PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2008, 107: 73-82

Nella ricerca in psicoterapia il "contesto della verifica" nuoce al "contesto della scoperta"?
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

In questa rubrica vorrei riprendere un tema di cui mi interesso da anni, quello delle ricerca in psicoterapia, sollecitato anche dagli stimoli avuti recentemente da discussioni con colleghi. E' scontato che per "ricerca in psicoterapia" io qui non intendo la ricerca "clinica", ma quella sperimentale, detta anche empirica [per la differenza tra questi due tipi di ricerca, vedi la mia rubrica del n. 88/2001, intitolata "La dicotomia tra clinica e ricerca in psicoterapia: due scienze separate?"]. E' un argomento questo che è oggetto di infinite discussioni, vi sono ad esempio molti clinici che guardano con diffidenza alla ricerca in psicoterapia, ritenendola inutile se non addirittura dannosa per la loro pratica clinica, che per sua natura sarebbe un mondo a parte, non facilmente scomponibile o analizzabile con le metodologie scientifiche tradizionali (in psicoanalisi è ad esempio la scuola francese, rappresentata da André Green, quella che più fermamente si oppone alla utilità della ricerca empirica per la pratica clinica). Mi sono occupato di questo tema a più riprese, ad esempio in una relazione tenuta a una giornata di studio intitolata "L'insostenibile efficacia delle psicoterapie", organizzata il 13 ottobre 2000 dal Dipartimento di Salute Mentale della Azienda ULSS n. 15 Alta Padovana a Vigodarzere (Padova), ed è da questa mia relazione che io qui, a distanza di alcuni anni, prenderò spunto [la mia relazione si intitolava "L'attuale fase di insoddisfazione nella ricerca in psicoterapia: il 'contesto della verifica' nuoce al 'contesto della scoperta'?", ed è stata pubblicata negli Atti sulla rivista Psichiatria Generale e dell'Età Evolutiva, 2001, 38, 4: 482-513].

Quando anni fa io e alcuni colleghi fondammo la sezione italiana della Society for Psychotherapy Research (SPR), e organizzammo i primi convegni in questo settore in Italia (ricordo ad esempio il convegno "La validazione scientifica delle psicoterapie psicoanalitiche" a Venezia il 18-19 maggio 1991, o il primo convegno dell'SPR in Italia a Cernobbio il 4-7 settembre 1996, a cui ho accennato nella mia rubrica del n. 74/1997), ci era chiaro che la nostra intenzione non era solo quella di incentivare la ricerca empirica in psicoterapia nel nostro paese, ma, in modo più ambizioso, anche di aprire problemi e di smuovere le acque tranquille di certa cultura psicoterapeutica italiana. Da una parte volevamo stimolare sempre più terapeuti di diverso orientamento a conoscersi, a parlare tra loro, e vedevamo la ricerca in psicoterapia come uno strumento privilegiato per abbattere steccati e vecchi pregiudizi; infatti la SPR, diversamente da altre associazioni scientifiche, non segue logiche accademiche o istituzionali, ma riunisce diversi orientamenti e ruoli professionali per scopi comuni, facendo respirare un'aria di piacevole confronto, egualitarismo e curiosità, per cui spesso si creano interessanti alleanze trasversali (un'altra occasione di questo tipo è la Society for the Exploration of Psychotherapy Integration [SEPI], di cui ho contribuito a organizzare la sezione italiana e della quale voglio ricordare che sono già stati organizzati alcuni congressi nazionali: il primo a Milano 16 marzo 2002, il secondo a Firenze il 24-26 Marzo 2006, e il terzo a Roma il 18-20 aprile 2008). Dall'altra parte, cosa ancor più importante, quello che volevamo era diffondere una cultura critica che cogliesse la sfida della corretta formulazione delle ipotesi e della verifica dei risultati, attenta alle insidie delle autoconferme e degli autoinganni che spesso sono presenti in una psicoterapia basata unicamente sulla cosiddetta esperienza clinica.

