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Dibattito post-congressuale (in quattro parti)
avvenuto dopo il

I Convegno Nazionale SEPI-Italia (Milano, 16 Marzo 2002)
Integrità e integrazione in psicoterapia

Editing a cura di Tullio Carere-Comes e Paolo Migone

Interventi: Giorgio Alberti, Sergio Benvenuto, Tullio Carere-Comes, Giovanni Liotti, Paolo Migone

Terza di quattro parti (settembre-ottobre 2002)

Torna al Dibattito precongressuale (in due parti)


[Nota: La tornata del dibattito che segue prende le mosse dal "Metatheoretical Research Project" di Tullio Carere-Comes. Chi fosse interessato a sapere qualcosa di più su questo progetto, può scrivere direttamente all'autore (tucarere@tin.it)]

Giovanni Liotti, 4 settembre 2002:

Caro Tullio, quello che scrivi sulle tue idee acquista progressivamente sintetica chiarezza. Nei tuoi "manuali" questo valore è stato conseguito in alto grado: complimenti. Apprezzo poi molto il tuo intento di ricerca, come ti avevo già scritto in passato. Ho tre riflessioni critiche, che spero ti siano utili, sul progetto che esponi. 1) Non trovo convincenti i tuoi sforzi, peraltro molto intelligenti, volti a distinguere la tua "metateoria" dalle "teorie". Mi sembra che una raccolta coesa ed organizzata di ipotesi ed idee, riprese da modelli teorici e procedure diversi, con l'aggiunta magari di brillanti idee originali e magistralmente integrata, resti sempre una teoria, e non divenga "meta" per il fatto che riguarda le reazioni del paziente alle procedure manualizzate del terapeuta. Ma questa è un'obiezione minore, e non mi sembra che valga la pena di discuterla. In fondo, i miei argomenti si ridurrebbero a quelli con cui alcuni filosofi Buddhisti confutano l'esistenza di "pensieri primi" e "pensieri secondi" (cioè pensieri sui pensieri), e affermano che i "pensieri" sono, ad una attenta analisi, tutti dello stesso livello. Il che, naturalmente, non va inteso come incompatibile con la teoria dei tipi logici emersa nella nostra cultura occidentale. La congruenza fra la teoria di Russel e Whitehead da una parte ed il pensiero Buddhista dall'altra, sta nell'affermazione dei nostri due pensatori occidentali, che la teoria sulle teorie fa parte delle classi che includono se stesse (cos“ almeno la ho capita io). La mancata distinzione fra classi che includono se stesse ("parola", "teoria", "significato", "categoria", "classe", etc.) e classi che non includono se stesse ("la classe di tutti i gatti non è un gatto") è, forse è utile ricordarlo, la base dei paradossi. 2) Il Manuale per il paziente pone un potenziale problema metodologico. Se pensi di chiedere, attraverso esso, al paziente di "siglare" ogni seduta subito dopo il suo termine o comunque nell'intervallo prima della successiva (come sembra necessario per evitare interferenze nella memoria), allora la seduta successiva sarebbe, assai prevedibilmente, potentemente influenzata, tanto nel suo decorso quanto nel suo contenuto esplicito ed implicito, dall'avvenuta siglatura. Forse il processo terapeutico acquisterà così in efficacia: ricordo vagamente recenti ricerche, mi sembra di Lambert, che suggeriscono un grande valore terapeutico della riflessione sulle sedute, effettuata fra una seduta e l'altra da paziente e terapeuta, separatamente ma con la mediazione di un questionario comune che il paziente consegna al terapeuta ad ogni incontro. Si dovrebbe però star molto attenti, anche e forse soprattutto di fronte ad un miglioramento dell'efficacia terapeutica, nel trarre conclusioni da una metodologia che cos“ potentemente influenza, mentre esso si svolge, il fenomeno che si propone di studiare. "Osservare" il mondo atomico comporta l'uso di strumenti che lo modificano tanto da aver condotto al principio di indeterminazione, mentre osservare la traiettoria di un pallone allo stadio non la modifica un gran che. In modo simile, osservare il processo terapeutico può comportare l'uso di strumenti che ne modificano in maniera trascurabile il decorso (vedi la ricerca effettuata dal San Francisco Psychotherapy Research Group), o di strumenti come il tuo (e se ricordo bene quello di Lambert) che lo modificano potentemente. I due tipi di ricerche, una volta tenuta presente questa differenza, sono ovviamente entrambi legittimi ed interessanti. 3) Proprio perché l'uso dei tuoi due Manuali induce verosimilmente il paziente ad accettare una teoria (la tua) come base per la sua cura, quanti terapeuti accetteranno di consegnarlo ai loro pazienti? E quanti pazienti ne comprenderanno il pur chiarissimo (per gli psicoterapeuti) linguaggio? Con l'augurio che queste riflessioni critiche giovino al tuo progetto di ricerca, e non lo ostacolino in alcun modo, ti saluto caramente. E un saluto a tutti gli altri di questa minilista. Gianni 

Paolo Migone, 7 settembre 2002:

Caro Gianni, grazie per la tua mail e per avermi mandato copia del tuo commento alla ricerca di Tullio, a cui mando copia di questa mail. Anch'io non avevo capito bene la necessità di usare la parola "metateoria", e mi fa piacere che anche tu fai la stessa critica.

Trovo inoltre molto interessante la tua critica secondo cui il rispondere a quel questionario da parte del paziente dopo certe sedute altera profondamente il decorso delle sedute "naturali", per cui anche la tecnica di Tullio diventa invasiva come le tecniche di ricerca che Tullio criticava molto perché troppo invasive, e quindi non più valide perché rendevano troppo diversa la terapia praticata da una terapia normale in cui non si fa ricerca. Giustamente però dici che questa ricerca può fare molto bene all'andamento della terapia condotta (e ritengo che questo side-effect possa essere presente anche in altre ricerche).

Io avevo mandato a Tullio alcuni commenti, affrettati per la verità, che non ti avevo mandato perché li ritenevo scontati, anche alla luce del nostro precedente dibattito. Ora te ne copio qui solo uno, che mi sembra forse rilevante. Quando Tullio dice che:
The basic idea is that Freud was right, when he maintained that the analyst (or the therapist) is the researcher. The research must be done by the therapists themselves, not by researchers who study what therapists do, because only therapists have first-hand access to the material to investigate. It would be more precise to say that the therapist-patient couple is the basic research unit, because this is where the same persons who produce them can directly observe all relevant phenomena
Io avevo commentato:
ma allora quale è il tuo ruolo, se sei tu il ricercatore? Non solo, ma non è vero che solo il terapeuta ha first-hand material, ritengo invece che non vi siano first- and second-hand materials, vi sono solo materials su cui lavorare, sempre second-hand a livello filosofico. A volte poi il ricercatore "vede meglio" sia del terapeuta che del paziente! Questa possibilità, tra l'altro, giusta o sbagliata che sia, viene esclusa dal tuo sistema teorico, che rischia di diventare quindi rigido e limitante. E se entrambi e partners si sbagliassero? Come includi questa possibilità nel tuo sistema (meta)teorico?

Mi sembra che Tullio, privilegiando la coppia paziente-terapeuta come "fonte di verità vera", sposi appieno il discorso ermeneutico, e proprio questo tra l'altro era uno dei principali limiti dell'ermeneutica: quella che una volta Galli, con una delle sue espressioni colorite, chiamò "la dittatura del fenomeno".

Gianni Liotti, 8 settembre 2002:

Caro Paolo, i commenti che avevi inviato a Tullio non mi sembrano affatto scontati, e comunque mi istruiscono: grazie per avermeli fatti conoscere. La tua riflessione sui "first hand materials" e sulla possibilità che paziente e terapeuta-ricercatore sbaglino entrambi mi ha fatto ricordare la ricerca da cui è nata la control-mastery theory di Weiss & Sampson del San Francisco Psychotherapy Research Group). Psicanalista e paziente i cui trascritti vennero utilizzati nelle ricerche suddette potevano ritenere che l'insight fosse preceduto da angoscia legata al lavoro sulle difese, ma spesso non era vero, sbagliavano entrambi: l'angoscia non precedeva l'insight, ma accompagnava la situazione relazionale superata la quale (talora senza consapevolezza del modo con cui era stata superata) prima scompariva l'angoscia, e poi appariva finalmente l'insight.

Fra l'altro, quella da cui è nata la control-mastery theory è la capostipite ed il prototipo di ricerche non invasive, e che non richiedono neppure l'uso di un Manuale (ricerche che quindi sfuggono a queste riserve espresse da Tullio), dato che si svolgono sui trascritti di qualunque seduta, anche di quelle in cui terapeuta e paziente ignorano che potrebbero essere destinate all'indagine una volta che sono registrate. In questo modo lavorano, mi sembra, numerosi ricercatori (che sono anche psicoterapeuti, e quindi sanno di che si stanno occupando quando studiano le sedute di altri). In Italia, il gruppo di Semerari a Roma e quello di Viaro-Bercelli-Leonardi-Lenzi a Padova e Bologna. A Torino il gruppo di Bara. All'Estero, chi sa quanti...

Scusami se nomino un tipo di studi che conosci più a fondo di quanto non li conosca io: mi piaceva non tanto ricordarli a te, che non ne hai bisogno, ma ricordarli a me stesso in questo contesto, e poi condividere con te (e con Tullio, naturalmente) questi miei "ricordi".

Paolo Migone, 10 settembre 2002:

Caro Gianni, ti ringrazio della e-mail. A proposito che entrambi paziente ed analista possano essere ignari della "verità dell'inconscio", mi viene anche in mente quel caso clinico che una volta ci raccontò Silberschatz (un membro del gruppo di Weiss e Sampson) quando nel maggio del 1991 lo invitammo al gruppo di Bologna (Tullio non c'era ancora). In quel caso l'analista usava una tecnica freudiana classica, ma aiutò il paziente per un suo "errore", in un certo senso, o comunque malgré lui, e il paziente cercava la terapia per un motivo consciamente opposto a quello "vero" (ovviamente secondo l'ipotesi poi fatta dal gruppo di ricerca - qui non ci interessa se fosse giusta o no, ci interessa la possibilità teorica che lo sia). Racconto questo caso alle pp. 58-59 del mio libro (Terapia psicoanalitica, Milano. Franco Angeli, 1995), ma mi viene in mente che è anche su Internet al sito: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt62-93.htm

Inoltre, dato che ti sono piaciuti i miei frettolosi commenti, te ne copio un altro. Tullio aveva scritto:
Every experienced therapist metatheoretically knows that the first kind of resistance is to be met with a confronting and encouraging attitude, whereas the second is to be met with a reassuring and validating stancethat is in a diametrically opposite way. These two attitudes correspond to the two basic developmental needs, to which the therapist responds in modes that can metaphorically be called paternal and maternal.
 
Io avevo commentato:
Mi viene in mente adesso un'altra obiezione alla tua idea dei due assi, materno e paterno: se li separi, se li vedi come diversi, questo è già un problema, perché potrebbero essere un unico asse di crescita, nel senso che - come ad esempio Bowlby ci ha insegnato - è solo con un attaccamento sicuro che al bambino viene voglia di esplorare, di essere assertivo e confrontativo, coraggioso, "paterno". Quindi le cose potrebbero essere più complicate, essere intrecciate, è già il separarle teoricamente può essere un problema. Tutte questa cose sono già state ben studiate dalla psicoanalisi, vedi ad esempio l'effetto "rafforzante" l'Io di una interpretazione confrontativa. Kohut, ad esempio, è affrontato di petto tutti questi problemi, quando diceva che basta l'empatia (il tuo asse "materno") per far crescere il Sé del bambino.

Volevo dire insomma che Bowlby prospetta bene la possibilità che i due tradizionali fattori curativi della psicoanalisi (secondo le parole di Friedman, "attaccamento" e "comprensione" - quest'ultima intesa come interpretazione, confronto - vedi http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt52-89.htm - fattori curativi che possono corrispondere ai due assi di Tullio) possano essere intrecciati, anche nel senso che uno dipende dall'altro. Paolo.

Tullio Carere-Comes, 10 settembre 2002:

Cari Gianni e Paolo, vi ringrazio molto per i preziosi commenti al mio progetto di ricerca. Terrò conto di ogni singola osservazione, cominciando da questa di Paolo che riprende il commento di Gianni:
>Caro Gianni, anch'io non avevo capito bene la necessità di usare la parola "metateoria",
>e mi fa piacere che anche tu fai la stessa critica.

Non sono sicuro di aver capito bene la critica. Io ho scritto che l'uso del prefisso "meta" è giustificato in primo luogo dalla necessità di distinguere due livelli della ricerca. Al primo livello si trova la quasi totalità della ricerca che è stata fatta e tuttora viene fatta in psicoterapia. I capisaldi della ricerca attuale, mi ha chiarito a San Francisco Franz Caspar (presidente SPR), sono: [1] la manualizzazione del tipo di terapia praticata (psicodinamica, cognitivo-comportamentale, o altro); e [2] la registrazione delle sedute. Cioè, questo tipo di ricerca si propone di rispondere alla domanda: che cosa succede all'interno di una terapia data (cioè basata su un manuale, a sua volta basato su una teoria)? Si dà per scontato, in questa ricerca - anzi si pretende - che una terapia sia definita da una serie di procedure derivate da una teoria, e si vuol vedere che cosa succede applicando quella teoria, cioè le procedure da essa derivate. E' quindi una ricerca che per il suo oggetto può essere definita "teorica" o "procedurale", dal momento che indaga l'effetto delle teorie e delle relative procedure.

Siamo a un diverso livello se ci proponiamo di studiare che cosa accade in qualsiasi psicoterapia, non in conseguenza delle procedure adottate, ma indipendentemente da, e anche *nonostante* quelle procedure, e quindi le rispettive teorie. Lo studio di ciò che accade indipendentemente da, e nonostante la teoria del terapeuta può essere legittimamente chiamato transteoretico o metateoretico (o metaprocedurale). Si possono usare altri termini, se questi non piacciono, purché sia chiaro che ci muoviamo a un diverso livello rispetto alla ricerca ordinaria, che indaga l'effetto di teorie e procedure. Anche a questo secondo livello si devono usare dei manuali, che però sono un'altra cosa: mentre i manuali della ricerca teorica sono procedurali, cioè prescrivono come deve essere fatta una terapia per poter essere detta "psicodinamica" o altro, la ricerca metateorica si avvale solo di "scoring manuals", cioè manuali per siglare l'interazione terapeuta-paziente per come si svolge in un setting naturale, quale che sia la teoria del terapeuta.

E' vero che per indagare che cosa succede al livello metateoretico occorrono delle teorie, che per un verso sono teorie come tutte le altre, ma per un altro meritano il prefisso "meta" sia perché, come ho detto, si prefiggono di studiare lo svolgimento dell'interazione indipendentemente dalla teoria del terapeuta, sia perché è esplicitamente richiesta al terapeuta-ricercatore una presa di distanza dalla teoria di appartenenza. A questo proposito Paolo mi ribadisce il suo completo scetticismo:
>tutto questo discorso sulla epoché teorica, come sai, lo trovo illusorio, una pia illusione

Perché questo discorso è illusorio? Ti faccio notare, Paolo, che in primo luogo la presa di distanza dalla teoria di appartenenza o di provenienza per lo studio di ciò che è comune (comune non alle teorie, ma alle pratiche) non solo è possibile, ma corrisponde a uno dei tre filoni principali dell'integrazione in psicoterapia, anzi al più antico: l'approccio dei fattori comuni. Molti autori, delle più diverse provenienze, si sono dedicati a questo studio, e hanno descritto un certo numero di questi fattori. Le somiglianze tra le descrizioni dei diversi autori sono notevoli, anche se la diversa enfasi sull'uno o sull'altro e il diverso modo di organizzarli ha condotto a diverse "metateorie", come mi sembra appropriato chiamare le teorie dei fattori comuni alle diverse pratiche, al di là delle teorie professate dai terapeuti.

L'approccio dei fattori comuni è una realtà ben consolidata, anche se non si è mai tradotto in un programma di ricerca empirica nemmeno lontanamente paragonabile a quelli che fino ad ora hanno assorbito la quasi totalità delle risorse disponibili, cioè quelli di impianto teorico-procedurale che cercano di rispondere alle domande: che risultati produce la terapia X (studi sull'esito), che cosa succede nella terapia Y (studi sul processo). Come già vi avevo ricordato, Messer e Wampold si chiedevano stupiti come mai si continui a puntare su ricerche i cui risultati, secondo le meta-analisi, mostrano un effect-size riferibile alle procedure specifiche pari a circa l'uno per cento, quando il bias del ricercatore pesa per il settanta per cento! Mi stupisco anch'io: è assolutamente ovvio che i ricercatori di formazione cognitivo-comportamentale dimostreranno sempre, logicamente ed empiricamente, la superiorità delle procedure di tipo cognitivo comportamentale, e altrettanto faranno gli psicoanalisti, gli omeopati, gli aromaterapeuti, i cristiani, i musulmani... (ciascuno provvisto di un metodo ritenuto rigoroso nel gruppo di appartenenza).

Il rimedio a quello che sembra - e a tutt'oggi è stato - l'ostacolo insormontabile del bias del ricercatore non è, come qualcuno ha immaginato io volessi, la chiusura di tutte le scuole e la confluenza di tutti nella SEPI. Al contrario, io sono un convinto fautore del pluralismo e penso che l'esistenza di una miriade di scuole, gruppi e sottogruppi sia un fattore in sé positivo. Che però è meno positivo, o francamente disgregativo, se non è corretto da uno sforzo uguale e contrario di valorizzare non solo le differenze, ma anche le cose che ci uniscono. Va benissimo, in altre parole, che ognuno aderisca alla scuola che preferisce e si adoperi per far valere il suo punto di vista (livello teoretico). Purché poi almeno una frazione di questo impegno sia devoluta all'obiettivo di creare uno spazio in cui ciò che unisce è privilegiato su ciò che divide (livello trans- o meta-teoretico).

L'area dei fattori comuni può essere detta, oltre che metateoretica, anche metaprocedurale, perché qui la procedura (ciò che il terapeuta fa sulla scorta di una teoria in vista di uno scopo) passa in secondo piano rispetto al significato sempre imprevedibile che l'interazione prende nei diversi contesti e nell'interpretazione di entrambi i membri della coppia terapeutica. Come hanno osservato Westen e Morrison (A multidimensional meta-analysis of treatments for depression, panic, and generalized anxiety disorder: An empirical examination of the status of empirically supported therapies. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 2001, 69, 6: 875-899), le variabili interazionali non possono essere controllate perché dipendono "on the patient's interpretations of the therapist's actions", e quindi non possono essere tradotte in "procedure". E' proprio perché a questo livello è decisivo il contesto dell'interazione e il significato attribuito a ogni evento relazionale da entrambi, ma soprattutto dal paziente, che possono emergere i fattori comuni. Se ogni terapeuta applicasse rigidamente le procedure previste dal metodo, e il processo fosse prevalentemente determinato dalle procedure stesse, e non dall'interazione (mentre tutte le meta-analisi evidenziano il contrario), il modello medico finora applicato alla ricerca (quali procedure funzionano per quali problemi) funzionerebbe a meraviglia, e assegnare a ogni disturbo del DSM-X le sue procedure specifiche sarebbe solo questione di tempo. Siccome invece, come non mi sembra più lecito dubitare, i fattori comuni hanno sul processo un'influenza maggiore (molto maggiore, in realtà) delle procedure specifiche, è su questi che la ricerca dovrebbe finalmente dirigere le sue risorse migliori. I fattori comuni non sono procedure, ma metaprocedure, nel senso che le azioni più varie del terapeuta, come è stato spesso rilevato, possono essere la risposta adeguata a un bisogno fondamentale del paziente (per es di attaccamento sicuro), e solo a posteriori, indagando i vissuti di entrambi, è possibile stabilire che una metaprocedura è stata applicata: cioè che un determinato comportamento del terapeuta è stato una risposta adeguata a un bisogno del paziente in un determinato momento. Per esempio una procedura "materna" (un comportamento rassicurante del terapeuta) può tradursi in una metaprocedura "paterna" (incoraggiamento ad affrontare una realtà spiacevole): il paziente aveva bisogno di confrontarsi con una realtà spiacevole, ma ha potuto essere indotto a farlo da un atteggiamento morbido e rassicurante, e non da un comportamento "confrontativo" (procedura "paterna"). Spero che questo valga come risposta all'ultima osservazione di Paolo, dove dice:
>come ad esempio Bowlby ci ha insegnato - è solo con un attaccamento sicuro che al bambino
>viene voglia di esplorare, di essere assertivo e confrontativo, coraggioso, "paterno"

Ma le interpretazioni non possono essere studiate allo stesso modo dei comportamenti. In un'ottica comportamentista lo studio dei trascritti delle sedute va benissimo. Nell' esempio citato spesso da Gianni, la ricerca del gruppo di Weiss & Sampson, il ricercatore deve valutare, nel trascritto, se un determinato comportamento verbale del paziente è interpretabile come "ansia" o come "insight", per vedere se questo precede quello o viceversa. Se degli analisti fanno ricerca in questo modo, è naturale che si crei una buona intesa con i comportamentisti su questa base. E, a scanso di equivoci, sono convinto che sia un'ottima ricerca. Resta il fatto che è una ricerca di tipo comportamentista, ottima per indagare il piano procedurale, ma non quello metaprocedurale.

Per una ricerca metaprocedurale occorre un altro tipo di materiale, più simile a quello caratteristico della letteratura psicoanalitica, basato sulla interpretazione da parte dell'analista degli eventi della seduta. Interpretazione di prima mano (il terapeuta interpreta gli eventi di cui è stato partecipe), e non di seconda, com'è l'interpretazione di un'interpretazione. L'inevitabile distorsione soggettiva della versione del terapeuta non è corretta dal distacco del ricercatore, come nella ricerca procedurale, ma dal confronto con la versione del paziente, come del resto avviene fisiologicamente in qualsiasi terapia degna del nome. Il confronto tra le interpretazioni da una parte e dall'altra di ogni evento relazionale (privilegiato nei trattamenti psicoanalitici, ma necessario in ogni psicoterapia) può diventare ricerca nel momento in cui queste interpretazioni vengono messe sistematicamente per iscritto e le principali metaprocedure sono siglate utilizzando manuali appositi. Il ricercatore esterno interviene solo in un secondo tempo, per analizzare i risultati ottenuti da diverse coppie terapeuta-paziente e stabilire le eventuali correlazioni emerse.

RIASSUNTO: Il prefisso -meta è giustificato per indicare il tipo di teorie e procedure caratteristico dell'approccio dei fattori comuni, che meritano di essere chiamate metateorie e metaprocedure perché si collocano su un livello cui si accede prendendo le distanze dalle teorie di partenza o di provenienza per rivolgere l'attenzione a ciò che accomuna non le diverse teorie, ma le diverse pratiche. I fattori comuni sono tipicamente relazionali, non codificabili come procedure ordinarie perché dipendenti dal contesto e soprattutto dall'interpretazione che ne dà il paziente. Non possono essere studiati dall'esterno, su un nastro registrato o un trascritto, ma solo confrontando e siglando le interpretazioni date rispettivamente da paziente e terapeuta degli stessi eventi relazionali.

Cari Gianni e Paolo, spero di avere chiarito meglio i presupposti di base del mio progetto. Non ho risposto a tutte le vostre obiezioni per non sovraccaricare questo intervento già troppo lungo (ma lo farò appena possibile). Vi sono molto grato per il privilegio che mi accordate discutendo il mio (spero non troppo maldestro) tentativo di diventare un ricercatore empirico (non sperimentale, ma correlazionale). Tullio

Tullio Carere, 11 settembre 2002:

Cari amici, mi affretto a scrivere un post-scriptum perché dopo avere spedito il messaggio precedente mi sono reso conto che la mia definizione di "comportamentista" per la ricerca di Weiss e Sampson può dar luogo a malintesi. Mi spiego: io ritengo — e Westen e Morrison lo hanno mostrato molto bene — che tutta la ricerca sulla psicoterapia svolta fino ad oggi non è affatto neutrale, ma è impregnata di diversi assunti tipici del comportamentismo degli anni settanta. Di qui il viraggio verso la ricerca correlazionale di W&M, e l'ammonimento di Fonagy, che il pendolo tra clinica e ricerca sperimentale si è spostato eccessivamente verso la seconda e occorre pensare a un riequilibrio. Però né West né Fonagy hanno incluso nella loro critica la registrazione delle sedute, che andrebbe invece a mio parere inclusa perché chiaramente ispirata all'ideale behaviorista di raccolta dei dati da parte di un osservatore esterno completamente distaccato dalla situazione (e infatti la registrazione è fortemente avversata dalla maggior parte degli psicoanalisti). Al contrario, anche i ricercatori di parte psicoanalitica sembrano essersi convertiti in massa alla registrazione e allo studio dei trascritti, anche con l'aiuto del computer.

Ora, io non nego che lo studio delle registrazioni o dei trascritti possa essere molto utile, anche in una ricerca di tipo correlazionale in un setting naturale, permettendo di studiare la correlazione tra diversi tipi di eventi (come l'ansia e l'insight, nella ricerca di Weiss e coll). In particolare, grazie allo studio dei trascritti si potranno fare progressi significativi nella ricerca teorico-procedurale, perché sarà possibile correlare diverse procedure a diversi tipi di disturbi, come richiesto dal "modello medico". Non nego nemmeno di avere trattato con una certa sufficienza questo modello, come se fosse da considerare superato e quasi da abbandonare, a favore di quello metateorico-metaprocedurale. Di questo mi scuso: è stata una forzatura reattiva alla tendenza della ricerca attuale a privilegiare in modo esclusivo il modello teorico-procedurale. Liberandomi da questa reazione, recupero il mio atteggiamento dialettico di base e dichiaro che la ricerca procedurale e quella metaprocedurale sono a mio parere entrambe importanti, e dovrebbero procedere in parallelo. Io combatto e continuerò a combattere contro la tendenza a ridurre tutta la ricerca al livello teorico-procedurale, ma mi impegno d'ora in avanti a evitare forzature reattive in senso opposto. Confidando che anche le polemiche possano essere contenute e metabolizzate nella nostra piccola cerchia scientifica, e ringraziandovi per la vostra pazienza, vi saluto caramente. Tullio

Giovanni Liotti, 13 settembre 2002:

Caro Tullio, secondo i tuoi criteri, la ricerca effettuata dal San Francisco Psychotherapy Research Group dovrebbe essere chiamata metateorica? Sembrerebbe di s“, visto che tale ricerca, evidentemente correlazionale (studia quali condizioni, in tutte le psicoterapie, si correlano alla comparsa dell'insight) esamina ciò che accade in tutte le psicoterapie al di là della teoria che ha guidato i terapeuti di cui sono state esaminate le sedute. Finora nessuno però ha pensato di chiamarla cos“, e inoltre dalla ricerca (metateorica?) è nata una nuova teoria, detta control-mastery theory. E' un esempio di cosa succederebbe accettando il tuo termine: una ricerca metateorica, nata dal superamento delle teorie, genera una teoria...

Inoltre: I "fattori comuni" ed i motivi della loro efficacia sfuggono forse alla umana necessità di costruire teorie? Chi teorizza sui motivi per cui i fattori comuni sono efficaci farebbe in realtà metateoria e non teoria?

Infine: l'ipotesi che ESISTANO fattori comuni a tutte le psicoterapie (a me sembra un'ipotesi assai plausibile, ma ovviamente resta un'ipotesi), sarebbe in realtà una metateoria? Mah, boh, etc.

Forse molti problemi nascono dal fatto che tu poni un'equazione fra il termine "teoria" e le megateorie o grandi modelli che hanno guidato l'operare degli psicoterapeuti negli ultimi decenni. In genere, però, il termine "teoria" è inteso in un'accezione più vasta.Il mio Dizionario (Gabrielli) riporta: " complesso organico e sistematico di ipotesi, principi generali e leggi tendenti a spiegare un fenomeno...". Non ti pare che si adatti a ciò che nel tuo manuale chiami "metateoria"? Non occorre che tu mi risponda. Le mie domande sono retoriche.Le dispute sui nomi non mi sono maisembrate particolarmente interessanti. Un caro saluto, Gianni

Tullio Carere, 14 settembre 2002:

Caro Gianni, provo a rispondere alle tue domande "retoriche":
>Caro Tullio, secondo i tuoi criteri, la ricerca effettuata dal San Francisco
>Psychotherapy Research Group dovrebbe essere chiamata metateorica?
>Sembrerebbe di sì, visto che tale ricerca, evidentemente correlazionale
>(studia quali condizioni, in tutte le psicoterapie, si correlano alla comparsa
>dell'insight) esamina ciò che accade in tutte le psicoterapie al di là della
>teoria che ha guidato i terapeuti di cui sono state esaminate le sedute.
>Finora nessuno però ha pensato di chiamarla così, e inoltre dalla ricerca
>(metateorica?) è nata una nuova teoria, detta control-mastery theory. E' un
>esempio di cosa succederebbe accettando il tuo termine: una ricerca metateorica,
>nata dal superamento delle teorie, genera una teoria...

La ricerca del gruppo di San Francisco merita di essere detta metateorica, perché "esamina ciò che accade in tutte le psicoterapie al di là della teoria che ha guidato i terapeuti", ma non metaprocedurale, perché si basa sullo studio delle sedute registrate, e non sul confronto delle interpretazioni degli eventi della seduta date rispettivamente da paziente e terapeuta. Una ricerca metateorica può quindi essere sia procedurale che metaprocedurale. La ricerca del gruppo di San Francisco può aiutare per esempio a scoprire quali procedure facilitano l'acquisizione di insight. Le scoperte prodotte da una ricerca metateorica possono essere formalizzate in nuove teorie, che se hanno lo scopo di spiegare che cosa accade in qualsiasi relazione psicoterapeutica, indipendentemente dalla teoria del terapeuta, possono anch'esse a buon diritto essere dette metateorie.

>Inoltre: I "fattori comuni" ed i motivi della loro efficacia sfuggono forse
>alla umana necessità di costruire teorie?

Certamente no. Come ho detto più volte, ritengo semplicemente che queste teorie debbano essere dette metateorie perché si collocano a un livello diverso rispetto alle teorie che prescrivono come la terapia debba essere condotta.

>Chi teorizza sui motivi per cui i fattori
>comuni sono efficaci farebbe in realtà metateoria e non teoria?

Solo in prima approssimazione, perché se i fattori comuni sono, come fortemente sembra, prevalentemente interazionali, quindi dipendenti dal contesto e dall'interpretazione del paziente e del terapeuta degli eventi relazionali, una ricerca sui fattori comuni deve essere anche metaprocedurale, oltre che metateorica.

>Infine: l'ipotesi che ESISTANO fattori comuni a tutte le psicoterapie
>(a me sembra un'ipotesi assai plausibile, ma ovviamente resta
>un'ipotesi), sarebbe in realtà una metateoria?

Una teoria, come giustamente sottolinei più sotto, è più di un'ipotesi: è un "complesso organico e sistematico di ipotesi". Una metateoria è una teoria che si pone a un livello diverso dalle comuni teorie. Nel nostro campo le comuni teorie sono quelle che prescrivono come una terapia debba essere condotta: freudiana, junghiana, comportamentale, eccetera. Le metateorie sono quelle che cercano di spiegare il fenomeno psicoterapia, al di là del metodo che il terapeuta dichiara di praticare. La differenza sta nell'identificazione: nella teoria comune il teorico è identificato con la propria teoria. Infatti definisce sé stesso "freudiano", "comportamentista", eccetera. Nella metateoria questa identificazione è superata, o almeno sospesa. Al livello teorico le teorie sono "strumenti di identificazione e di potere" (Bernardi), a quello metateorico le teorie sono solo strumenti di comprensione. E' in sostanza la stessa differenza che passa tra cognizione e metacognizione: tutti "sanno" (hanno cognizioni), solo il (vero) filosofo sa di non sapere (ha metacognizioni). Se non ci fosse questa identificazione (ma c'è, ed è potentissima), non ci sarebbe bisogno di superare il livello "ordinario", e il prefisso "meta" sarebbe superfluo. (Sulla metacognizione c'è stato circa tre anni fa un dibattito in rete molto buono, partito dalla pubblicazione su PM da parte di Paolo di alcuni lavori di Fonagy e tuoi: infatti il thread iniziale si intitolava "Fonagy e Liotti". Non ricordo se è stato editato).

