente il repertorio dei codici cognitivi dell'uomo (vedi Edelman, 2006, ad esempio i capitoli 7 e 8). I nuovi codici cognitivi si sono aggiunti ai precedenti, non li hanno rimpiazzati (né dovrebbero rimpiazzarli, come ha ben argomentato la Bucci, in questo forse chiarendo certi equivoci legati ad un modo riduttivo di intendere la teoria freudiana del funzionamento del pensiero suddiviso in processo primario e processo secondario, dove appunto il secondo non dovrebbe mai sostituire il primo, anzi dovrebbero interagire con un arricchimento reciproco [Migone, 1995 pp. 97-99, 2007b]). Queste ultime considerazioni forniscono una ragione in più per ritenere fuorviante la dicotomia tra "scienze diverse" o, per tornare alla psicoterapia, tra un approccio clinico e uno sperimentale, in quanto si tratta punti di vista diversi che si arricchiscono reciprocamente.

Fatta questa premessa, non ci si può certo illudere di aver risolto tutti i risvolti cosiddetti epistemologici di questo problema, poiché di fatto ogni approccio ha linguaggi e metodologie sue proprie che, ad esempio, rompono il programma positivistico della "unità della scienza". Per "scienza" infatti non deve intendersi, in modo riduttivo, solo un metodo di conoscenza che si applica a determinati oggetti che si prestano ad essere indagati con quel metodo, cioè la scienza non deve dipendere dal tipo di oggetti che tratta, ma dal "modo" con cui li tratta. Questo modo può dirsi "scientifico" nella misura in cui soddisfa determinati criteri, quali quelli di "rigore" (dare ragione di quanto si afferma, non necessariamente tramite quantificazione, misurazione, ecc., e utilizzando un determinato linguaggio e una logica), "controllabilità" (testability), "oggettività", "protocollarità", ecc. (vedi Agazzi, 1974, 2006). Ogni approccio alla conoscenza però "produce" un proprio "oggetto scientifico", un oggetto ideale che è diverso dagli "oggetti scientifici" prodotti da altri approcci. Sempre secondo Agazzi, le cui riflessioni a questo proposito trovo convincenti, questo oggetto scientifico non va confuso con una "cosa", nel senso che una stessa cosa può essere "oggetto" di scienze diverse, quindi una cosa si trasforma in un "fascio" di oggetti potenzialmente infiniti: ad esempio, il fatto che nascono sempre nuove scienze (e nuove metodologie) che studiano una determinata cosa non significa certo che è aumentato il numero di cose al mondo, ma che sono stati individuati nuovi "punti di vista" su quella cosa (per fare un esempio, la mente può essere studiata con i metodi delle neuroscienze, con i test proiettivi, con l'introspezione, e così via; allo stesso modo, la psicoterapia può essere studiata quantificando determinate variabili, come ad esempio il numero di sedute o di parole pronunciate da paziente e terapeuta o tramite i più svariati metodi qualitativi, narrativi, ecc.). Quindi ogni approccio scientifico, inteso come "punto di vista", ritaglia o riduce la realtà secondo i propri metodi di indagine, costruendo un oggetto diverso. Da questo discende il fatto che, concretamente, ogni scienza, cioè ogni punto di vista, si traduce nella individuazione e nell'utilizzo dei propri metodi di indagine. Questo è importante perché - come argomenta Agazzi (2006, pp. 64-65) - ci aiuta a capire che non ha senso la diatriba tra diverse scuole di psicologia con l'accusa reciproca di non-scientificità. Questa diatriba avrebbe senso se metodi opposti si occupassero dello stesso oggetto, mentre non è così: ogni metodo si occupa di "oggetti scientifici" diversi, ogni metodo ritaglia il proprio oggetto, per cui «aderire all'una piuttosto che all'altra scelta metodologica significa semplicemente decidere di occuparsi di qualcosa di più o meno diverso o, se si vuole, fare un'altra psicologia» (Agazzi, 2006, p. 65). Per fare un esempio, non ha senso che il comportamentista accusi di scorrettezza metodologica o di ascientificità chi fa uso dell'introspezione, infatti il conflitto tra metodi diversi è «soltanto apparente, quando si sia capito che si traduce in un differenziamento di oggetti e non è una rissa circa il modo di impadronirsi di un unico e medesimo oggetto» (ibid.). Del resto, questo problema non è nuovo né appartiene solo alla psicologia, ma anche alle scienze "dure": si pensi alla fisica, dove una volta si riteneva che vi fosse una sola teoria (la meccanica newtoniana), ma poi ci si è accorti che c'è anche l'elettromagnetismo, la fisica quantistica, ecc., tutte discipline che si occupano delle stesse cose ma di oggetti scientifici diversi, sono "tante fisiche", anche se convivono tranquillamente all'interno della cosiddetta fisica.

