PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2006, 101: 72-81

Rogers e la psicoanalisi
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Le problematiche poste dall'approccio rogersiano hanno sempre rappresentato una sfida per tutti gli altri approcci, compreso quello psicoanalitico. Carl Rogers riteneva che i fattori terapeutici fossero essenzialmente tre: empatia, accettazione incondizionata del paziente, e congruenza del terapeuta con le proprie motivazioni ed emozioni. Questi tre fattori assomigliano molto a quelli che tradizionalmente vengono definiti "aspecifici", per cui Rogers rappresenta una minaccia per quelle scuole la cui identità poggia su fattori "specifici" (ad esempio l'interpretazione di contenuti inconsci secondo una certa psicoanalisi, oppure il decondizionamento secondo il comportamentismo, ecc.).

Vorrei fare alcune riflessioni quindi sull'"approccio centrato sulla persona" (una volta si diceva "centrato sul cliente") fondato da Carl Rogers, cioè su questa psicoterapia chiamata anche "non direttiva" che rappresenta uno dei principali filoni del movimento "umanistico-esperienziale", la terza forza del movimento psicoterapeutico dopo quello psicoanalitico e cognitivo-comportamentale [vedi a questo proposito la mia rubrica del n. 96/2004 (Migone, 2004a), dove traccio una breve storia della psicoterapia]. Riprenderò e amplierò alcune parti di una relazione che fui invitato a presentare una quindicina di anni fa al II Congresso Italiano della Associazione Europea della Psicoterapia Centrata sul Cliente e dell'Approccio Centrato sulla Persona "Carl Rogers" (Arco di Trento, 3-5 maggio 1991), dal titolo "Da persona a persona. Qualità della relazione umana nella società che cambia", in una tavola rotonda (con C. Loriedo, C. Moiso, L. Pinkus, C. De Silvestri, A. Zucconi) dal tema "Comuni denominatori in psicoterapia" [questa mia relazione, dal titolo "L'approccio rogersiano e la psicoanalisi", fu poi pubblicata nella Rivista di Studi Rogersiani. Da Persona a Persona, 1992, dicembre: 67-73, ed è anche su Internet].

A costo di ripetere cose già note, prima vorrei ripercorrere criticamente il percorso della psicoanalisi, ovviamente in modo sintetico. Nella storia della psicoterapia il capitolo della psicoanalisi si aprì quando il suo fondatore, Sigmund Freud, ipotizzò che determinati sintomi potevano essere risolti riportando alla coscienza il ricordo rimosso di un trauma o di un abuso sessuale infantile, del quale i sintomi erano una sorta di segnale, di spia, o di prezzo pagato per tenerlo rimosso. Questa fu chiamata "teoria della seduzione" o del trauma, e Freud all'inizio utilizzava l'ipnosi per far ricordare questo trauma. Poi abbandonò l'ipnosi perché si convinse che si otteneva una risoluzione più duratura dei sintomi rielaborando non tramite ipnosi, ma allo stato di veglia tramite le "associazioni libere", il ricordo del trauma che era stato rimosso. In seguito abbandonò anche la teoria della seduzione, e pensò che poteva non trattarsi di un trauma veramente accaduto ma di desideri e fantasie che erano stati rimossi perché dolorosi, cioè in conflitto con altre istanze psichiche. Secondo questa nuova concezione, quindi, al posto del trauma "reale" Freud collocò desideri e fantasie, i quali se non venivano elaborati e reintegrati rimanevano nella psiche come una specie di corpo estraneo, producendo i sintomi. è per questo che l'intervento specifico della psicoanalisi divenne l'interpretazione del materiale inconscio allo scopo di eliminare nel più breve tempo possibile il bisogno del paziente di esprimere, attraverso i sintomi della malattia, questo mondo sommerso che non riusciva ad emergere, a essere espresso in parole.