>Mah, boh, etc. Forse molti problemi nascono dal fatto che tu poni un'equazione fra
>il termine "teoria" e le megateorie o grandi modelli che hanno guidato l'operare
>degli psicoterapeuti negli ultimi decenni. In genere, però, il termine "teoria" è
>inteso in un'accezione più vasta. Il mio Dizionario (Gabrielli) riporta: " complesso
>organico e sistematico di ipotesi, principi generali e leggi tendenti a spiegare
>un fenomeno...". Non ti pare che si adatti a ciò che nel tuo manuale chiami "metateoria"?

Certo, questa definizione va benissimo per "metateoria". Se però uno si affeziona troppo alla sua teoria, tanto da identificarsene (così nascono cristiani e musulmani, freudiani e comportamentisti, con relative guerre di religione o di scuola), il meta lo perde per strada, ammesso che lo abbia mai trovato.

>Non occorre che tu mi risponda. Le mie domande sono retoriche.Le dispute sui nomi
>non mi sono mai sembrate particolarmente interessanti.

Ti ringrazio per le tue domande "retoriche", che mi aiutano a chiarire diversi punti della complessa questione "meta". Spero di averne ancora. Per me, come vedi, sono questioni non nominali, ma sostanziali. Hugs & wrestles, Tullio

Paolo Migone, 15 settembre 2002:

Quel dibattito sulla metacognizione è stato editato e pubblicato in rete, curato da me, al sito: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/metacogn.htm. Riguardo alle altre questioni, mi sento vicino alle osservazioni di Gianni, ma adesso non faccio in tempo a rispondere, devo ancora scrivere la mia relazione per il Congresso della SITCC del prossimo week-end! Paolo.

Giorgio G. Alberti, 21 settembre 2002:

Caro Tullio, come Ti ho detto, ho letto per ora solo il Patient's Manual. Ma azzardo qualche parere. In primo luogo, secondo me questa è una ricerca nel senso più classico e "empirico", che studia il fitting reciproco di paziente e terapeuta, e in cui il ruolo del paziente non è diverso da quello che abitualmente esso ha nelle ricerche le più ortodosse. Non è, questo suo ruolo, meno reificato, più interattivo o addirittura caratterizzato da una partecipazione all'elaborazione e alla interpretazione dei dati. Questo ruolo, del ricercatore, del "demiurgo della ricerca" che "espropria il soggetto della sua originalità e autonoma determinazione" è previsto, ma è assegnato al gruppo esterno di ricercatori indipendenti che esamineranno la concordanza maggiore o minore tra le risposte di paziente e terapeuta. Quindi il Tuo progetto rientra a pieno titolo, secondo me, nel tradizionale paradigma del- la ricerca empirica e sperimentale, sostanzialmente identico a quegli altri, che Tu tanto aborri, che prevedono la registrazione audio del- le sedute.

V’è la parvenza di un ruolo paritario tra paziente e terapeuta, ma solo una parvenza, proprio perché l'ipotesi sperimentale, cioè la possibile correlazione tra la concordanza delle risposte di terapeuta e paziente da un lato e l'outcome dall'altro, è stata pensata ed ha influenzato le procedure della ricerca del tutto all'insaputa del paziente, che è un elemento del tutto passivo, dal punto di vista del- la ricerca ovviamente.

E' quindi uno studio di come terapeuta e paziente vedono le pratiche terapeutiche, e assomiglia molto alle ricerche sulla alleanza terapeutica, che prevedevano la raccolta delle opinioni del paziente sul terapeuta, sulla terapia, su cosa vi si faceva. In generale, direi, assomiglia metodologicamente a tutte quelle prime ricerche sulla psicoterapia in cui la fonte delle informazioni sulla terapia era il ricordo del terapeuta, o anche, più raramente, del paziente, circa quello che era accaduto in seduta.

In un certo senso potremmo dire che non è uno studio di ciò che avviene in terapia, ma di ciò che paziente e terapeuta ritengono vi avvenga. Da questo punto di vista la registrazione offre di più, perché permette di vedere le esatte parole, e magari anche le espressioni vocali, pasturali, mimiche e gestuali dell'uno e dell'altro, ad esempio per uno studio di fitting del tutto simile al Tuo.

Non credo inoltre che questo Tuo approccio sia privo degli inconvenienti che Tu paventi a proposito delle registrazioni: in fin dei conti chiede al paziente di giudicare gli atti del suo terapeuta, lo espone a fantasie di ritorsione, al desiderio di compiacere, a un impegno cognitivo che non sempre gli piacerà onorare, anche solo perché vorrebbe occuparsi solo dei fatti suoi e non delle voglie scientifiche del terapeuta, con le conseguenze che Tu puoi immaginare. In un certo senso, con certe garanzie, la registrazione il paziente la può dimenticare, mentre con la Tua tecnica egli deve continuare a pensare a ciò che avviene in seduta nei termini che ho detto sopra, relazionalmente non indifferenti.

Infine sulla griglia di classificazione. Adesso che l'ho riletta non sono così sicuro che per ogni azione sia facile, a un qualsiasi paziente, rispondere alle domande che essa implica, che sappia facilmente definire le diverse dimensioni e i livelli quantitativi. Mi sembra che sia un sistema molto "intellettuale", forse non congeniale ad ogni persona, che quantomeno richiede una discreta immersione nella teoria retrostante. 

Tullio Carere, 22 settembre 2002:

Caro Giorgio, grazie per questo tuo prezioso feed-back. Il passaggio-chiave cruciale nel tuo commento mi sembra questo:
>In un certo senso potremmo dire che non è uno studio di ciò che avviene in terapia,
>ma di ciò che paziente e terapeuta ritengono vi avvenga.

Io direi piuttosto: non è uno studio su ciò che un osservatore esterno ritiene avvenga in terapia, ma su ciò che paziente e terapeuta ritengono vi avvenga. Ciò che "realmente" avviene è il noumeno, la cosa in sé, come tale inconoscibile. Ciò che possiamo conoscere è solo il fenomeno, ciò che appare a un osservatore (sempre situato e condizionato dal proprio punto di vista, dalle proprie teorie, dai propri interessi e preconcetti). All'osservatore si può certo chiedere di "sospendere", per quanto gli è possibile, le sue aspettative teoriche (infatti io lo chiedo - uno studio sui fattori comuni non può evidentemente essere effettuato da un punto di vista "psicoanalitico" o "comportamentale"): ma per quanto l'osservatore accetti di sottoporsi a questa disciplina, solo una parte, probabilmente minore o minima, delle sue aspettative sarà effettivamente sospesa).

Ciò che è decisivo è pertanto la consapevolezza della soggettività della propria percezione, e quindi la volontà di abbandonare l'illusione di oggettività per confrontare la propria esperienza con quella di uno o più interlocutori. Questa è, tra l'altro, la sostanza di ogni psicoterapia genuina, cioè non manipolativa (nella psicoterapia non genuina il terapeuta cerca invece di manipolare la relazione mediante determinate procedure che la sua teoria lo induce a ritenere "giuste"). Tutto il movimento della psicoterapia "evidence based", a mio parere, va in direzione contraria a questa consapevolezza, ricadendo nell'illusione che sia possibile scoprire che cosa "oggettivamente" avviene in una psicoterapia, osservandola da dietro uno specchio o su una registrazione. La tua frase citata sopra mi pare esemplare in questo senso.

Nella fase iniziale della ricerca in psicoterapia, come giustamente ricordi, il metodo di confrontare i vissuti del paziente e quelli del terapeuta era largamente applicato, mentre in seguito è stato tendenzialmente abbandonato a favore dell'ideale di "oggettività", cui la pratica della registrazione sicuramente si avvicina molto di più. La convinzione è che in tal modo si possano isolare gli "ingredienti attivi", cioè le procedure efficaci per il trattamento di determinati problemi o disturbi. Come ho osservato più volte, e più chiaramente nella mia ultima risposta a Gianni, che spero ti sia pervenuta, non è che in tal modo non si ottenga nulla: è effettivamente possibile isolare una serie di procedure mediamente efficaci in determinate situazioni (come, tipicamente, la procedura di esposizione per le fobie). Ma tutte le meta-analisi sull'esito delle terapie concordano nel rilevare che l'incidenza delle procedure specifiche sulla varianza dell'esito è minore (in effetti, molto minore) rispetto a quella dei fattori comuni, principalmente relazionali e "metaprocedurali" (cioè dipendenti dall'interpretazione che il paziente dà degli eventi relazionali, non direttamente da questi eventi).

Insisto su queste meta-analisi perché mi aspetterei che delle persone come te, Gianni e Paolo, che danno tanta importanza alla ricerca empirica, le tenessero in debito conto (mi stupisce che invece glissiate regolarmente su questo punto). Per quanto mi riguarda, non è per queste ricerche, ma per la logica della relazione psicoterapeutica (quella autentica, non quella manipolativa) che io rimetto lo studio sulle procedure al posto che gli compete, cioè secondario rispetto a quello del dialogo tra paziente e terapeuta e delle forme che questo assume: forme "metaprocedurali", appunto, non procedurali. Naturalmente anche il terapeuta di orientamento dialogico-dialettico fa uso di procedure: è impossibile farne a meno. Ma mentre per il terapeuta "procedurale" la corretta applicazione della giusta procedura per un caso determinato è l'essenza della terapia (e l'esplorazione dei vissuti è funzionale all'approccio, per ottenere la necessaria compliance dal paziente o per cambiare procedura), per il terapeuta dialogico la procedura è solo un modo di procedere che l'esperienza ha mostrato di qualche utilità in casi analoghi, e come tale può essere tentato per un primo approccio anche nel caso presente: ma per lui o per lei la sostanza della terapia non sta affatto nell'applicazione di queste procedure, valide solo in prima approssimazione, bensì nel dialogo che si stabilisce col paziente e nella dialettica tra modi diversi di interagire.

Se, come le meta-analisi chiariscono, ciò che è decisivo in psicoterapia si svolge essenzialmente sul piano metaprocedurale, piuttosto che su quello procedurale, è prevalentemente questo che dovrebbe essere indagato dalla ricerca. Mentre, grazie alla prevalenza attuale della visione scientistico-obiettivista (baconiano-galileiano-popperiana) nella ricerca in psicoterapia, avviene il contrario.

> Da questo punto di vista la registrazione offre di più, perché permette di vedere le esatte parole, e magari anche le espressioni vocali, pasturali, mimiche e gestuali dell'uno e dell'altro, ad esempio per uno studio di fitting del tutto simile al Tuo.

Come sa bene qualsiasi autore cinematografico, la ripresa di una scena (anche a "camera fissa"), non riproduce affatto la realtà, ma sempre una determinata inquadratura della realtà - che poi sarà letta dai vari critici e spettatori nei modi più vari. L'ipotesi che sia meglio avere l'interpretazione degli spettatori o dei critici che studiano il materiale entrato in quell'inquadratura, piuttosto che le interpretazioni dei protagonisti della scena, cioè di coloro che l'hanno vissuta dall'interno, è comprensibile se i protagonisti sono dei semplici attori, lo è molto meno se sono coloro che proprio grazie alle loro interpretazioni danno vita alla scena in oggetto. In quest'ultimo caso sembrerebbe molto più importante indagare i vissuti dei protagonisti, piuttosto che quelli dei critici e degli spettatori (comunque importanti, ma solo in seconda battuta).

>Non credo inoltre che questo Tuo approccio sia privo degli inconvenienti che Tu paventi a proposito delle registrazioni

Indubbiamente ci sono vantaggi e svantaggi con entrambi i metodi. Non tutte le coppie paziente/terapeuta sono adatte per uno studio meta-procedurale, né sono tutte disposte alla registrazione. In generale, mi sembra che la registrazione sia molto adatta alla terapia breve, manualizzata o comunque procedurale, mentre il confronto delle interpretazioni sia molto più adatto alla terapia open-ended, basilarmente dialogica. Bisognerà pur dire che sono due cose differenti. Io aggiungerei che solo la seconda merita di essere considerata una terapia genuina, mentre lascerei la prima al livello inferiore delle pratiche manipolative (a meno che non si tratti di terapie brevi manualizzate a scopo di ricerca).

Nella certezza che nessuno di voi sarà minimamente d'accordo con me, vi saluto caramente. Tullio

Giorgio G. Alberti, 22 settembre 2002:

Caro Tullio, sto lavorando sulla sbobinature del dibattito che si sviluppò dopo le relazioni, al nostro primo congresso SEPI-Italia del 16-3-2002 al San Carlo di Milano [che esce nel libro degli atti a cura di Alberti e Carere-Comes: Il futuro della psicoterapia tra integrità e integrazione. Milano: Franco Angeli, 2003]. Ma sento di poterTi dare qualche risposta sul Tuo ultimo mail di oggi, e in genere sulla Tua posizione circa la ricerca, quella "buona" e quella "cattiva", come anche sulla terapia, quella "buona", open-ended, non procedurale e non manipolativa, e quella "cattiva", manipolativa, procedurale, a a breve termine.

Una prima posizione, purtroppo di dissenso, che mi sento di esprimere è che non esistono terapie buone e cattive: esistono terapie diverse, con diverse finalità, con diverse metodiche, e con uguale, sottolineo, uguale, quota di aspetti, come Tu dici, manipolativi. Non è possibile che Tu sostenga, dopo il nostro congresso, in cui si è tanto parlato di come si influisce sui pazienti, che esistano terapie in cui non v'è influenza del terapeuta sul paziente, cioè in cui questo non viene "manipolato" (ove per manipolato io intendo esposto a un'azione volta a cambiare in lui un qualcosa per il suo bene psicologico, non certo imbrogliato allo scopo di fargli fare qualcosa che gli porterà un danno). Proprio non riesco a seguirTi.

E comunque, non riesco nemmeno a credere che Tu possa seriamente giudicare manipolatorie e deteriori terapie brevi la cui utilità è arciconfermata, con l'implicazione che le uniche buone sono quelle che durano a lungo, cioè quelle che assomigliano a quella che fai Tu, come in più parti Tu stesso hai detto.

Quanto alla ricerca, come Ti ho già detto e scritto, come hanno sostenuto Liotti, Migone, Freni, eccetera, è una sola: non esiste una ricerca euristica da contrapporre a quella empirica: euristica, come ben spiegò Freni al nostro congresso, è la capacità creativa di inventare ipotesi, spiegazioni, modelli, soluzioni, configurazioni, è l'inventiva. E questa è una parte irrinunciabile di ogni ricerca, sia clinico-qualitativa sia empirica: proprio Freni ha ricordato, lo risentivo oggi, come Luborsky venne a ideare il concetto di CCRT attraverso un'intuizione, un atto creativo. Pensa quindi, un qualcosa che, diceva proprio Freni, "inaridisce il transfert", un qualcosa che rappresenta l'acme più recente e solido della sperimentalizzazione della psico-analisi, è il prodotto di un atto euristico. Ma questo è solo l'inizio, perché poi bisogna, se si vuole costruire un qualcosa di veramente scientifico, provvedere alle verifiche, all'eliminazione delle ambiguità, alla prova dei fatti. Altrimenti si resta nel regno delle fantasie creative, ove quella di Freud vale tanto quanto quella di Jung, o quella di Steiner, o quella di Lombroso. Altrimenti si resta nel regno dei credo, ove vince chi è più autoritario, o più demagogo, o chi riesce meglio a fanatizzare le masse, o a rispondere a loro bisogni che nulla c'entrano con la verità, piuttosto con l'angoscia esistenziale e il suo acquietamento.

Infine, sulla relazione. Ho già detto che la relazione viene determinata, o meglio codeterminata, dal terapeuta. E non sto a ricordarTi le varie pratiche, tecniche, i vari modi, atteggiamenti, se non Ti scandalizzi, le varie "procedure", con cui il terapeuta cerca di influire sulla relazione in modo da crearla, mantenerla, preservarla e utilizzarla per creare esperienze mutative per il paziente. Quindi dire che l'esito della psicoterapia dipende dalla relazione, la quale comprende gran parte dei cosiddetti fattori comuni, non è in contrasto con il dire che l'esito delle psicoterapie dipende anche, o soprattutto, dalle procedure, e in particolare da quelle usate dal terapeuta per fare tutte quelle cose, dette sopra, con la relazione.

Dire che la relazione influisce sull'esito della terapia a prescindere dalle procedure significa negare quanto ho appena esposto, e significa soprattutto che l'esito della terapia non è minimamente controllabile da parte del terapeuta, il quale non può certo influire sulla relazione se non con delle procedure. Siamo dunque in mano alla relazione, che però non sappiamo come influenzare proficuamente. Ma allora come possiamo dire che aiutiamo il paziente, come possiamo vendergli delle prestazioni sul cui esito non abbiamo alcun controllo, che a secondo di come va la relazione andrà bene o male, in modo aleatorio? Tu dirai, l'atteggiamento benevolo, l'atteggiamento empatico, il toccamento (il "catalizzatore straordinario"). Ma non sono queste procedure? Non sono queste cose che il terapeuta fa e che hanno un impatto ben determinato, ancorché solo probabilistico, sul paziente e sulla relazione che con lui stabiliamo? Non fosti Tu a dichiarare che l'atteggiamento artistico-meditativo si può insegnare?

Ancora, sul ricorrere, nelle Tue argomentazioni, dell'affermazione che le procedure specifiche sono scontate, tanto che tutti noi le mettiamo in atto intuitivamente, che non meritano che ci si studi sopra troppo, che anche Freud lo sapeva che con gli agorafobici di un certo tipo bisogna stimolarli ad affrontare la loro angoscia facendoli uscire di casa, etc. Ora questa posizione mi appare non solo poco informata (per esempio, come fai a dire che tutti gli psicoanalisti attuano intuitivamente tutte queste procedure comportamentali, da ricerche specifiche, o forse dal fatto che le analisi non si impantanano mai in stalli infiniti, avvantaggiandosi, ovviamente, delle loro numerose, intuitive, e soprattutto denegate, componenti comportamentali) ma anche un po' parziale e tendenziosa: chissà perché le procedure comportamentali e cognitive sono "intuitive", di esecuzione quasi automatica, addirittura da sottacere perché sostanzialmente banali, mentre altre no. Non pensi alla mole di lavoro intellettuale e clinico che sta alla base della dimostrazione dell'utilità di queste tecniche, allo sforzo teoretico dei comportamentisti e poi dei cognitivisti per sviluppare una psicologia fondata su un'epistemologia scientifica.

Non è certo paragonabile la posizione di un Freud che per pura "praticaccia" spingeva i fobici ad uscire, senza vedere i perché teorici di questa prescrizione, con quella di Wolpe e altri, che studiavano con precisione gli effetti di tali prescrizioni, che provavano modi diversi per darle, che cercavano di creare teorie esplicative degli effetti che provocavano. Forse Tu credi alla spiegazione di Freud, che affrontare l'ansia di uscire "smuove" le associazioni e fa emergere il materiale analizzabile. Ma sei proprio sicuro che è vero? I terapeuti cognitivo-comportamentali ottengono gli stessi risultati sulla agorafobia senza mai dare interpretazioni di ciò che eventualmente è stato "smosso" dall'affrontamento dell'ansia.

Forse avrei qualcosa d'altro da dirTi, ma ormai ho perso il filo. Penso comunque che per oggi basti. Ti saluto cordialmente, Giorgio

Paolo Migone, 23 settembre 2002:

Vorrei anch'io commentare la ricerca di Tullio, e intervenire nell'interessante dibattito tra Tullio e Giorgio sul tipo e convenienza della ricerca progettata da Tullio. Devo però premettere che per colpa mia (mancanza di tempo, resistenze inconsce, ecc.), non ho letto i due manuali di Tullio, se non parte di quello del terapeuta. Suppongo comunque di avere una idea dei problemi discussi, e speriamo che sia vero. Concordo sul fatto che la ricerca è ricerca, anche quella di Tullio, e ogni ricerca ha aspetti negativi e positivi, ricordati da Giorgio, Gianni, me ecc., oltre che da Tullio stesso. Ogni tipo di ricerca può servire, deve essere aggiunto o paragonato ad altri tipi (al limite anche al buon senso o alla esperienza clinica), cioè ogni ricerca illumina un aspetto della realtà, è complementare all'altra, e nessuna raggiunge la verità filosofica delle cose (certe ricerche però possono invalidare delle ipotesi). Simpatizzo sul fatto che Tullio dà molta importanza alla verità soggettiva del paziente (e del terapeuta), perché è lui che in ultima analisi interpreta i fatti. L'unico difetto di questa posizione però, come ho già detto in una mia mail precedente, è che c'è il rischio che anche il paziente e il terapeuta si ingannino, si suggestionino a vicenda, e qui la ricerca sperimentale classica, extra-clinica come si suol dire, cioè con osservatori esterni, presenta dei vantaggi, ma non perché "conoscano la verità vera" (pare che a volte Tullio muova ai ricercatori tradizionali questa grave accusa: non so se l'ho capito bene, ma se la muove allora non sono affatto d'accordo con lui, che qui mi sembra usi uno stereotipo vecchio e sbagliatissimo). La ricerca extra-clinica ha dei vantaggi perché arricchisce di più il quadro, non si limita alla verità clinica (non si limita al conscio, potremmo dire con una battuta che la ricerca extra-clinica è "psicoanalitica", perché vuole svelare gli autoinganni del soggetto). E' infatti scontato che la ricerca extra-clinica non disprezza la clinica, anzi, la considera molto, solo che aggiunge un altro punto di vista, per cui, a livello epistemologico, ha una portata maggiore, permette un confronto maggiore tra dati di conoscenza. Se invece Tullio si vuole fermare al dato clinico soggettivo, cioè a quello che pensano a livello conscio paziente e terapeuta, allora non sono d'accordo, perché, come ho già detto, non può fare altro che arenarsi nelle secche cieche dell'ermeneutica (vedi la bella battuta di Galli, da me già ricordata, sulla "dittatura del fenomeno", cioè sulla schiavitù che ne consegue - a proposito, Tullio, hai poi visto il libro di Galli La persona e la tecnica? E' uscito ora presso la Franco Angeli, 2002. Quella battuta è in quel libro). L'ammirevole sforzo di Tullio, mi sembra di capire, è quello di uscire dalle secche di certa ricerca empirica che spesso porta solo al verdetto di Dodo, per cui vorrebbe arrivare presto e meglio alla verità (per il significato del “verdetto di Dodo”, vedi una mia review). Non so se ho capito bene in che modo la sua ricerca è diversa da quella tradizionale, ma l'unica cosa che ho capito è quello che dice Westen in un recente lavoro non ancora pubblicato (forse uscirà sul prestigioso Psychological Bulletin) che ho avuto da lui e che diedi a Tullio, il quale ne ha tratto molta ispirazione per i suoi discorsi sulla ricerca correlazionale. Vorrei quindi riassumere qui per voi quello che dice Westen (un autore estremamente preciso e bravo, secondo me), per vedere se ciò aiuta a chiarire questo nostro dibattito "post-post-congressuale".

Westen in sostanza muove una dura critica agli Empirically Supported Treatments (EST) (si veda l’articolo di Chambless & Ollendick che io e de Girolamo abbiamo fatto pubblicare sul n. 3/2001 di Psicoterapia e scienze umane, e su Internet l’elenco degli EST, sempre curato da noi) perché, tra le altre cose, inducono tutti gli operatori nel mondo a confondere un miglioramento iniziale con il vero miglioramento. Gli EST producono un certo miglioramento alla fine della terapia, ma già al follow-up di un anno è molto diminuito e poi diminuisce ancora di più ai 2, 3 e 5 anni. Non a caso pochissimi ricercatori fanno studi di follow-up a 5 anni. La meta-analisi di Westen dimostrerebbe questo (Westen D. & Morrison K., A multidimensional meta-analysis of treatments for depression, panic, and generalized anxiety disorder: An empirical examination of the status of empirically supported therapies. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 2001, 69, 6: 875-899). Non solo, ma Westen ricorda che gli studi di efficacia escludono ben i 2/3 dei pazienti che nella pratica clinica reale si presentano per richiedere una terapia, a causa della comorbilità che peraltro è molto frequente e che inevitabilmente porta a terapie più lunghe, e i pazienti che vediamo noi nella pratica clinica reale sono in genere proprio quei 2/3!! Quindi la "falsità" degli EST aumenta ancora di più, se così si può dire. Inoltre Westen dice che la metodologia degli EST si basa su degli assunti impliciti che non solo non sono supportati empiricamente, ma anche che sono stati dimostrati falsi proprio sulla base della stessa ricerca empirica. Questi assunti di base sono i seguenti: 1) i processi psicologici sono altamente malleabili (mentre è dimostrato che non lo sono, nel senso che occorre molto tempo per modificarli); 2) la maggior parte dei pazienti hanno un solo sintomo o possono essere trattati come se lo avessero (mentre presentano sintomi plurimi e comorbilità); 3) i sintomi psicologici possono essere trattati a prescindere dalla personalità di chi li presenta (mentre è dimostrato che la personalità gioca un ruolo rilevante); 4) i pazienti sono capaci e disponibili a riferire all'inizio della terapia quale è il loro problema (mentre spesso il problema responsabile del disturbo viene compreso a trattamento avanzato); 5) gli elementi di una terapia efficace sono separabili gli uni dagli altri e possono essere sommati (mentre è dimostrato che una psicoterapia non può essere "smantellata", nel senso che il suo significato è diverso dalla semplice somma delle sue parti); 6) gli elementi efficaci di una terapia possono essere manualizzati e gli interventi specificati nel manuale sono causalmente correlati all'outcome (mentre alcuni studi, utilizzando il Psychotherapy Process Q-sort, hanno dimostrato non solo che vengono usati interventi appartenenti a manuali diversi, ma anche che spesso non vi è correlazione tra l'outcome e gli interventi prescritti dal manuale).

In che modo allora, secondo Westen, può essere migliorato il campo della ricerca in psicoterapia? Una possibilità è di implementare anche studi di tipo diverso da quelli tipici degli EST. Cronbach nel 1957 disse che vi sono due discipline di psicologia scientifica, una di ricerca "sperimentale" e una di ricerca "correlazionale". La prima metodologia, sperimentale, che si può definire "bottom-up", è quella propria degli EST e di gran parte della ricerca in psicoterapia degli ultimi due decenni. La seconda metodologia prevede invece un approccio alternativo, "dall'alto al basso", secondo il quale si osservano le strategie terapeutiche usate da clinici esperti nella loro pratica quotidiana, e tramite strumenti sofisticati e ben validati le si correlano con specifiche variabili dell'outcome. Si possono poi esaminare variabili potenzialmente moderatrici come la comorbilità o i tratti di personalità, e solo in un secondo momento studiare sperimentalmente, uno per uno, con la metodologia tradizionale, quegli interventi che sembrano correlati con un outcome positivo. Questa metodologia implicherebbe quindi l'utilizzo della pratica clinica reale come laboratorio iniziale da cui partire, e poi in un secondo momento il ricorso a ricerca più sofisticate per affinare le indagini e verificare singole ipotesi.

La proposta di Westen quindi è di percorrere entrambe le strade della ricerca in psicoterapia, in modo sinergico e dialettico, perché entrambe possono essere portatrici di dati utili: a volte la ricerca dovrebbe guidare la pratica clinica, e altre volte la pratica clinica dovrebbe guidare la ricerca, avendo entrambe limiti e pregi.

Io concordo con questa posizione di Westen, e se Tullio è anche lui d'accordo, allora OK. Ma se Tullio vuole svalutare la ricerca tradizionale e fermarsi alla ricerca correlazionale, o alla soggettività di quello che dice il paziente, senza mettere tutto ciò in rapporto "dialettico" con altre eventuali verità emerse dalla ricerca sperimentale tradizionale, allora non solo Tullio in questo caso si contraddice perché non è più dialettico, ma anche si colloca in un'altra sponda filosofica, quella che assegna il criterio di verità alla apparenza, alla superficie, alla consapevolezza soggettiva. Saremmo di fronte a un divertente paradosso: Giorgio e Gianni sono più psicoanalisti di Tulio, che è diventato fenomenologo! Ma sono sicuro di non aver capito bene tutti i dettagli del problema, avendo anche non seguito bene il dibattito e non avendo letto tutto il materiale che ci ha mandato Tullio. Grazie a tutti per gli stimoli forniti. Paolo

Giorgio G. Alberti, 23 settembre 2002:

Caro Tullio, ecco quello che ieri sera mi ero dimenticato di scriverti, a proposito della Tua teoria del cambiamento in psicoterapia. Essa si fonda sul ruolo centrale dei fattori aspecifici, ma non indica come questi possano essere invocati, favoriti, pro- mossi. Quindi, come dicevo ieri, non permette al terapeuta di indirizzare il paziente, e di conseguenza annulla la natura stessa dell'agire terapeutico, che si fonda non su un casuale costellarsi di fattori aspecifici propizi (parlerei quasi di una concezione simil-astrologica del cambiamento terapeutico) ma su un qualche tipo di influenza che il terapeuta esercita sul paziente. Infatti, noi pro- mettiamo, inizialmente, che con alta probabilità, se il paziente farà quello che gli si chiederà, egli avrà un vantaggio per la sua salute psichica. E perché prometteremmo, se fossimo consapevoli della totale irrilevanza di ciò che facciamo agli effetti del cambiamento? Se confidassimo solo nell'assortimento casuale favorevole tra le personalità di paziente e terapeuta, o in altri interventi a favore di utili fattori aspecifici, che ne so, la sincronicità junghiana, il favore degli dei, la sintonia tra le aure e i corpi eterei etc. ?

Ora, ecco l'elemento di critica che ieri dimenticavo: Tu dici che non sono importanti le procedure in quanto queste so- no a loro volta interpretate, lette, percepite dal paziente, e in un modo che è del tutto slegato da quello che si immagina il terapeuta quando le mette in atto. Se non ricordo male citavi un esempio di Rogers, che credeva di essere supportivo ma poi non lo era del tutto. Ebbene, io non credo che sia cos“, non credo che il paziente stia in una campana solipsistica in cui interpreta in modo del tutto autistico ciò che gli mandiamo. Anzi, credo che in moltissimi casi egli capisca la procedura che mettiamo in atto esattamente come la abbiamo intesa, o modificandone solo leggermente le connotazioni. Credo cioè che terapeuta e paziente comunichino, con tutte le ambiguità di ogni comunicazione ovviamente, ma che in prevalenza, probabilisticamente, i messaggi che gli mandiamo siano quelli che lui riceve. Probabilmente serve anche un periodo iniziale di studio reciproco, serve che il terapeuta capisca il modo in cui il paziente interpreta le sue affermazioni e manifestazioni, serve che il terapeuta moduli le sue comunicazioni in funzione di queste idiosincrasie, transferali o di altro tipo, ma a un certo punto la comunicazione si stabilisce, o meglio si realizza una certa quota di comunicazioni che arrivano al paziente realmente. E quindi le procedure esplicano la loro influenza: l'atteggiamento em- patico viene riconosciuto dal paziente, l'interpretazione sulle sue peculiari modalità di relazionarsi produce delle revisioni nel suo pensiero e nelle sue azioni, l'affrontamento espositivo viene attuato e si innescano cos“ cambiamenti della rappresentazione del rapporto tra il Sé e il mondo, etc.

Una piccola dimostrazione che terapeuta e paziente si intendono ci è già venuta dagli studi sull'alleanza terapeutica, in cui si vede che le sensazioni, le impressioni di paziente e terapeuta coincidono, che il paziente si sente capito, avverte la volontà del terapeuta di aiutarlo, sente di essere impegnato con queati in un'impresa comune e cos“ via. Ecco, questo volevo dirTi in aggiunta. Grazie, Giorgio

Tullio Carere, 25 settembre 2002:

Cari amici, vi ringrazio molto dei vostri commenti, per me sempre preziosi. Visto che siete sostanzialmente d'accordo nei vostri rilievi, comincio con il commentare alcune cose scritte da Giorgio:
>Una prima posizione, purtroppo di dissenso, che mi sento di esprimere è che non esistono terapie buone e cattive:
>esistono terapie diverse, con diverse finalità, con diverse metodiche, e con uguale, sottolineo, uguale,
>come Tu dici, manipolativi. Non è possibile che Tu sostenga, dopo il nostro congresso, in cui si è tanto parlato
>di come si influisce sui pazienti, che esistano terapie in cui non v'è influenza del terapeuta sul paziente,
>cioè in cui questo non viene "manipolato" (ove per manipolato io intendo esposto a un'azione volta a
>cambiare in lui un qualcosa per il suo bene psicologico, non certo imbrogliato allo scopo di fargli fare qualcosa
>che gli porterà un danno). Proprio non riesco a seguirTi.