La storia sia della medicina che della psichiatria presenta innumerevoli esempi di quanto il metodo basato solo sulla "esperienza clinica" abbia portato a errori a volte anche fatali. Alla fine dell'Ottocento, ad esempio, gran parte degli interventi medici erano inutili se non addirittura dannosi, e, nonostante questo, continuavano ad essere praticati con una ricca serie di autoconferme e nel rispetto della comunità scientifica del tempo. In determinati paesi e culture, metodi dannosi o inutili hanno continuato ad essere usati per secoli o addirittura millenni, caratterizzando la storia della medicina, e non si capisce perché questo non possa essere accaduto e accadere, magari in misura maggiore, anche nella storia della psicoterapia o della psichiatria. Tra i tanti esempi che si possono fare al riguardo, vorrei menzionare brevemente quello della psicochirurgia (Eisenberg, 1998), un esempio abbastanza vicino a noi e che rende bene l'idea dell'importanza della ricerca empirica controllata.

L'esempio della psicochirurgia

La psicochirurgia fu inventata da Egas Moniz, un neurochirurgo portoghese che la provò per la prima volta nel 1935 su 20 pazienti psichiatrici riportando a suo parere dei miglioramenti. Subito dopo, l'americano Walter Freeman, un neurologo della George Washington University, ne fu talmente entusiasta che iniziò a praticarla e a farla conoscere diffusamente, tanto che nel 1951 più di 20.000 pazienti psichiatrici, prevalentemente prelevati dei manicomi, erano già stati operati. I successi erano considerati "strepitosi", e apparentemente ne erano soddisfatti non solo i pazienti, ma anche i familiari, i medici e gli infermieri, tutti confermando i grossi vantaggi per disturbi mentali invalidanti. Per l'invenzione della psicochirurgia Moniz nel 1949 ricevette addirittura il Premio Nobel, nella ammirazione della comunità scientifica internazionale. L'autorevole medico Fulton, della Yale University, che era stato allievo nientemeno che di Sherrington e Cushing, si vantò di aver ispirato Moniz a tentare questa operazione per i cambiamenti comportamentali che lui stesso aveva ottenuto con lesioni frontali sugli scimpanzé. Tantissimi autorevoli medici del tempo l'approvarono (Adolf Meyer, Kurt Goldstein, Harry Solomon, ecc.), e le poche voci critiche (come quelle di Smith Ely Jelliffe, Roy Grinker, William Alanson White, Gregory Zilboorg, ecc.) non furono ascoltate. A seguito di alcune perplessità espresse da vari neurologi sulla mancanza di ricerche neuroanatomiche accurate che supportassero questa tecnica, Freeman allora inventò un'altra procedura, la "lobotomia transorbitale", di cui nuovamente fu entusiasta, e cominciò a viaggiare in lungo e in largo per gli Stati Uniti tenendo conferenze e praticandola personalmente su più di 2.400 pazienti dal 1948 al 1957 (persino una sorella di John Fitzgerald Kennedy fu lobotomizzata all'età di 22 anni a causa di "sbalzi di umore", col risultato che cadde in uno stato cerebrale infantile, divenne incontinente e si mise a passare il tempo a fissare le pareti).