Ciò però ha portato a privilegiare, nella storia del movimento psicoanalitico, la tecnica della interpretazione a scapito del rapporto affettivo, fino ad arrivare a quello che è diventato lo stereotipo della tecnica "classica" o "ortodossa" in cui l'analista si limita il più possibile a interpretare, mettendo in secondo piano importanti aspetti della relazione: analista è freddo e distaccato, lunghi silenzi per limitare gli interventi solo alla interpretazione, e così via. Si è insomma andati verso la tendenziale abolizione delle "impurità" del rapporto emotivo, come se fosse foriero solo di suggestione, allo scopo di isolare l'interpretazione, fattore terapeutico par excellence della psicoanalisi, e metterla alla prova in quasi un secolo di esperienze cliniche (questo avvenne sopratutto negli Stati Uniti, dove la psicoanalisi ebbe la maggiore espansione e dove può non essere un caso che gli analisti erano tutti medici [vedi le mie rubriche dei numeri 53 e 54 del 1990], tanto che si può pensare che l'interpretazione venisse intesa un po' come un antibiotico, uno strumento specifico per eliminare un disturbo). Inoltre, per il bisogno di differenziarsi dalle altre psicoterapie che diventavano sempre più competitive, il movimento psicoanalitico si irrigidì ulteriormente in termini di ortodossia, allontanandosi dalla stessa concezione di Freud il quale invece in varie occasioni aveva affermato - non bisogna dimenticarlo - che l'insight può avvenire solo all'interno di un rapporto facilitante, spingendosi una volta anche a dire che è il transfert positivo, non l'insight intellettuale, "quello che fa pendere il piatto della bilancia" [in Introduzione alla psicoanalisi (1915-17); rimando qui alla mia rubrica del n. 52/1989 sulla storia della teoria psicoanalitica dei fattori curativi, dove riprendo un lavoro di Friedman del 1978; vedi anche Migone, 1995, cap. 6].

Sono forse queste alcune delle cause della crisi a cui è andata incontro la psicoanalisi: ridimensionamento dei risultati terapeutici, diminuzione dei pazienti, crisi della sua immagine sociale (esportata nel vecchio continente dal Nordamerica, dove si era "bruciata" forse per la sua troppo rapida espansione a metà del 1900), crisi teorica tanto che alcuni parlano di un possibile viraggio di paradigma (maggiore enfasi sull'attaccamento e sulle cosiddette "relazioni oggettuali" a scapito dell'intrapsichico, svalutazione dell'interpretazione, ecc.), riabilitazione di figure precedentemente "scomunicate" quali Ferenczi (che sottolineava l'importanza del rapporto affettivo) e Sullivan (che sottolineava il ruolo dei rapporti interpersonali e rinnegava la teoria delle pulsioni), e così via [vedi a questo proposito il bell'articolo di Eagle "La natura del cambiamento teorico in psicoanalisi", Psicoterapia e Scienze Umane, 3/1992, pp. 5-33].

Ma uno dei più interessanti sviluppi, che si può considerare anch'esso all'interno della teoria delle relazioni oggettuali, è il movimento della "Psicologia del Sé" di Kohut, che forse ha rappresentato la più importante corrente di dissidenza nella psicoanalisi degli ultimi decenni. Kohut, soprattutto nei suoi ultimi scritti, scelse di rompere ogni compromesso con l'ortodossia per fondare una nuova psicologia basata su concetti come "empatia", "Sé", ecc. Il movimento kohutiano non casualmente sorse all'interno della tradizione della "scuola di Chicago", il cui principale esponente era Alexander (1946) che negli anni 1930-40 col concetto di "esperienza emozionale correttiva" sfidò la teoria classica della cura [si veda qui però la dura critica di Eissler del 1950, che a mio parere contiene aspetti tutt'ora validi ö entrambi questi lavori sono usciti su Psicoterapia e Scienze Umane, e sono anche su Internet linkati al sito http://www.psicoterapiaescienzeumane.it]; a sua volta, la scuola di Chicago si può dire che si ricolleghi idealmente alla "scuola ungherese", cioè a Ferenczi, le cui coraggiose posizioni sull'importanza del rapporto affettivo furono l'occasione della rottura con Freud (anche Alexander veniva dall'Ungheria, così come Gedo, che fu uno dei più stretti collaboratori di Kohut e che nel 1994 venne anche a tenere un seminario al Ruolo Terapeutico).