Non esistono terapie buone e cattive? Esistono eccome. Esistono terapeuti che manipolano anche sessualmente i loro pazienti, ma soprattutto - e questo è un male molto più diffuso - esistono terapeuti che commettono "abuso teoretico" sui propri pazienti, per difetto grave di atteggiamento dialogico e dialettico (vedi i lavori di Basseches che ho spesso citato). Tutte le metodiche hanno una uguale - sottolinei uguale - quota di aspetti manipolativi? Non è vero: la quota di manipolazione è inversamente proporzionale alla quota dialogica (tralascio il riferimento alla dialettica per semplificare). Ma probabilmente occorre una precisazione terminologica.

Tu confondi il concetto di manipolazione con quello di fare uso di procedure o quello di esercitare un'influenza sul paziente. E' ovvio che un terapeuta non può fare a meno di usare delle procedure e di esercitare un'influenza sul paziente (cito dal mio ultimo messaggio, che mi sembra tu non abbia letto: "Naturalmente anche il terapeuta di orientamento dialogico-dialettico fa uso di procedure: è impossibile farne a meno"). Questa, evidentemente, non è manipolazione. La manipolazione comincia nel momento in cui il terapeuta crede di sapere quale sia il "bene psicologico" del paziente, e gli somministra le sue procedure "per il suo bene", come un "buon" genitore", un "buon" prete, o un "buon" psichiatra. Dio ci salvi dalle buone intenzioni di queste anime belle. Il terapeuta non manipolativo non sa nulla: non sa se la procedura che in altri casi si è dimostrata utile lo sarà anche in questo, non sa come il paziente la prenderà, non sa se ha capito qual è il vero bisogno del suo paziente, non sa qual è il suo bene. Non sapendo nulla, non impone nulla (sempre per il bene del paziente, beninteso), ma propone quello che la sua scienza e coscienza in quel momento gli suggerisce.

Lo so, tu dirai a questo punto che naturalmente questo è precisamente quello che fai tu, che in un corretto atteggiamento scientifico non ci sono verità, ma solo congetture, che lo scienziato è sempre pronto a correggere le sue ipotesi, eccetera. Benissimo, ti credo e fino a questo punto procediamo assieme. Dov'è allora che le nostre strade si dividono? Tu, coerentemente con i tuoi assunti, utilizzi tutti i messaggi che ti vengono dal paziente per monitorare i tuoi successivi interventi: per ottenere la compliance del paziente sulle procedure proposte, o per proporne di diverse. Ritorni sempre al tuo atteggiamento procedurale di base, nella convinzione che in questo essenzialmente consista il lavoro del terapeuta: somministrare le procedure migliori per i problemi presentati, e soprattutto quelle supportate dalla ricerca empirica.

Io apparentemente faccio la stessa cosa, dal momento che anch'io faccio uso di procedure prese da diverse tradizioni, opportunamente modificate e integrate nel mio personale approccio. Ma già questo ti fa capire che il mio approccio è diverso. Infatti tu, per coerenza con le tue convinzioni, devi somministrare delle procedure il più possibile identiche a quelle che sono state empiricamente validate. Se non lo facessi, cadrebbe la possibilità di appoggiarti alla ricerca per sostenere la validità di ciò che fai. Io invece modifico tutto ciò che trovo per assimilarlo al mio metodo, e così facendo rinuncio alla possibilità di far passare come empiricamente validate le cose che faccio. Prendi per esempio l'EMDR, che si è dimostrato efficace nel trattamento del PTSD. Se vuoi applicare l'EMDR come procedura empiricamente validata non puoi certo limitarti a far muovere gli occhi al paziente. Devi somministrargli l'intero protocollo in otto fasi, e devi anche avere fatto il corso ufficiale per imparare a usarlo. Ma questo non è possibile in una prospettiva dialogica, in cui ogni singolo intervento è funzione dell'interazione, mai di un protocollo. Quindi io mi limito a estrarre qualcosa dall'EMDR, qualcosa che esteriormente può assomigliare all'EMDR ma non è più EMDR (la stessa cosa, per la cronaca, fa Paul Wachtel), e lo inserisco quando la situazione del momento sembra richiederlo.

D'altra parte, l'idea stessa che si possano assommare in una terapia elementi "dismantled", isolati da altre terapie, è stata dimostrata erronea proprio dalla ricerca empirica. Te lo ricorda Paolo, che cita Westen (v. punto 5 del suo mail). Io so benissimo che questa sommatoria non si può fare, che quindi qualsiasi cosa estratta da un approccio e importata in un altro diventa una cosa diversa, non più quella cosa che si poteva ritenere "empiricamente validata". Tu invece mi sembri aderire a questo assunto implicito della ricerca empirica, tanto erroneo quanto fondamentale per sostenere il bisogno di credere di fare cose empiricamente validate.

Le procedure di chi procede in modo protocollare sono quindi altra cosa dalle procedure di chi procede in modo dialogico. Nel modo protocollare si devono seguire tutti i passi prescritti per quel tipo di disturbo (vedi ad esempio il commento di Dèttore al caso di vaginismo), come stabilito dalla ricerca: non diversamente da come si somministra un antibiotico. Nel modo dialogico si fa la cosa che la situazione del momento sembra richiedere, e che acquista i significati più diversi a seconda del contesto. Per esempio Porcelli applicò una tecnica di esposizione (infischiandosi del protocollo, vedi il sopracciglio alzato di Dèttore), che in quel contesto, come osservò Paolo, acquistava piuttosto un significato di rassicurazione. (Del resto, osservano Messer e Wampold, anche l'applicazione di protocolli rigidi da parte di terapeuti convinti della loro utilità funziona in generale molto più perché il paziente si sente contenuto e rassicurato dal procedimento, che per virtù del procedimento stesso). Nella terapia dialogica, in cui si debbono prendere decisioni rapide in tempo reale, il terapeuta fa la cosa che di momento in momento gli sembra utile per favorire il processo terapeutico, osserva attentamente la risposta del paziente, e modula il suo intervento successivo in funzione del feed-back ricevuto. In breve, la differenza è questa: il terapeuta procedurale è guidato da un protocollo, il terapeuta dialogico dal processo.

>E comunque, non riesco nemmeno a credere che Tu possa seriamente giudicare manipolatorie
>e deteriori terapie brevi la cui utilità è arciconfermata, con l'implicazione che le uniche buone
>sono quelle che durano a lungo, cioè quelle che assomiglia-
>no a quella che fai Tu, come in più parti Tu stesso hai detto.

Qui ti potrà rispondere Paolo, che disistima le terapie brevi come e più di me: non in nome delle terapie "lunghe" (non l'ho mai scritto), ma di quelle che non sono a priori né brevi né lunghe, ma solo a posteriori tanto brevi quanto è possibile, e tanto lunghe quanto è necessario: questo significa "open-ended". Stabilire a priori che una terapia dovrà essere breve vuol dire ancora una volta essere guidati da un protocollo invece che dal processo. La terapia breve è insomma una terapia manipolativa, che può essere anche molto fruttuosa (vedi i pazienti liberati da sintomi disturbanti con una sola seduta di ipnosi), senza per questo cessare di essere manipolativa. La manipolazione è l'intervento di scelta quando l'obiettivo tattico dell'eliminazione del sintomo è scisso dall'obiettivo strategico della formazione o crescita personale, come nel "modello medico". Io rifiuto questa scissione, come quasi tutti i terapeuti di formazione analitica e umanistica, anzi la considero una vera malattia sociale. La manipolazione consiste sia nella scelta a priori di un protocollo (per esempio "terapia breve"), sia nella scelta di privilegiare comunque il protocollo a scapito del dialogo. Non c'è dialettica tra protocollo e dialogo: il (vero) dialogo è possibile solo se e quando si rinuncia a condizionare la comunicazione secondo schemi prefissati. Infatti è una cosa rarissima.

Mi fermo qui per ora, ma tornerò sulle altre cose che mi avete detto, che mi sono molto utili per precisare il mio pensiero, e qualche volta persino per correggerlo. Tullio

PS. Quando Paolo e io editiamo i dibattiti dobbiamo correggere a mano tutte le distorsioni di testo provocate dal vostro uso dell'HTML ("la cui utilità è arciconfermata"), e dal vostro ignorare la mia ripetuta richiesta di disattivare quell'opzione. Anche questo è un esempio di procedimento protocollare, incorreggibile dal dialogo.

Giovanni Liotti, 25 settembre 2002:

Caro Tullio, un pochino la tua affermazione che solo la dialettica è buona mi irrita. Non ho più voglia di argomentare contro una posizione cos“ concettualmente dittatoriale (la dialettica nella filosofia Ottocentesca nasce con l'affermazione della presunta superiorità del non democratico Stato Prussiano da parte di Hegel, no?) -- dittatoriale e dogmatica. Difetti gravi di dialettica! Il Male in psicoterapia per assenza di dialettica, equiparato agli abusi sessuali in psicoterapia! L'autorità costituita di Basseches lo dimostra! Ma andiamo! Mi limito, non avendo voglia di argomentare ulteriormente di fronte a chi mi dà (assieme a Giorgio) del deficiente (di dialettica) a copiarti due piccole poesie di Montale, che sono altrettanto dogmatiche delle tue affermazioni ma che mi piacciono assai più della tua prosa. Montale contro Basseches?? Eccole I. "Rabberciando alla meglio/ il sistema hegeliano/ si campa da più di un secolo./ E naturalmente invano." II. DIALOGO "Se l'uomo è nella storia non è niente. La storia è un marché aux puces, non un sistema". "Provvidenza e sistema sono un tutt'uno e il Provvidente è l'uomo". "Dunque è provvidenzialeanche la pestilenza". "La peste è il negativo del positivo, è l'uomo che trasuda il suo contrario". "Sempre avvolto però nel suo sudario". "Il sistema ternario secerne il male e lo espelle, mentre il binario se lo porta dietro". "Ma il ternario lo mette sottovetro e se vince lo adora". "Vade retro, Satana!" / Davvero, la farsa hegeliana è durata troppo a lungo. (è una citazione, forse sai di quale filosofo). So che penserai che ti insulto mentre tu (di certo lo credi), ti limiti a ragionare pacatamente. Spero però che tu consideri la possibilità che, se uso questo tono, è perché vorrei "mostrare" come anche la dialettica, usata come un'arma che si autoproclama inconfutabile, appaia insultante quando si coniuga all'affermazione che le idee degli altri contengono gravi errori per deficit di dialettica. Tutto questo mi fa pensare che un giorno qualcuno dovrà cercare di integrare le terapie non dialettiche (cattive) con quelle dialettiche (buone). Tanti auguri a quel qualcuno: ne avrà di fatica da fare. Un dispiaciuto saluto. Gianni

Tullio Carere, 25 settembre 2002:

Caro Gianni, ancora una volta sono riuscito a farti arrabbiare, e ancora una volta non riesco a capire come ho fatto. Ci provo. Innanzitutto, può esserci stato un malinteso. Il mio postscriptum era effettivamente un po' irritato, ma il vero destinatario era Giorgio. E' vero che anche tu hai mandato e continui a mandare messaggi in HTML, anche come attachment (perché? se mandi un attachment perché non lo scrivi in Word?), ma capisco che questa è la conseguenza di un problema informatico in cui sei caduto di recente e da cui ancora non ti sei ripreso. A Giorgio invece ho chiesto molte volte, nell'arco di diversi mesi, di disinserire l'opzione HTML, senza ottenere nemmeno una risposta del tipo "scusa, ci sto provando ma non riesco" (gli avrei risposto che nel posto in cui lavora può trovare decine di persone che glielo spiegano in dieci secondi - io non posso farlo perché lavoro su Macintosh e non conosco bene i sistemi Window). Ho citato questo piccolo fastidio come esempio di "procedimento protocollare, incorreggibile dal dialogo": dal dialogo, non dalla dialettica.

E veniamo al pomo di massima discordia, la dialettica. Quando mai ho scritto che solo la dialettica è buona? E' vero, io tendo ad avvicinare il dialogo alla dialettica (hanno lo stesso etimo, tra l'altro), e chiamo "dialogico-dialettico" il mio approccio. Tuttavia, sapendo che tutti lodano il dialogo, almeno a parole (persino il papa), mentre molti odiano la dialettica di un odio veramente viscerale, sto bene attento, di solito, a contrapporre le modalità stereotipate-protocollari-manipolative di terapia (cattive) al *dialogo* (buono, per giudizio unanime), non alla *dialettica* (tanto amata da alcuni quanto disprezzata da altri). Nel mio ultimo messaggio, quello che ti ha fatto infuriare, sono forse venuto meno a questa regola di elementare prudenza e rispetto per la metà del mondo che odia la dialettica?

Vediamo. Il paragrafo incriminato penso sia questo:
>Non esistono terapie buone e cattive? Esistono eccome. Esistono terapeuti che manipolano anche sessualmente i loro pazienti, ma soprattutto - e questo è un male molto più diffuso - esistono terapeuti che commettono "abuso teoretico" sui propri pazienti, per difetto grave di atteggiamento dialogico e dialettico (vedi i lavori di Basseches che ho spesso citato). Tutte le metodiche hanno una uguale - sottolinei uguale - quota di aspetti manipolativi? Non è vero: la quota di manipolazione è inversamente proporzionale alla quota dialogica (tralascio il riferimento alla dialettica per semplificare). Ma probabilmente occorre una precisazione terminologica.

Sì, in questo paragrafo definisco un male l'abuso teoretico, che attribuisco a "difetto grave di atteggiamento dialogico e dialettico". Cito qui Basseches non come autorità (non lo faccio nemmeno con Freud), ma come riferimento bibliografico necessario per capire che cosa intendo in questo contesto per atteggiamento dialettico, e non doverlo ripetere ancora una volta. Invece, vista la tua reazione, dovrò ripeterlo. Basseches si è occupato di un fenomeno purtroppo frequente: l'abuso teoretico, consistente nell'anteporre la salvaguardia del proprio credo teorico-tecnico al dialogo con il paziente. E' un fenomeno ben noto, studiato per esempio in campo psicoanalitico da Peterfreund, che chiama "stereotipate" le terapie teoreticamente abusive. Che cosa c'entra la dialettica? Basseches ha messo a fuoco il punto preciso in cui avviene l'abuso. E' quello in cui si crea un conflitto tra interpretazioni: il terapeuta vede le cose in un certo modo (dettato dalla necessità di restare fedele alle sue teorie e di applicare le sue procedure, altrimenti la sua identità è a rischio), mentre il paziente vede le cose in modo diverso e sfida il terapeuta a uscire dalla cappa protettiva della sua teoria per venirgli incontro. In questi casi l'errore consiste nell'attenersi rigidamente al proprio credo teoretico, oppure nel ritirarsi dal conflitto (semplicemente empatizzando con la visione del paziente, ad esempio). La posizione dialettica raccomandata da Basseches (e da me) è invece quella di restare nel conflitto, senza imporre la propria visione e senza ritirarsi senza combattere, ma tollerando la contraddizione fino al momento in cui dal suo stesso interno potrà emergere una soluzione che implicherà il superamento dell'unilateralità dell'uno, dell'altro o di entrambi. Non mi sembra una concezione tanto orrendamente prussiano-hegeliana, quanto piuttosto una raccomandazione di elementare buon senso, che peraltro richiede la capacità e la disponibilità da parte del terapeuta, oltre che del paziente, di mettere a rischio le proprie convinzioni personali e/o teoriche più radicate.

Nello stesso paragrafo aggiungevo che "la quota di manipolazione è inversamente proporzionale alla quota dialogica (tralascio il riferimento alla dialettica per semplificare)" - dove la semplificazione era anche il desiderio di evitare complicazioni diplomatiche che invece evidentemente non sono riuscito a evitare, perché quell'unico riferimento (che ritenevo innocuo avendo già chiarito più di una volta nel corso dei nostri dibattiti il senso del termine) è bastato a scatenarlo. Nel resto del testo noterai che compare molte volte il "dialogo", ma non compare più la "dialettica". Solo alla fine scrivo:
>Non c'è dialettica tra protocollo e dialogo: il (vero) dialogo è possibile solo se e quando si rinuncia a condizionare la comunicazione secondo schemi prefissati.

Affermando (a ragione o a torto) che non ci può essere dialogo senza l'abbandono della pretesa di condizionare il rapporto con procedure protocollari, evoco qui la dialettica solo per negarla, per prevenire il possibile invito a una "dialettica" tra protocollo e dialogo (è già successo).

Come tu possa tradurre quanto precede in "solo la dialettica è buona", davvero mi sfugge. Però già da tempo ho blindato la mia amicizia per te, rendendola immune dai tuoi proverbiali scoppi di collera. Confermandoti quindi il mio affetto, ti saluto caramente. Tullio

Giorgio G. Alberti, 26 settembre 2002:

Caro Tullio, non ho purtroppo tempo, in questi giorni, di riprendere la discussione teorica, che si incentra, secondo Te, sulla alternativa tra linterpretazione procedurale e quella relazionale del meccanismo dazione delle psicoterapie. In linea generale Tu sai bene come io la penso: lalternativa non esiste in quanto la relazione non casca dal cielo, e deve essere promossa, mantenuta, governata affinché si producano i suoi effetti terapeutici (che peraltro non sono gli uni- ci, in quanto certamente ve ne sono di indipendenti dalla relazione). Cioè, le psicoterapie prevedono delle procedure per gestire in questo senso la relazione col paziente. Nella mia relazione porto un esempio di procedure, cioè atti consapevoli del terapeuta, riguardanti la gestione della relazione (e non solo) che si ritrovano in diverse forme di terapia, e in particolare si tratta delle procedure usate per mantenere il terapeuta in rapporto con pazienti borderline e simili, cioè persone che esercitano intense azioni induttive sui terapeuti (e su tutti gli altri), e per far fare loro delle esperienze mutative terapeuticamente utili. In quello stesso mio esempio si vedono alcune caratteristiche delle procedure come io le intendo: sono mosse sia relazionali, cioè rivolte al paziente, messe in atto in risposta al paziente, sia anche di carattere cognitivo-comportamentale rivolte verso lo stesso terapeuta (p.es. lautocontrollo, levitare di agire il controtransfert, il lavoro introspettivo). Inoltre, sono specifiche, nel senso che sono la risposta giusta per persone che ti inondano di identificazioni proiettive, e sarebbero meno adatte a influire terapeuticamente su un agorafobico, che tende meno a indurre e manipolare. In questo ultimo caso, dellagorafobico, sarebbe invece più utile, mi sembra che tutti concordiamo, una almeno iniziale prescrizione di esposizione agli stimoli ansiogeni ed evitati. Ed anche questa procedura è quindi relativamente specifica, e infatti difficilmente un terapeuta prescriverebbe a un borderline di affrontare ciò che teme (perché l’effetto scompaginante dellansia da esposizione avrebbe ripercussioni molto più gravi, e da evitare per il rischio di agiti autolesivi etc.). Ora, vorrei cominciare a dirTi qualcosa sulla Tua amata meta-meta-meta-meta-meta-analisi di Luborsky, cioè su. Allo- ra, quella che mi sembra Ti appaia come lultima definitiva parola, la Verità (Pravda) sulla psicoterapia. In primo luogo, io non lho letta. In secondo luogo non sono abituato ad aderire acriticamente a quanto detto molto genericamente, sinteticamente e interessatamente (in favore della propria tesi) da un pur stimato collega, tanto più se si innervosisce perché non vede presa in considerazione la propria citazione (ripeto, generica). In terzo luogo, per quanto so la meta-analisi è un insieme di procedure (anvedi, oh!) statistiche che permettono di sommare correttamente casistiche simili, s“ da fare di tanti studi piccoli con risultati poco o non significativi, una sorta di unico studio con unamplissima casistica, che più facilmente raggiungerà la significatività. Si crea cioè, uno strumento mol- to più sensibile per evidenziare certi effetti. Ora, il problema è che se gli studi combinati non contengono i quesiti utili alla nostra discussione, anche ampliando la potenza dello strumento statistico non si otterrà una risposta utile. In chiaro: gli studi di efficacia sono fatti, per quanto ricordo, sulle diverse terapie globalmente intese, molto meno sulle (su alcune) procedure, e molto poco sulla relazione. Non vi sono, che io sappia, molti studi sulla correlazione tra aspetti relazionali e outcome non riesco a credere che in maniera definitiva si sia potuto dimostrare che tutte le procedure più diffuse e indagate (interpretazione delle difese e del transfert, exposure, desensibilizzazione sistematica, riflessione di sentimenti, dialogo con la se- dia vuota, e cos“ via) non hanno alcun effetto rilevante, e che la relazione sia stata diffusamente dimostrata correlare molto intensamente con il risultato terapeutico, in numeri sufficientemente grandi di ricerche empiriche. Né credo vi siano studi comparativi, procedure vs. relazione sufficientemente numerosi da giustificare una conclusione cos“ definitiva. Mi sembra che Tu tratti la mitica m.-m.-m.-m.-m.-m.-a. alla stregua di un experimentum crucis del tutto e per tutti i tempi risolutivo. Ma, anche qui, la storia e la filosofia della scienza escludono che vi possano essere tali experimenta crucis, e ciò concorda con la natura sempre corroborativa, e non verificativa, della evidenza scientifica. In quarto luogo, mentre Tu fukuyamamente enunci la “fine della storia” delle procedure terapeutiche, io leggo, certo su deprecabili, infedeli, scientiste riviste come Psychotherapy Research, J. Psychotherapy Practice and Research, J. Consulting Clin. Psychology etc., un sacco di ricerche che dimostrano correlazioni tra outcome - certo di terapie sotto le 100 sedute - e interpretazione, interventi supportivi, laspetto pro-plan dellinterpretazione e cos“ via. Allora, Tu concederai che oltre che ascoltare il verbo m.-m.-m.-m.-m.-analitico io valuti anche le alternative, e nel vedere che esistono, abbia qualche dubbio sulla definitiva verità del medesimo verbo. E anche che persegua lipotesi che le procedure, forse con appositi studi clinici, forse con altri mezzi, magari meglio definendole, o semplicemente inventandone altre, possano dimostrarsi meno inutili di quanto appaiono a Te e a Messer. Infine sullopzione HTML. Già un po di mesi fa la eliminai, dopo aver interpellato coloro che dici. Ma deve essere successo qualcosa , forse, quando ho avuto le note difficoltà informatiche, per cui è riapparsa. Mi dispiace. Poiché non so co- me si fa, richiederò e cercherò di rifarlo. Saluti, Giorgio

Giovanni Liotti, 27 settembre 2002:

Caro Tullio, anzitutto, mi arrabbio solo con le persone e nei dialoghi a cui tengo. In secondo luogo, mi arrabbio quando incappo in frasi che declamano il "grave errore" di un interlocutore in un dialogo scientifico. Non so perché, ma quel "grave", rivolto in faccia all'interlocutore per qualcosa che ha affermato (ed usato in tal modo anche da Benvenuto in una sua mail che mi ha mandato fuori dai gangheri), proprio non mi va giù. Prima o poi spero di trovare un Collega che, attraverso associazioni libere o analisi cognitivo-comportamentali o altre procedure, mi aiuti a capire perché reagisco così all'aggettivo "grave" quando è usato in contesti giudicanti rivolti ad una persona viva e presente. Non mi fa alcun effetto (per scherzare un poco) sentir parlare di suoni gravi, caduta dei gravi, o pazienti gravi. Accettabilissimo, per me, parlare di gravi errori contenuti in una teoria. Inaccettabile parlare invece del grave errore di QUALCUNO (mi è antipatico il titolo del famoso libro di Damasio, "L'errore di Cartesio", che tollero solo in quanto non contiene l'aggettivo "grave": avrei preferito "L'errore delle teorie cartesiane"). Come mi ha insegnato Bowlby un giorno che discutevami di Vygotsky, il solo errore GRAVE, per uno scienziato, è morire giovane.

Pensa, per avere un'idea della mia psicopatologia, che mi fa arrabbiare assai meno, ma proprio ASSAI meno, qualcuno che mi dica "ma che stronzate sostieni?!" che qualcuno che mi dica "quello che hai affermato è un errore GRAVE". Nel mio riferirmi al tuo riferimento a Basseches, intendevo dire che nessuna autorità o citazione giustifica il dire a qualcuno "il tuo errore è GRAVE" anziché l'accettabilissimo ed anzi desiderabile "non sono d'accordo con te", o il meno accettabile ma ancora tollerabile "sei in errore". E non importa se l'accusato di "errore grave" è Giorgio, io stesso o qualcun altro. Il fatto poi che nella tua frase l'accusa di "errore grave" fosse accostata all'abuso sessuale in psicoterapia e poi all'abuso teorico che commetterebbero i terapeuti che seguono procedure manualizzate, componeva un quadro globale che mi è stato difficile mandare giù senza reagire ripagandoti di eguale moneta (attraverso Montale).

Ma basta con la mia psicopatologia: quello che qui te ne ho detto dovrebbe bastare a spiegarti un aspetto dei miei proverbiali scoppi di collera. Invece, è forse non legata ai miei disturbi psicopatologici l'impressione che quanto scrivi sembra indicare che ritieni SOLO la dialettica "buona" (anche se fai riusciti ed intelligenti tentativi, anche attraverso la concomitante menzione del dialogo, di non dichiararlo tanto apertamente da suscitare la reazione degli odiatori della dialettica). Questo è proprio il problema in cui incappano i sostenitori della dialettica. Ergendosi a sostenitore tanto di un'idea quanto del suo opposto, e per di più invocando se gli torna utile anche una terza idea (la sintesi degli opposti), il "dialettico" (non il dialogico, ovviamente) una sola realtà non può tollerare: colui che, rifiutando il metodo di tenere insieme tesi ed antitesi, si oppone al suo intero sistema. Ciò suggerisce il "Dialogo" di Montale, con quella chiusa in cui il sostenitore della dialettica non liquida l'opinione di chi difende la posizione dualista o binaria (cioè di inconciliabile distinzione del bene dal male e dell'inconoscibile vero dal conoscibile falso, senza sintesi): liquida il sostenitore stesso, visto come "Satana".

Credo che tutti noi sappiamo, pur nella passione per le nostre idee, di essere fallibili. Questo ci salva, e salva l'amicizia e la stima, anche dentro le sfuriate. Ricambio l'affettuosità, e ti saluto anche io caramente. Gianni
P.S. Ho cercato di disattivare l'opzione incriminata. Ci sono riuscito?

Tullio Carere, 28 settembre 2002 (1):

At 22:12 +0200 26-09-02, G.G. Alberti wrote:
>Mi sembra che Tu tratti la mitica m.-m.-m.-m.-m.-m.-a. alla stregua di un experimentum crucis
>del tutto e per tutti i tempi risolutivo. Ma, anche qui, la storia e la filosofia della scienza escludono
>che vi possano essere tali experimenta crucis, e ciò concorda con la
>natura sempre corroborativa, e non verificativa, della evidenza scientifica.

La mitica meta-analisi un experimentum crucis? Se ti ho dato questa impressione, vuol dire che mi sono espresso male. La mia intenzione era di farti notare che tu citi sempre le ricerche che corroborano le tue tesi, e ignori quelle che le falsificano, per quanto mi affanni a sottoporle alla tua attenzione. Potresti dire, e non avresti torto, che io faccio lo stesso. Ma io con questo non voglio affermare la superiorità delle ricerche che cito su quelle che citi tu (variante del gioco infantile a chi ce l'ha più lungo), ma solo mostrarti che il gioco di citare le ricerche per dimostrare quello che vogliamo dimostrare so farlo anch'io, con risultati uguali e contrari ai tuoi. Evidentemente tu andrai avanti per la tua strada e io per la mia, ma se avremo chiarito le caratteristiche delle due strade, e nessuno avanzerà più la pretesa che la strada sia unica (che la scienza sia unica, che il suo metodo sia unico), avremo fatto un gran passo avanti: avremo superato l'integralismo degli ayatollah della scienza unica, e saremo approdati al rispettoso riconoscimento di una molteplicità di prospettive. Successivamente, tra queste diverse prospettive la cui legittimità sarà stata reciprocamente riconosciuta si potrà stabilire un dialogo e forse persino una dialettica. Ma già il dialogo è altamente problematico, se non è stabilito un minimo riconoscimento reciproco tra i dialoganti. Almeno questo mi sembra un obiettivo che è ragionevole e giusto porsi. Mi permetto di proporre al riguardo una modesta ipotesi conciliatoria.

La cosa che a te principalmente interessa è lo studio delle procedure terapeutiche, intese come modalità d'azione in vista della soluzione di problemi specifici. Tu ti unisci a coloro che, in analogia con la ricerca farmacologica, cercano di isolare gli ingredienti attivi dal magma di cose diverse in cui sono mescolati, e di descriverne l'azione specifica. La possibilità di ottenere dati significativi dallo studio di variabili isolate (isolate dalla personalità dell'individuo portatore di un sintomo, dal contesto e dalla situazione in cui quel sintomo emerge, dalla situazione relazionale terapeuta/paziente al cui interno una procedura è applicata) è negata da molti, per es. da Westen (v. il mail di Paolo), ma è ammessa da altri. Wampold, nel suo libro "The great psychotherapy debate" (2001), ha esaminato migliaia di ricerche in psicoterapia, ed è giunto alla conclusione che l'evidenza a favore del modello contestuale (fattori comuni), contro il modello medico (trial clinici, diagnosi, ingredienti attivi) è *overwhelming*. Ma non ho il minimo dubbio che tu potresti esaminare altre migliaia di lavori, o anche gli stessi di Wampold con un metodo diverso, e arrivare a conclusioni opposte. Tanto basta per sospendere il giudizio, e cercare un punto d'incontro.

Lo studio delle procedure efficaci per problemi specifici è solo marginalmente interessante per la terapia "open-ended" che io pratico e in cui credo. Al pari di Paolo, sono da decenni (dopo una breve infatuazione giovanile) un fiero avversario delle "terapie brevi", le uniche che possano essere condotte in modo manualizzato e protocollare. Tuttavia debbo e voglio ammettere che queste terapie brevi, manualizzate, protocollari, offrono dei vantaggi. Il fatto che moltitudini di persone che non avrebbero mai né la motivazione né le risorse per una vera psicoterapia possono ricorrere a questi trattamenti e ottenere un miglioramento significativo per una condizione disturbante in breve tempo, non è cosa da buttar via. Sarà comunque [a] meglio di niente, e [b] meglio di una terapia solo farmacologica. Inoltre, [c] dopo che, grazie a questi trattamenti, queste persone avranno avuto un assaggio di terapia, per quanto breve e protocollare, forse gli verrà voglia di iniziare una vera psicoterapia (vedi la conclusione della terapia breve del caso di vaginismo di Porcelli). E infine [d] chissà che da tutti questi studi sulle procedure efficaci non venga alla fine qualche vantaggio anche per la psicoterapia vera e propria.

Ti sembra poco? Non lo è, se consideri l'aria che tira dalle mie parti. Per esempio, Wampold scrive che nel suo libro "the scientific evidence will be presented that shows that psychotherapy is incompatible with the medical model and that conceptualizing psychotherapy in this way distorts the nature of the endeavour. Cast in more urgent tones, the medicalization of psychotherapy might well destroy talk therapy as a beneficial treatment of psychological and social problems". Capito? Il modello medico (procedure specifiche, trial clinici,eccetera) è *incompatibile* con la psicoterapia, e se si affermasse potrebbe portare alla sua *distruzione*. Quindi è qualcosa da combattere senza mezzi termini. Ma dalla vostra parte non succede forse lo stesso? La psicoterapia che si sottrae alle procedure di validazione della moderna scienza medica non è forse un residuo del medioevo? Chi accetterebbe di farsi curare in un ospedale medievale? Quindi, lotta senza esclusione di colpi per l'eliminazione fisica dell'avversario, da entrambe le parti. Data questa situazione, non è quasi un miracolo che siamo riusciti a dialogare tra di noi, e continuare a farlo per più di un anno?