Ebbene, queste pratica, come altre, era basata sulla esperienza clinica, non su una rigorosa ricerca scientifica. Studi più rigorosi, non basati solo sulla personale "esperienza clinica" di chi era coinvolto personalmente in questa pratica, dimostrarono che la psicochirurgia era inefficace, e da quel momento il suo uso praticamente scomparve dalla pratica psichiatrica. In quegli anni la metodologia di ricerca non era avanzata, non vi erano validazioni diagnostiche né sofisticati test psicometrici per valutare il cambiamento cognitivo dei pazienti dopo l'operazione, né venivano fatti adeguati follow-up. Basti pensare che il primo studio controllato randomizzato (Randomized Clinical Trial [RCT]) pubblicato fu lo studio del Medical Research Council sulla streptomicina per la tubercolosi del 1948, quindi in epoca molto recente [per un approfondimento sugli RCT, vedi la rubrica del n. 98/2005]. E' stato solamente con la generalizzazione delle conquiste della rivoluzione scientifica che si è fatto un drastico salto di qualità nella individuazione delle terapie più efficaci, portando ad un debellamento di molte malattie e a salvare da epidemie intere popolazioni. Il metodo scientifico, basato sulla indagine statistica e su precise metodologie extra-cliniche (cioè non basate solo sulle osservazioni, naturalmente biased cioè prevenute, del clinico coinvolto), permette di avanzare nelle conoscenze, e di rompere l'autoinganno quotidiano che è sempre in agguato di fronte al clinico. E paradossalmente, nella misura in cui il metodo statistico e sperimentale ci permette di aggirare, almeno parzialmente, l'autoinganno favorito dalle nostre aspettative inconsce, in questo aspetto esso ricorda, per così dire, il metodo psicoanalitico, perché aiuta a combattere la nostra falsa coscienza e a vedere quello che difensivamente non vogliamo o non possiamo vedere perché desiderosi di proteggere la fede nell'approccio che ci sta più a cuore.

Ma la ricerca può nuocere alla clinica?

Ho fatto questa premessa per sottolineare, a scanso di equivoci, l'importanza che a mio parere va attribuita alla ricerca empirica in psicoterapia, che - non va dimenticato - è stata capace di dimostrare al di là di ogni dubbio che la psicoterapia è in media più efficace del placebo [rimando qui al Bergin and Garfield's Handbook of Psychotherapy and Behavior Change: An Empirical Analysis, il manuale che è il punto di riferimento dei ricercatori in questo settore, giunto nel 2003 alla quinta edizione]. Ma a me piace sempre fare l'avvocato del diavolo, e in queste mie riflessioni voglio vedere l'altra faccia della medaglia, proprio nello spirito critico di cui parlavo prima, teso cioè, coerentemente, a guardare le ombre e le luci di ogni nostra impostazione. Vorrei cioè fare alcune riflessioni critiche proprio nei confronti della ricerca in psicoterapia poiché, così come essa è estremamente utile nell'arricchire la nostra comprensione della realtà clinica, è altrettanto vero che l'atteggiamento del clinico non ricercatore a volte può aiutarci a vedere alcuni limiti e pericoli della ricerca empirica e gli aspetti negativi legati alla generalizzazione di un certo tipo di cultura derivata dalla ricerca. In questo modo, quindi, mi ricollego alla mia rubrica del n. 98/2005 (che si intitolava "Sono veramente efficaci le psicoterapie evidence-based?), dove avevo riassunto l'importante contributo critico di Westen che avevo fatto uscire sul n. 1/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane.

Si può infatti dire che nella storia della ricerca in psicoterapia oggi siamo in una fase in cui prevalgono una certa insoddisfazione e un ripensamento: volendo schematizzare, dopo una prima fase caratterizzata da intuizioni, scoperte cliniche, formazioni di scuole e paradigmi di ricerca, si è passati a una seconda fase in cui - nelle parole di Orlinsky e Russell [vedi il cap. 7 del libro a cura di R.L. Russell Reassessing Psychotherapy Research. New York: Guilford, 1994] - dal "contesto della scoperta" si è passati al "contesto della verifica", cioè si è cercato, dietro pressioni ed esigenze che provenivano da più parti, di verificare sperimentalmente con gli strumenti scientifici disponibili, molto spesso basati su una logica riduttivamente positivistica, le scoperte cliniche fatte; questa fase ha portato a una terza fase, caratterizzata da una diffusa insoddisfazione per i risultati raggiunti, e a un sentito bisogno quasi di ritornare al "contesto della scoperta". E' proprio sulle problematiche sottostanti a questa fase, in cui ci troviamo, quelle su cui vorrei soffermarmi [per un panorama delle varie fasi storiche della ricerca in psicoterapia, suddivise però in un modo un po' diverso, rimando alla mia rubrica del n. 66/1994, intitolata "Una breve storia del movimento di ricerca in psicoterapia"; per una trattazione più approfondita, rimando alla mia review del 1996 "La ricerca in psicoterapia: storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo"].