A mio parere, si può però parlare della "scoperta" dell'empatia da parte di Kohut solo se si ignorano le precedenti posizioni di Rogers [Vaccari, 1992] e, ancor prima, della antropo-fenomenologia europea [vedi a questo proposito il mio editoriale del n. 2/2004 di Psicoterapia e Scienze Umane, pubblicato anche nella mia rubrica del n. 97/2004 (Migone, 2004b)]. Ad ogni buon conto, e senza entrare approfonditamente nel merito delle posizioni di Kohut [per brevità, vedi le mie rubriche dei numeri 63 e 64 del 1993], si può dire che a livello sociologico esse furono anche una reazione di massa ai danni iatrogeni della psicoanalisi classica la cui tradizione era appunto più viva nel Nord America (neutralità, anonimità, astinenza, lunghi silenzi, ecc., insomma quella che io ho chiamato "personectomia" dell'analista). Questa specie di "deprivazione del rapporto emotivo", essendo ovviamente illusoria sia in teoria che in pratica, si è spesso tramutata in un rapporto emozionale negativo tout court, cioè in una frustrazione narcisistica; non è un caso che molte delle analisi kohutiane erano seconde analisi dopo analisi ortodosse fallite. Galli in vari scritti [vedi ad esempio "Le ragioni della clinica", Psicoterapia e Scienze Umane, 3/1988, pp. 3-8] ha mostrato molto bene come la degenerazione della cosiddetta tecnica "classica" sia avvenuta grazie a un preciso modo di trasmettere la teoria, dove determinati concetti o interventi (atteggiamento analitico basato su silenzio, neutralità, ecc.) venivano insegnati e utilizzati a prescindere dal contesto teorico in cui erano stati formulati (contesto teorico che nel corso del secolo si è decisamente modificato e frammentato in diverse scuole), in modo tale da innalzare mostruosamente la tecnica al rango di teoria, come se la tecnica, ormai vuota e "sacralizzata", potesse giustificarsi autonomamente [non posso qui approfondire questi temi, rimando a Migone, 1995 capitoli 1 e 4, 1992b].

Per tornare alle problematiche poste dall'approccio rogersiano, si può dire che esse siano per certi aspetti simili a quelle poste in psicoanalisi da Kohut, che nella sua Psicologia del Sé pure postula una autonoma tendenza che potremmo chiamare "attualizzante" del Sé in presenza di un ambiente accettante o empatico. Il concetto di self-actualization, centrale nella psicologia umanistica (che potremmo definire ottimistica), presuppone che l'individuo abbia una spinta innata ad adattarsi all'ambiente, a crescere in modo sano e in armonia con gli altri a meno che ciò non venga impedito da un ambiente sfavorevole o traumatico. Il Sé quindi per Rogers è per sua natura senza conflitti innati, essendo i conflitti prodotti essenzialmente da un ambiente traumatico, e i conflitti eventualmente presenti sono ombre, cicatrici di vecchie ferite, cioè vengono interiorizzati (mentre la psicoanalisi postula che i conflitti sono a monte, originati da fantasie interne, ed è per questo motivo che si suole dire che la psicoanalisi è una "teoria del conflitto" mentre la Psicologia del Sé di Kohut è una "teoria del deficit"). La Psicologia del Sé, peraltro, è diventata il retroterra teorico anche dell'infant research in psicoanalisi, cioè degli studi sperimentali sullo sviluppo del bambino (Stern, Lichtenberg, ecc.), che hanno dimostrato che il bambino ha effettivamente queste spinte innate che sono ö per dirla con Fairbairn [1952, p. 137] ö alla ricerca dell'oggetto e non del piacere o di una scarica (la quale implica una concezione della realtà che è nemica, di ostacolo allo sviluppo della persona, concezione opposta a quella della psicologia umanistica).