Ora, il vero salto di qualità nel nostro dialogo avviene se abbandoniamo la linea della demolizione reciproca (io sono OK, tu non sei OK), e passiamo a quella del riconoscimento reciproco. Questo riconoscimento all'inizio può essere solo timido e parziale. Non aspettarti che io ti possa dire sin d'ora: tu sei OK come me - come io non me lo aspetto da te. Il massimo che, come passo iniziale, possiamo fare, è dire "tu sei un pochino OK, non proprio del tutto OK come me, ma nemmeno del tutto non-OK, un male da estirpare". Non dovrebbe essere così difficile per voi, sono sicuro che esiste qualcosa come una procedura comportamentale dei "piccoli passi". Se continua a sembrarti poco, considera che ho dovuto realmente superarmi per fare questo passo, pur così piccolo. Un saluto amichevole. Tullio

Tullio Carere, 28 settembre 2002 (2):

Caro Gianni, ti ringrazio della tua risposta, che conferma e rafforza la nostra amicizia. Sono sostanzialmente d'accordo con le cose che dici, con un paio di distinguo. Tu dici:
> Prima o poi spero di trovare un Collega che, attraverso associazioni libere o analisi
>cognitivo-comportamentali o altre procedure, mi aiuti a capire perché
>reagisco così all'aggettivo "grave" quando è usato in contesti giudicanti
>rivolti ad una persona viva e presente....
>Accettabilissimo, per me, parlare di gravi errori contenuti
>in una teoria. Inaccettabile parlare invece del grave errore di QUALCUNO

Questa tua osservazione mi fa riflettere, e sono certo che d'ora in avanti sorveglierò molto attentamente l'uso di questo aggettivo riferito a presunti errori miei o altrui, e forse riuscirò a sopprimerlo del tutto. Tuttavia, torniamo un momento al contesto in cui l'aggettivo incriminato è stato usato. Mi sembra che il rapporto sessuale di un terapeuta con un (una) paziente anche consenziente sia quasi unanimemente considerato una violazione grave dell'etica professionale: pochi obietterebbero all'uso dell'aggettivo in questo caso. Può darsi che ci sia del moralismo in questo. Forse un giorno scopriremo che il sesso col paziente non è poi così terribile, e in certi casi persino terapeutico. Tuttavia il comune sentire oggi è questo. Perché giudichiamo così severamente questo comportamento? Perché il paziente si trova in una condizione di particolare vulnerabilità psico-fisica nella relazione di terapia, e troviamo che approfittarne sia una cosa particolarmente odiosa.

Ora, se ci sembra una violazione grave l'imposizione da parte del terapeuta del suo desiderio e del suo corpo al paziente, non dovrebbe sembrarci ugualmente grave l'imposizione del suo pensiero e della sua mente? C'è, infatti, chi ritiene che considerare il paziente oggetto di attenzione procedurale, come prescritto dal "modello medico", sia una cosa non meno oscena che considerarlo oggetto di attenzione libidica (Duncan, Miller, Bohart, eccetera). Nel "modello medico" infatti il paziente è sostanzialmente il destinatario di procedure empiricamente validate, a fronte delle quali le sue personali procedure di autoguarigione sono derubricate a maldestri tentativi infantili, o a resistenze tout court. Nella letteratura sopra citata, invece, l'apporto del paziente alla terapia è valutato alla pari di quello del terapeuta (e persino al di sopra, con una scusabile esagerazione reattiva). La violazione (grave) consisterebbe allora nella svalutazione dell'inestimabile contributo creativo del paziente alla relazione e al processo di guarigione.

In una visione della terapia in cui l'apporto del terapeuta non sia considerato dominante su quello del paziente - né, certamente, viceversa - ciascuno dei due mette in campo le proprie procedure, ma al primo è disinnescata l'arma decisiva sempre usata dai preti di tutte le chiese, quella di imporre le proprie procedure come "più vere" in quanto santificate dall'istituzione o dall'ideologia di appartenenza (da questo punto di vista è del tutto indifferente se la santificazione provenga dallo Spirito santo o dai trials clinici: l'articolo di Westen riassunto da Paolo mostra che tutta la sperimentazione eseguita fino ad oggi è basata su assunti molto dubbi o palesemente non validi). In questa visione, in cui il terapeuta rinuncia all'autosantificazione, tutte le sue procedure sono ridotte al rango di mere ipotesi, popperianamente intese: non importa dove le abbia prese (se gliele ha suggerite lo Spirito santo o qualche trial clinico: sono fatti suoi), quello che conta è solo che le metta alla prova, assieme a quelle del paziente equiparate alle sue, nel laboratorio della terapia. Cade di conseguenza qualsiasi possibilità di applicazione protocollare delle procedure, l'unica su cui possa reggersi l'esile pretesa di condurre una terapia "empiricamente validata o supportata".

Da questo punto di vista mi riesce difficile vedere l'approccio procedurale come qualcosa di diverso da una violazione personale. Il massimo che posso fare, restando in questo punto di vista, è mettere da parte l'aggettivo "grave", cosa che faccio senz'altro. Ma cercherò di fare di più: nel messaggio che stavo scrivendo a Giorgio, prima di leggere il tuo, stavo provando a superare me stesso per collocarmi in un punto di vista dal quale l'approccio procedurale non appaia più come una violenza ideologica. Mi dirai, mi direte se ci sarò riuscito.

Tornando per ora alla terapia che io considero genuina, quella in cui le procedure del terapeuta non sono fatte valere a priori come più vere o più valide di quelle del paziente, è chiaro che il suo valore, non essendo più misurato col metro della "validazione empirica", dovrà essere cercato in primo luogo nella qualità del dialogo cooperativo, e anche in quella della "dialettica" tra posizioni conflittuali. Metto la parola tra virgolette perché mi rendo conto che sul termine sarà necessario un chiarimento. Per adesso mi limito a dire che sono completamente d'accordo con te nel rifiutare le dialettiche totalizzanti, in cui ogni negatività non è altro che una negazione da superare in una sintesi, in sistemi in cui non si sa più dove collocare il male e l'errore. C'è, insomma, una "dialettica buona" e una "dialettica cattiva". Quella cattiva non è "dialettizzabile" con quella buona, ma semplicemente da smascherare e eliminare. Un altro modo di esprimere il concetto consiste nel dire che non tutte le contraddizioni sono dialettiche: bisogna distinguere quali lo sono e quali no. Ma il discorso è complesso, lo riprenderemo certo in altra occasione. Un caro saluto. Tullio

PS. La disattivazione dell'HTML è riuscita, grazie.
PPS. Nella risposta a Giorgio uso un'espressione, "l'integralismo degli ayatollah della scienza unica", che prevedo adrenergica. Ho provato a eliminarla, ma poi il discorso non mi viene bene. Inoltre non voglio cadere nel buonismo. Se ti sembra offensiva, pensa che io trovo tale il tentativo di impormi una concezione unica della scienza. Proviamo a dialettizzare anche questa?

Paolo Migone, 28 settembre 2002:

Sulla questione delle procedure, vorrei chiedere a Tullio: secondo te è possibile formulare una procedura che possa guidare il più possibile il terapeuta a fare proprio quelle cose che tu ritieni fondamentali in una terapia? (es. stare sempre attenti a come il paziente potrebbe interpretare quello che noi facciamo, monitorare sempre il suo stato affettivo, i suoi bisogni ecc.)?

Chiedo questo perché, se ben ricordo, nel manuale di Luborsky, che consiste essenzialmente in una serie di procedure cioè di indicazioni pratiche al terapeuta su come muoversi, vi erano anche indicazioni di questo tipo. Paolo

P.S.: a proposito del Luborky, il cui manuale del 1984 rappresenta un po' la pietra miliare della manualizzazione e della ricerca in psicoanalisi, mi viene in mente che appena uscì in inglese lo studiammo riga per riga nel nostro gruppo di Bologna, per rifletterci su e capirne tutte le implicazioni anche riguardo alla ricerca, i cui discorsi in quegli anni erano agli albori in Italia (suggerii subito alla Boringhieiri di tradurlo, e indicai Freni come possibile autore di una prefazione, che poi lui fece, anche perché insegnava alla università e stava iniziando ad interessarsi alla ricerca empirica - fu anche per questo mio interesse sui manuali che Freni poi mi coinvolse per fondare al SPR-Italia). Ricordo che io colsi subito certe contraddizioni - mi sembra in modo simile ai punti sollevati ora da Tullio - che ritrovo ora in un passaggio di un mio saggio-recensione di quel libro, che uscì su Psicoterapia e scienze umane, 2/1990. Voglio ricopiare qui letteralmente quel passaggio, che può avere attinenza con il nostro corrente dibattito:

<<Una delle operazioni centrali compiute da Luborsky, come si è detto, è la suddivisione degli interventi della psicoterapia psicoanalitica in due categorie: supportivi ed espressivi. E' questo uno degli aspetti più problematici, sul quale per prima cosa voglio soffermarmi, perché può prestare il fianco alle critiche dei lettori meno attenti o inclini a liquidare con troppa facilità lo sforzo fatto dall'autore. Sappiamo che in psicoanalisi (come in tutte le terapie non comportamentali) non è possibile differenziare due interventi sulla base dell'aspetto descrittivo: il carattere supportivo o espressivo di un intervento dipende dai significati che esso assume per il paziente, a loro volta dipendenti dal transfert e dal contesto in cui si collocano, potremmo dire sia in senso diacronico (cosa è successo nelle sedute e/o negli interventi precedenti), che sincronico (quali altri interventi, consapevoli o meno, vengono fatti contemporaneamente a quello). Luborsky è ben consapevole di questo problema: egli precisa, a scanso di equivoci, che il carattere di un intervento non dipende dal suo aspetto formale, ma "da come esso è esperimentato dal paziente" (p. 72 ed. or.), infatti tutto quello che possiamo dire è che "una tecnica è supportiva se il paziente la esperimenta come supportiva" (ibid., citato da Schlesinger). A riprova di ciò, uno dei metodi elencati come supportivi (il n. 5 del tipo 2, p. 89 ed. or.) addirittura recita: "Impegnarsi in una ricerca comune [col paziente] per la comprensione": discutendolo, Luborsky sottolinea come esso, collocando la ricerca della comprensione (tipica tecnica espressiva) all'interno delle tecniche supportive, possa apparire paradossale, e contraddire la logica della separazione nelle due categorie proposta dal manuale, ma precisa che la ricerca comune di comprensione può avere di per sé degli effetti supportivi, non necessariamente traumatici per il paziente. Però il lettore può a questo punto chiedersi: se, per la definizione delle tecniche, il vissuto che il paziente ha di esse è più importante del loro aspetto formale, a cosa serve allora suddividerle in due categorie? Luborsky risponde in questo modo: le tecniche descritte nel manuale come supportive sono quelle "che *generalmente* si ritiene che vengano esperimentate dal paziente come supportive" (p. 72 ed. or., corsivo mio). La questione viene quindi risolta a livello statistico, operazione questa che secondo me da un punto di vista scientifico è corretta: il ricercatore, con una operazione a priori, colloca i comportamenti del terapeuta in due categorie, che si suppone siano statisticamente correlate con determinati vissuti che si vogliono evocare nel paziente, e su questa base costruisce il manuale che dovrà poi essere messo alla prova nella ricerca empirica. Il fatto che sia poi vero che tutte le tecniche qui descritte come supportive (o alcune, o nessuna di esse) provochino nel paziente una sensazione di "supporto", da un punto di vista scientifico è irrilevante. Non mi dilungo su questo problema, che peraltro è simile a quello che sorregge la logica della validità delle diagnosi del DSM-III (vedi Psicoterapia e scienze umane, 2/1985, pp. 93-96).>>
[da: Psicoterapia e scienze umane, 1990, XXIV, 2: 125-130 (pag. 128)]

Tullio Carere, 29 settembre 2002 (1):

At 22:12 +0200 28-09-02, Paolo Migone wrote:
>Sulla questione delle procedure, vorrei chiedere a Tullio:
secondo te è possibile formulare una procedura che possa guidare il più possibile il terapeuta a fare proprio quelle cose che tu ritieni fondamentali in una terapia? (es. stare sempre attenti a come il paziente potrebbe interpretare quello che noi facciamo, monitorare sempre il suo stato affettivo, i suoi bisogni ecc.)?
>Chiedo questo perché, se ben ricordo, nel manuale di Luborsky, che consiste essenzialmente in una serie di procedure cioè di indicazioni pratiche al terapeuta su come muoversi, vi erano anche indicazioni di questo tipo.

Caro Paolo, ti ringrazio per avere ricordato il manuale di Luborsky e il tuo interessantissimo saggio-recensione del 1990, che mi era sfuggito (non ci conoscevamo ancora). La mia personale ricerca (prima solo euristica, ora anche correlazionale, se decollerà) è certamente sulla stessa linea su cui si muove Luborsky, che è spesso citato come esponente del "modello contestuale" (fattori comuni), contro il "modello medico". Nel modello contestuale l'attenzione è rivolta ai fattori terapeutici generali, che sono considerati più significativi e rilevanti di quelli specifici, theory-driven. Luborsky considera i due fattori più generali (interventi supportivi ed espressivi) come caratteristici della psicoterapia psicoanalitica. In realtà questi due fattori sono comuni a ogni tipo di terapia (non a ogni teoria, ma a ogni pratica terapeutica). Corrispondono ai due assi portanti del mio modello, l'asse remaking e l'asse uncovering. Rispetto a Luborsky, io distinguo un sostegno materno (rassicurante) e uno paterno (incoraggiante), e sull'asse della scoperta un polo scientifico e uno ermeneutico, con la conseguenza che i due fattori generali raddoppiano a quattro.

Sin dall'inizio, come ricordi, Luborsky è consapevole della tematica che io chiamo "metaprocedurale":
>Luborsky è ben consapevole di questo problema: egli precisa, a scanso di equivoci, che il carattere di un intervento non dipende dal suo aspetto formale, ma "da come esso è esperimentato dal paziente" (p. 72 ed. or.), infatti tutto quello che possiamo dire è che "una tecnica è supportiva se il paziente la esperimenta come supportiva"
 
Tuttavia non trae da questa consapevolezza le conseguenze che uno si aspetterebbe. Se è vero che "una tecnica è supportiva se il paziente la esperimenta come supportiva", allora l'attenzione dovrebbe spostarsi dall'aspetto formale, procedurale dell'intervento, all'esperienza che ne ha il paziente (aspetto metaprocedurale). Ma Luborsky non fa questo passo, e risolve la questione diversamente:
>le tecniche descritte nel manuale come supportive sono quelle "che generalmente si ritiene che vengano esperimentate dal paziente come supportive" (p. 72 ed. or., corsivo mio). La questione viene quindi risolta a livello statistico, operazione questa che secondo me da un punto di vista scientifico è corretta

Direi che non poteva fare diversamente, se il suo obiettivo era quello di scrivere un manuale procedurale. Descrivi una procedura supportiva, contando sul fatto che statisticamente il paziente avrà una probabilità significativa di sperimentarla come supportiva. E' quello che ho fatto anch'io, nel mio "Il campo della psicoterapia: un modello a quattro vertici". Ricordo che quando ne discutevo con te tu mi rivolgevi la stessa obiezione che avevi rivolto a Luborsky: che senso ha distinguere quattro o più fattori, quando poi quello che conta è l'interpretazione che ne dà il paziente? Tu a quel tempo (tre-quattro anni fa) eri molto più metaprocedurale di me. Io invece difendevo le mie procedure sulla base della stessa considerazione statistica con cui Luborsky difendeva le sue.

Ci sono degli aspetti paradossali in questa vicenda. Luborsky è partito dall'idea di scrivere un manuale per lo studio della terapia psicoanalitica, ipotizzando che questa fosse caratterizzabile e studiabile scientificamente come le "rivali" terapie cognitivo-comportamentali. Ma per studiare la terapia psicoanalitica come tale (non quella kleiniana o lacaniana), ha dovuto chiedersi che cosa hanno in comune le diverse terapie psicoanalitiche. In effetti lo aveva già scoperto partecipando (se non ricordo male), assieme a Wallerstein, alla ricerca di Topeka, che aveva mostrato incontrovertibilmente che tutte i trattamenti (psicoanalisi propria o psicoterapia analitica) erano misture inestricabili di elementi supportivi ed espressivi. La presenza determinante dei fattori supportivi *non è* prevista dalla teoria psicoanalitica, al contrario. Quindi i due fattori generali di Luborsky non sono "theory-driven", non sono derivati dalla teoria psicoanalitica, bensì dall'osservazione di ciò che accade *nella pratica*, indipendentemente, e anche contrariamente a quanto previsto dalla teoria. Come spesso accade, però, Luborsky a quel tempo non se l'è sentita di presentare la sua ricerca come una ricerca sulla *psicoterapia tout court*, ma ha voluto ribadire la sua appartenenza al campo psicoanalitico. Il paradosso sta nel fatto che ha ribadito la sua fede psicoanalitica nel momento in cui di fatto si stava già muovendo in direzione contestuale (uso questo termine per indicare l'approccio dei fattori comuni, come è ormai d'uso). Questo spiega tra l'altro perché non abbia fatto la cosa che sarebbe sembrata più logica date le premesse, cioè studiare soprattutto l'aspetto metaprocedurale: lui aveva bisogno di dimostrare che la "terapia psicoanalitica" (cioè quello che per lui era terapia psicoanalitica) era riconoscibile e studiabile scientificamente. Per questo doveva puntare all'aspetto procedurale.

E io? Anch'io ho avuto bisogno, negli anni in cui facevo il terapeuta di campagna, di definire il mio metodo, il mio modo di procedere. La mia ambizione era quella di mostrare che io facevo consapevolmente e apertamente quello che tutti i terapeuti fanno senza dirlo ad alta voce (perché in contrasto con le rispettive scuole) e spesso senza esserne nemmeno ben consapevoli. C'era un filo di narcisismo, lo ammetto. Essendone almeno un po' guarito, sono finalmente in grado di dedicarmi al punto che già vent'anni fa Luborsky aveva individuato come decisivo (il carattere di un intervento non dipende dal suo aspetto formale, ma "da come esso è esperimentato dal paziente"). Nel frattempo anche Luborsky è sempre meno psicoanalista e sempre più contestualista. Non so se anche lui è guarito al punto da dedicarsi al programma che già allora aveva abbozzato ("Impegnarsi in una ricerca comune [col paziente] per la comprensione"). Se è vero che l'aspetto decisivo di un intervento è il modo in cui è speriementato dal paziente, allora rompiamo gli indugi, rinunciamo a identificarci come psicoanalisti o a sentirci più bravi degli altri, e mettiamoci finalmente a studiare questo punto decisivo.

Venendo alla tua domanda (se "è possibile formulare una procedura che possa guidare il più possibile il terapeuta a fare proprio quelle cose che tu ritieni fondamentali in una terapia"), la mia risposta è affermativa. Prendi per esempio la sezione che segue del Manuale del terapeuta:

The M vertex

If you are a psychoanalyst, you will refer to the work of Winnicott, Kohut, or Bion. If you are a cognitive-behavior therapist, you will think of attachment theory. If you are a humanistic therapist, you will claim the pioneer work of Carl Rogers. In all streams of psychotherapy of the past century the basic importance of a secure base of unconditional acceptance and validation has been underscored. But let us keep in mind the difference between a procedure and a metaprocedure.

A maternal procedure is an attitude of empathy, support, understanding, holding, soothing, validation. If you feel that this is what your patient needs, you will try to respond to him as much as you can in this mode, on the procedural level. And this is correct, as a first approximation to your patient's need. But then, as soon as the relationship develops—and even before that—your patient start sending you signals and hints on what it means to him a secure environment. For instance, the couch can mean a cradle to one patient, but a procrustean bed to another. It should be obvious that in the latter case you should not impose the couch, unless you have good reasons to think that the procrustean bed experience is precisely what your patient needs. Yet even today, in spite of Gill's (1984) warnings, to many psychoanalysts the couch is a must, without which a psychoanalysis is no longer a psychoanalysis, but an "ordinary" psychotherapy.

On the other hand, to many patients doctrinaire rigidity does not mean theoretical abuse, but just the opposite: They feel secure with inflexible and uncompromising therapists (probably for the same reason that has fed the success of dogmatic religions over the ages), and interpret as weakness their therapist's attempts to modify her own approach to meet their needs. Paradoxically, on a metaprocedural level you might decide to impose a rigid setting not because you need it to support your professional identity (as is the case of truly dogmatic therapists), but because this patient, in this stage of his therapy, needs it.

For much the same reason, you might prescribe antidepressant medications (if you are a psychiatrist), or send your patient to a psychiatrist for a prescription. The difference between the pharmacological effect of an antidepressant and an active placebo's is small (Moncrieff et al., 2002). But many people may need this sort of reassurance: Something they can eat, and something whose effectiveness is guaranteed by the high authority of science (which has replaced religion to many people as the ultimate source of truth). The metaprocedural effect-size of antidepressant medications is clearly much greater than the procedural (i.e., pharmacological) one, and this is paradigmatic of virtually all psychotherapeutic procedures. Usually a procedure has an efficacy of its own (i.e., the effect it produces on the average patient in standard conditions), and this may be a good reason to try it with some patients in some conditions. But what it does with a specific patient in a specific context, is quite another story: A metaprocedural story, in fact.

Let us see how we can code the interaction in this vertex. One of your patients goes on saying: I can't cope with it, it's too hard, I can't bear it. No matter what you do, he does not recover from his helplessness. You decide then to propose him an antidepressant therapy for a while. The patient replies: "Yes, I was thinking of it myself." He is grateful to you for understanding that he really needs some sort of objective, tangible help. He is clearly relieved and leaves the session in a much better mood. You code "M3" for both you and him.

In another occasion very similar to the one just described, but with another patient, you make the same proposal. The reply of this patient is different. After pondering for a while on your proposal, he says: "Maybe I am not that ill, after all. Thank you doc for your offer, but let me have one more try." You bet this time his try will be more successful. "This is what I hoped to hear from you", you comment. The patient's reply shows that he did not interpret your offer as a soothing and supporting help, but rather as a veiled threat, something like: "If you really are so ill, then you are supposed to take the medicine". We shall return on this in the next section (The P vertex), but as far as the M vertex is concerned, there is little of it in both your position and in the patient's response. You code "M1" for both.

Let us consider another possibility. The patient replies: "I am not so ill, how dare you make me such a proposal! Sometimes I am afraid that you will never be able to understand me". You have touched the wrong string, the patient does not feel understood by you. You code "M3" for him (strong need for empathy and understanding) and "M1" for you (poor correspondence). But if the patient will give the same ratings in his report, at least the concordance will be fine.

One more possibility. The patient replies: "I am really tempted by a Prozac trip. Thank you for offering. At the same time I feel reluctant to give up. May be we are going to speak of it a little more in the next sessions". This is a higher level, "K vertex" response. We shall return to it later. As for the M vertex, you might code "M2" for both, meaning that the patient felt understanding and care in your proposal, mixed with a sense of challenge (P), and an invitation to reflect (K). The M component is clear, though not prevalent, in both your patient's perception of your proposal and his response.

One can imagine many more possibilities, but these may suffice to see how the same procedure (medicine prescription) can translate in all sort of metaprocedures, depending on the interaction in which the procedure happens.

Come puoi vedere da questi esempi, io non disdegno affatto le procedure, ma le considero come modalità di primo intervento, appunto perché "statisticamente" cose del genere possono dimostrarsi utili in situazioni simili. Ma la vera terapia non si fa con le statistiche: si fa aggiustando continuamente l'interazione in base al contesto, e soprattutto in base ai messaggi con i quali il paziente ci segnala come vive i nostri interventi. Per dissipare, spero definitivamente, il sospetto che io non tenga in giusto conto l'aspetto procedurale del lavoro, ti riporto qui sotto anche la parte iniziale della sezione successiva del Manuale del terapeuta:

The P vertex

The emphasis on metaprocedures, the obvious hallmark of a metatheoretical research, should not obliterate the importance of procedures. On one side there are those who administer procedures (drug prescription included), but do not properly monitor the conscious and unconscious meanings that both patient and therapist give to all steps of the interaction (this therapeutic style is often referred to as the medical model). On the other side there are those who monitor and interpret all meanings given by both partners to the interaction, but do deliberately nothing more, as though the interpretation and clarification of conscious and unconscious meanings were all the patient needs (this therapeutic style is often referred to as the psychodynamic model). You find therapists of the former category in the cognitive-behavior, and of the latter in the psychoanalytic field, but a growing number of therapists in both areas shun this one-sidedness.

We saw in the preceding section a wealth of metaprocedures springing out of the single procedure of a drug prescription. Even if the therapeutic effect is mostly mediated by the metaprocedure, and cannot be directly traced to the procedure itself, it remains that a metaprocedure builds on a procedure. Or, in other words, there has to be an interaction, for the patient to be able to give it a meaning. Although a procedure is almost nothing in itself, independently of the meaning it is given by the patient, and although you never know in advance how your patient will interpret your procedure, a therapy is unconceivable without procedures, i.e. actions deliberately performed with the intention of producing an effect. Even if the effect actually produced more or less differs from the effect expected—this is the procedural-metaprocedural gap—you have to interact somehow, to see first how your patient responds, and then to modify and fine-tune your actions according to your patient's feedbacks.

The M vertex metaprocedural effect is often connected with the bodily component of a procedure, something tangible or physically perceivable as the tone of the voice, a pill to put in the mouth, or the lying position. Similarly, the P vertex metaprocedural effect is often connected with a specific behavior of the therapist that is perceived by the patient as adversarial to his wish of avoiding something unpleasant. Of course everything the therapist does is a behavior. An interpretation is a verbal behavior. You can have an adversarial attitude without modifying the classical psychoanalytic position (which indeed has an adversarial quality of its own). But I am referring here to deliberate and active behaviors, like those of asking the patient to take a medicine, or to imagine something he fears, or to do some homework. These procedures—that psychiatrists and behavior therapists commonly apply, and analysts commonly don't—are quite often (though by no means necessarily) experienced by the patient as adversarial to his resistance, and therefore translate in P vertex metaprocedures. But the classical psychoanalytic setting is also a procedure, which is experienced like any other in many different ways.

Ti ringrazio molto per il tuo prezioso contributo alla discussione. Tullio

Paolo Migone, 29 settembre 2002:

At 21.59 28/09/2002 +0200, Tullio wrote:
>...Al pari di Paolo, sono da decenni (dopo una breve infatuazione
>giovanile) un fiero avversario delle "terapie brevi", le uniche che possano
>essere condotte in modo manualizzato e protocollare. Tuttavia debbo e
>voglio ammettere che queste terapie brevi, manualizzate, protocollari, offrono dei vantaggi...

Dato che mi citi sulle terapie brevi, qui vorrei fare alcuni chiarimenti, anche perché non so quanto Gianni e Giorgio conoscano la mia critica alle terapie brevi. Qui tu sembri dare dignità alle terapie brevi, come se esse "esistessero". Io invece dico che non esistono, quindi non possono essere né buone né cattive, in quanto appunto il concetto di terapia breve nella migliore delle ipotesi è una tautologia (le terapie brevi sono terapie che sono brevi, niente di più). Va chiarito che io no ce l'ho con le terapie brevi, appunto perché non esistono, e non potrei prendermela con un fantasma. Va chiarito anche che questo identico discorso va fatto per le terapie lunghe, anch'esse non esistono (dico questo perché molti che fraintendono il mio pensiero hanno detto che io "preferisco le terapie lunghe" - ci sono sempre delle persone che sentono un mio seminario sulle terapie brevi e non riescono a capire assolutamente nulla, chissà perché). A me non interessano né le terapie brevi né quelle lunghe. Esiste solo la terapia, che è o deve essere il più breve possibile, a meno che non abbiamo il progetto di rubare tempo e soldi ai pazienti. Una terapia c.d. "lunga" può essere molto più breve di una terapia "breve". In sostanza, uno tra i tanti errori concettuali dei teorici delle terapie brevi è quello di invertire una vocale, cioè confondere i terapeuti "brevi" con quelli "bravi". Non occorre parlare di terapia breve (cioè di dirlo al paziente prima dell'inizio della terapia, dato che l'unico carattere distintivo della terapia breve è il tempo prefissato stabilito all'inizio della terapia, cioè il time-limit setting, altrimenti cadrebbe tutto il discorso e non si tratterebbe più di una "terapia breve" ma di una "breve terapia" - lo stesso discorso si deve fare con le terapie lunghe se "lunghe per forza"). Ritengo che tutto l'impianto sociologico, istituzionale, teorico ecc. delle terapie brevi non sia altro che una forma di controtransfert da una parte (paura da parte dei terapeuti brevi di chissà quale coinvolgimento col paziente simbolizzato nelle terapia "lunghe", ignoranza e faciloneria concettuale, incapacità di ragionare teoricamente, interessi economici nel vendere un prodotto appetibile sul marcato della salute mentale, ecc.), e transfert dall'altra (collusione dei pazienti con problemi dei terapeuti, es. idea che la terapia lunga simbolizzi qualcosa di negativo o troppo coinvolgente, bisogno di non analizzare queste problematiche quindi "fare una terapia breve per non fare una terapia", ecc.). La interruzione della terapia (molto precoce, meno precoce, molto spostata in avanti, pressioni da parte del terapeuta a non terminare mentre il paziente vorrebbe terminare, interruzione forzata mentre il paziente vorrebbe continuare, ecc.) è uno dei tanti interventi che abbiamo a disposizione, che può essere terapeutico come contro-terapeutico a seconda delle dinamiche transferali e/o del piano inconscio del paziente. Mirabili sono gli esempi, a questo proposito, di Weiss & Samposn quando usano intelligentemente questo intervento per lavorare sui test (vedi a questo proposito su Internet due miei lavori, uno del 1993 e uno del 1995).

Mi ha fatto molto piacere la settimana scorsa incontrare Furio Lambruschi a Bologna al congresso della SITCC e scoprire che aveva letto attentante un mio caso clinico in cui si vedeva la grande utilità terapeutica della interruzione forzata della terapia, comprendendone tutte le dinamiche transferali, la sua valenza di test (la capacità di separarsi), tanto che mi diceva che lo ha letto molte volte nei suoi seminari agli studenti. Quel caso, che ci raccontò Silberschatz (del gruppo di Weiss e Sampson) al nostro gruppo di Bologna nel 1991, è raccontato alle pp. 58-59 del mio libro Terapia psicoanalitica (Milano. Franco Angeli, 1995), ed è anche su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt62-93.htm. Non posso dilungarmi troppo sul tema delle terapie brevi, a me caro, per non annoiarvi, ma se vi interessa potete leggere il cap. 3 del mio libro dove espongo tutte le questioni in modo più completo. Esiste anche un dibattito sulle terapie brevi su Internet: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/ter-brev.htm.

>...Ora, il vero salto di qualità nel nostro dialogo avviene se abbandoniamo la
>linea della demolizione reciproca (io sono OK, tu non sei OK), e passiamo a
>quella del riconoscimento reciproco. Questo riconoscimento all'inizio può
>essere solo timido e parziale. Non aspettarti che io ti possa dire sin
>d'ora: tu sei OK come me - come io non me lo aspetto da te. Il massimo che,
>come passo iniziale, possiamo fare, è dire "tu sei un pochino OK, non
>proprio del tutto OK come me, ma nemmeno del tutto non-OK, un male da
>estirpare". Non dovrebbe essere così difficile per voi, sono sicuro che esiste qualcosa
>come una procedura comportamentale dei "piccoli passi". Se continua a sembrarti
>poco, considera che ho dovuto realmente superarmi per fare questo passo, pur così piccolo.

Qui Tullio proprio non ti capisco, e se questo è un esempio di applicazione della dialettica, allora ancora non sono d'accordo. Come faccio ad accettare una posizione altrui se non sono d'accordo? Se la ritengo sbagliata? Devo farmi violenza? Esistono posizioni sbagliate oppure no? Se esistono, come si fa a combatterle? Dimostrandolo, argomentandolo, a me sembra, e non accentandole, anche se con la tecnica dei piccoli passi. Se ritengo una posizione sbagliata devo fingere che non lo sia? Devo fare uno sforzo "morale" ed accettarla? Ma quale è il nostro scopo, la ricerca della "verità" (tra virgolette, ovviamente), oppure il dialogo in quanto tale? A cosa serve il dialogo (o la dialettica) in quanto tale? Un saluto calorosamente non dialettico. Paolo

Tullio Carere, 29 settembre 2002 (2):

At 11:30 +0200 29-09-02, Paolo Migone wrote:
>Qui Tullio proprio non ti capisco, e se questo è un esempio di applicazione
>della dialettica, allora ancora non sono d'accordo. Come faccio ad
>accettare una posizione altrui se non sono d'accordo? Se la ritengo
>sbagliata? Devo farmi violenza? Esistono posizioni sbagliate oppure no? Se
>esistono, come si fa a combatterle? Dimostrandolo, argomentandolo, a me
>sembra, e non accentandole, anche se con la tecnica dei piccoli passi. Se
>ritengo una posizione sbagliata devo fingere che non lo sia? Devo fare uno
>sforzo "morale" ed accettarla? Ma quale è il nostro scopo, la ricerca della
>"verità" (tra virgolette, ovviamente), oppure il dialogo in quanto tale? A
>cosa serve il dialogo (o la dialettica) in quanto tale?

Il dialogo (e la dialettica) servono infatti alla ricerca della "verità" (tra virgolette, perché la verità non è solo quella degli scienziati). Quindi, in nome della verità, non dobbiamo mai accettare qualcosa che riteniamo errato. Ma i nostri pazienti ci insegnano che molte volte un cambiamento avviene quando e grazie al fatto che siamo riusciti ad accettare qualcosa che in un primo tempo sembrava completamente sbagliato, addirittura delirante. Noi possiamo fare questo mestiere proprio perché (o nella misura in cui) abbiamo imparato, grazie alla formazione e all'esperienza, ad accettare qualcosa che per il senso comune è inaccettabile, a trovare un significato e una verità in qualcosa che apparentemente è solo assurdità o perversione.