La psicologia, dal punto di vista epistemologico, si trova quindi nella stessa condizione in cui si trova la fisica (la qual cosa tra l'altro andrebbe contro alla divisione tra soft e hard sciences), e la stessa cosa ovviamente vale anche per la psicoterapia, che è una applicazione della psicologia: i problemi che l'epistemologo si trova a dover affrontare quando riflette sul modo con cui si rapportano tra loro le diverse scuole psicoterapeutiche sono gli stessi che si trova a dover affrontare quando riflette sul modo con cui si rapportano tra loro le diverse "fisiche" che coesistono nella fisica. Ritengo che non sia di facile soluzione il problema del rapporto che hanno tra loro i diversi "oggetti scientifici" della psicoterapia, e soprattutto che non vada dimenticato che ciascuno di questi oggetti (che, come abbiamo visto, è legato a metodologie diverse) comunque non illumina completamente la realtà, non rivela la "verità", essendo tutti portatori di conoscenze parziali e riduttive, utili solo per gli scopi per i quali questi "oggetti scientifici" sono stati "costruiti".

Una riflessione sulla pluralità dei metodi di ricerca sul processo in psicoterapia

Vorrei ora riflettere in modo più specifico sul problema, di maggiore interesse per il ricercatore, della coesistenza di diversi metodi di ricerca sul processo in psicoterapia (vedi Migone, 2007c). Esistono ormai parecchi metodi per misurare il cosiddetto "processo" della psicoterapia, circa una ventina sono quelli più conosciuti e utilizzati (per un panorama sui principali metodi, vedi Dazzi, Lingiardi & Colli, 2006; per la differenza tra "ricerca sul risultato" e "ricerca sul processo" in psicoterapia, vedi Migone, 1994, 1996). Ciascuno di questi metodi si propone di studiare e misurare - e quindi osservarne l'andamento nel tempo - un particolare aspetto del funzionamento del paziente che viene ritenuto rilevante dal ricercatore alla luce dei suoi specifici interessi o del suo particolare approccio. Tipici esempi di questi metodi sono il Core Conflictual Relationship Theme (CCRT) di Luborsky (1984; Luborsky & Crits-Christoph, 1990) che si propone di misurare il "Tema Relazionale Conflittuale Centrale" (cioè un pattern transferale) secondo tre componenti (i desideri del paziente, le risposte aspettate dall'altra persona, e le successive risposte dal Sé), oppure la "Attività Referenziale" della Bucci (1997), che studia certe caratteristiche del linguaggio per fare inferenze sul tipo di collegamenti esistenti tra i "codici multipli" cognitivi, o ancora la Structural Analysis of Social Behavior (SASB) della Benjamin (1993), e così via (per la SASB, vedi Migone, 1997).

Un problema che si pone al ricercatore è quello di comprendere il rapporto che hanno tra loro questi diversi modi per misurare il processo: esiste un metodo che può considerarsi "superiore" agli altri, nel senso che coglie l'aspetto più rilevante di quello che accade durante una psicoterapia, e che il terapeuta deve monitorare più attentamente? Esiste la possibilità di tradurre diversi metodi in una griglia comune, in modo da renderla una sorta di costrutto trasversale e quindi un possibile indicatore del "vero processo" della psicoterapia? Queste sono alcune importanti domande che si pone il ricercatore. Se infatti si può dire che nel campo dei metodi di ricerca sul risultato (outcome research) si sia raggiunta una maggiore coerenza e unanimità di vedute rispetto al rapporto che hanno tra loro i vari metodi (sono state proposte, ad esempio nello studio dell'International Project on the Effectiveness of Psychotherapy and Psychotherapy Training [IPEPPT], anche griglie comuni a doversi metodi; vedi Migone, 2007d), non è così per i metodi sul processo (process research) dove ancora nessuno, neppure a livello internazionale, ha pensato seriamente a quella che può essere ad esempio una gerarchia tra i tanti metodi sul processo oggi disponibili.