Il "contesto della scoperta" e il "contesto della verifica" sono due diversi modi di procedere in psicoterapia, che non dovrebbero essere totalmente scissi, ma che di fatto in parte lo sono [vedi, di nuovo, la mia rubrica del n. 88/2001]. Il primo riguarda la ricerca clinica, le ipotesi, la costruzione di una teoria ecc. E' una fase molto importante, altamente euristica, che accompagna lo sviluppo della scienza psicoterapeutica così come di ogni scienza. Il "contesto della verifica" si crea invece quando ci si mette a fare ricerca empirico-quantitativa sulla psicoterapia, e si segue una logica completamente diversa. Qui il nostro obiettivo, quello che determina il nostro modo di procedere, non è più quello di fare delle scoperte, ma di dimostrare qualcosa a qualcuno, spesso spinti da altre esigenze, che spesso sono sociali o economiche: inevitabilmente siamo costretti a ridurre i dati, a catalogarli, spesso a deformarli o a snaturarli, con grosse implicazioni riguardo alla validità e alla rilevanza (si pensi, come esempio, a quella che una volta chiamammo "cultura del DSM-III" e alle sue implicazioni per la pratica clinica [rimando alla mia rubrica del n. 71/1996, e ad alcuni articoli dei primi anni 1980 su Psicoterapia e Scienze Umane in cui introdussi in anteprima in Italia in DSM-III, a cui seguì un dibattito, in particolare si vedano i numeri 4/1983, 1/1984, 2/1984, 3/1984, 2/1985]). Durante questo processo possiamo anche perdere cose importanti, o distorcerle, e questo a causa delle limitazioni che ancora esistono negli strumenti di ricerca e nelle metodologie impiegate. Per fare capire meglio quello che voglio dire, vorrei fare un esempio concreto, quello di Carl Rogers.

L'esempio del percorso di Rogers

Emblematico, secondo alcuni storici di questo settore, è il percorso di Carl Rogers, che come sappiamo fu uno dei grandi pionieri della ricerca in psicoterapia (il che può rappresentare un paradosso, perché proprio Rogers, esponente del movimento "umanistico" in psicoterapia, sottolineava il ruolo dell'empatia e di altri fattori non facilmente analizzabili dal ricercatore): fin dagli anni 1940 Rogers usò il registratore e precisi strumenti di ricerca quantitativa, dando avvio, si può dire, al movimento di ricerca in psicoterapia. Voglio qui accennare al percorso rogersiano soprattutto come esempio di possibili altri simili sviluppi nel movimento di ricerca in psicoterapia. All'inizio Rogers lavorò per intuizione e sulla base della sua esperienza clinica, arrivando a costruire una teoria della personalità e un interessante modello della psicoterapia (questo modello è basato su tre fattori facilitanti per il cambiamento, che lui individuava nella "empatia", nella "congruenza" del terapeuta, e nella "accettazione incondizionata"; alcuni di questi concetti, come sappiamo, furono ripresi tanti anni dopo da un Kohut [su Rogers, vedi la mia rubrica del n. 101/2006]). Poi ad un certo punto Rogers decise che era ora di dimostrare quello che aveva scoperto, e che il suo obiettivo era dare carattere scientifico alle sue scoperte. Rogers pensò che la sua tecnica potesse essere studiata tramite l'audioregistrazione, che poteva "obiettivare" alcuni eventi esterni o visibili della terapia. Il suo scopo era quello di rendere la terapia «un processo basato su principi conosciuti e testati, con tecniche testate che mettessero in pratica quei principi» [C.R. Rogers, The use of electrically recorded interviews in improving psychotherapeutic techniques. American Journal of Orthopsychiatry, n. 12/1942, p. 434]. Il suo gruppo di ricerca poteva quindi ora «investigare quasi ogni fase della psicoterapia che vogliamo conoscere, dall'aspetto più sottile della relazione consulente-cliente fino a misurazioni del cambiamento comportamentale» [C.R. Rogers, La terapia centrata sul cliente: teoria e ricerca (1951). Firenze: Martinelli, 1970, p. 13 ed. orig.]. In un primo momento Rogers aveva cercato di spiegare la tecnica della sua "terapia centrata sul cliente" collegando brani di sedute trascritte verbatim a determinati principi teorici, in un modo abbastanza soggettivo, e cercando di fornire delle "buone ragioni" per descrivere e interpretare l'aspetto esperienziale della terapia nei termini della sua teoria. Come osserva Russell:

«E' importante notare che in queste illustrazioni [di Rogers] non vi è alcuna preoccupazione  per i problemi metodologici formali di una utilizzazione e di una classificazione tassonomica attendibili delle tecniche, o il requisito di esplicitare definizioni operative o analitiche del linguaggio del terapeuta. Ma cambiando il suo focus primario - cioè mentre prima voleva solo esplicitare un nuovo approccio terapeutico, ora invece voleva essenzialmente assicurargli un suo statuto scientifico - tali problemi metodologici divennero centrali. Per Rogers, e specialmente per il suo gruppo di ricerca, garantire una base scientifica alla terapia centrata sul cliente significò abbracciare senza riserve (·) la convinzione che il dictum di Thorndike era essenzialmente corretto, e cioè che ogni cosa che esiste, esiste in una quantità che può essere misurata» [cit. in: Orlinsky & Russell, p. 198].

Da una fase basata su una spiegazione narrativa della sua nuova tecnica, Rogers passò quindi a una fase in cui si era dato un compito diverso, quello di compiere uno studio scientifico di tipo quantitativo. Come quasi tutti i ricercatori degli anni 1940-50, il gruppo di Rogers fu guidato da principi empirici con il compito di identificare e costruire apposite situazioni sperimentali con le relative strumentazioni di misurazione obiettiva, tramite scale di valutazione lineari e test di significatività statistica. Vale la pena di citare le parole dello stesso Rogers, dove si vede che era mosso dalle migliori intenzioni:

«[Sentiamo il bisogno di] testare un insieme coerente di ipotesi che emergono da una precisa teoria delle personalità. Ci siamo sforzati di evitare di testare ipotesi atomistiche dove conferma o disconferma avevano poco a che fare con un corpo più vasto di teoria. Al contrario, abbiamo fatto in modo che ogni ipotesi che abbiamo testato avesse un posto significativo nello sviluppo della teoria della personalità della terapia centrata sul cliente (·). E' in questo modo, crediamo, che abbiamo evitato di accumulare un insignificante corpo di fatti isolati, per promuovere invece un progresso scientifico genuino» [C.R. Rogers & R.F. Dymond, editors, Psychotherapy and Personality Change. Chicago: University of Chicago Press, 1954, pp. 6-7].

Ma in realtà già dal 1950 i principi qui descritti erano stati sistematicamente disattesi nella pratica di ricerca del gruppo di Rogers, e questo portò a una specie di snaturamento del lavoro del suo gruppo, a una erosione del suo paradigma di ricerca e dei suoi stessi principi. Così Orlinsky & Russell descrivono questo processo:

«La erosione di questi principi può essere attribuita alla comprensibile ma in un certo qual modo auto-accecante adozione delle pratiche metodologiche prevalenti dell'empirismo positivista. Così, per esempio, il significato dell'uso di particolari tecniche terapeutiche in ciascuna terapia doveva essere ristretto allo scopo di renderlo riconducibile alla classificazione in sistemi categoriali in gran parte nominali. Per essere usati in analisi statistiche, tali categorie di tecniche dovevano essere concettualizzate come indipendenti e mutuamente esclusive. Si doveva ritenere che esse portavano lo stesso peso statistico dovunque si presentassero all'interno della seduta, ed erano trattate come se avvenissero in gran parte a caso nel processo terapeutico. Inoltre, si riteneva che le categorie stesse guadagnassero in utilità scientifica nella misura in cui venivano definite con una terminologia sempre più universale ma possibilmente irrilevante clinicamente, una terminologia che era, clinicamente parlando, panteorica o ateorica.