Spero di non essere equivocato: non intendo dire che dobbiamo trattare i nostri interlocutori come pazienti, e fargli la terapia. Voglio dire solo che un principio che abbiamo imparato grazie al dialogo terapeutico può (a mio parere deve) essere applicato anche alle altre forme di dialogo, in particolare in tutte quelle (e sono la grande maggioranza) in cui si finisce in un vicolo cieco in cui ciascuno non fa che ribadire le proprie posizioni. Per esempio io penso: la terapia breve è una forzatura e un errore - ma il mio interlocutore crede nella terapia breve e la pratica. Cerco di mostrargli quello che mi sembra il suo errore, ma inutilmente. Siamo nel vicolo cieco. Si può uscirne? Un modo è precisamente quello che i nostri pazienti ci insegnano. Cerchiamo di vedere le cose dal suo punto di vista. Sforziamoci di capire se una cosa che a noi sembra del tutto errata può avere almeno una parte di verità e significato. Molte volte questo sforzo è premiante. Proviamo ad applicarlo al tema in discussione, la terapia "breve".

>Dato che mi citi sulle terapie brevi, qui vorrei fare alcuni chiarimenti,
>anche perché non so quanto Gianni e Giorgio conoscano la mia critica alle
>terapie brevi. Qui tu sembri dare dignità alle terapie brevi, come se esse
>"esistessero". Io invece dico che non esistono, quindi non possono essere
>né buone né cattive, in quanto appunto il concetto di terapia breve nella
>migliore delle ipotesi è una tautologia (le terapie brevi sono terapie che
>sono brevi, niente di più). Va chiarito che io no ce l'ho con le terapie
>brevi, appunto perché non esistono, e non potrei prendermela con un
>fantasma. Va chiarito anche che questo identico discorso va fatto per le
>terapie lunghe, anch'esse non esistono

Sai bene che la penso come te, la terapia non dovrebbe essere a priori né breve né lunga, ma tanto breve quanto è possibile e tanto lunga quanto è necessario. Questo, naturalmente, se ci mettiamo nella prospettiva della terapia "open-ended". Ma ci sono altre prospettive. Per esempio nell'istituzione in cui lavora Porcelli si offrono dei moduli di otto sedute, eventualmente replicabili (solo in casi eccezionali si può aggiungere un terzo modulo). Questa modalità è molto diffusa, sempre più diffusa. Credo di non sbagliare se dico che oggi una gran parte, forse la maggior parte dell'offerta psicoterapeutica è di questo tipo. Che quindi esiste eccome, ci piaccia o meno. Si può affermare, come fa Wampold, che questo stile appartiene alla medicalizzazione della psicoterapia, e che rappresenta un imbarbarimento, uno snaturamento della psicoterapia. Ma con questo il fatto rimane. Allora, se il mio approccio a un problema non cambia nulla, il mio istinto di terapeuta mi dice che devo cambiare approccio. Proviamo allora a pensare che la limitazione a priori del numero delle sedute (in questo consiste la "terapia breve") non solo esiste, ma ha anche qualche buon motivo di esistere. In questo modo trovo subito quattro buoni motivi (da [a] a [d] nel mio precedente messaggio), e forse procedendo per questa strada ne troverò ancora. Questo è un "piccolo passo", del tipo che molte volte nella mia esperienza si è dimostrato utile per sbloccare delle situazioni bloccate. Naturalmente è solo una procedura: aspettiamo di vedere quello che realmente conta, la risposta metaprocedurale... Tullio

Giovanni Liotti, 29 settembre 2002:

Caro Tullio, sei certamente riuscito a scrivere a Giorgio, ed a me, con tono più interlocutorio e meno apodittico. Te ne ringrazio. Capisco ed apprezzo lo sforzo che hai fatto per ottenere questo risultato, che spesso io ho mancato (e me ne scuso).

Esiste certamente un punto di accordo fondamentale fra noi, che riguarda il rispetto nutrito per la vis medicatrix (o sanatrix) naturae. Questa "forza" ovviamente risiede nel paziente ed ogni terapeuta deve riconoscerla ed accoglierla, perché nessun miglioramento o guarigione è possibile senza di essa. Comunque sia chiamata in psicoterapia, self-righting (Kohut) o Piano (Weiss), è una variabile fondamentale. Beck, nelle sue terapie brevi e manualizzabili, la cerca attraverso la nozione di empirismo collaborativo. Salkovskis la considera il più importante fattore di guarigione nella sua terapia cognitivo-comportamentale, ultrabreve, del DOC (ho in mente un suo bel video, in cui mostra la potenza di questo fattore in un caso di DOC resistente alle sue procedure standard: ciò che Salkovskis fa in quel caso corrisponde al millimetro a quanto Stern chiamerebbe un "now moment").

La differenza che ci divide non sta dunque qui. Gente che segue il "modello medico", come tu ed altri lo chiamate, può dunque dichiaratamente riconoscere il valore essenziale della forza guaritrice della natura, ed insegnare ai propri allievi, in aggiunta alle procedure, a ricercare l'alleanza ad essa (i "fattori comuni"). La differenza fra noi, credo, sta piuttosto nel modo di concepire il rapporto che deve intercorrere fra psicopatologia e psicoterapia.

Se esistono processi e strutture mentali specifici per ogni tipo di disturbo psicopatologico, allora l'intervento, oltre a centrarsi sulla forza guaritrice della natura, dovrebbe FORSE prevedere procedure specifiche capaci di facilitarne la modificazione, che il paziente cerca. Può darsi che non vi siano strutture mentali specifiche per la depressione, per il DOC, per il disturbo borderline di personalità, per l'agorafobia, e così via. Può darsi che vi siano, ma che l'intervento debba essere aspecifico ed uguale per tutti i disturbi psicopatologici. Ma non sembra assurdo perseguire la strada di ricerca che si sforza di identificare da un lato il nucleo del disturbo, e dall'altro le procedure migliori per aiutare il paziente a superarlo. Questa è la strada che perseguo. Tu ne segui un'altra. Non possiamo che stare a vedere dove ci portano le nostre divergenti strade.

Vorrei proporti un esempio (altri potrei proporne, ma scelgo il DOC perché mi permette di essere più breve). Per me è importante che Salkovskis e altri terapeuti cognitivo-comportamentali abbiano portato prove a favore dell'ipotesi che il nucleo del DOC consista in un senso esasperato di responsabilità nel prevenire il danno, piuttosto che nel contenuto delle idee che rappresentano il danno o nella dinamica inconscia da cui emergono. Le loro procedure ed i loro studi di efficacia corroborano tale ipotesi: in ciò, piuttosto che nella brevità della terapia, sta a mio avviso il valore del loro lavoro. Grazie a tale ipotesi mi sembra di comprendere empaticamente meglio i miei pazienti ossessivi, che poi io al contrario di Salkovskis seguo per anni, accogliendo il loro desiderio non solo di superare gli incastri sintomatici dell'ipertrofico senso di responsabilità, ma anche di esplorare come esso si riflette in altre aree della vita e come si sia sviluppato nella loro storia di sviluppo. Però condurrei peggio tale esplorazione se non disponessi dell'ipotesi di Salkovskis e delle sue procedure.

Naturalmente, è possibile che altri terapeuti aiutino meglio di quanto sappia fare io i loro pazienti con un DOC, rinunciando all'ipotesi sul senso di responsabilità ipertrofico e alle procedure per evidenziarlo e correggerlo attraverso l'analisi dei rituali. Può essere che molti pazienti con DOC si giovino di un lavoro terapeutico centrato sulle idee intrusive di danno anziché sui rituali compulsivi con cui cercano di prevenirlo. Ma come saperlo, se non attraverso nuovi studi di efficacia LIMITATI AL DOC che permettano di confutare quelli di Salkovskis e altri?

Ecco: il problema non è quanto siano validi gli attuali studi di efficacia, ma se servano o no ad orientarci almeno un poco sul nucleo dei disturbi. Ma interessarsi o no al nucleo dei disturbi (ipotizzando che esista e sia specifico) è una questione di gusti. A me PIACE parlare non tanto di psicoterapia, ma di psicoterapia, ad esempio, del DOC (o del DBP, o dell'agorafobia, etc.). Ciò non piace a te, che lo consideri "modello medico". A me piace studiare le specifiche linee di sviluppo che conducono ad un tipo di disturbo anziché ad un altro: a te, forse, meno. A me piace la psicopatologia, a te, mi sembra di capire, no. De gustibus non est disputandum.

Cessiamo dunque di discutere sui nostri diversi gusti, vuoi? Così non apriremo l'altro fronte, suggerito dalla tua mail, attraverso la discussione se sia più grave l'abuso sessuale in psicoterapia o l'errore causato dall'adesione del terapeuta ad una teoria sbagliata. E nemmeno torneremo sul fronte del metodo scientifico, unico o plurimo. Tutti fronti secondari, mi sembra, rispetto al vero punto cruciale, che contrappone "modello medico" (esistono disturbi specifici, con un nucleo specifico, da trattare con procedure specifiche) e "modello non-medico" (niente disturbi specifici, niente nuclei specifici, niente procedure specifiche: solo sofferenza umana da affrontare coll'universale potere guaritore del vero dialogo).

Messa così a fuoco la divergenza, è forse possibile delimitare meglio i nostri diversi campi di interesse, non so se dialettizzabili, ma certo oggetto di possibile dialogo comparativo. Un caro saluto, Gianni

Paolo Migone, 30 settembre 2002:

At 15.17 29/09/2002 +0200, Tullio wrote:
>...Il dialogo (e la dialettica) servono infatti alla ricerca della "verità"
>(tra virgolette, perché la verità non è solo quella degli scienziati).
>Quindi, in nome della verità, non dobbiamo mai accettare qualcosa che
>riteniamo errato. Ma i nostri pazienti ci insegnano che molte volte un
>cambiamento avviene quando e grazie al fatto che siamo riusciti ad
>accettare qualcosa che in un primo tempo sembrava completamente sbagliato,
>addirittura delirante. Noi possiamo fare questo mestiere proprio perché (o
>nella misura in cui) abbiamo imparato, grazie alla formazione e
>all'esperienza, ad accettare qualcosa che per il senso comune è
>inaccettabile, a trovare un significato e una verità in qualcosa che
>apparentemente è solo assurdità o perversione.

Continuo a non capire. Cioè mi sembra che il tuo consiglio, la tua indicazione, sia quella di essere modesti, umili, ed essere pronti a considerare che a volte c'è qualcosa di giusto anche in quello che dicono coloro coi quali non siamo d'accordo. Ma io questo l'ho sempre dato per scontato, e ritengo inutile ripeterlo (anzi, sembra un po' offensivo che tu sottolinei questo, perché sembri implicare che solo tu fai questo e che gli altri non lo facciano). Il problema sorge quando dobbiamo discernere nei nostri interlocutori (o pazienti, è la stesa cosa) cosa è giusto da cosa è sbagliato, e qui mi sembra che gli incitamenti alla buona volontà non servano a niente, serve solo l'argomentazione logica, che è l'unica che ci dà qualche garanzia (tutta relativa, lo sappiamo bene!), mentre la buona volontà ci dà solo, tendenzialmente, il rischio di dar ragione a chi non ne ha (come faccio poi, ripeto, a dare ragione a uno che ritengo abbia torto? Prima devo pur trovare in lui qualcosa di giusto, e lo posso fare solo con quella che ho chiamato argomentazione logica, la quale, qualunque cosa essa sia, è diversa dalla buona volontà). Se ci badi bene, neanche tu sei "buono" coi tuoi interlocutori, perché sei tremendamente testardo, non meno di me, Gianni o Giorgio, dato che, come noi e giustamente, hai le tue idee, e non sei affatto disposto a cedere sui punti centrali in cui credi (a meno che non ti convinci che sono sbagliati - o vuoi forse dire che noi invece non li cambieremmo mai, forse per orgoglio, neanche se li trovassimo sbagliati?).

Nell'esempio poi che fai dopo, quello sulle terapie brevi, a mio parere ti sbagli, nel senso che mi sembra che non hai capito quello che volevo dire, sicuramente a causa del fatto che sono stato molto poco chiaro ed eccessivamente provocatorio quando ho detto che le "terapie brevi non esistono". Tu dici invece che anche coloro che non sono d'accordo con me hanno un po' di ragione, e dovrei ammetterlo, poiché, "piaccia o no, le terapie brevi esistono": vedi ad esempio quei setting (come l'ospedale di Bari dove lavora Porcelli) dove sono previsti cicli di 8 sedute ecc. Sono stupito che tu dica questo dato che è scontato che esistono questi setting di terapia breve (cioè di time-limit setting prefissato all'inizio). Io questo lo sapevo benissimo (come si fa a non saperlo? Ho iniziato a ragionare sulle terapie brevi dal 1981 quando sono andato ad impararle da Davanloo a Montral, e avrò fatto decine di seminari su questo argomento confrontandomi con operatori di ogni tipo). Infatti nel lavoro mio che citavo alla fine della mia ultima e-mail (rimandando a quello per non dilungarmi), elencavo questi setting, che sono ad esempio quelli di ricerca, quelli assicurativi, quelli nelle emergenze, o dove il paziente non ha i soldi per pagarsi una terapia lunga, e così via. La questione che io ponevo è completamente diversa, e la ripeto qui per vedere se la avevi capita. In tutti quei setting di terapia breve la brevità è determinata da "ragioni esterne", non da ragioni "interne" alla teoria (questi erano i termini che avevo usato nel mio lavoro). Se le ragioni di una terapia breve sono esterne, allora questa terapia breve è santa e buona, va benissimo, io addirittura concludevo quel mio lavoro con un augurio che venisse usata sempre di più soprattutto nei servizi pubblici dove c'è carenza di operatori e dove sarebbe così reso possibile un maggior turn-over dei pazienti (consentito da setting di terapia breve, esplicitamente programmata come causata da ragioni esterne).

Quello che io ritengo non esista è il concetto di terapia breve, la teoria della terapia breve motivata da ragioni interne alla teoria, a meno che non la si utilizzi per ottenere certi scopi in un paziente, ma questa tecnica è vecchia come il mondo ed è scontata (come sai, la utilizzò anche Freud con l'uomo dei lupi). In una terapia possiamo fare tutto, basta sapere perché lo facciamo (va considerato anche l'aspetto di assolutizzazione delle terapie brevi, molto limitante, perché toglie elasticità in quanto vieta un setting di terapia lunga quindi limita il range di interventi terapeutici). Se voglio spingere un paziente a muoversi in un certo modo, e ritengo che lui non abbia altro modo per subire la mia influenza se non con la informazione (o minaccia, per così dire) che se non si sbriga prima la terapia finirà, allora va benissimo e faccio bene a farlo. Ma qui siamo in piena teoria del parametro di Eissler del 1953 (http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/eiss53-1.htm), con tutte le implicazioni che ne conseguono ("sequestro di materiale analitico", bypassare una resistenza senza analizzarla, cioè cambiare la realtà esterna e non quella interna ecc. in altre parole "non fare terapia" - scusami ma capirai bene che non posso dilungarmi, devo rimandare al cap. 3 del mio libro). Dopo 50 anni da Eissler, accorgersi che nel movimento di terapia dinamica breve non è stato fatto assolutamente alcun passo avanti non ti sembra un po' imbarazzante? (mi viene in mente che di queste cose ne abbiamo discusso a lungo anche coi tuoi amici della SEPI in quel dibattito poi pubblicato al sito http://www.cyberpsych.org/sepi/sepistdt.htm). Col solito affetto antidialettico. Paolo  

Tullio Carere, 1 ottobre 2002 (1):

Caro Gianni, mi piace molto il modo in cui hai riformulato il problema, mettendo a margine le questioni della scienza unica o plurima e degli errori più o meno gravi di impostazione da una parte o dall'altra. E' sempre più chiaro anche a me che la partita centrale si gioca non tanto sul filo del "great divide" (tra scienziati e ermeneuti), ma su quello del "great debate", tra modello contestuale (fattori comuni) e modello medico (procedure specifiche), in cui i fautori di entrambi i modelli si appoggiano alla ricerca scientifica e si combattono a colpi di sperimentazioni empiriche e analisi matematiche.

Se ora, come sembra, siamo sul punto di costruire tra i due modelli una linea di confronto, in sostituzione della linea di fuoco che tuttora separa i due campi e che noi stessi abbiamo non poco alimentato, può iniziare una fase nuova nel nostro dibattito. Accolgo con entusiasmo la tua proposta di considerare la psicopatologia come l'elemento qualificante del modello medico, piuttosto che la brevità del trattamento (quella che consente l'applicazione protocollare di procedure empiricamente validate). Infatti, tanto mi dispiace la "terapia breve" (ora un po' meno, dopo lo sforzo fatto di vederne gli aspetti positivi), tanto mi piace la psicopatologia. Molto volentieri dunque ti seguo sulla strada che indichi, e sull'esempio che proponi:
> Ma non sembra assurdo perseguire la strada di ricerca che si sforza di identificare da un
>lato il nucleo del disturbo, e dall'altro le procedure migliori per aiutare
>il paziente a superarlo. Questa è la strada che perseguo. Tu ne segui
>un'altra. Non possiamo che stare a vedere dove ci portano le nostre divergenti strade.
>Vorrei proporti un esempio (altri potrei proporne, ma scelgo il DOC
>perché mi permette di essere più breve). Per me è importante che Salkovskis
>e altri terapeuti cognitivo-comportamentali abbiano portato prove a favore
>dell'ipotesi che il nucleo del DOC consista in un senso esaperato di
>responsabilità nel prevenire il dànno, piuttosto che nel contenuto delle
>idee che rappresentano il danno o nella dinamica inconscia da cui emergono.

Ti seguo tanto più volentieri, in quanto la psicopatologia è per me un'impresa di ordine fenomenologico, prima e piuttosto che empirico, come attesta una ricchissima tradizione. L'approccio fenomenologico alla psicopatologia consiste essenzialmente nel riconoscimento di strutture regolari, ricorrenti e descrivibili nel disturbo mentale. Con questo approccio ho osservato anch'io la stessa cosa: che il nucleo del DOC consiste in un esasperato senso di responsabilità, rispetto al quale il contenuto ideativo e la dinamica inconscia giocano un ruolo secondario. La terapia deve pertanto puntare a interrompere i circoli viziosi ideativi e comportamentali, piuttosto che, o prima di, analizzarli per il loro contenuto e la loro dinamica inconscia, cosa che rischia di alimentarli.

Ma io andrei oltre. Si può osservare che questo nucleo di esasperata responsabilità, relativamente indipendente da motivi ideativi e psicodinamici, si ritrova non solo nel DOC ma anche in altri disordini, come il DAP e i disturbi alimentari, oltre che naturalmente nella depressione. Non per caso tutti questi disturbi rispondono ai farmaci antidepressivi. Il trattamento con i quali è un atto medico per eccellenza, che possiamo prendere come paradigmatico di ogni altro intervento diretto alla correzione di disturbi specifici. Io introduco abbastanza spesso questi farmaci nelle mie psicoterapie, dopo essermelo stoltamente vietato per anni in nome della purezza del metodo. Io, avversario del modello medico, faccio proprio quello che in genere gli avversari di questo modello stigmatizzano in massimo grado. Come è possibile?

E' possibile perché ho osservato che le procedure specifiche, per quanto utili e necessarie, funzionano per lo più per motivi ampiamente o completamente diversi da quelli "specifici" ritenuti alla base del loro meccanismo di azione, e riconducibili invece ai fattori terapeutici comuni. Prendiamo appunto i farmaci antidepressivi. Come probabilmente sai, Kirsch e Sapirstein, nel loro lavoro "A Meta-Analysis of Antidepressant Medication", hanno mostrato che:
"The effect size for active medications that are not regarded to be antidepressants was as large as that for those classified as antidepressants, and in both cases, the inactive placebos produced improvement that was 75% of the effect of the active drug. These data raise the possibility that the apparent drug effect (25% of the drug response) is actually an active placebo effect."
 
Cioè: il placebo inattivo ha un effetto pari al 75% della risposta al farmaco, mentre il placebo attivo (quello che dà qualche disturbo collaterale) avvicina questa percentuale al 100%. Ancora una meta-analisi che riduce l'effetto specifico di una procedura praticamente a zero.

Gli editors della rivista "Prevention & Treatment" avvertono giustamente che la conclusione dell'articolo è controversa e il metodo statistico impiegato è discutibile. Tuttavia, anche se il verdetto di Kirsch e Sapirstein può essere troppo severo, credo sia indiscutibile che una quota molto significativa, quasi certamente preponderante dell'effetto del farmaco è dovuta a fattori diversi dalla sua azione farmacologica. Ricondurre a un generico placebo tutta l'azione non farmaco-specifica, comunque, è troppo riduttivo. Nel breve estratto del mio "Manuale per il terapeuta" che ho inserito nel mail del 29 settembre, ho fornito alcuni esempi di attività contestuale (metaprocedurale) del farmaco.

Lo stesso discorso vale, e a maggior ragione, per le procedure comportamentali: ci sono meta-analisi che indurrebbero a ritenere insignificante l'effetto specifico anche di queste, come del farmaco. Ma mi rendo conto che la demolizione delle tesi avversarie a colpi di analisi statistiche è un gioco che mi ha stancato. A ben vedere, non ho nessun interesse a credere o far credere nella insignificanza delle procedure specifiche per la psicoterapia. Anzi, preferisco pensare che tanto i farmaci, quanto le diverse procedure, siano forniti di un'attività specifica "probabile". Io faccio largo uso nella mia pratica di ogni sorta di procedure di varia provenienza che a mio parere funzionano soprattutto per la loro capacità di evocare effetti metaprocedurali: ma la funzione metaprocedurale (soggettiva) è tanto meglio evocata, quanto più può appoggiarsi a un effetto propriamente procedurale (oggettivo). Tornando all'esempio del farmaco antidepressivo, l'effetto placebo è potenziato dal placebo attivo, in cui il paziente può sentire che il farmaco "fa qualcosa". Se quel qualcosa, poi, è una pur debole azione realmente, cioè chimicamente, antidepressiva, è probabile che quella azione sarà ulteriormente potenziata dal paziente.

Ora, che cosa può succedere se smettiamo di spararci addosso l'un l'altro raffiche di argomentazioni logiche e di analisi statistiche? (Abbiamo appurato che nessuna delle due parti arretra di un palmo). Certo ognuno di noi continuerà a preferire il proprio modello e a trovarlo più adeguato a spiegare il processo della psicoterapia per ciò che ha (per noi) di essenziale. Tuttavia potremmo scoprire che i nostri due modelli invece di essere antagonisti sono complementari, di una complementarità che finora non abbiamo potuto riconoscere perché la motivazione antagonistica, prevalendo su quella collaborativa, ci ha leggermente accecato. Se riuscissimo a invertire questa prevalenza (a differenza di Paolo, penso che a questo scopo la buona volontà sarebbe più utile della logica), potrebbe forse nascerne una interessante sinergia. Ti sembra una cosa possibile? Tullio

Tullio Carere, 1 ottobre 2002 (2):

At 1:10 +0200 30-09-02, Paolo Migone wrote:
>Quello che io ritengo non esista è il concetto di terapia breve, la teoria
>della terapia breve motivata da ragioni interne alla teoria, a meno che non la si utilizzi
>per ottenere certi scopi in un paziente, ma questa tecnica è vecchia come il mondo

Caro Paolo, non avevo capito la tua formula "la terapia breve non esiste". Adesso che me l'hai spiegata, continuo a non essere d'accordo. A me pare che la terapia breve esista sia come dato di fatto che come concetto. Infatti ne ho parlato, nella mia ultima risposta a Giorgio, proprio come concetto, nell'ipotesi (giusta o sbagliata) che il concetto di terapia breve sia parte essenziale del concetto di terapia empiricamente validata. Si può affermare di fare una terapia empiricamente validata solo se si segue un protocollo empiricamente validato, che può essere applicato solo per un breve periodo. Nel medio-lungo termine, infatti, l'evoluzione stessa del processo costringerebbe a modificare i termini del rapporto e quindi a uscire dalla procedura protocollare (con sollievo ho poi accolto la proposta di Gianni, di assumere piuttosto la psicopatologia come elemento qualificante del modello medico). Il concetto dunque esiste, e continuerebbe a esistere anche se fosse errato, non condivisibile o non condiviso da me e da te (converrai che non è politicamente corretto dichiarare non esistenti i concetti che non condividiamo). In ogni modo questa è per me una questione secondaria e di scarso rilievo, a fronte del fatto che sulla questione sostanziale ci siamo sempre trovati d'accordo.

>Il problema sorge quando dobbiamo discernere nei
>nostri interlocutori (o pazienti, è la stessa cosa) cosa è giusto da cosa è
>sbagliato, e qui mi sembra che gli incitamenti alla buona volontà non
>servano a niente, serve solo l'argomentazione logica, che è l'unica che ci
>dà qualche garanzia (tutta relativa, lo sappiamo bene!), mentre la buona
>volontà ci dà solo, tendenzialmente, il rischio di dar ragione a chi non ne
>ha (come faccio poi, ripeto, dare ragione a uno che ritengo abbia torto?
>Prima devo pur trovare in lui qualcosa di giusto, e lo posso fare solo con
>quella che ho chiamato argomentazione logica, la quale, qualunque cosa essa
>sia, è diversa dalla buona volontà).

Magari l'argomentazione logica servisse a discriminare il giusto dallo sbagliato. Se così fosse, noi useremmo sistematicamente questo strumento per discriminare il giusto dallo sbagliato in quello che ci dicono i nostri pazienti, e loro farebbero lo stesso con le cose che gli diciamo noi (abbandonerebbero le loro idee disadattive persuasi della loro erroneità grazie a impeccabili argomentazioni logiche). Sai bene che le cose non vanno proprio così, né con i pazienti né tra di noi. L'esperienza clinica e la ricerca empirica concordano sul fatto che le persone arrivano a cambiare idea, le rare volte che ci arrivano, non tanto per via di argomentazioni logiche, quanto per illuminazioni improvvise (insight), e che l'insight è molto meno il prodotto di argomentazioni che di esperienze affettive: le argomentazioni valgono piuttosto come elaborazioni a posteriori. Per esempio, Gianni e io abbiamo cercato di illuminarci reciprocamente con fiumi di argomentazioni raffinate, senza praticamente riuscire a scalfirci. Cammin facendo si è invece sviluppata tra di noi una singolare relazione affettiva, come tra due avversari che si combattono a lungo senza che nessuno dei due riesca ad avere la meglio, e che finiscono per stimarsi (questa è almeno la mia esperienza). Sono emerse le intemperanze colleriche dell'uno e l'arroganza intellettuale dell'altro, assieme al sincero e appassionato desiderio di superare il muro di incomprensione che a ciascuno dei due pareva eretto dall'altro. Jay Haley ha scritto una volta un bel saggio spiegando in questo modo il meccanismo d'azione della psicoanalisi: il paziente prova ripetutamente, a lungo e invano a spuntarla sull'analista, finché un bel giorno si arrende, e guarisce. Potremmo dire che Gianni e io ci siamo psicoanalizzati a vicenda e (forse) siamo sulla via della guarigione, non grazie alla logica delle argomentazioni, ma grazie al fatto che nessuno dei due è riuscito a spuntarla: si potrebbe anche dire, cambiando riferimento, che abbiamo superato i rispettivi test. A questo punto, e solo a questo punto, può (forse) iniziare una vera collaborazione: si può cominciare a ragionare logicamente, dialogicamente, e forse persino dialetticamente. Un saluto dialogico. Tullio

Paolo Migone, 3 ottobre 2002:

Caro Tullio, mi sembra che non ci siamo capiti sui entrambi i punti sollevati nelle nostre due ultime mail (terapie brevi e "buona volontà").

Riguardo alle terapie brevi, il mio discorso riguardava le cosiddette terapie "psicoanalitiche" brevi (quelle che con una giaculatoria vengono chiamate "terapie brevi ad orientamento psicoanalitico"), cioè era una riflessione da un punto di vista psicoanalitico (usando il concetto di parametro di Eissler, per esempio). Se questo può chiarire il nostro fraintendimento, allora siamo a posto, altrimenti non posso far altro che ripetere ad nauseam quello che ho già detto (cioè ripeterei che la terapia breve nella migliore delle ipotesi è una tautologia ed è per questo che a livello concettuale non esiste, non vi è ragione di dire di fare una terapia breve in quanto basta interrompere una terapia quando si ottengono i risultati desiderati, ecc. ecc.). In altre parole i terapeuti brevi non sono portatori di una "tecnica" nuova, la loro unica caratteristica è solo quella di essere brevi. La tua associazione tra terapie brevi e terapie empiricamente validate secondo me non centra niente col mio discorso. Potrei consigliarti di rileggerti attentamente la ultima parte del cap. 3 del mio libro (dove addirittura in una nota, secondo certi ragionamenti, provo a supporre che il concetto esista, ma analizzandolo meglio trovo ancora che non esiste), ma non lo faccio perché so che sei un lettore molto attento e hai già letto le cose che ho scritto, e poi abbiamo tante volte discusso insieme di terapie brevi, in circa tre o quattro dibattiti in rete. Non mi resta quindi che accettare il nostro disaccordo, con una certa frustrazione e anche dispiacere.

Riguardo alla seconda questione, quella della buona volontà che sarebbe meglio del ragionamento logico, sono molto stupito del fatto che ribadisci in un certo qual modo la superiorità della prima. Ti ripeto quello che penso: per me la cosiddetta buona volontà è scontata (infatti suppongo che nessuno ci costringa a stare qui a discutere), e sottolinearla può avere un più o meno sottile effetto svalutante dell'interlocutore, poiché l'implicazione è che lui non ce l'abbia (può forse significare anche una mancanza di altri argomenti, oppure un atteggiamento sottilmente autoritario). E poi, a rigor di logica, per essere coerente tu allora dovresti smettere di argomentare le tue posizioni (cioè dovremmo chiudere questo nostro dibattito), perché tanto la logica non porta a molto (eppure ti contraddici perché dici che il dialogo con noi a volte ti è servito, e anche a me è servito in passato ascoltare delle tue critiche - su Gill, ad esempio, ricordi? - che mi hanno fatto cambiare opinione). Dovremmo usare solo la buona volontà, anche se non so bene come procedere. In altre parole, questa tua posizione ha in me un effetto inibente. Ancora affettuosi saluti antidialettici da un amico di poca buona volontà. Paolo

Tullio Carere, 3 ottobre 2002:

At 0:47 +0200 3-10-02, Paolo Migone wrote:
>Riguardo alle terapie brevi, il mio discorso riguardava le cosiddette
>terapie "psicoanalitiche" brevi (quelle che con una giaculatoria vengono
>chiamate "terapie brevi ad orientamento psicoanalitico"), cioè era una
>riflessione da un punto di vista psicoanalitico (usando il concetto di parametro di Eissler,
>per esempio). Se questo può chiarire il nostro fraintendimento, allora siamo a posto

Allora siamo a posto, perché parlavamo di due cose diverse. Io non mi riferivo alle "terapie brevi ad orientamento psicoanalitico", ma alle terapie che a mio parere debbono essere necessariamente, cioè concettualmente, brevi per poter essere dette "empiricamente validate o supportate".

>Riguardo alla seconda questione, quella della buona volontà che sarebbe
>meglio del ragionamento logico, sono molto stupito del fatto che ribadisci
>in un certo qual modo la superiorità della prima. Ti ripeto quello che
>penso: per me la cosiddetta buona volontà è scontata (infatti suppongo che
>nessuno ci costringa a stare qui a discutere), e sottolinearla può avere un
>più o meno sottile effetto svalutante dell'interlocutore, poiché
>l'implicazione è che lui non ce l'abbia (può forse significare anche una
>mancanza di altri argomenti, oppure un atteggiamento sottilmente
>autoritario). E poi, a rigor di logica, per essere coerente tu allora
>dovresti smettere di argomentare le tue posizioni (cioè dovremmo chiudere
>questo nostro dibattito), perché tanto la logica non porta a tanto (eppure
>ti contraddici perché dici che il dialogo con noi a volte ti è servito, e
>anche a me è servito in passato ascoltare delle tue critiche - su Gill, ad
>esempio, ricordi? - che mi hanno fatto cambiare opinione). Dovremmo usare
>solo la buona volontà, anche se non so bene come procedere. In altre
>parole, questa tua posizione ha in me un effetto inibente.