Ma, a ben vedere, questa concezione presta il fianco ad alcune critiche. Ad esempio Eagle ["Cambiamenti clinici e teorici in psicoanalisi: dai conflitti ai deficit e dai desideri ai bisogni", Psicoterapia e Scienze Umane, 1/1991, p. 40], sulla scorta dello stesso Mitchell [Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi. Per un modello integrato (1988), Torino: Bollati Boringhieri, 1993], non esita a definire "botanica" questa concezione dello sviluppo, nel senso che ricorda la crescita di una pianta alla quale si dia sufficiente luce ed acqua. Qui non è in questione il potere esplicativo di questa metafora nel ritrarre alcuni aspetti dello sviluppo infantile e della terapia, ma la sua utilità per comprendere tutta la complessità dell'esperienza umana. Ho la sensazione tra l'altro che neppure il rifiuto di una teoria del deficit in favore di una teoria del conflitto renda ragione di questa complessità, e che abbia molto ragione Eagle quando auspica un superamento di false dicotomie quali confitto/deficit o desideri/bisogni, nel senso che si tratta di facce di una stessa medaglia [Eagle argomenta bene queste idee in un capitolo del suo libro del 1984 La psicoanalisi contemporanea (Bari: Laterza, 1988), capitolo che è anche su Internet: "Carenze di sviluppo e conflitto dinamico"].

Ma non vorrei dilungarmi con queste considerazioni, e vorrei stimolare la riflessione ponendo alcune domande sull'approccio rogersiano. Innanzitutto dovrebbero essere definiti con precisione quali concetti differenziano l'approccio rogersiano dalla antropo-fenomenologia. Entrambi gli approcci, ad esempio, prescindono dal concetto di inconscio, almeno a livello clinico, e non a caso il movimento umanistico viene definito anche "fenomenologico". Chiarito questo problema, che ha rilevanza per l'identità di questo approccio, ci si può chiedere perché non dovremmo considerare i tre fattori terapeutici rogersiani (empatia, accettazione incondizionata e congruenza) come ingredienti essenziali di qualunque rapporto terapeutico, e non solo di quello rogersiano. Il fatto che altre tecniche terapeutiche (come la psicoanalisi, la terapia cognitiva, quella sistemica, ecc.) non abbiano sottolineato allo stesso modo questi aspetti potrebbe dipendere da certe distorsioni, come si è visto per la psicoanalisi, o da fenomeni tipici dello sviluppo iniziale di una scuola che per forza tende a dare enfasi alle differenze più che alle somiglianze con gli altri approcci. Se fornissimo al paziente, sempre all'interno di un clima facilitante (empatia, ecc.), ulteriori strumenti "specifici" di cui eventualmente potrebbe avere bisogno (interpretazione, chiarificazione, decondizionamento, ecc.), non potrebbe venirne arricchito? In altre parole, siamo sicuri che, oltre agli ingredienti di base dell'approccio rogersiano, al paziente non possiamo "dare di più"? Siamo sicuri che il paziente necessariamente subirebbe, ad esempio, una passivizzazione? Potrebbe invece esserne stimolato, e rispondere ai nostri input con una ulteriore spinta in avanti, di curiosità e di esplorazione a vari livelli.

Dietro a queste domande vi può essere un modo sbagliato di impostare il problema, quello di concepire gli ingredienti dell'approccio rogersiano come alternativi o in opposizione a un approccio che usa, oltre a questi, anche altre tecniche. Questo potrebbe essere un errore uguale e contrario a quello dei freudiani, nel senso che i rogersiani potrebbero erroneamente ritenere che un intervento specifico possa disturbare il clima facilitante. Perché mai offrire empatia dovrebbe impedire di fornire al paziente nuovi strumenti cognitivi? Al contrario, un clima facilitante dovrebbe aumentare l'effetto di altri fattori terapeutici. In che modo ad esempio può essere negativo lavorare sul transfert, cioè avanzare col giusto tatto al paziente l'ipotesi che egli in seduta ripeta comportamenti da lui mostrati verso altre persone significative? E' possibile qui che la critica rogersiana si basi su una concezione stereotipata della psicoanalisi. La psicoanalisi classica infatti, per lo meno nella versione della Psicologia dell'Io, raccomandava sempre di partire dalla superficie e mai dal profondo, di proporre eventuali interpretazioni come ipotesi da sottoporre umilmente alla attenzione del paziente che può scartarle se le ritiene sbagliate, possibilmente di non usare parole che il paziente non ha già detto, e in ogni caso l'ideale è che sia il paziente ad arrivare da solo alla interpretazione grazie al lavoro "facilitante" e preparatorio fatto precedentemente.