Il risultato di tutto questo focus sul rigore metodologico fu che diverse terapie vennero ad essere paragonate sulla base di una piccola serie di categorie la cui rilevanza clinica non era chiara. I paragoni di solito venivano fatti sulla frequenza dell'uso di queste categorie, trascurando un esame reale dei processi che costituivano il bersaglio dichiarato della ricerca. Inoltre i risultati non rientravano nello sviluppo della teoria come richiesto e pensato da Rogers e dal suo gruppo. E, del resto, come potevano? Lo sviluppo di categorie ateoriche mirate alla descrizione di eventi obiettivi deprivati dei loro plurimi significati necessariamente aveva poco a che fare con le teorie cliniche esaminate» [in Orlinsky & Russell, cit., p. 200].

In altre parole, l'unico contesto da tenere in considerazione divenne quello in cui le categorie potessero essere messe alla prova riguardo al numero di rapporti empirci rilevanti a cui partecipavano: persino nella costruzione delle proprie categorie descrittive di base, il contesto della verifica divenne il primario focus di interesse. In tale contesto, le categorie che riuscivano a partecipare a rapporti empirici rilevanti sopravvivevano, e la conoscenza veniva costruita sulla base di induzione e processi di generalizzazione dal basso all'alto (bottom-up). Tutto questo si incastrava bene coi principi epistemologici empirici che quei primi ricercatori cercavano di emulare. Russell ha spiegato bene il prezzo che però si dovette pagare:

«Il valore, il significato, la rilevanza, ecc., di un dato sistema categoriale può così essere determinata non nei termini del suo "senso" riguardo a certi schemi di riferimento clinici e concettuali, ma solo nei termini del suo riuscire a produrre, competendo con altri sistemi, il tipo di dati attraverso cui garantire generalizzazioni empiriche e formulazioni di leggi. (·) Così, non solo è irrilevante come le categorie venivano scelte e generate all'inizio (se a ragione o per capriccio), ma essenzialmente è anche irrilevante come vengono interpretate le categorie una volta che siano conosciuti i loro rapporti empirici» [R.L. Russell, Empirical Investigations of Psychotherapeutic Techniques: A Critique of and Prospects for Language Analyses. Ann Arbor, MI: University Microfilms International, 1984, pp. 44-45]

Secondo Orlinsky e Russell si può dire quindi che lo sforzo di ricerca empirica di Rogers sia andato a finire proprio dove Rogers aveva voluto evitare che andasse, cioè nell'accumulare fatti teoricamente irrilevanti con poca significatività clinica, e con la dissoluzione e l'appiattimento delle "scuole di pensiero" negli aspetti metodologici della ricerca scientifica: ogni fenomeno, teoria o scuola di pensiero doveva essere sottoposto allo stesso processo di obiettivizzazione, misurazione, e prova. Questa uniformità metodologica spesso ha appiattito anche le differenze teoriche e la specificità dei fenomeni studiati.