Io non darei mai per scontata la buona volontà (né la mia, né quella altrui), ma non per questo considero colpevole chi è prigioniero di un accanimento argomentativo e non riesce ad attivare una volontà realmente dialogica (non siamo colpevoli della nostra cecità, almeno finché non ci rendiamo conto di essere ciechi). Rileggendo i nostri dibattiti, quante volte debbo imputare a me stesso questo accanimento e questa insufficienza di volontà dialogica. San Paolo si lamentava: vedo il bene, ma faccio il male. Il nostro amico Sergio Benvenuto è convinto che a una certa età (la nostra) non si cambia più idea: non riusciamo a fare altro che girare intorno a quelle quattro idee su cui si basa la nostra visione del mondo. Io non sono pessimista come lui, ma debbo riconoscere che in generale ha ragione: siamo tutti più o meno prigionieri delle nostre fissazioni e dei nostri tic teorici, tutti afflitti da un livello penosamente inadeguato di capacità e volontà dialogica. Nel nostro argomentare la volontà dialogica è di regola largamente surclassata dalla volontà di potenza: argomentiamo per dimostrare le nostre tesi e demolire quelle del nostro interlocutore. I dati empirici e le analisi matematiche sono usati allo stesso modo. A rigore non esistono nemmeno i "dialoghi", esistono solo "dibattiti", arene congressuali, cartacee o virtuali in cui ciascuno si batte per affermare le proprie verità. Ma se è cosi, tu chiedi, perché continuare a parlare?

Per due buoni motivi, a mio parere. Primo, per un motivo non dialogico, ma "darwiniano", di cui si sono fatti sostenitori, pur con sfumature diverse, sia Gianni che Sergio: dalla pura competizione alla lunga emergono le idee migliori (come emergono i migliori giocatori dai tornei di foot-ball). Io ho obiettato (a suo tempo) che le idee "migliori" che emergono dalla competizione sono quelle più forti, più adatte a sopravvivere, non necessariamente le più vere. E tuttavia sono (oggi) disposto ad ammettere che qualche verità riesca a farsi strada anche in questo modo. Per esempio, mi sembra si possa affermare che se buddismo e cristianesimo sono riusciti a sopravvivere e dare frutti per millenni, mentre il comunismo e il nazismo sono stati spazzati via in pochi decenni, è molto probabile che i primi siano stati sostenuti, a differenza dei secondi, dalle verità di cui erano e sono portatori.

Tuttavia, essendo i tempi della selezione culturale così lunghi e incerti, questa non può essere per me la motivazione principale dell'impegno che abbiamo profuso e continuiamo a profondere nella nostra conversazione (non credo, cioè, che noi siamo semplici pedine al servizio dell'evoluzione). La motivazione principale credo che sia proprio quella dialogica. Intendo dire che la volontà dialogica, anche se debole, addormentata e surclassata dalla volontà di potenza, non cessa di farsi sentire come un'esigenza oscura e, per quanto continuamente frustrata, insopprimibile. In che modo questa volontà riesce a farsi strada? In minima parte, mi sembra, attraverso il potere veritativo delle nostre argomentazioni (minima, ma non nulla). Per la parte maggiore e decisiva, mi sembra, attraverso una "esperienza emotiva correttiva": l'esperienza tanto frustrante di non capirsi, non raggiungersi, non comunicare, eppure insistere, non cedere, non abbandonare il campo, pur essendo stati sul punto di farlo tante volte, stanchi e sfibrati. Se qualcosa ci salverà non sarà, io credo, il potere delle nostre argomentazioni, ma proprio al contrario l'esperienza della sconfitta del nostro ego argomentante.

In ogni modo, Paolo, se vuoi che traduca quanto precede in un'argomentazione logica, eccola. #1. L'argomentazione logica è produttiva e costruttiva solo all'interno di una comunicazione fondata su una motivazione collaborativa, mentre è sterile o distruttiva quanto la motivazione prevalente è competitiva. #2. Il passaggio da una modalità di comunicazione competitiva a una collaborativa non può avvenire per effetto di argomentazioni logiche, dal momento che queste, al livello competitivo, sono al servizio della volontà di autoaffermazione. #3. Il superamento della motivazione competitiva, non potendo essere prodotto da argomentazioni logiche, deve essere il risultato di un'esperienza prelogica, cioè affettivo-emotiva. #4. L'esperienza prelogica basilare che permette il superamento del livello competitivo è la scoperta (accompagnata da sentimenti di dolore, rabbia, impotenza, e sollievo) della vanità dei nostri sforzi di convincere il nostro interlocutore, e dei suoi di convincere noi. Solo questa scoperta apre la strada a un armistizio e al prevalere di una volontà dialogica e negoziale.

Non ti sembra una logica impeccabile? Se ti sembra errata, ti prego di segnalarmi l'errore. Un caro saluto. Tullio

Paolo Migone, 4 ottobre 2002:

At 22.48 03/10/2002 +0200, Tullio wrote:
>...In ogni modo, Paolo, se vuoi che traduca quanto precede in
>un'argomentazione logica, eccola. #1. L'argomentazione logica è produttiva
>e costruttiva solo all'interno di una comunicazione fondata su una
>motivazione collaborativa, mentre è sterile o distruttiva quanto la
>motivazione prevalente è competitiva. #2. Il passaggio da una modalità di
>comunicazione competitiva a una collaborativa non può avvenire per effetto
>di argomentazioni logiche, dal momento che queste, al livello competitivo,
>sono al servizio della volontà di autoaffermazione. #3. Il superamento
>della motivazione competitiva, non potendo essere prodotto da
>argomentazioni logiche, deve essere il risultato di un'esperienza
>prelogica, cioè affettivo-emotiva. #4. L'esperienza prelogica basilare che
>permette il superamento del livello competitivo è la scoperta (accompagnata
>da sentimenti di dolore, rabbia, impotenza, e sollievo) della vanità dei
>nostri sforzi di convincere il nostro interlocutore, e dei suoi di
>convincere noi. Solo questa scoperta apre la strada a un armistizio e al
>prevalere di una volontà dialogica e negoziale.
>Non ti sembra una logica impeccabile? Se ti sembra errata, ti prego di
>segnalarmi l'errore. Un caro saluto. Tullio
 
Caro Tullio, non mi convince la tua affermazione:
<<Il passaggio da una modalità di comunicazione competitiva a una collaborativa non può avvenire per effetto argomentazioni logiche, dal momento che queste, al livello competitivo, sono al servizio della volontà di autoaffermazione>>

nel senso che tu mi sembra ne fai una legge generale, troppo pessimista, cioè sembri dire che - nel linguaggio di Gianni - nell'essere umano la competizione schiaccia e sconfigge sempre la collaborazione paritetica (dici infatti: "le argomentazioni logiche... al livello competitivo sono al servizio della volontà di autoaffermazione"). E se ci fossero delle argomentazioni logiche che propagandassero la collaborazione? E poi perché dici che si è sempre competitivi? Come si fa a stabilire se uno è competitivo oppure ha semplicemente ragione? Mi sembra anche che sia difficile separare esperienza emozionale da argomentazione logica, spesso è un tutt'uno, sono intrecciate. Quando due persone, per varie dinamiche, diventano competitivi o difensivi, possono a volte uscirne anche perché uno dei due argomenta con calma certe cose, accompagnando il suo atteggiamento calmo alla argomentazione, es. facendolo riflettere sul fatto che sono diventati competitivi ecc. E poi, se sembra che funzioni la esperienza emozionale, questa non è mai in un vacuum, ma sotto c'è sempre, a livello inconscio o preconscio, una rassicurazione anche nei contenuti, un diverso set di significati che possono poi emergere più chiaramente. Sperando di non essere inonsciamente competitivo, ti saluto. Paolo

Tullio Carere, 5 ottobre 2002:

At 10:43 +0200 4-10-02, Paolo Migone wrote:
>Caro Tullio, non mi convince la tua affermazione:
><<Il passaggio da una modalità di comunicazione competitiva a una collaborativa
>non può avvenire per effetto argomentazioni logiche, dal momento che queste,
>al livello competitivo,sono al servizio della volontà di autoaffermazione>>
>nel senso che tu mi sembra ne fai una legge generale, troppo pessimista

Caro Paolo, d'accordo, il punto in questione per eccesso di sintesi ha preso una forma troppo categorica. Lo correggerei in questo modo: "Il passaggio da una modalità di comunicazione competitiva a una collaborativa difficilmente avviene per effetto di argomentazioni logiche, dal momento che queste, al livello competitivo, sono prevalentemente al servizio della volontà di autoaffermazione".

>E poi perché dici che si è sempre competitivi?

Anche qui: non sempre, ma quasi. Tieni presente che mi riferisco, in questo contesto, alla comunicazione congressuale/cartacea/virtuale tra colleghi di persuasioni diverse. La collaborazione è naturalmente molto più facile su una base teorica condivisa, ma tanto più difficile quanto più sono lontane le convinzioni di base. La difficoltà appare a volte insormontabile, ma accettando l'incarico di coordinatore della SEPI-Italia io ho accettato implicitamente la scommessa. Un congresso l'abbiamo fatto, è riuscito bene e ora pubblichiamo gli atti: è un primo risultato. Un piccolo numero di noi è impegnato da più di un anno in un dibattito telematico molto serrato: è un altro risultato, ancora più sorprendente del primo. Ma l'obiettivo più ambizioso e più difficile, quello cui tengo di più: la costruzione di una alleanza di lavoro, non è ancora raggiunto.

Perché prevale di gran lunga la competizione, in queste discussioni? Per un motivo semplice: siamo tutti più o meno fortemente identificati con le nostre teorie, visioni del mondo, metodologie, concezioni della scienza. Nel confronto con colleghi che hanno altre teorie ci sentiamo minacciati nella nostra stessa identità. La prevalenza di una reazione difensiva è quindi praticamente inevitabile. Permettimi, Paolo, di paragonare la relazione tra di noi in quest'ultimo anno a una terapia in cui siamo tutti contemporaneamente terapeuti e pazienti: quindi un'impresa ben più difficile di una terapia ordinaria in cui i ruoli sono ben definiti, come è chiara la motivazione del paziente a curarsi. (La malattia da cui questa terapia cerca di curarci è naturalmente l'identificazione con teorie, visioni, metodologie, concezioni).

In questo paragone la nostra relazione fino a questo momento corrisponde alla fase preliminare di una terapia, quella che precede il formarsi di una chiara alleanza di lavoro. A volte questa fase preliminare dura poche sedute, altre volte, come sappiamo bene, anche anni. Non di rado la terapia deve concludersi senza che questa fase sia superata, per la manifesta impossibilità di costruire una base minima di alleanza. Da poco tempo ho la sensazione che la creazione di un'alleanza non sia più una cosa tanto lontana e proibitiva come mi sembrava. Vedremo presto se la mia sensazione è corretta. Se così fosse, comunque, ci saremmo arrivati solo in piccola parte per virtù delle nostre argomentazioni logiche (chi ha convinto chi di che cosa?), ma in parte ben più significativa per l'esperienza affettiva-emotiva cui ho fatto cenno nei messaggi precedenti. Un saluto logico/affettuoso. Tullio

Tullio Carere, 6 ottobre 2002:

At 0:48 +0200 5-10-02, Paolo Migone wrote:
>Caro Tullio, ancora non sono convinto. Mi sembra che tu fai una interpretazione non
>dimostrata, una inferenza, quando dici che se non andiamo d'accordo è
>perché siamo competitivi. In altre parole, tu in un certo senso svaluti le
>nostre argomentazioni (comprese le tue). Potrebbe anche essere che la
>competizione non centra, ma che su certe cose non andiamo d'accordo
>semplicemente perché abbiamo idee diverse (su altre cose invece andiamo
>molto d'accordo). Queste differenze possono rimanere, senza ansia o fretta di trovare
>a tutti i costi un accordo, fino a che qualcuno non cambia opinione e allora ben venga.

Caro Paolo, partiamo da questa evidenza (euristica): su alcune cose andiamo d'accordo, su altre abbiamo idee diverse. Se andiamo d'accordo va tutto bene, ma se le idee sono diverse è ben difficile che uno di noi, me compreso, si schiodi dalle sue convinzioni (altra evidenza). Perché accade questo? E' vero, non è detto che si tratti sempre e in ogni caso di spirito competitivo. Può ben essere, in una discussione, che uno dei due abbia effettivamente ragione, e difenda legittimamente il proprio punto di vista, mentre l'altro difenda solo il proprio ego o il proprio credo. Il guaio è che in questo caso ognuno dei due è convinto di aver ragione, e pensa che sia l'altro (fosse anche "il resto del mondo") ad arrampicarsi sugli specchi per pura ostinazione. Come se ne esce, le rare volte che se ne esce?

Tu dici: "Queste differenze possono rimanere, senza ansia o fretta di trovare a tutti i costi un accordo, fino a che qualcuno non cambia opinione e allora ben venga." Campa cavallo. Se ce ne restiamo tranquilli nelle nostre differenze, aspettando che qualcuno eventualmente cambi opinione, dovremo aspettare molto a lungo (diverse vite, penso) prima che ne nasca qualcosa come un'alleanza di lavoro. Nel Dibattito generale che ci ha mandato Giorgio (grazie), Gianni dice a un certo punto "una congettura [su come si influenzi la relazione], per me favorita, e diversa da quelle che farebbe Tullio, è di farlo attraverso l’educazione degli allievi a scoprire quanto la cooperazione fra pari con un obiettivo comune fa funzionare la nostra coscienza meglio della competizione che io e Tullio abbiamo". In realtà, Tullio è ben convinto anche lui che la cooperazione tra pari sia una modalità relazionale più evoluta e più produttiva della competizione. Ma come si fa a passare dal livello inferiore a quello superiore? Che cosa insegna Gianni ai suoi allievi: forse che la cooperazione tra pari si stabilisce a forza di discussioni e argomentazioni?

Provo a immaginare. Gianni spiegherà ai suoi allievi che una fase iniziale di discussione, in cui si chiariscono le rispettive posizioni, va bene, ma non bisogna tirarla troppo per le lunghe. A un certo punto bisogna fermarsi e chiedersi: che cosa vogliamo fare? Vogliamo continuare a discutere o vogliamo metterci a lavorare? Sarà ovvio che se vogliamo ottenere dei risultati a un certo momento dobbiamo smettere di discutere e metterci a lavorare. E se l'allievo chiede: che cosa significa lavorare?, suppongo che Gianni risponda qualcosa come: significa mettere da parte il tentativo di far prevalere le rispettive tesi, o l'estenuante confronto tra tesi opposte, per mettersi d'accordo su un obiettivo, grande o piccolo che sia, e sul metodo per raggiungerlo. La discussione iniziale, anche piuttosto prolungata come nel nostro caso, dovrebbe servire unicamente a trovare un accordo operativo.

E' possibile tra di noi una vera collaborazione? A me pare di sì, se si vuole: se c'è la volontà di realizzarla. Se ci fosse, l'obiettivo ci sarebbe: lavorare assieme a un progetto di psicoterapia senza aggettivi. Tutta la discussione che c'è stata fino a questo momento è servita per una prima formulazione di questo progetto. E' servita cioè a capire che la collaborazione si può stabilire se da una parte e dall'altra si rinuncia a far valere in modo esclusivo il modello contestuale (fattori comuni) o il modello medico (procedure specifiche), ma si decide di unire le forze per esplorare la probabile sinergia e la possibile interdipendenza dei due approcci. Sarebbe una cosa nuova, che io sappia mai accaduta prima. Un'impresa al "cutting edge" della ricerca che sarebbe molto interessante tentare, per la quale a mio parere nel gruppo di noi quattro esistono le risorse e le capacità. Se ne esiste anche l'interesse e la volontà, me lo direte voi. Se invece vi basta il dibattito, non c'è problema. E' sempre meglio di niente, e forse col tempo... (è la logica di certe terapie, in cui già il fatto che il paziente continui a venire alle sedute è importante: forse prima o poi riusciremo anche a costruire una vera alleanza di lavoro). Tullio

Giovanni Liotti, 6 ottobre 2002:

Caro Tullio, riesco solo oggi a risponderti a causa dei soliti impegni che mi portano così spesso in giro per l'Italia,e tanto poco tempo mi lasciano per la corrispondenza. Sono lieto di apprendere del tuo interesse per la psicopatologia. Siamo in pochi, mi sembra, a coltivarlo. Uno dei punti che sollevi è stato all'origine del libro che ho scritto con Guidano nel 1983, Cognitive processes and emotional disorders (New York: Guilford Press). Si tratta di questo (cito dalla tua ultima mail):
"Si può osservare che questo nucleo di esasperata responsabilità, relativamente indipendente da motivi ideativi e psicodinamici, si ritrova non solo nel DOC ma anche in altri disordini, come il DAP e i disturbi alimentari, oltre che naturalmente nella depressione."

Già. Forse questi temi (senso di responsabilità ipertrofico, visioni negative di sé, esasperata tendenza al controllo preventivo di certe emozioni, etc.), che ricorrono in molti disturbi, si collocano in maniera diversa nelle diverse organizzazioni della conoscenza di sé-con-l'altro che corrispondono alle diverse sindromi psicopatologiche (una similitudine dalla chimica: gli stessi atomi si collocano in maniera diversa nella struttura delle molecole corrispondenti a diverse sostanze). Nel libro suddetto abbiamo provato a delineare tanto le organizzazioni cognitive corrispondenti a diversi disturbi, quanto il nucleo centrale di ciascuna di esse. Di ciò ancora tratto, fra altre cose, nel mio ultimo libro (Le opere della coscienza: Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva cognitivo-evoluzionista, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2001).

Se collochiamo i temi cognitivi, che ricorrono in molti disturbi, all'interno dell'organizzazione conoscitiva tipica del disturbo, possiamo ipotizzare che mentre in alcune organizzazioni essi svolgono un ruolo centrale, in altre sono per così dire periferici. Così, la responsabilità ipertrofica sarebbe centrale nel DOC, e non negli altri disturbi che citi, dove pure può comparire. Questa mia conclusione è ovviamente opinabile, e non mi dilungo ad argomentarla. Certamente però essa mi porta ancora una volta a non concordare con la tua opinione (se ho capito bene ciò che è implicito nel tuo discorso), che gli stessi farmaci giovano nel DOC, nella depressione, nel DAP, e nei DCA (nonché nell'ansia sociale) perché tutti agiscono sul senso di reponsabilità ipertrofico. Sempre nel mio libro del 2001, ho provato a spiegare in altro modo questo effetto positivo dello stesso farmaco in disturbi diversi. Inutile, oltre che ovviamente impossibile, ripetere qui quello che lì ho scritto. Basti dire che arrivo a conclusioni (ipotetiche) diverse dalle tue.

La mia ingenua speranza, che come sai non mollo nonostante gli attacchi tuoi e di tanti post-moderni, è che il metodo scientifico classico possa servire a suffragare l'ipotesi che fai tu, o la mia, o magari quelle ancora diverse di altri. Se ci sono altri metodi pubblici e ripetibili, ben vengano, basta che non torniamo alle infinite ed infinitamente stancanti ed inutili versioni dell'"ipse dixit". Tanto non ci metteremo mai d'accordo, noi umani, né con la logica nè con la buona volontà. Credo proprio che sia necessaria la forza delle prove ripetute, e pubbliche, e protratte nei decenni, e criticate severamente, perché alla fine almeno una parte di noi trovi un qualche, sia pure incerto, accordo su come funziona un qualsiasi limitato aspetto del mondo.

Sono invece parzialmente d'accordo con un'altra tua ipotesi (che tu chiami "osservazione": nota come usiamo diversamente questi termini chiave, ipotesi ed osservazione: anche qui il contrasto fra noi è forte). Tu scrivi: ".. ho osservato che le procedure specifiche, per quanto utili e necessarie, funzionano per lo più per motivi ampiamente o completamente diversi da quelli "specifici" ritenuti alla base del loro meccanismo di azione, e riconducibili invece ai fattori terapeutici comuni". e poi argomenti questo punto. Sempre nel mio libro del 2001, ho scritto a lungo sull'ipotesi che le tecniche cognitivo-comportamentali funzionino soprattutto come veicoli di comprensione empatica (fondamentale "fattore comune", no?). Proprio per questo sono utili ed importanti: permettono al paziente di sentirsi capito e considerato nelle sue richieste di base, quelle appunto che di solito lo conducono all'incontro col terapeuta. Permettono al paziente di vedere che lo psicoterapeuta tenta subito di rispondere alla sua specifica sofferenza con specifici modi per alleviarla. Mi sembra che tu dica qualcosa di simile.

Tecniche e farmaci veicolano empatia e aiuto, e forse da questo dipende il ben noto effetto placebo che tu ricordi e che da sempre la Medicina riconosce (anzi è Lei, non il "modello contestuale", ad averlo identificato e studiato). Tuttavia, prova a dare ai tuoi pazienti depressi una pillola di vitamina spacciandola per antidepressivo, e vedrai quanto è importante ciò che NON è placebo. Serve, di solito, un piccolo cambiamento nella direzione voluta, ottenuto con qualcosa di modesto ma "specifico" per evocare quei fattori comuni ed "aspecifici" (fede, speranza, e carità: scusa la battuta) che poi portano avanti il cambiamento. Citerò anche io San Paolo, come fai tu in una tua altra mail a Paolo: "Ecco le opere che mostrano la mia fede: mostrami ora la tua fede, se puoi, senza le opere".

Come vedi, siamo sempre bloccati dalle divergenze nelle nostre passioni, su scienza classica e modello medico e specificità degli interventi, mentre da sempre concordiamo sull'importanza di fattori comuni come l'empatia ("carità"?), la "speranza" e la "fede" nella possibilità di star meglio, nonché sull'importanza cruciale della vis sanatrix naturae. Cordialmente, Gianni

Giovanni Liotti, 7 ottobre 2002:

Caro Tullio, ieri sera ti ho scritto prima di leggere la tua mail intitolata "dialogo o competizione", nella quale ipotizzi come io possa insegnare agli allievi il valore della cooperazione, e auspichi che il fine comune della "psicoterapia senza aggettivi" possa permettere cooperazione paritetica fra noi. Due parole di commento al riguardo.

Le tue ipotesi sul mio modo di insegnare a cooperare sono abbastanza vicine alla realtà. Il punto cruciale è proprio l'identificare un obiettivo comune. Perché allora l'obiettivo di una "psicoterapia senza aggettivi", che avevamo in comune, non ha permesso che noi dialogassimo in maniera maggiormente cooperativa? Io credo per la troppa fretta di identificare il metodo per raggiungerlo (ricerca scientifica controllata oppure dialettica), coniugato al problema posto da chi o non crede che il suddetto obiettivo sia raggiungibile, o auspica che non venga nemmeno perseguito perché ama la CRESCITA della molteplicità delle teorie fra loro inconciliabili (von Foerster, etc.).

Forse sarebbe bene continuare col più modesto ma anche più efficace "metodo Porcelli": descrizione di casi clinici trattati con modalità e concettualizzazioni che "pescano" in due o più tradizioni psicoterapeutiche diverse. Io proporrei proprio questo ad una Società che si dedicasse al compito: raccolta di esperienze cliniche concrete dove si intravveda l'integrazione GIA' ESISTENTE e la si commenti criticamente, evidenziando i punti nodali dove tradizioni diverse convergono. Certo, procedendo cos“ ci vuole molto tempo, forse decenni: ma perché dovremmo pretendere di vedere noi, mentre siamo in vita, l'integrazione compiuta? Gli alberi si piantano per le generazioni future, no?

Tullio Carere, 8 ottobre 2002:

Cari amici, mi era sembrato di percepire, nell'ultima fase del nostro dibattito, una piccola possibilità che la nostra comunicazione passasse dal piano della competizione a quello della collaborazione. Mi ero sbagliato, la situazione è rimasta sostanzialmente la stessa: Tullio contro il resto del (nostro piccolo) mondo, come icasticamente la descrive Giorgio. Ma quali lucciole ho preso per lanterne? Permettetemi di commentare i due ultimi due mail di Gianni, in cui trovo sia quei segni di "rapprochement" che a quanto sembra avevo sopravvalutato, sia quelli di perdurante difficoltà di comunicazione, che avevo invece sottovalutato.

Tu scrivi, Gianni:
>Credo proprio che sia necessaria la forza delle prove ripetute, e pubbliche, e protratte nei
>decenni, e criticate severamente, perché alla fine almeno una parte di noi
>trovi un qualche, sia pure incerto, accordo su come funziona un qualsiasi limitato aspetto del mondo.

Verissimo, una parte di noi - quelli che apprezzano in modo particolare le "prove ripetute e pubbliche, e protratte nei decenni" - trova un accordo su come funziona il mondo su questa base, mentre altri segmenti di umanità, probabilmente più numerosi, trovano altri accordi sulla base di altri tipi di prove (pensa a quelle protratte nei millenni di buddisti e cristiani). L'importante è, in ogni caso, trovare un accordo, se si vuole collaborare. E quale accordo mi pareva si potesse trovare tra di noi?

Tu derubrichi a 'ipotesi' la mia 'osservazione' che "le procedure specifiche, per quanto utili e necessarie, funzionano per lo più per motivi ampiamente o completamente diversi da quelli 'specifici' ritenuti alla base del loro meccanismo di azione, e riconducibili invece ai fattori terapeutici comuni". Nel tuo mondo non si osserva mai nulla, si fanno solo ipotesi. Anche il fatto che il sole sorge tutte le mattine non è un'osservazione, ma un'ipotesi (per di più errata). Per coerenza si dovrebbe aggiungere che nemmeno il fatto che un'ipotesi possa essere corroborata o falsificata è un'osservazione, ma solo un'ipotesi che bisognerebbe a sua volta corroborare o falsificare. In codesto mondo sembra ci siano solo ipotesi e ipotesi di ipotesi che si rincorrono all'infinito, senza mai potersi agganciare a nulla che non sia a sua volta ipotetico. Ma per evitare questa regressio ad infinitum lo scienziato che lavora con ipotesi deve necessariamente estrarre dal suo mondo ipotetico alcune ipotesi privilegiate e trasformarle in assiomi. Mi sembra che l'epistemologia contemporanea abbia mostrato a sufficienza che il lavoro degli scienziati si regge di solito su un nucleo di credenze metafisiche che sono prese per vere e non sono mai messe in discussione.

Comunque sia, ipotesi o osservazione, su questo punto c'è il sostanziale accordo su cui mi pareva si potesse fondare una collaborazione: tu condividi con me l'ipotesi/osservazione che "le tecniche cognitivo-comportamentali funzionano soprattutto come veicoli di comprensione empatica" (e, aggiungo io, di altri fattori comuni). Ma se le diverse procedure specifiche funzionano soprattutto come veicoli di comprensione empatica e di altri fattori comuni, non sarebbe logico dedicare attenzione soprattutto a questi fattori, per poi vedere come le diverse procedure specifiche si integrano con questi fattori? Non sarebbe logico studiare soprattutto ciò che soprattutto funziona? Ma, benché sia logico, io non chiedevo tanto. Mi bastava il riconoscimento dell'importanza almeno paritaria tra fattori comuni e specifici, come base condivisa da cui partire. Tuttavia tu, invece di cogliere questo prezioso accordo e utilizzarlo per attivare lo spirito collaborativo, prendi subito e nuovamente le distanze:
>Tuttavia, prova a dare ai tuoi pazienti depressi una pillola di vitamina
>spacciandola per antidepressivo, e vedrai quanto è importante ciò che NON è placebo.
Secondo la meta-analisi di Kirsh che ti ho citato l'altra volta, con una pillola di vitamina avrei la probabilità di ottenere il 75% per cento della risposta media al farmaco: quindi ciò che non è placebo non è poi così importante, se il placebo ha un'azione tre volte maggiore. Se poi, invece di una vitamina (placebo inerte), dessi al paziente depresso un placebo attivo (cioè una sostanza che ha soltanto gli effetti collaterali dell'antidepressivo), la probabilità si avvicinerebbe al 100%. A conferma del fatto che l'azione farmaco-specifica, o procedura-specifica, è notevolmente inferiore a quella dei fattori comuni, o (in molte meta-analisi, come questa) irrilevante. Queste cose te le dicevo già l'altra volta. Repetita iuvant, qualche rara volta (quasi mai). Comunque, il tuo argomento prosegue così:
>Serve, di solito, un piccolo cambiamento nella direzione
>voluta, ottenuto con qualcosa di modesto ma "specifico" per evocare quei
>fattori comuni ed "aspecifici" (fede, speranza, e carità: scusa la battuta)
>che poi portano avanti il cambiamento.

Che "un piccolo cambiamento nella direzione voluta, ottenuto con qualcosa di modesto ma 'specifico'" sia necessario per evocare i fattori comuni non è un dato corroborato, per il momento, dalle meta-analisi di cui sono a conoscenza. La mia personale esperienza, su cui ho basato il progetto di ricerca correlazionale da cui è partita questa tornata di discussione, è che per evocare i fattori comuni (metaprocedurali) è sì necessario applicare delle procedure, ma non tanto delle procedure specifiche per un problema, quanto delle strategie di intervento che hanno una certa probabilità di essere vissute in modo corrispondente al fattore comune che si vuole evocare (per esempio, secondo il Manuale di Luborsky citato da Paolo, si applica una procedura supportiva - come potrebbe essere la somministrazione di un farmaco - per la probabilità che evochi effettivamente nel paziente un vissuto supportivo).

Ma questo batti e ribatti - io che tiro dalla parte dei fattori comuni, tu da quella dei fattori specifici - è precisamente quello che stavo cercando di lasciarmi alle spalle, in uno spirito di collaborazione. Tanto è vero che nel messaggio precedente scrivevo (lo ricopio qui, nel dubbio che nel calore del dibattito sia sfuggito anche questo): "...non ho nessun interesse a credere o far credere nella insignificanza delle procedure specifiche per la psicoterapia. Anzi, preferisco pensare che tanto i farmaci, quanto le diverse procedure, siano forniti di un'attività specifica 'probabile'. Io faccio largo uso nella mia pratica di ogni sorta di procedure di varia provenienza che a mio parere funzionano soprattutto per la loro capacità di evocare effetti metaprocedurali: ma la funzione metaprocedurale (soggettiva) è tanto meglio evocata, quanto più può appoggiarsi a un effetto propriamente procedurale (oggettivo)".

Tuttavia, lo studio di questa sinergia non sembra interessarti. A te interessa, lo hai detto tante volte, lo studio di problemi specifici e dei rispettivi rimedi specifici, che evocano i fattori comuni "che poi portano avanti il cambiamento". I fattori comuni (anche se sono quelli che soprattutto portano avanti il cambiamento) li dai per scontati, non ti sembrano meritevoli di approfondimento o non ti interessa approfondirli (non sono per te tema di studio, tutt'al più di battute). La mia posizione è diametralmente opposta (battute a parte), ma amando la dialettica vedo nell'opposizione (non in ogni opposizione: in alcune, e specialmente in questa) una possibilità di sintesi, sinergia o integrazione. Tu invece non ami la dialettica, e quindi mi sembra inevitabile, a questo punto, che l'opposizione rimanga opposizione.

Una proposta, in ogni modo, sembra delinearsi nel tuo mail successivo:
>Forse sarebbe bene continuare col più modesto ma anche più efficace "metodo Porcelli": descrizione di casi clinici trattati con modalità e concettualizzazioni che "pescano" in due o più tradizioni psicoterapeutiche diverse.

Se l'ipotesi è che il confronto sul caso clinico serva ad attivare un dialogo collaborativo, non ti sembra che sia già stata falsificata? Abbiamo commentato il caso di Porcelli, ognuno di noi naturalmente dal proprio punto di vista, ognuno vedendoci quello che poteva e voleva vedere. Siamo rimasti, come sempre, nel dibattito (utile e stimolante, certo, se no non l'avremmo portato avanti così a lungo), ma ben al di sotto della linea del dialogo. Le nostre differenze risaltano fuori puntuali sia che parliamo di teoria, sia che parliamo di clinica. E va benissimo che ci siano, le differenze, se poi c'è anche un'unità operativa intorno a un obiettivo comune. Ma l'obiettivo comune continua a mancare, e non vedo come si possa mai trovare, se non dialettizzando le differenze: cioè rinunciando a far prevalere un punto di vista sull'altro, ma articolando la differenza in vista di una sintesi, sinergia o integrazione.