Per la verità vi sono alcune eccezioni, ad esempio Elliott (1991) ha affrontato questo problema in un articolo in parte ripreso nel cap. 3 del libro a cura di Russel (1994). Molto brevemente, riassumo la proposta di Elliott, che aveva suggerito una cornice concettuale per le misurazioni e i metodi del processo in psicoterapia basata sulla teoria della comunicazione e sul suo metodo della Comprehensive Process Analysis, individuando cinque livelli: I. Punto di osservazione (Perspective of Observation: paziente, terapeuta, ricercatore); II. Focus dello studio (Person/Focus: un elemento del paziente, del terapeuta, della diade); III. Tipo di variabile comunicativa studiata (Aspect of Process: contenuto, azione, stile, qualità); IV: Livello di unità o "risoluzione" del processo studiato (Unit Level: frase isolata, scambio verbale, un episodio con vari scambi verbali, una seduta, una fase della terapia, l'intera terapia); V. Orientamento temporale con cui viene studiata una unità del processo, cioè cosa accadde prima, durante o dopo (Sequential Phase: contesto, processo, risultato).

Ma, per tornare alle mie riflessioni, dovremmo chiederci perché mai la difficoltà di fare ordine tra i vari metodi del processo in psicoterapia dovrebbe essere diversa da una simile difficoltà che è presente in altri settori della psicologia, ad esempio quello della personalità. Anche nello studio della personalità vi sono metodi di indagine estremamente diversi tra loro, non è facile capire come essi debbano rapportarsi l'uno all'altro, e questo vale ovviamente non solo per il rapporto tra i test obiettivi e proiettivi, ma anche se rimaniamo all'interno dei soli test proiettivi. Nelle tecniche proiettive di indagine della personalità però vi è una suddivisione generale in due categorie che mi sembra sensata e che forse potrebbe essere applicata anche ai metodi di ricerca sul processo della psicoterapia: i test proiettivi si suddividono in "tematici" e "strutturali". I test tematici studiano i "temi", cioè i contenuti, le narrative (il TAT è un tipico esempio), mentre i test strutturali analizzano la "struttura" della personalità anche indipendentemente dal contenuto (un tipico esempio è il Rorschach, dove si guarda non solo ai temi ma anche al modo con cui il soggetto percepisce la macchia d'inchiostro, ad esempio se coglie l'insieme o se si ferma nei dettagli, e da qui si traggono inferenze su certi aspetti "strutturali" o "formali" della sua personalità).

Se applichiamo questa suddivisione ai metodi per lo studio del processo in psicoterapia, vediamo che anche in questo campo è possibile suddividere i metodi in tematici e strutturali. Infatti salta subito agli occhi che vi sono metodi che studiano le narrative del paziente, i suoi racconti: un tipico esempio è il CCRT di Luborsky (1984), un altro esempio è rappresentato dai FRAMES di Dahl (1988), e così via.

A proposito del CCRT di Luborsky, mi viene in mente che una volta Bob Holt, vecchio amico e per anni collaboratore di Luborsky alla Menninger Foundation, mi disse che non è vero che l'idea del CCRT venne in mente a Luborsky - come quest'ultimo suole raccontare - un pomeriggio di un certo giorno a metà degli anni 1970 ecc., ma che era venuto in mente per la prima volta molto tempo prima proprio a Henry Murray, non a caso creatore del TAT, il quale tra l'altro era stato uno dei maestri di Holt.