Conclusioni

L'interesse del percorso fatto dal gruppo di ricerca di Rogers, così come ci viene descritto nel libro di Russell (1994), consiste nel fatto che esso può essere stato compiuto, in misura maggiore o minore, anche da altri gruppi di ricerca appartenenti a importanti filoni del movimento psicoterapeutico. E' per questo che vari autori sostengono che l'ultima fase della storia del movimento di ricerca in psicoterapia sia caratterizzata da un desiderio di tornare al contesto della scoperta, dopo che decenni di furor misurandi hanno portato in parte a risultati frustranti e contraddittori. Orlinsky & Russell (1994) propongono infatti una suddivisione della storia del movimento di ricerca in psicoterapia in quattro fasi, in ciascuna delle quali elencano i principali volumi pubblicati, ordinati cronologicamente (resoconti di ricerche, antologie, manuali e revisioni della letteratura): una prima fase, che va dal 1927 al 1954, in cui si cercò prevalentemente di "stabilire un ruolo per la ricerca scientifica"; una seconda fase, dal 1955 al 1969, in cui si andò "alla ricerca del rigore scientifico"; una terza fase, dal 1970 al 1983, caratterizzata da "espansione, differenziazione, e organizzazione"; e infine una quarta fase, dal 1984 in poi, chiamata appunto "di consolidamento, insoddisfazione e riformulazione" [queste fasi, con l'elenco dei volumi per ogni singola fase, sono riportate al sito Internet http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/orl-ru94.htm]. Ma questo ritorno al contesto della scoperta, caratteristico di questa quarta fase, presenta problemi complessi e delicati, perché avviene in diverse atmosfere culturali e con differenti metodologie meta-scientifiche, rompendo il programma positivistico della "unità della scienza", e portando a prospettive o approcci molto diversi tra loro (ad esempio orientati alla scoperta, esploratori, descrittivi, qualitativi, narrativi, orientati agli eventi critici, e così via). E soprattutto, non va dimenticato che si può obiettare che anche la dicotomia tra il "contesto della verifica" e il "contesto della scoperta" è una dicotomia semplicistica, se non falsa, all'interno di una concezione moderna della scienza applicata: a mio parere, ad esempio, le due posizioni appartengono a diverse fasi del processo di conoscenza e vanno viste come complementari [rimando ancora alla mia rubrica del n. 88/2001]. Le "validazioni scientifiche" che emergono dal mondo della ricerca devono essere conosciute e attentamente valutate, per capire il nucleo di verità che portano con sé e il tipo di conoscenze prodotte. A questo proposito, si vedano, a scopo di curiosità, alcuni elenchi, rispettivamente della Chambless et al. e di DeRubeis & Crits-Cristoph, dei "trattamenti supportati empiricamente" (empirically supported treatments [EST]) o basati sulle evidenze (evidence based), con i criteri adottati per selezionarli, linkati al sito Internet http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc.htm [vedi anche l'articolo, più aggiornato, di Chambless & Ollendick "Gli interventi psicologici validati empiricamente: controversie ed evidenze empiriche" che ho fatto uscire su Psicoterapia e Scienze Umane, n. 3/2001, pp. 5-46]. Ma si faccia bene attenzione a non fraintendere questi elenchi, non solo o non tanto perché sono provvisori, ma anche perché includono solo le psicoterapie che sono state validate da studi pubblicati, quindi non rappresentano affatto tutte le psicoterapie potenzialmente efficaci, molte delle quali devono ancora essere validate o sono in corso di validazione - non bisogna confondere la complessità della realtà con quella piccola parte della realtà che i nostri limitati strumenti di ricerca ci permettono di vedere in una determinata, e per di più iniziale, fase della ricerca in questo difficile settore.

Per concludere, ritengo che andrebbero apprezzate sia le ragioni dei ricercatori sia le ragioni di coloro che vedono la ricerca in psicoterapia in modo critico e preferiscono basarsi sulla propria "esperienza clinica", nel senso che entrambe le prospettive vanno valorizzate e usate costruttivamente (vedi anche Holt, 1962). Entrambi i modi di procedere, quello del contesto della scoperta e quello del contesto della verifica, andrebbero utilizzati, tenendo conto che nessuno dei due porta alla "verità" (di per sé inconoscibile), ma che entrambi illuminano qualcosa di essa [per un approfondimento, rimando ancora all'articolo di Westen prima citato, da me riassunto nella mia rubrica del n. 98/2005].

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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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