Mi si rafforza, alla fine, la convinzione che non si dia dialogo senza dialettica, e la determinazione a continuare a cercare l'uno e l'altra anche in capo al mondo. Mi sarebbe piaciuto trovare o costruire uno spazio dialogico e dialettico professionale nella mia lingua madre, ma pazienza: anche questo dibattito è stato molto arricchente, e non è detto che non continui a esserlo. Con immutata amicizia, Tullio

Giovanni Liotti, 10 ottobre 2002 (1):

Caro Tullio, mi dispiace di averti procurato una delusione, nell'accorgerti che quelle che ti sembravano le mie lanterne erano in realtà lucciole, o viceversa. Sorry. Per mitigare la tua delusione (e spero di non aggravarla) provo a ricapitolare come ho percepito gli scambi delle ultime due-tre mail.

 A) Non è facile, e forse non è possibile, conciliare non solo le diverse prospettive, ma persino i diversi linguaggi ("ipotesi" o "osservazioni"): 1> di chi sostiene posizioni chiamate variamente dialettiche, dialogiche, contestuali, post-moderne, e 2> di chi sostiene la desiderabilità di fondarsi sul metodo scientifico classico e sul modello medico (cure specifiche per disturbi specifici, nel contesto della importanza sovraordinata di una corretta relazione di cura = fattori aspecifici). Il nostro difficile dialogo-confronto-competizione lo dimostra.

 B) Lasciando dunque perdere la conciliazione dell'inconciliabile, resta la possibilità di una collaborazione in vista di un obiettivo comune (la psicoterapia senza aggettivi), a prescindere dalla scelta dell'uno o dell'altro metodo. Essendo l'obiettivo COMUNE questo, e non la critica del metodo scientifico (o di quello dialettico), bisogna però pure identificare un metodo accettabile per tutti i collaboranti a tale obiettivo. Proponevo, sorridendo, il metodo clinico, chiamandolo "metodo Porcelli": andare a guardare cosa fanno concretamente quei clinici che usano due o più tradizioni terapeutiche diverse, senza curarsi se tali clinici amino il modello medico o quello contestuale (Giorgio da tempo si muove in questa direzione). Tu, Tullio, non hai raccolto la proposta, né la hai rifiutata: ti sei fermato al problema del placebo, proponendo implicitamente la somministrazione di vitamine (o meglio di farmaci capaci di dare solo effetti collaterali) invece di quelli attualmente in uso, nella certezza meta-analitica che si avrebbero cos“ uguali percentuali di depressi o panicosi o ossessivi che stanno meglio (a proposito, ho sentito di argomentate critiche alle meta-meta-analisi di Luborsky, che si applicano anche ad altre meta-analisi sull'efficacia degli interventi specifici, proprio perché non appare ad alcuni sensato applicare il metodo delle meta-analisi a questo tipo di problemi).

B) C'è un equivoco perdurante circa la ricerca sulle variabili relazionali (preferirei ovviamente chiamare cos“ i "fattori aspecifici" o i "fattori comuni"): non è che a me non interessi, come tu affermi: è solo che mi sembra importante studiarle con il metodo delle procedure e confutazioni, come fa ad esempio la ricerca sull'attaccamento, o quella sull'empatia che promette di aprirsi attraverso gli studi sullo sviluppo della Teoria della Mente e sui mirror neurons.

Proprio però perché davvero è chiaro che tu, Tullio, non apprezzi questo metodo di ricerca (scientifica classica), non insisto sul mio modo preferito di avvicinare il problema, e torno a proporre il "metodo Porcelli": collezione di descrizioni di casi clinici concreti, seguiti da terapeuti che hanno usato procedure e concettualizzazioni appartenenti a diverse tradizioni psicoterapeutiche. Se ci fermassimo a considerare come tu ed io avviciniamo il problema dello studio dei fattori aspecifici ovvero variabili relazionali, ricadremmo nella inconciliabile contrapposizione dei metodi. Fine della sintesi, che spera di chiarire un poco la questione delle lucciole e delle lanterne. Un amichevole ostinato saluto, Gianni

Giorgio G. Alberti, 10 ottobre 2002:

Cari amici, oggi sono rimasto sorpreso nel leggere nel mail di Tullio dell'8.10. questa frase: "La mia personal esperienza, su cui ho basato il progetto di ricerca correlazionale da cui è partita questa tornata di discussione, è che per evocare i fattori comuni (metaprocedurali) è sì necessario applicare delle procedure, ma non tanto delle procedure specifiche per un problema, quanto delle strategie di intervento che hanno una certa probabilità di essere vissute in modo corrispondente al fattore comune che si vuole evocare."

Per me questa è una grossa novità, in quanto ho sempre percepito la concezione di Tullio dei fattori comuni (che preferirei chiamare relazionali perché anche certe procedure possono essere fattori comuni di efficacia di certe terapie) come del tutto monca circa la loro origine, creabilità, dirigibilità e utilizzabilità attiva da parte del terapeuta. Erano, nella mia fantasia, come delle buone e fauste nuvole che avvolgevano terapeuta e paziente, ma di cui non si capiva da dove venissero, se e come potessero essere influenzabili a scopo terapeutico. Avevo più volte detto e ripetuto che anche i fattori relazionali sono influenzabili, parzialmente, probabilisticamente, o secondo codici comunicativi idiosincrasici per il singolo paziente (che però possono essere conosciuti nel corso della terapia) e quindi che attraverso delle procedure si può agire, in una certa misura, sulla relazione col paziente. Naturalmente questa mia posizione contrastava con la visione dicotomica di Tullio, per cui se è relazionale non è procedurale, e viceversa. Ora però mi sembra che la nostra discrepanza si sia ridotta: le procedure servono anche per influire sulla relazione.

Ciò che sembra, secondo Tullio, separarci ancora, è il fatto che le procedure atte a influire sulla relazione non devono essere "specifiche per un problema" ma avere "una certa probabilità di essere vissute in modo corrispondente al fattore comune che si vuole evocare".

Devo subito dire che anche questa affermazione di Tullio mi trova consenziente: personalmente io non ho mai inteso le procedure in modo rigido ma flessibile. Cioè, ritengo che se in una certa fase della terapia è necessario che il paziente sviluppi una certa fiducia in me non applico schematicamente la prescrizione di affrontare ciò che teme, sia esso l'uscire di casa o il tema del suo senso d'inferiorità verso la moglie, ma altre procedure, proposte tematiche, modi interattivi, che lo portino appunto a tale fiducia.

In parte, per orientarsi in tale scelta di procedure potrebbe essere utile una "bussola relazionale" del tipo di quella proposta da Tullio, che quindi ci dica se si debba adottare, ad esempio una posizione paterna, materna,conoscitiva o ne-sciente (io direi, one-down). Mi sembra però che questi criteri di orientamento all'azione terapeutica siano ancora molto generali, e non basterebbero se si volesse specificare quale particolare procedura di volta in volta mettere in atto, anche perché, secondo me certe procedure non si rivolgono al paziente ma al solo terapeuta, sono cioè riflessive (quando ad esempio egli deve osservare il proprio controtransfert, o attuare un containment di stati d'animo indottigli dal paziente).

Vorrei anche aggiungere qualcosa su come io concepisco le procedure, visto che il sasso nella piccionaia procedurale l'ho gettato io stesso, se non ricordo male, proprio al congresso, nel marzo scorso. Ritengo procedura ogni atto o atteggiamento del terapeuta che: sia il prodotto di un'azione consapevole, anche se magari automatizzata, o messa in atto in modo imprevisto o "creativo" sia rivolta al paziente o allo stesso terapeuta,abbia uno scopo razionale desumibile da un modello patogenetico-terapeutico del problema del paziente (che ovviamente può rientrare, pur con le sue peculiarità individuali, entro una più ampia categoria di problemi simili tra loro, p.es. le agorafobie "chiuse in casa", le agorafobie "che escono di casa", ovvero il disturbo da attacchi di panico - ovviamente le somiglianze e dissimiglianze tra i processi patogenetici attuali delle varie patologie sono ancora in buona parte da studiare e dimostrare), abbia un effetto diretto o indiretto sull'outcome, o su un antecedente dell'outcome (emozioni, idee, rappresentazioni di elementi del mondo relazionale), un effetto di carattere più o meno probabilistico, o condizionato da cofattori eventualmente presenti(ad esempio perl'interpretazione di transfert, che il paziente non abbia una personalità troppo fragile), o infine idiosincrasico del singolo paziente e determinato dal terapeuta attraverso la riproposizione delle stesse procedure, la cui attuazione faccia quindi una differenza, e non sia irrilevante, o quasi,come molte altre delle prassi (per esempio i saluti iniziali e finali).

Poiché le procedure, dirette a sintomi, problematiche soggiacenti, individuali o relazionali extra-seduta, alla relazione col terapeuta, e allo stesso terapeuta, sono inserite in una transazione fatta di proposta e risposta, una sorta di ping-pong tra paziente e terapeuta, esse lasciano ampia libertà al paziente di scegliere le proprie risposte. Il senso della loro applicazione, e le speranze della terapia, derivano allora dalla possibilità, dalla probabilità, come si diceva, di evocare delle reazioni e risposte del paziente che più o meno gradualmente lo indirizzino verso nuovi processi cognitivo-emotivo-comportamentali, individuali e relazionali, che siano più utili al conseguimento di certi obiettivi di equilibrio, buona vita relazionale, creatività.

Ricordo vagamente un esempio clinico di Sullivan in cui lui descriveva il suo intervento con un paziente schizofrenico con l'idea delirante che la moglie non fosse sua moglie, e che poi commentava all'incirca così: "Naturalmente io ho solo una piccola speranza che il paziente accetti di rivedere il suo delirio nel modo, più sano, che io gli ho proposto; ma posso confidare che forse, finita la seduta, si ritrovi con la moglie e si dica 'già ma perché avevo l'impressione che questa donna non fosse mia moglie, forse aveva ragione quel medico...'".

Quindi rifiuto recisamente una visione deterministica delle procedure, quale emergeva dalla visione di Tullio dell'applicazione rigida dello intero "pacchetto" procedurale, se ricordo bene per il motivo che così si perde l'ancoraggio all'evidenza empirica della connessione procedura-outcome. Infatti esistono diversi lavori che dimostrano correlazioni tra procedure, occorrenze più o meno ripetute di procedure, inserite in un flusso continuo e ricco di prassi, parole, domande e risposte, comunicazioni varie, che magari non hanno un'attinenza diretta con l'esito, essendo, come dire, il connettivo portante della terapia, ma non elementi in sé sufficienti a determinare il cambiamento.

Volevo a questo punto ricordare il contributo importante di Enrico Jones sulle strutture interattive (interaction structures) che sono per lui l'oggetto dell'intervento terapeutico più rilevante in psicoterapia dinamica. Ora, Jones ritiene altrettanto e parimenti importanti, per il cambiamento terapeutico, i due meccanismi tradizionalmente affermati dagli psicoanalisti, l'esperienza relazionale e l'ampliamento della consapevolezza, ottenibile con l'interpretazione. E dice che nel rapporto tra paziente e terapeuta si innescano e poi ripetono, sulla base del transfert del primo e del controtransfert del secondo, dei pattern ricorrenti d'interazione, fondati su meccanismi d'induzione interpersonale, per lo più del paziente sul terapeuta, che viene trascinato ad azioni complementari e spesso antiterapeutiche e distruttive. Jones dice però soprattutto che il terapeuta deve lavorare su questi pattern interattivi, un po' come dicono Safran e Segal, Kiesler, Ogden, Sandler, deve esperirli, tollerarli, non agirli, mostrarli e interpretarli al paziente.

Quello che mi preme dimostrare è che Jones, pur riconoscendo la fondamentale importanze della relazione, agisce terapeuticamente attraverso delle procedure: da un lato quelle rivolte a se stesso, di contenimento del transfert, di auto-osservazione per scoprire l'origine di certi propri comportamenti, e poi quelle rivolte al paziente: dimostrargli il pattern interattivo che li unisce, interpretarne e dimostrarne i meccanismi cognitivi-emotivi-ideativi che lo costituiscono - e, ciò facendo, sviluppare la funzione riflessiva del paziente - e prospettarne l'origine nelle passate relazioni del paziente, fino a ottenere una modificazione delle rappresentazioni che il paziente ha interiormente del Sé e dell'Altro.

Non so a questo punto se sono riuscito a cogliere una (nuova a mio vedere)possibilità di sintesi tra le posizioni di Tullio e mia circa un reticolo di possibile integrazione procedurale e relazionale. Certamente mi sembra che le nostre posizioni si siano avvicinate, e mi farebbe piacere sentire anche il parere di Gianni e Paolo,oltre che, naturalmente a quello di Tullio. Vi saluto cordialmente, Giorgio

Giovanni Liotti, 10 ottobre 2002 (2):

Caro Giorgio, ho inviato a Tullio, ma anche come al solito a te e Paolo, una mail ("Sorry") probabilmente nello stesso momento in cui tu inviavi questa tua. Penso che tu la bbia ricevuta, e che da essa tu possa desumere che sono sostanzialmente d'accordo con te. Concordo anche con la tua impressione che vadano apparendo alcuni (vaghi? forse no) punti di contatto fra Tullio e noi non appena cessiamo di discutere dei massimi siatemi (chiamati modello medico e modello contestuale, ricerca correlazionale e ricerca "classica", unità o pluralità del metodo scientifico, etc. etc.). Basterebbe anche abbandonare la dizione "fattori comuni" o "aspecifici", sostituendola con quella di variabili relazionali, ed eviteremmo ulteriori contrapposizioni.

Chi sa se fatto ciò potremmo trovare un accordo anche su un metodo alternativo di confronto, oltre che sull'obiettivo comune (psicoterapia senza aggettivi). Forse sì, forse no. Mi piace la tua definizione di "procedure". E' abbastanza precisa da permettere di immaginare una falsificazione empirica pubblica e controllata dell'efficacia o del valore di una qualsivoglia di esse, ma anche abbastanza ampia da permettere a chi la pensa come Tullio, mi pare, di accettarla e nel contempo di continuare ad inarcare il sopracciglio di fronte al famigerato metodo scientifico classico. Insomma chi vuole continua a pensare in termini di congetture e falsificazioni, chi non vuole non lo fa, e tutti si concorda che le procedure e la relazione, in psicoterapia non sono nè incompatibili nè polarità dialettiche che richiedono una sintesi, ma aspetti interconnessi dello stesso processo. Un caro saluto, Gianni

Giorgio G. Alberti, 10 ottobre 2002 (2):

Caro Gianni, mi fa piacere che Tu sia sostanzialmente d'accordo con quanto ho scritto ieri. Seppur un po' troppo sommariamente, ho cercato di esporre le mie attuali idee sulle procedure, che non sono un concetto esplicativo alternativo alla relazione ma complementare. Forse, penso ora, la parola procedura, che Tu dici piacerTi, evoca qualcosa di macchinoso, rigido, immutabile, burocratico, e perciò ha richiamato certe nette e anche, direi, un po' viscerali opposizioni. Ma io intendevo, fin dall'epoca in cui mandai a Tullio il mio abstract per il congresso SEPI, riferirmi ai modi di fare, di procedere del terapeuta nella terapia Mi piacerebbe poter sviluppare ulteriormente questo discorso. Ma vedremo. Cordiali saluti

Tullio Carere, 12 ottobre 2002:

Cari amici, forse qualche lanterna c'è, dopotutto. Di un'impresa comune abbiamo almeno il titolo: "Verso una psicoterapia senza aggettivi". Può sembrare poco, ma è moltissimo se pensiamo che per ritrovarci in questo obiettivo abbiamo dovuto - e sempre di nuovo dobbiamo - rinunciare a far valere l'egemonia degli aggettivi che più ci sono cari: psicoanalitica o cognitivo-comportamentale, scientifica o ermeneutica, empiricamente supportata o dialettica, come osserva e propone Gianni. Questo mi sembra il succo del nostro percorso fino a questo momento: abbiamo provato, da una parte e dall'altra, a convincere la controparte della superiore bontà dei nostri aggettivi, solo per scontrarci sistematicamente con la convinzione uguale e contraria dell'interlocutore.

Privati dei nostri aggettivi, che cosa ci rimane? Che cosa ci fa pensare che il sostantivo si regga ancora in piedi, senza il supporto degli aggettivi? E se il supporto non è quello, qual è? Perché, naturalmente, non basta credere nell'esistenza di una psicoterapia senza aggettivi: bisogna anche dimostrarla. E dimostrarla significa, mi pare, descrivere le sue operazioni fondamentali ricorrenti in ogni pratica psicoterapeutica, indipendentemente dagli aggettivi con cui si addobba. E poi descriverle in un linguaggio sufficientemente neutro, tale da essere accettabile da una parte come dall'altra. Potremmo chiamare questa descrizione, un po' pomposamente, "Teoria generale della psicoterapia senza aggettivi".

Una traccia per questa descrizione la trovo nei vostri ultimi mail. Una parola chiave, per una base minima d'intesa, può essere quella cara a Giorgio: procedure. Una procedura è un'operazione definita in vista di uno scopo definito (se evitiamo di aggiungere 'codificata', tanto meglio: schiviamo da subito il ginepraio dell'empiricamente validato). Ma è chiaro che non tutto è procedurale in una psicoterapia, nemmeno in una terapia manualizzata. Per quanto regolata da un manuale e condotta da un terapeuta deciso a rispettarlo alla lettera, una terapia è sempre in primo luogo una relazione tra due persone. Questo significa che un terapeuta ha qualche speranza di riuscire ad applicare le sue procedure solo se in primo luogo riesce a motivare il paziente a venire alle sedute e collaborare. Per ottenere questo ogni terapeuta deve essere in grado di rispondere a dei bisogni relazionali generali, quale che sia il problema specifico che la terapia si propone di risolvere.

Naturalmente anche per rispondere ai bisogni relazionali generali il terapeuta può usare delle procedure, che possono essere altrettanto specifiche di quelle dirette alla soluzione di problemi specifici (da tempo è stata soppressa la dicitura "non specifici" riferita ai fattori comuni, anche se viene ancora erroneamente usata). Si possono descrivere per esempio delle procedure ben definite per indurre un'esperienza di attaccamento sicuro. Così abbiamo due tipi diversi e ben distinti di procedure, quelle dirette a un problema specifico (come ad es. un senso esasperato di responsabilità), e quelle dirette alla soddisfazione di un bisogno relazionale generale (come ad es. il bisogno di empatia). I due tipi di procedure si collegano a due domini concettuali a loro volta ben distinti: quello della psicologia evolutiva (dei bisogni generali dell'essere umano in relazione), e quello della psicopatologia (dei disturbi mentali). Una teoria generale della psicoterapia s.a. dovrebbe tenere ben presenti entrambi i domini, e articolarli tra di loro.

Stabilito questo, dato alle procedure quello che è delle procedure, bisogna poi occuparsi anche di ciò che non è procedurale. In qualsiasi terapia le procedure riconoscibili come tali sono immerse in un flusso continuo di interazioni, solo una parte delle quali può essere detta 'procedurale' ("una transazione fatta di proposta e risposta, una sorta di ping-pong tra paziente e terapeuta " come osserva Giorgio). In particolare nella terapia non manualizzata e open-ended (come dovrebbe essere la terapia s.a., perché 'manualizzata' e 'breve' sono aggettivi da eliminare come e prima di ogni altro), le operazioni propriamente procedurali sono una minoranza delle interazioni effettive, essendo la maggioranza costituita da risposte del terapeuta alla situazione del momento, cioè interventi non finalizzati a uno scopo definito, ma decisi intuitivamente o istintivamente perché il terapeuta 'sente' che sono la cosa 'giusta' da dire o da fare in un momento determinato. Come fa un giocatore di scacchi, la cui mossa può essere inserita in una strategia definita (per es., occupare il centro della scacchiera o costringere l'avversario alla patta), ma più spesso e più in generale è dettata dalla situazione generale presente in quel momento sulla scacchiera (bisogna pensare allo scacchista di partite-lampo, che ha pochi secondi per decidere la mossa - o al giocatore di ping-pong, secondo la felice immagine di Giorgio).

Su questa base possiamo da un lato impostare uno studio psicologico/psicopatologico delle procedure fondamentali dei due tipi, problem-oriented e relationship-oriented (potete suggerirmi due termini italiani adeguati? forse si potrebbero chiamare neurofisiologiche le prime e relazionali le seconde, in quanto si fondano rispettivamente sul funzionamento del cervello e sulla dinamica relazionale). Dall'altro lato possiamo forse capire meglio dove inizia il disaccordo tra noi. La parte non procedurale della terapia è intesa da Giorgio come "un flusso continuo e ricco di prassi, parole, domande e risposte, comunicazioni varie, che magari non hanno un'attinenza diretta con l'esito, essendo, come dire, il connettivo portante della terapia, ma non elementi in sé sufficienti a determinare il cambiamento". Questo "flusso continuo e ricco" è inteso come un "tessuto connettivo", piuttosto che come il parenchima nobile della terapia. Naturalmente qui la mia valutazione è diversa: questa parte non solo ha "elementi in sé sufficienti a determinare il cambiamento", ma anzi è quella che soprattutto lo determina. Che cosa mi autorizza a dirlo?

In primo luogo, le stesse procedure, di entrambi i tipi, agiscono per lo più per motivi diversi dalla loro ragione di essere: il farmaco antidepressivo agisce come tale al massimo per il 25% della risposta che evoca, e per il resto come placebo (Kirsh), "le tecniche cognitivo-comportamentali funzionano soprattutto come veicoli di comprensione empatica" (Gianni), le terapie molto coerenti e strutturate funzionano per il senso di fiducia che ispirano al paziente, piuttosto che per il loro contenuto tecnico (Messer & Wampold). Cioè, in generale le procedure funzionano più per come il paziente le intende che per come le intende il terapeuta (e il paziente le intende naturalmente in funzione dei propri bisogni, non in funzione delle teorie del suo terapeuta). In altri termini, il fattore metaprocedurale incide sul risultato (molto) più di quello procedurale. Vista la minore importanza, agli effetti del risultato, della procedura in sé stessa (cioè per il meccanismo specifico ipotizzato), rispetto al vissuto che è in grado di evocare, sembrerebbe più logico privilegiare lo studio della componente maggiore dell'azione terapeutica (metaprocedurale), piuttosto che di quella minore (procedurale).

In secondo luogo, in conseguenza del gap procedurale/metaprocedurale ora descritto, ogni terapeuta esperto tende a stemperare le procedure originariamente previste dal suo metodo in quel "flusso continuo e ricco" che Giorgio considera un semplice connettivo, mentre io lo considero la sostanza propria della psicoterapia. Infatti, è stato spesso notato che le procedure tipiche dei diversi metodi sono ben riconoscibili da un osservatore esterno nella pratica dei terapeuti inesperti, mentre le pratiche dei terapeuti esperti finiscono per assomigliarsi tra di loro più di quanto assomiglino a quelle dei terapeuti inesperti della loro stessa scuola. Per esempio, mentre il terapeuta novellino somministra un antidepressivo come da manuale, il terapeuta esperto nel momento in cui propone il farmaco ha presente una vasta gamma di azioni farmacologiche (neurofisiologiche), e soprattutto relazionali, che nel particolare contesto in cui la proposta è fatta hanno una certa probabilità di evocare certe risposte (vedi lo stralcio del mio Metatheoretical Research Project nel messaggio del 29 settembre). Il terapeuta esperto di tutte le scuole è sempre meno "procedurale" (nel senso che nel suo modo di interagire è sempre più difficile isolare interventi definiti diretti a un fine definito), e sempre più "contestuale" (nel senso che i suoi interventi traggono significato meno dalla teoria da cui originariamente derivano, e più dal contesto particolare in cui avvengono). Il terapeuta esperto, in altre parole, si preoccupa meno di applicare procedure definite, e molto più di monitorare momento per momento la relazione, per una "regolazione fine" (fine-tuning) della relazione in funzione dello sviluppo del processo. (Spero sia chiaro che non sto insinuando che Giorgio non sia un terapeuta esperto: sono convinto che le sue terapie sono caratterizzate dal "flusso continuo e ricco" dei terapeuti esperti. Il problema è solo che, come spesso avviene, lui svaluta a semplice 'connettivo' la parte che io invece considero più significativa del lavoro).

Spero con questo di avere chiarito la perplessità di Giorgio, circa le "buone e fauste nuvole che avvolgevano terapeuta e paziente, ma di cui non si capiva da dove venissero". Certo che il terapeuta deve cercare di esercitare un influsso sulla relazione, altrimenti non si capirebbe a che titolo potrebbe aspettarsi il pagamento della parcella. Ma questo influsso si può esercitare con procedure di tipo sia neurofisiologico, sia relazionale, e soprattutto con modalità sia procedurali, che contestuali (il fine-tuning della relazione). Con questo non intendo riproporre la contrapposizione procedurale/contestuale che abbiamo faticosamente messo da parte. Non mi interessa spingere questa contrapposizione, come fanno gli autori contestualisti, al punto di negare sostanzialmente ogni valore intrinseco alle procedure. Ho detto e ripetuto che per me "la funzione metaprocedurale (soggettiva) è tanto meglio evocata, quanto più può appoggiarsi a un effetto propriamente procedurale (oggettivo)", concetto che mi sembra equivalente al "piccolo cambiamento nella direzione voluta, ottenuto con qualcosa di modesto ma 'specifico'" di cui parla Gianni. Anche su questo punto, quindi, mi sembra non sia impossibile comporre il disaccordo accogliendo nella "teoria generale della psicoterapia s.a." procedure sia neurofisiologiche che relazionali, e azioni procedurali di entrambi i tipi a fianco di interazioni contestuali. In questo quadro ci sarebbe posto sia per Gianni e Giorgio, che danno più importanza alle procedure, specialmente quelle neurofisiologiche, sia per me, che do più importanza alle procedure relazionali e soprattutto alle interazioni contestuali (la posizione di Paolo al riguardo non l'ho ancora capita bene).

Se potessimo trovare un accordo di massima su un progetto teorico come questo, allora sì che diventerebbe molto interessante metterlo alla prova sul materiale clinico. Ma piuttosto che ricorrere ancora una volta a un materiale esterno, come quello di Porcelli, mi sembrerebbe più interessante proporre noi stessi delle vignette cliniche o (se si preferisce) dei trascritti, per confrontare le nostre ipotesi sulla clinica. Se poi superassimo anche questa prova, si potrebbe addirittura pensare a una ricerca empirica di tipo correlazionale. Ma non voglio correre troppo. Per il momento sarebbe già molto riuscire a intendersi sulle coordinate teoriche fondamentali di una "psicoterapia senza aggettivi". Cari saluti, Tullio

Giovanni Liotti, 12 ottobre 2002:

Caro Tullio, accolgo subito il tuo invito: un mio caso clinico assai dettagliato è descritto nei vari capitoli del mio libro "Le opere della coscienza". Altri compariranno in un libro su attaccamento e psicoanalisi di prossima pubblicazione negli USA (a cura di Marrone e Cortina), e nel numero estivo del 2003 della Revista de Psicoterapia di Barcellona. Se vuoi te li manderò (ma quello spagnolo devo ancora scriverlo, la deadline è a Gennaio). Un altro ancora è già comparso in un libro sull'attaccamento del 1995, e se trovo il file originario te lo spedisco. Però penso che faremmo meglio a raccogliere anche quelli di altri: impresa lunga, ma utile per i nostri nipoti, che finalmente disporranno di una psicoterapia senza aggettivi (sai che la mia profezia, che so tu ti auguri errata, prevede che ciò accadrà grazie all'applicazione del metodo scientifico classico alla PSICOPATOLOGIA oltre che alla psicoterapia). Non ti incazzare per la frase fra parentesi. Un caro saluto, Gianni

Tullio Carere, 14 ottobre 2002:

Cari amici, mi sembra che ci stiamo davvero avvicinando a una fase collaborativa. Grazie Gianni per avere prontamente accolto il mio invito, e avere proposto del tuo materiale. Penso che sarà un ottimo punto di partenza, non appena avremo chiarito la base teorica su cui concordiamo (e quella su cui non concordiamo), e le ipotesi di lavoro da verificare o falsificare sul materiale clinico. Ma penso che non ci siamo tanto lontani: Giorgio mi ha scritto in posta privata che è d'accordo all'80% per cento su quanto ho scritto nell'ultimo invio (non credo di tradire la sua fiducia se rendo pubblica la cosa nella nostra piccola cerchia). Nell'attesa di sapere qual è l'80, e quale il 20, vorrei dire che nemmeno io sono del tutto d'accordo con quello che ho scritto l'ultima volta.

Una cosa su cui credo non sarà difficile mettersi d'accordo è che una psicoterapia senza aggettivi si compone di procedure di due tipi e di interazioni non procedurali. Il primo tipo di procedure è quello detto "specifico", il secondo l'abbiamo chiamato per lo più "relazionale", ma non sono molto soddisfatto di questi termini, perché sembrano implicare che le le procedure relazionali non siano specifiche, e quelle specifiche non siano relazionali - il che non è vero. Ho provato a sostituire "specifiche" con "neurofisiologiche", ma non ne ero soddisfatto già mentre lo scrivevo. Ho quindi ripensato tutta la questione, a partire dal fatto che le procedure specifiche sono state dette tali in origine per indicare i fattori o ingredienti specifici di un dato approccio (per esempio psicodinamico), in contrapposizione ai fattori comuni, non specifici di alcun approccio, ma appunto comuni a tutti (ad es. l'alleanza di lavoro). Mi ha colpito il fatto che questa accezione del termine non sia mai stata usata tra di noi. Benché il nostro piccolo gruppo sia composto di due terapeuti di formazione analitica, e due di formazione cognitivo-comportamentale, non è mai successo che si creasse una contrapposizione tra i due campi: la contrapposizione invece si è regolarmente creata tra il modello medico-scientifico (tre sostenitori) e modello dialogico-contestuale (uno solo). E' una cosa che constato con soddisfazione: la battaglia tra sostenitori di scuole diverse è ormai una battaglia di retroguardia, le questioni realmente importanti oggi sono altre.

Tra di noi, quindi, le procedure "specifiche" non sono mai state quelle proprie di un approccio (psicodinamico, comportamentale o altro), bensì quelle che sono dette specifiche perché dirette al trattamento di un problema o disturbo specifico, concetto centrale del modello universalmente detto "medico". In questo senso, il termine possiamo conservarlo, anche perché, chiarito il viraggio semantico che ha subito a partire dal suo uso originario, lo trovo senz'altro appropriato. Resta da chiarire il secondo tipo di procedure, dette sin dall'inizio "comuni". Il termine andava bene in contrapposizione a "specifiche" nel suo senso originario, ma dopo il viraggio che ha portato al senso attuale è diventato anacronistico. "Relazionali" è meglio, ma non va bene perché anche le procedure specifiche possono essere poco o tanto relazionali. Una breve consultazione della letteratura mi ha permesso di osservare che al termine specifico si contrappone per lo più il termine "generale", nel senso che gli interventi del terapeuta possono essere diretti a obiettivi specifici (la correzione di un sintomo o la soluzione di un problema) o generali (come la creazione di un clima di fiducia e sicurezza). Naturalmente un intervento specifico può avere anche un effetto generale, e viceversa, e addirittura il terapeuta può impiegare una procedura specifica con l'obiettivo di ottenere (anche) un effetto generale, o viceversa. Stando così le cose, la distinzione tra procedure specifiche e generali si fa più sfumata, venendo in primo piano la distinzione tra ciò che il terapeuta fa (di specifico o di generico, di procedurale o non procedurale) e l'effetto che ottiene.