Altri metodi invece non guardano al contenuto dei temi, ma al modo con cui questi sono strutturati: un esempio è l'Attività Referenziale della Bucci, che più che al contenuto dei racconti guarda alla capacità del paziente di collegare le parole con i sottostanti codici cognitivi non verbali, quindi misura una modalità generale, "strutturale", del funzionamento mentale; un altro esempio è la funzione riflessiva di cui parla Fonagy o la Scala di Valutazione della Metacognizione (SVaM; Carcione & Semerari, 2006), che misura la capacità del paziente di riflettere o guardare alla propria mente indipendentemente dalla specificità dei suoi contenuti; anche l'Adult Attachment Interview (AAI; George, Kaplan & Main, 1985) guarda alle narrative ma con una maggiore enfasi alla loro coerenza piuttosto che al contenuto specifico; e così via.

Si potrebbe discutere molto sul rapporto che può esservi tra i metodi che analizzano i contenuti tematici e quelli che invece analizzano la struttura mentale che li "ospita", e questa discussione inevitabilmente riguarda la teoria della mente o della diagnosi psicologica. Ad esempio, utilizzando il linguaggio del DSM-III e del DSM-IV si può parlare di Asse I e di Asse II, del significato di questi "assi" e del loro rapporto reciproco, nel senso che determinate problematiche in Asse I (si pensi ad esempio a una depressione maggiore, derivata da conflitti a livello di temi personali o di narrative) cambiano enormemente di significato alla luce della diagnosi in Asse II, cioè di aspetti del funzionamento mentale ben più pervasivi e "strutturali" o di maturazione della personalità. In altri termini, la questione è quella di riuscire a capire cosa non va nel funzionamento psicologico di una persona, in cosa esattamente consiste il disturbo e "dov'è", affinché si possa disporre di una adeguata teoria della terapia (per un tentativo della non facile definizione del concetto di "disturbo mentale", vedi Wakefield, 2004). Non è un caso che, nel corso della storia del movimento di ricerca in psicoterapia, sono stati costruiti diversi metodi di studio del processo appunto perché diversi erano non solo gli interessi dei ricercatori ma sopratutto i tipi di pazienti e i problemi psicologici affrontati. Da questo punto di vista, quindi, il problema di come rapportare tra loro i diversi metodi per misurare il processo psicoterapeutico non è un problema di per sé, ma è un problema che rimanda a una questione ben più complessa, alla teoria sul funzionamento della mente e della diagnosi o natura del disturbo. E può non essere irrilevante il fatto che a tutt'oggi non si è raggiunta la validità di costrutto di quasi nessuna diagnosi elencata nel DSM-IV, si è solamente riusciti ad innalzarne l'attendibilità, ed è proprio per questo comprensibile motivo che non è facile raggiungere una uniformità di opinioni su cosa si intenda per processo psicoterapeutico.

Nella pratica clinica quotidiana, il problema si ripresenta con ogni paziente. Io ad esempio, come penso ogni terapeuta, con ogni paziente mi chiedo sempre cosa stia succedendo nel corso della terapia, quale parte del suo funzionamento psicologico stia cambiando e perché. E quasi sempre ho delle grandissime difficoltà a concettualizzare cosa stia accadendo, nel senso che l'esperienza mi ha insegnato a vivere ogni mia formulazione come provvisoria, come un tentativo che viene spesso corretto alla luce di ulteriori osservazioni o riflessioni. In ogni terapia, checché dicano i colleghi che si vantano di appartenere alle "scuole" psicoterapeutiche (spesso espressione di "monoculture", ignare degli sviluppi della psicoterapia avvenuti fuori dalle proprie scuole), accadono mille cose delle quali siamo consapevoli solo in minima parte, senza contare che noi vediamo solo quello che conosciamo già, cioè "il conoscere è sempre un ri-conoscere", nel senso che le nostre formulazioni cliniche derivano da quello che abbiamo letto, che ci hanno insegnato, o magari dalle esperienze personali che abbiamo fatto grazie alle quali possiamo meglio capire un paziente.