C'è un altro possibile aspetto in cui i rogersiani rischiano di fare lo stesso errore compiuto dai freudiani ortodossi: quello di credere che sia possibile essere del tutto "non direttivi", senza influenzare lo sviluppo di una persona. In psicoanalisi c'è stato un grosso dibattito sul concetto di neutralità, e oggi crediamo molto meno che sia possibile non influenzare il paziente. Di fatto trasmettiamo valori, favoriamo identificazioni, influenziamo le sue scelte, ecc., e questo accade ancor di più se ci illudiamo di non farlo, perché vi è una inevitabile componente suggestiva in ogni relazione umana. Se insomma i rogersiani credono veramente di offrire solo un clima facilitante che permette al paziente di crescere secondo un proprio progetto di vita (è anche per questo ad esempio che non si arrogano il diritto di interpretare le motivazioni inconsce del paziente), potrebbero peccare della stessa ingenuità di quegli psicoanalisti che credevano ciecamente nella neutralità analitica.

Inoltre, se vanno elogiate le pionieristiche ricerche rogersiane sui fattori terapeutici, mi chiedo se non potrebbe essere giustificato ora procedere ad individuare fattori più "specifici" (questo in fondo mi sembra fece Rogers quando, studiando il clima facilitante, è arrivato a definire meglio le tre condizioni di empatia, accettazione positiva incondizionata e congruenza). Per fattori più specifici alludo per esempio a certe "tecniche" che potrebbero essere utili per pazienti più gravi (si pensi alla schizofrenia, ai disturbi alimentari, al disturbo ossessivo-compulsivo, ecc., e non a caso esiste un dibattito nel movimento rogersiano sulle indicazioni: l'approccio centrato sulla persona è indicato per tutti i pazienti, anche gravi, oppure deve essere modificato? E se non è indicato per i pazienti gravi, allora il rogersiano quale tecnica deve usare con questi pazienti?).

Da notare che ho usato la parola "tecnica", termine a cui i rogersiani molto coerentemente si oppongono. Infatti l'approccio rogersiano non vorrebbe essere una tecnica, ma una modalità esistenziale, che tra l'altro presuppone una teoria dello sviluppo e una concezione dell'uomo. Non a caso il termine "tecnica", anche nel linguaggio comune, si oppone al termine "psicologia umanista". Ma si vuole dire che le tecniche sono sempre "disumanizzanti"? Mi chiedo se non sia il caso che questo sia ormai da considerarsi un cliché, dietro al quale si nasconde anche la vecchia dicotomia tra scienze umane e scienze naturali, usata qui in modo strumentale [vedi Fornaro, 1991, p. 120]. Sembrerebbe insomma molto sensato concepire un atteggiamento "centrato sulla persona" come base comune di tutte le psicoterapie, dal quale, in un continuum, si diversificano altri fattori più specifici, utilizzabili anche dal terapeuta rogersiano.

D'altra parte, a proposito di specificità, va anche detto che può essere un errore pensare che l'approccio rogersiano sia del tutto aspecifico o generico. Io ad esempio sono stato sempre colpito dalla complessità di uno dei tre fattori curativi rogersiani, e precisamente da quello della congruenza. Questo fattore curativo, se l'ho capito bene, presuppone che il terapeuta debba essere capace di stare in contato col proprio mondo interno, di essere in armonia con esso, di essere "autentico", in altre parole sano, maturo, ricco umanamente ecc. (questo fattore, tra l'altro, mi sembra un prerequisito per gli altri fattori, ad esempio l'empatia, nel senso che questi fattori sono intrecciati come facce della stessa medaglia: chi non è in contatto coi propri sentimenti non può neppure entrare in contatto con quelli degli altri, cioè provare empatia). Ebbene, mi sembra che qui si vuole dire che un paziente (anzi, un cliente, una persona), nella misura in cui entra in relazione con un terapeuta (meglio sarebbe dire con un'altra persona) che ha queste importantissime qualità umane, ne ha ipso facto un beneficio, cioè dentro di lui possono sbocciare risorse, può sentirsi meglio, sentirsi "vivo", per la prima volta forse in vita sua "respirare" un clima che non ha mai conosciuto prima. Ritengo insomma che la congruenza sia un fattore di straordinaria importanza, e che vada riconosciuta a Rogers questa importante intuizione clinica. Del resto, recenti ricerche sulla interazione sia madre-bambino sia terapeuta-paziente danno ragione a Rogers: si pensi agli studi sulla metacognizione (o sulla "funzione riflessiva", o "teoria della mente"), dove è stato dimostrato che il fattore che veramente fa la differenza è la capacità della madre (o del terapeuta, se si tratta di una terapia) di saper riconoscere gli stati mentali della persona con cui interagisce, cosa che è strettamente collegata con la capacità di sapere leggere i propri stati mentali. Solo in questo modo il paziente può a sua volta imparare a riconoscere i propri stati mentali, a "costruire la propria mente", in un processo detto appunto di "mentalizzazione". Alludo alle ricerche di Fonagy e dei tanti ricercatori che lavorano in questo settore, i cui lavori sono ormai tantissimi [cito tra i tanti il libro del 2002, tradotto in italiano, di P. Fonagy, G. Gergely, E.L. Jurist & M. Target Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del Sé; si veda anche il libro di Fonagy P. & Target M. Attaccamento e funzione riflessiva]. Interessante è anche il manuale del 2004 di A. Bateman & P. Fonagy per la psicoterapia psicoanalitica dei borderline [Il trattamento basato sulla mentalizzazione], che appunto parte da queste premesse teoriche ed è chiamato non a caso "Mentalization Based Treatment" (MBT): secondo questo approccio (che in una sperimentazione controllata a ha dato risultati molto buoni, superiori alla tecnica comportamentale) il terapeuta deve continuamente cercare di comprendere e riflettere, soprattutto con lo strumento cardine dell'empatia, gli stati mentali del paziente. Il fatto che decenni fa Rogers in modo profetico avesse capito che questo fattore è di vitale importanza per la psicoterapia non andrebbe sottovalutato, ed è ironico che i fattori che lui individuò furono chiamati "aspecifici" quando oggi sofisticate ricerche dimostrano che invece sono estremamente importanti, tanto da divenire, per così dire, "specifici".

Non posso approfondire qui ulteriormente questi temi (su cui, ripeto, c'è una ricchissima letteratura), e vorrei concludere condividendo col lettore una riflessione a proposito dell'approccio rogersiano in cui, tra l'altro, accenno ancora alla questione della congruenza. Quando ci si avvicina per la prima volta all'approccio rogersiano spesso ci si chiede se a volte i due fattori curativi della "accettazione incondizionata" e della "congruenza" possano essere in contraddizione tra loro: se per esempio mi capita di non sopportare un paziente, come faccio a essere congruente coi miei sentimenti se nello stesso tempo devo accettarlo incondizionatamente? A prima vista, sembrerebbe che posso accettarlo solo se gli mento, oppure che, viceversa, se sono congruente devo per forza non accettarlo. I rogersiani risolvono questo apparente paradosso nel modo seguente: può benissimo capitare di provare sentimenti molto negativi verso un paziente, o di non aver nessuna voglia di "accettarlo incondizionatamente", ma questo non è un problema perché io non accetto incondizionatamente quelle parti del paziente che non mi piacciono o che comunque disapprovo, io accetto la "persona" del paziente. Questo significa che io postulo sempre l'esistenza, all'interno di ogni individuo, di un Sé che deve svilupparsi e che io accetto incondizionatamente, anche se questo Sé è molto diverso da quello che sembra mostrare il suo comportamento. Si ha insomma una sorta di fede o di fiducia che vi sia, dietro a sintomi o comportamenti a volte orribili, un nucleo della persona che può realizzarsi in modi che possono piacere o che ci si sente di accettare incondizionatamente. Come è facile intuire, questa operazione può avere grosse implicazioni terapeutiche, perché il paziente può attivare lo sviluppo di questa parte di sé  proprio grazie al fatto che il terapeuta crede che essa esista e che possa svilupparsi. Inoltre, distinguendo tra la persona (che viene accettata) e certi sintomi (che non vengono ugualmente accettati dal terapeuta), si opera una prima salutare suddivisione, quella tra i sintomi e la persona, ad esempio tra un determinato problema comportamentale e l'autostima, il che è una importante operazione terapeutica: il paziente impara a differenziare, forse per la prima volta in vita sua, certe rappresentazioni mentali, impara ad osservarsi, a riflettere sul proprio mondo interno, a vedere un sintomo come fuori da sé (primo passo per cambiarlo, altrimenti rimane egosintonico). Questo fattore terapeutico, che del resto è presente in tutte le psicoterapie espressive a cominciare dalla psicoanalisi, può essere chiamato anche autoriflessione, introspezione, "funzione analitica", costruzione di un "Io osservante" la cui attività continua anche dopo la terapia tramite l'autoanalisi, e così via. è insomma il concetto di mentalizzazione a cui si accennava prima.