Elenco alcuni esempi di possibili formulazioni cliniche. Il paziente negli ultimi due anni di terapia è forse migliorato nella sua "autostima" (costrutto certamente complesso, che è legato anche ad altri aspetti), per cui ragiona diversamente, pensa cose nuove, o è maggiormente capace di tollerare la solitudine o la dilazione della gratificazione, è meno dipendente dal partner, ecc.? O, viceversa, il paziente, diversamente dal passato, è capace di mostrare una maggiore dipendenza dal suo partner, di mostrare emozioni dolorose o debolezze come mai aveva fatto prima, si è permesso di piangere in presenza di un'altra persona, mostrando così un miglioramento nel settore della "regressione al servizio dell'Io" (Kris, 1952)? è meno "depresso" (e questo è collegato anche con l'autostima)? Ha conosciuto, anche grazie al terapeuta, nuovi "valori" che ha in parte interiorizzato, modificando il senso della sua vita e arricchendosi? Ha forse "elaborato un lutto", cioè - all'interno di una personalità relativamente sana - ha parlato a fondo col terapeuta di circoscritte tematiche dolorose oppure conflittuali, alcune delle quali erano state rimosse in senso freudiano, riuscendo a trasformare il significato di queste tematiche? Ha modificato in una certa misura uno o due poli del suo CCRT? Ha semplicemente fatto una "nuova esperienza" (anche in senso di de-condizionamento comportamentale) per cui naturalmente si sono modificate le sue aspettative riguardo ad altre esperienze simili? Si potrebbe continuare quasi all'infinito con queste formulazioni, poiché quasi infinite sono le formulazioni enfatizzate dalle rispettive scuole (a proposito dell'utilizzo di modelli multipli, vedi una mia discussione delle "quattro psicologie" di Fred Pine [1985, 1988, 1990]; per una proposta di sistematizzazione gerarchica dei vari modelli psicoanalitici, vedi la importante proposta di Gedo [Gedo & Goldberg, 1972; Gedo, 1979; Migone, 1985; vedi anche Silver, 1981, e Grand & Hill, 1994]). Ogni formulazione clinica è un tentativo o un abbozzo, spesso parziale e semplicistico, per spiegare il motivo del cambiamento, e sappiamo che ogni formulazione ha aree di sovrapposizione con altre formulazioni, nel senso che il processo della psicoterapia con tutta probabilità è un costrutto sovraordinato a queste formulazioni, più astratto, che in un non lontano futuro potrebbe addirittura essere oggettivato anche a livello di neuroscienze.

Ma quello che ritengo importante sottolineare è che può non avere senso parlare di "processo" in psicoterapia al singolare, poiché esistono molti processi a seconda del tipo di problema o disturbo che ha il paziente. Trovo stimolante domandarci se può esservi un ordine, una gerarchia, tra i tanti metodi del processo, e se sì, quale. Dietro a ciò può però esservi il rischio di credere che possa o debba esservi questa gerarchia, o che possa essere individuato il "vero processo" della psicoterapia. L'errore quindi può essere quello di parlare di "processo" in generale, cosa che a mio parere non ha senso poiché possono esistere solo "processi" al plurale, appunto per le considerazioni fatte sopra (nel senso cioè che ogni processo è legato all'intervento adatto per un problema specifico, che a sua volta va visto alla luce del tipo di struttura mentale, di personalità o di maturazione psicologica del soggetto). A questo proposito mi viene in mente quello che disse Parloff (1985) in una review che tradussi io stesso vent'anni fa per Psicoterapia e Scienze Umane, quando incominciai a interessarmi della ricerca in psicoterapia:

«La psicoterapia è efficace? Stupisce il fatto che, dopo più di ottant'anni di pratica psicoterapeutica in progressivo sviluppo, continui a essere fatta una domanda così ingenua. Ma forse stupisce ancor di più il fatto che continuino a essere fatti seri sforzi per rispondere a questa domanda. Altri approcci terapeutici non vengono importunati da simili interrogativi. Domande generiche e indifferenziate quali "La chirurgia è efficace?" oppure "I farmaci sono efficaci?" non meritano risposte serie. (…) La domanda "La psicoterapia è efficace?" implica l'errata assunzione che il campo sia una entità omogenea. Ma non lo è» (Parloff, 1985, p. 12 trad. it.).

Forse potremmo sostituire "psicoterapia" con "processo della psicoterapia" e porci oggi la stessa domanda. Esistono tanti processi quanti sono gli interventi psicoterapeutici, per cui dovremmo sempre parlare al plurale, e tutti i metodi del processo possono andare bene. Il problema non è il fatto che ve siano tanti, il problema è che vi sono diversi modi con cui può avvenire il cambiamento terapeutico.

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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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