Ma voglio terminare questa mia breve riflessione per sottolineare la grande somiglianza che questa operazione clinica ha, a mio parere, con quella di un approccio molto diverso, e precisamente con quello psicoanalitico basato sulla teoria delle relazioni oggettuali di Kernberg [vedi la mia rubrica del n. 56/1991]. Dico questo perché mi è capitato più volte di osservare come colleghi di diverso orientamento trattino il materiale clinico allo stesso modo al di là delle parole usate. Quando ad esempio un terapeuta prova un vissuto negativo nei confronti di un paziente (la stessa cosa naturalmente vale per il paziente nei confronti del terapeuta), l'approccio di Kernberg insegna che una prima cosa da fare è chiedersi se questo non sia il derivato dell'attivazione di un "oggetto parziale" (part-object), cioè di una rappresentazione scissa (del tipo "tutta buona" o "tutta cattiva"), eventualmente a causa di una controidentificazione proiettiva [per brevità, vedi il mio articolo sulla identificazione proiettiva nel n. 49/1988]. Il terapeuta cioè impara che la realtà può non essere come lui la percepisce, ma più equilibrata, ad esempio meno esageratamente negativa, e questo perché esiste un'altra parte della rappresentazione che noi escludiamo a causa della difesa che mettiamo in atto (la scissione). Sembra quindi che anche nell'approccio di Kernberg si postuli una fede che esista un "oggetto totale", cioè la possibilità, anche per pazienti gravi (non si dimentichi che questo approccio è per i borderline), che il paziente possa raggiungere una rappresentazione "integrata" di sé e degli altri, cioè più accettabile, meno orribile o estremizzata di come lui a volte la percepisce. Il terapeuta cioè riesce a svincolarsi da un potente vissuto negativo, ad esempio di rifiuto aggressivo di un paziente, nella misura in cui "crede" che la realtà possa essere un'altra, cioè che il paziente gli ha mostrato solo una faccia della medaglia, quella appunto molto negativa, e che il paziente "vero" (postulato dalla nostra "fede" teorica) ha anche aspetti migliori, anzi belli, che devono essere integrati e così via. Come ho cercato di dimostrare altrove [Migone, 2004c], anche la Dialectical Behavior Therapy (DBT) della Linehan, con il concetto di "dialettica", compie al stessa identica operazione clinica nonostante parta da un diversissimo background teorico, quello cognitivo-comportamentale. E quello che voglio sottolineare qui è che a mio parere il terapeuta rogersiano fa una operazione clinica molto simile, nella misura in cui ad esempio non si lascia sopraffare da un vissuto molto negativo nei confronti di un paziente, ma cerca di controbilanciarlo, di integrarlo, con l'ipotesi che esista anche un'altra parte migliore del paziente, un nucleo della sua persona che deve ancora svilupparsi pienamente e che cerca di far emergere nella relazione facilitante.

Per motivi di spazio devo interrompere queste mie riflessioni, che riguardano ora un tema che mi ha sempre interessato, quello della cosiddetta "integrazione" in psicoterapia [per alcune considerazioni generali sulla integrazione, rimando alla mia rubrica del n. 79/1998, e a Migone, 2003].

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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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