Come sapete, per me è questa la distinzione realmente significativa, e per questo sono poco incline alle sottili distinzioni procedurali. Tuttavia mi sembra importante distinguere i due livelli: ciò che il terapeuta fa e ciò che ottiene, e cercare di correlare nel modo più preciso possibile l'una cosa con l'altra. (Il termine "fattore terapeutico" in questo senso è troppo impreciso, proprio perché non distingue i due livelli). Per il momento, quindi, mi sembra molto importante trovare un accordo su come descrivere le cose che avvengono in una terapia "senza aggettivi", cioè in qualsiasi terapia, perché una volta che disponiamo di queste categorie generali abbiamo la possibilità di correlarle con gli effetti che producono. Propongo quindi, a correzione del mio ultimo contributo, di distinguere gli interventi del terapeuta in procedure specifiche, procedure generali, e interventi non procedurali. Questa distinzione lascia del tutto impregiudicata l'importanza relativa dei tre gruppi di interazioni agli effetti del risultato, e serve unicamente a descrivere le cose che il terapeuta concretamente fa, indipendentemente sia dalle motivazioni recondite o inconsce per cui le fa, sia dagli effetti che realmente ottiene. Vi sarei grato di un feed-back su questo punto. Tullio

Giorgio G. Alberti, 14 ottobre 2002:

Cari amici, caro Tullio, è tardi, non "ho la testa", e mi limiterò a un'ossatura delle mie argomentazioni sul recente mail metodologico di Tullio. Sono del tutto d'accordo con la visione di Tullio sui due tipi di procedure, che direi le une pro-relazione le altre pro-cambiamento. Non che le procedure pro-relazione non possano portare a dei cambiamenti, ma certamente sono indirizzate primariamente a influire sulla relazione e solo dopo che ciò è avvenuto determinano un cambiamento. Le pro-cambiamento vorrebbero, sono intese agire, direttamente su certi meccanismi patogenetici: per esempio la procedura di esposizione mira in prima istanza a indurre una sorta di esperienza correttiva, cioè a dimostrare al paziente che l'aspettativa di angoscia scompaginante connessa a certe situazioni può non trovare conferma, e quindi che la sua immagine di certe situazioni è errata, e che può imparare a muoversi in situazioni che prima poteva solo evitare.(Naturalmente una procedura di prescrizione di esposizione può agire anche relazionalmente, come espressione di fiducia del terapeuta nelle potenzialità del paziente. Sarà di volta in volta da stabilire quanto peso abbiano questi e eventuali altri messaggi impliciti nella singola procedura). Analogo discorso sull'interpretazione, p.es., delle manovre difensive del paziente, che mira ad ampliare la sua consapevolezza sulle conseguenze, e quindi gli scopi, di tali manovre, e quindi di ciò che egli mira ad evitare di affrontare consapevolmente. In tutte le procedure pro-cambiamento v'è almeno la presunzione di andare a incidere su un qualche elemento centrale del processo patogenetico che sostiene la sofferenza, il problerma e i sintomi del paziente. In quelle pro-relazione lo scopo primo è la creazione di un'esperienza relazionale dentro il paziente, nella sua mente e nel suo cuore. E solo in seconda battuta esse possono avere un impatto di cambiamento. Questo lo dico anche in considerazione della per me illuminante trattazione di E. Jones del problema del meccanismo di cambiamento in psicoanalisi: egli riunisce in un unico processo i due tradizionali, relazionale e di ampliamento della coscienza (esperienza correttiva e interpretazione), e propone in sostanza che il terapeuta viva la relazione col paziente, si lasci coinvolgere nelle vicissitudini delle induzioni transferali con relative reazioni controtransferali, ma poi, grazie proprio a questa diretta esperienza anche del paziente, egli interviene facendo appello a un ampliamento della consapevolezza circa questa peculiare esperienza a due, con delle confrontazioni, delle interpretazioni etc. Ma Tullio, perdonami, quelle "procedure neurofisiologiche" sono agghiaccianti, sia perché direi che il concetto è errato, in quanto anche i vissuti relazionali passano attraverso il cervello, sia anche perché apparenta connotativamente quelle procedure alla chirurgia stereotassica, ai poveri gatti di Moruzzi e Magoun, insomma, è un termine altamente dissonante che può spiegarsi solo come un lapsus rivelante la Tua insofferenza per tutto ciò che non è relazionale e affratellante. Qui però oggi devo fermarmi. Tornerò quanto prima sulla parte più problematica della posizione di Tullio, cioè la cosiddetta "parte non procedurale della terapia", sulla quale ho idee un po' diverse dalle Tue. Ma il mio dissenso su questa parte non toglie che io viva la nostra coesione sui due tipi di procedure come una convergenza. Cordiali saluti, Giorgio.

Giovanni Liotti, 14 ottobre 2002:

Caro Tullio, decisamente "procedure specifiche" e "procedure generali" mi sembrano termini più felici di tanti altri cercati e proposti, da te, da me e da altri. Sugli "interventi non procedurali" vorrei invece continuare a riflettere. Comunque sarà interessante vedere, su un caso clinico X, come ciascuno di noi distingue fra procedure generali, procedure specifiche, e interventi non procedurali. Una volta ottenuta la distinzione, a quali variabili (esito finale della terapia, momentaneo sollievo dalla sofferenza durante la seduta, insight in seduta, etc.) pensi di correlare il tutto? Non pretendo una risposta: volevo solo porre la domanda come stimolo alla reciproca comprensione. Un caro saluto, Gianni

Tullio Carere, 15 ottobre 2002:

Carissimi, mi fa molto piacere che abbiate accettato la formulazione che vi ho proposto: procedure specifiche e generali come i primi due ingredienti della psicoterapia senza aggettivi. I due tipi di procedure corrispondono largamente al modo di lavorare rispettivamente dei terapeuti cognitivo-comportamentali e psicodinamici. Anche la psicoanalisi era partita all'inizio con delle procedure specifiche, le procedure catartiche volte a far emergere i ricordi traumatici che si riteneva fossero alla base dei sintomi isterici. Ma poi sempre di più si è staccata dal modello medico cui aveva aderito all'inizio, per convergere verso le due strategie generali più volte ricordate da Giorgio nei suoi ultimi interventi: la relazione riparativa e l'esplorazione dell'inconscio (i due assi del mio modello: remaking e uncovering). La psicoanalisi ha finito per abbandonare quasi del tutto le procedure specifiche volte alla risoluzione di sintomi o problemi specifici per dedicarsi alle strategie generali di formazione o trasformazione della persona, nell'ipotesi (o nella speranza) che questa trasformazione porti con sé anche la guarigione sintomatica, non più direttamente perseguita.

Potremmo dire che i terapeuti c-c lavorano prevalentemente con procedure specifiche, utilizzando quelle generali solo secondariamente o indirettamente, mentre gli psicoanalisti fanno il contrario. I terapeuti odierni, comunque, realizzano in genere ciascuno la propria particolare integrazione di procedure specifiche e generali, per cui la distinzione tra i due campi (c-c e psicoanalitico) è sempre più anacronistica e probabilmente destinata a scomparire (come è scomparsa la distinzione tra comportamentisti e cognitivisti).

Quanto al terzo componente - interazioni non procedurali - vi sento perplessi. Eppure non dovrebbe esserci dubbio sulla sua esistenza. Giorgio lo ha lucidamente descritto nei suoi ultimi contributi ("un flusso continuo e ricco di prassi, parole, domande e risposte, comunicazioni varie"), che per lui è semplicemente un "tessuto connettivo", una trama in cui sono inserite le procedure vere e proprie, le uniche responsabili del cambiamento. Probabilmente per Giorgio non vale la pena occuparsene, perché per lui questa parte è qualcosa come un "eccipiente", non un ingrediente attivo. Ma la mia proposta è di elencare semplicemente i componenti: lo vedremo in seguito che cosa fanno e come (il fatto che ciò che per Giorgio è un semplice connettivo sia invece per me parenchima nobile qui non ha rilievo: sarà appunto obiettivo del confronto sul materiale clinico stabilirlo, o almeno corroborare l'una o l'altra ipotesi). Ma questa terza parte della relazione terapeuta/paziente è logicamente e soprattutto eticamente necessaria. Se mancasse, la terapia si ridurrebbe all'applicazione di procedure (specifiche o generali) da parte dell'"esperto", con completa emarginazione o svalutazione del contributo originale e creativo del paziente. A me pare che proprio alla sottovalutazione (a dir poco), da parte dei sostenitori del modello medico/procedurale, dell'area dialogica (extraprocedurale), sia da ricondurre la sottovalutazione/svalutazione uguale e contraria che dall'altra parte della barricata viene diretta verso il modello medico.

Se vogliamo superare questa impasse è necessario ammettere che la terapia senza aggettivi include sia una componente procedurale (specifica e generale) che una non procedurale (dialogica). Ciascuno resta libero di pensare che la componente dialogica sia solo un connettivo o un eccipiente, o, dall'altra parte, che la componente procedurale sia utile solo come rituale (come diceva già Rosenzweig nel 1936: non importa se la procedura sia quella della psicoanalisi o della Christian Science, importa solo che sia internamente coerente e applicata in modo convinto e convincente - ipotesi oggi autorevolmente sostenuta ed empiricamente supportata, per quanto qualcuno possa trovarla inquietante e magari anche agghiacciante). Ammettiamo, insomma, che componenti procedurali e non procedurali sono entrambe presenti nella psicoterapia s.a., e continuiamo tacitamente a pensare che la componente veramente significativa sia l'una o l'altra, quella che preferiamo. In questo modo siamo pronti a passare alla seconda fase (euristica): la verifica sul materiale clinico (e magari anche alla terza: la ricerca empirica correlazionale).

Per quanto riguarda la seconda fase, che potrebbe essere ormai abbastanza vicina, rispondo alla domanda di Gianni:
>Una volta ottenuta la distinzione, a quali variabili (esito finale della terapia, momentaneo sollievo
>dalla sofferenza durante la seduta, insight in seduta, etc.) pensi di correlare il tutto?

L'esito finale della terapia è da escludere, perché è impossibile accordarsi attualmente tra terapeuti procedurali e dialogici su che cosa si debba intendere per "terapia completa o conclusa". Nella fase della discussione clinica si lavora sul materiale tradizionale del resoconto del terapeuta o della vignetta clinica, mentre la ricerca empirica a mio parere si potrebbe fare solo su singole sedute. La discussione (o la ricerca) dovrebbe rispondere a queste domande: stabilito che una data seduta o un frammento di terapia ha prodotto un certo risultato positivo, a quali componenti (procedurale specifico o generale, non procedurale) può essere attribuito prevalentemente il cambiamento? E poi: stabilito che un certo risultato può essere attribuito poniamo a una determinata procedura specifica, questo risultato dipende dall'azione specifica della procedura, o dal suo valore metaprocedurale (cioè dal modo idiosincratico in cui il paziente l'ha interpretata)?

Credo sia molto importante arrivare a un accordo di massima su queste questioni di principio e di metodo, prima di addentrarci in un confronto clinico o empirico. Tullio

Paolo Migone, 16 ottobre 2002:

Sull'ultima mail di Tullio, vorrei fare alcune osservazioni brevi, e mi scuso se vado di fretta perché in questo periodo sono troppo preso da vari impegni:

1) prima vi erano due cose nella psicoterapia: procedure e dialogo. Ora ce ne sono tre: procedure specifiche, procedure generali, e interazioni non procedurali. Forse tra un po' ce ne saranno quattro. Mi chiedo: non sarà che il vero problema è che non abbiamo chiaro cosa sia una procedura? Parafrasando quello che diceva una volta Giorgio, noi per agire come terapeuti dobbiamo sapere cosa stiamo facendo, altrimenti tutto è fumoso, per cui se facciamo una cosa dobbiamo sapere cosa facciamo, altrimenti essa avviene per caso (e non possiamo riprodurla, insegnarla ecc.). Quindi anche le cosiddette "interazioni non procedurali", se esistono e se vogliamo "farle accadere", bisogna in qualche modo "proceduralizzarle"?

2) continuo a non essere d'accordo sull'enfasi critica di Tullio sul modello medico, secondo me non centra ed è fuorviante. A volte il modello medico ha da insegnare a qualunque psicoterapeuta, è "olisitco" (vedi la fisiologia), guarda i veri problemi e non quelli sbagliati o secondari ecc. Mi sembra che la questione non sia quella del modello medico ma della scienza. Secondo me il modello medico di per se non esiste, esiste quello scientifico e basta, e quindi diciamo le cose come stanno. Freud (come Bowlby e altri), tra l'altro, era un medico e seguiva sempre il modello medico.

3) la questione a mio parere che ci scordiamo sempre e non ci aiuta a capire le cose è che non si può fare una teoria generale della psicoterapia come se i pazienti fossero una cosa "generale" cioè astratta. La "teoria generale della psicoterapia senza aggettivi" dovrebbe includere questa clausola: che dovrebbe essere specifica ai singoli problemi, per cui dovrebbe declinarsi alla singola patologia, al singolo paziente. Altrimenti facciamo l'errore della psicoanalisi classica che ha creduto che l'interpretazione potesse aprire tutte le porte dell'universo (abbiamo ora capito che ne apre poche, ma qualcuna ancora ne apre, secondo me, checché ne dicano tanti psicoanalisti contemporanei). Quindi, lo sforzo di Tullio di stabilire se "nel mondo" la psicoterapia è procedure, non procedure o quant'altro, rischia di essere vano, inutile. Infatti con certi pazienti certe procedure, le più "bieche", possono essere utilissime anzi indispensabili, a mio parere, mentre con altri pazienti sono totalmente inutili o anzi (e quindi) dannose, perché trasmettono al paziente la sensazione di non essere capito, perché per lui basta un atteggiamento empatico, dialogico (o come Tullio lo vuole chiamare non importa), in quanto basta quel piccolo (o grande, a seconda del livello di sviluppo psicologico) innalzamento dell'autostima, quella piccola spinta che poi gli permettere di riprendere in fretta tutti i passi evolutivi che non era riuscito a fare (a dispetto di quei cognitivo-comportamentali che dicono che il disturbo ossessivo-compulsivo necessita "sempre" di tecniche procedurali per migliorare, vi sono casi in cui anche questo non è vero, perché anche la classificazione dei pazienti secondo le diagnosi tradizionali non è accurata - alludo a quel mio paziente ossessivo-compulsivo grave che ho "guarito" solo col dialogo, vedi Psicoterapia e scienze umane, 1990, XXIV, 2: 109-118 [quello del film di Moretti La stanza del figlio, tra l'altro (vedi il dibattito in rete); vedi anche un mio lavoro del 1999]). In sostanza, il paziente in questo caso migliora in fretta senza le cosiddette procedure, ma grazie a quei meccanismi ben descritti da autori come Jerome Frank (quello dei fattori aspecifici, dell'innalzamento del morale ecc.), da Rogers (condizioni facilitanti forniti dal terapeuta), e, perché no, da un recente autore italiano (un certo Carere-Comes, quel terapeuta di campagna che da mesi ci martella con la sua insistenza con il dialogo dialettico). In sostanza, andrebbe rivalutato il discorso di un Gedo (Al di là dell'interpretazione [1979], Roma: Astrolabio, 1986) o di tutti quegli autori che hanno proposto di adattare la mostra tecnica a seconda del livello di sviluppo psicologico e dei problemi che volgiamo affrontare o modificare. Io poi ritengo che i "fattori aspecifici" di Rogers, Frank ecc. possano essere concepiti meglio come procedure molto specifiche e sofisticate! (e ritengo che questo fosse anche quello che voleva dire Gedo)

Per concludere, ho l'impressione che il nostro dibattito, nella misura in cui tende a stabilire leggi rigide generali (procedure o non procedure, ecc.), è sbagliato in partenza. E' forse questo quello che voleva dire Gianni quando ci esortava a parlare di casi clinici e non di regole generali astratte. Scusate le sinteticità dei miei commenti, ma sono di fretta. Paolo.

Giorgio G. Alberti, 16 ottobre 2002:

Cari amici, avevo promesso di trattare anche gli altri aspetti del mail, per me importante, di Tullio del 12-10-2002. Cercherò di farlo nel modo il più sintetico possibile.

Primo problema: la cosiddetta parte non procedurale della terapia. A mio vedere ne esistono due (e già immagino Paolo sussultare sul moltiplicarsi degli enti, ma spero si tranquillizzerà appena avrò chiarito il mio pensiero):

1) in primo luogo vi sono tutte quelle comunicazioni che non sono vettrici di procedure, nè specifico- mutative né relazionali (ché va ricordato che abbiamo concordato sull'esistenza di procedure utili a creare e promuovere la relazione tra paziente e terapeuta), e si tratta di tante cose piccole e grandi che certamente concorrono, sono precondizione all'esistere della terapia ma che da sole non porterebbero al cambiamento: quindi, i saluti iniziali e finali, gli errori (perder tempo in chiacchiere, usare il paziente per bisogni del terapeuta, avere un tono deluso per i pochi suoi progressi, fare un'interpretazione genetica irrilevante etc.), le comunicazioni di servizio, come quelle su orari, tariffe etc., ed altre ancora. Dico subito che difficilmente si può dire che questo è parenchima nobile, e meno ancora che si possa attribuire a questi atti comunicativi valenza mutativa. Del resto, gli autori che si sono occupati di procedure sanno perfettamente che vi sono prassi (nella mia relazione distinguevo le prassi, "quello che si fa", dalle procedure, "quello che si fa e ha un conseguenza dal punto di vista del cambiamento") che anche se ripetute all'infinito e in tutte le salse non sono mai in grado di cambiare qualcosa di significativo nel problema del paziente.

2) in secondo luogo, vi è a mio vedere una seconda componente della parte non procedurale, e cioè tutto quanto si manifesta dentro la mente e il cuore del paziente. Qui il paziente sente il rancore per il terapeuta, l'attrazione, l'ascendente cui è disposto a corrispondere facendo ciò che viene suggerito, il sospetto di poter essere abbandonato, e così via. Qui il paziente vive per così dire la relazione, ma la vive lui, ed ha un buon terapeuta se questo legge, intuisce, sente ciò che avviene dentro di lui, e che magari è stato provocato dallo stesso terapeuta. E qui avvengono anche i mutamenti delle rappresentazioni e delle reazioni emotive in seguito alle procedure specifiche, come anche in seguito all'esperienza di tutto ciò che, promanante dal terapeuta - procedure pro-relazione e atteggiamenti - , gli dà il messaggio che le cose non sono come si aspetta da sempre in tali situazioni nella sua vita, fin da piccolo. In breve, a mio vedere la parte non procedurale della terapia si colloca in questi due ambiti, e non costituisce una terza diversa modalità di contatto tra paziente e terapeuta. Forse va qui precisato che a mio vedere anche gli atteggiamenti del terapeuta sono assimilabili a delle procedure, in quanto assunti, gestiti, modificati finalisticamente (per esempio dopo la comprensione del proprio controtransfert), purché ovviamente non siano puramente reattivi, secondari agli atteggiamenti del paziente: allora sono solo prassi, comportamenti, errori eventualmente, e fanno parte del connettivo portante, e magari dannoso.

Volevo poi dire qualcosa sulle affermazioni di Tullio circa il diventar sempre meno procedurale del terapeuta esperto. Io non definirei così questa mutazione dello stile di lavoro di chi ha molta esperienza. Direi che l'agire procedurale del terapeuta esperto diventa più implicito, meno dichiarato (distinguendosi meno dalle prassi irrilevanti, anzi confondendosi di più con queste), meno evidenziato, più automatico (specie dove le procedure richiedono di essere messe in atto tempestivamente, in certi particolari momenti, e non in altri) ma non inconsapevole, che le procedure sono meglio adattate alle individuali circostanze del paziente, e trapassano più impercettibilmente le une nelle altre. Insomma, secondo me non è vero che le procedure si trasfigurano progressivamente in pura relazione, in puro contesto. Qualche esempio? E' difficile: ad esempio io mi accorgo che talvolta uso delle procedure paradossali in modo quasi automatico, mentre anni fa dovevo scervellarmi preparandole in anticipo, arrivando poi a penose e palesi rappresentazioni. Oppure, certe volte deliberatamente insisto nel parlare di ciò che la paziente teme, col motivo, reale anche, di avere da lei sempre maggiori informazioni, ma riuscendo a ottenere una iniziale desensibilizzazione su temi ansiogeni.

Infine, sulla già ben nota tesi di Tullio che le procedure funzionano più per come il paziente le intende piuttosto che per il loro contenuto tecnico. Non ho alcun dubbio che questo sia vero, ma vorrei tanto che questa giusta visione relativista (e squisitamente cognitivista-epittetiana) non fosse poi banalizzata e svilita nella tesi che allora ciò che il paziente capisce è sempre inconoscibile e imprevedibile. Infatti, abbiamo la fortuna che anche i pazienti siano esseri umani, e che grosso modo i codici comunicazionali siano simili tra terapeuti e pazienti e tra pazienti e pazienti. Giustamente qualche tempo fa Paolo ricordava l'approccio probabilistico seguito su questa questione da Luborsky. Io aggiungo (e non è farina del mio sacco solamente) che v'è modo di capire, dalle reazioni del paziente alle ripetute riproposizioni delle procedure, magari variate in qualche aspetto, cosa arrivi, come messaggio, al paziente. Quindi si riesce, sembra banale dirlo, a comunicare col paziente, magari considerando delle variabili modulatrici (e qui torno al famoso vissuto di angosciosa intrusione che molti psicotici o borderline vivono se gli si interpretano le manovre difensive o il trasnfert troppo precocemente e bruscamente). Devo però anche precisare che se è vero che una singola procedura può veicolare oltre che messaggi dall'impatto mutativo specifico anche messaggi di significato relazionale, come diceva Jay Haley e Watzlawick e i transazionalisti in genere, non è lecito dire, secondo me, che le tecniche specifiche si tramutano in pura relazione, per esempio che "le tecniche cognitivo-comportamentali funzionano soprattutto come veicoli di comprensione empatica". Esse hanno certo anche degli effetti specifici e non si può categoriacmente dire che tutto si risolve in messaggi relazionali.

Non so ora se io dissenta da Tullio a da Gianni, ma insomma, non credo proprio che sia così. Anzi, mi sembra che in questa seconda parte della sua bella lettera del 12.10 Tullio si sia lasciato ri-prendere la mano dal suo bisogno di una relazione reificata, fatta materia e oggetto, quasi una sorta di ectoplasma, di aure congiungentisi, senza visualizzazione Kirlian ovviamente, ma ben concreta, quasi materiale. A momenti questo suo bisogno di una relazione concreta e resa oggetto quasi-materiale mi ricorda concetti blavastkyani, steineriani (e Tullio Tu sai perché lo dico) e addirittura spiritici. Ecco, io mi sono occupato a lungo di percezione extrasensoriale quando era all'università, ho conosciuto medium vari e talvolta impressionanti, che tutti avevano concezioni di questo tipo della anima e della relazione tra le persone. Non mi hanno mai convinto. Mentre sono sempre più dell'idea che loro vivessero delle metafore concretizzate. E sono sempre più convinto che le cose della psiche sono molto più prosaiche di come se le immaginano i vari mistici dai neoplatonici ad oggi. Cordiali saluti, Giorgio

Giovanni Liotti, 17 ottobre 2002:

Cari amici, rispondo in fretta alle ultime vostre mail (le ho lette tutte e tre). In fretta, e con un affastellarsi confuso e disordinato di considerazioni-precisazioni, a causa di una nuova serie di partenze che cominciano domani e dureranno dieci giorni (salvo una mia presenza a Roma Lunedì e Martedì prossimi). Dunque:

Credo, anche se non li condivido, che Tullio abbia tanti suoi buoni motivi per perseguire la sua strada, di cercare cosa abbiano in comune tutte le terapie. Posso, credendo questo, propormi di assisterlo nei (seri) limiti miei di capacità e tempo, anche se temo che il suo progetto sia difficile da attuare. Ma potrei ovviamente sbagliarmi di grosso in questa previsione di difficoltà, sulla quale perciò non voglio insistere e che inoltre non preclude la mia volontà di collaborare (ad esempio inviandogli se me le chiederà descrizione dei miei casi, nei quali mi sembra di usare teorie provenienti da tradizioni psicoterapeutiche diverse e di integrarle).

A me, come sapete, sembra che, per arrivare all'integrazione, sia utile confrontare TEORIE psicoterapeutiche, e farlo attraverso formulazioni cliniche di casi nel trattamento dei quali il terapeuta abbia esplicitamente fatto uso di congetture diverse, provenienti da tradizioni psicoanalitiche, cognitiviste, sistemico-familiari, etc. Osservare se e come queste teorie vengano integrate nel lavoro clinico concreto (per esempio nell'ormai famoso "caso di Porcelli") mi sembra il punto di partenza e forse quello cruciale per arrivare ad una psicoterapia senza aggettivi. Ho l'impressione che siano meglio integrabili, nella nostra pratica concreta, le teorie falsificabili e/o quelle che sono emerse dalla confutazione scientifica di precedenti teorie. Su questo tema avevo centrato la mia relazione di Marzo a Milano, e non ho cambiato parere. Ma prendo atto che Tullio vuole seguire una strada diversa (osservare cosa hanno in comune tutte le psicoterapie, prescindendo ampiamente dalle teorie), e Giorgio un'altra ancora (lo studio comparativo delle procedure utilizzate). Perciò ho deciso di tenere per me le mie idee sull'importanza delle teorie e della loro confutazione scientifica tanto nella crescita quanto nell'integrazione della conoscenza (anche psicoterapeutica). Sono ormai convinto che su di esse Tullio non vuole collaborare (giustamente, visto che non le condivide), e allora mi sforzo di capire cosa vuol fare Tullio (o cosa vuol fare Giorgio), di non ostacolarlo con le idee che pure continuo a coltivare, e ove possibile di accettare obiettivi comuni di collaborazione.

Dico questo perché altrimenti non è intellegibile quello che ho scritto nelle mie ultime mail. Ad esempio, Giorgio ha pensato che io volessi dire che le tecniche cognitivo comportamentali sono "solo" veicoli di comprensione empatica, mentre io penso che lo siano proprio perché sono capaci di mostrare al paziente che il terapeuta avvicina il nucleo del loro problema e suggerisce specifici modi per indurre in esso piccoli cambiamenti. Se ho accentuato con Tullio l'aspetto "relazionale" o "empatico" delle tecniche suddette, è stato per l'intenzione di minimizzare le differenze fra noi (dopo averle tanto dibattute) e lasciar emergere somiglianze che facilitino la collaborazione.

Casi come quelli del paziente ossessivo di Paolo sono preziosissimi, a mio avviso, perché ci permettono di riflettere sui possibili processi che nel paziente possono essere attivati tanto da tecniche quanto dal "solo dialogo" usato da Paolo. Se tanto le tecniche (in un numero prevedibilmente maggiore di pazienti con DOC) quanto il "solo dialogo" sono efficaci, è possibile che i processi in gioco siano gli stessi (ad esempio del tipo "superamento di Test" nel senso della control-mastery theory?). Queste mi sembrano le domande più interessanti da porsi per arrivare alla psicoterapia senza aggettivi. E mi sembrava che su questa idea dei "processi comuni attivati nel paziente" Tullio concordasse. Per questo chiedevo a Tullio a cosa vorrebbe correlare le osservazioni su procedure specifiche, procedure generali, e altri interventi: quali sono i processi su cui intervengono le azioni, i silenzi, le affermazioni, le interpretazioni e le tecniche del terapeuta?

L'importanza di questa domanda è collegata alla mia convinzione che tali processi vadano prima studiati nell'ottica della psicopatologia e solo dopo in quella della psicoterapia. Faccio un esempio ipotetico per argomentare su questo punto dell'importanza della psicopatologia, cioè della nostra concettualizzazione o formulazione dei problemi del paziente.

Supponiamo che sia valida la teoria psicopatologica, che molti disturbi siano riconducibili ad una insicurezza dell'attaccamento (cioè nelle relazioni di cura). Supponiamo poi che, qualunque sia la tecnica che permette ad un terapeuta di iniziare e proseguire un dialogo professionale con un paziente afflitto da uno di tali disturbi, questa agisca soprattutto perché offre l'occasione di un dialogo prolungato e sensato, all'interno del quale il paziente sperimenta sicurezza nella relazione di cura (esperienza correttiva). E ora supponiamo che un terapeuta, che creda nella suddetta applicazione della teoria dell'attaccamento alla psicopatologia, si proponga essenzialmente di avere un dialogo sensato e protratto col paziente, Dal punto di vista di quel terapeuta, il "solo dialogo" sarebbe una procedura specifica, no? Ma dal punto di vista di altri terapeuti, che non conoscono magari la teoria dell'attaccamento, specifiche sarebbero le loro tecniche, e "generali" altre procedure, e non prcedurali altri aspetti della relazione col paziente. Sono in altre parole le nostre convinzioni sulla psicopatologia quelle che determinano i nomi che diamo a quanto facciamo in psicoterapia.

L'esempio, spero, suggerisce dove concordo con Tullio, e dove invece sono in forte disaccordo con lui. Sono in disaccordo sull'importanza che lui attribuisce alla differenziazione fra procedure specifiche e generali (ma accetto che lui la ponga perché gli sembra cos“ essenziale). Sono in accordo con l'idea che tutto quello che facciamo ha senso rispetto all'idea che abbiamo del problema del paziente, su cui ciò che facciamo incide.

Mi accorgo che mentre speravo di chiarire, confondo sempre di più il discorso. Sarà la fretta, o la fatica (almeno spero: se no, si tratta proprio e solo della MIA confusione...). Un caro saluto, Gianni

Tullio Carere, 20 ottobre 2002:

Cari amici, l'obiettivo di una psicoterapia senza aggettivi che ci accomuna va tenuto ben fermo, pur sapendo che di almeno quattro aggettivi non potremo fare a meno: giovanneo, paolino, giorgesco, tulliano. Tutti stiamo andando verso "la" psicoterapia, o almeno ci sembra, ma ognuno di noi ci va a modo suo, con la sua miscela idiosincratica di teorie e di tecniche, enfatizzando ciascuno questo o quell'elemento dell'insieme, chi la teoria, chi la procedura, chi la scienza, chi il dialogo. In altri tempi qualcuno di noi sarebbe stato tentato di aprire la sua propria scuola, che avrebbe chiamato ad esempio Scuola di Psicoterapia Empiricamente Supportata o di Psicoterapia Dialogico-Dialettica. Oggi, dopo la disseminazione che ha portato all'apertura di centinaia di scuole ufficiali, più una miriade di scuolette di città o di campagna con tre allievi ciascuna, nessuno se la sente più di proporre l'ennesima sigla.

Paolo ha osservato che non dobbiamo chiuderci in formule rigide, ma adattare il nostro modo di interagire al singolo paziente, alla sua patologia, alla sua fase evolutiva, alla situazione che si crea di volta in volta. Perfettamente d'accordo. Il terapeuta deve adattarsi al suo paziente, come dall'altra parte anche il paziente deve adattarsi al suo terapeuta, al suo stile "paolino" o "giorgesco", alla fase che sta attraversando (per esempio kohutiana, come Paolo col suo paziente borderline), persino alla sua patologia. La terapia funziona se c'è questo adattamento reciproco, ci vuole molta pazienza e tolleranza da tutte e due le parti. Ogni terapia è una storia a sé, l'incontro unico tra due persone. E tuttavia se da più di un anno stiamo discutendo è perché non ci accontentiamo di questa unicità ma miriamo a cogliere, nella varietà degli stili personali e degli incontri, una serie di regolarità costitutive dell'operazione psicoterapeutica "senza aggettivi", un terreno comune sul quale ritrovarci.

Per esempio mi sembra che Paolo applichi col suo paziente prevalentemente procedure o strategie di tipo kohutiano, comprensivo-empatico, e di tipo confrontativo à la Kernberg - cioè i due modi che io chiamo rispettivamente Materno e Paterno - come mi pare del tutto appropriato con un borderline. Ho proposto di chiamare "generali" queste procedure, perché corrispondono agli stili generali di relazione che si ritrovano virtualmente in ogni tipo di terapia (le due procedure in questione a loro volta corrispondono ai due poli della modalità "supportiva" sec. Luborsky, o dell'asse della riparazione sec. Carere-Comes). Non si trovano, invece, nel resoconto del caso di Paolo (se non in tracce), procedure "specifiche" come quelle impiegate dai terapeuti c-c per il trattamento del DOC, da cui pure questo paziente è affetto. Le procedure generali hanno un carattere relazionale e sono dirette alla persona (o alla "personalità", asse I del DSM), mentre quelle specifiche hanno un carattere più tecnico e sono dirette al problema specifico (asse II del DSM).

Ho proposto poi una terza modalità di interazione del terapeuta, che può essere detta "non procedurale" perché non è caratterizzata primariamente dall'implementazione di procedure (benché si possano discernere in essa tracce di procedure dell'uno o dell'altro tipo), e che non è nemmeno "non terapeutica" né semplicemente "intuitiva" degli stati interni del paziente, come sembra suggerire Giorgio. Per dissipare ogni malinteso debbo riproporre il termine "dialogico" per definire questo terzo ambito di interazione non (primariamente) procedurale. E', non mi stanco di dirlo, un ambito essenziale, perché una terapia solo procedurale non può sottrarsi all'accusa di abuso teoretico (o abuso tecnico), in quanto in essa il paziente sarebbe trasformato in semplice oggetto di manipolazione procedurale. Nella modalità dialogica, invece, si stabilisce una collaborazione paritetica tra due persone, ognuna delle quali dotata di capacità di intendere e di volere, di idee, intuizioni, creatività, procedure di ogni genere. Questa modalità può essere detta dialogica solo in quanto le capacità, intuizioni, procedure dell'uno non sono considerate a priori superiori a quelle dell'altro. Esistono molti studi, anche empirici, che mostrano che la capacità di autoguarigione del paziente è un fattore decisivo della terapia (secondo alcuni studi un fattore più determinante di tutte le procedure del terapeuta messe assieme). Il vero dialogo è il fondamento della vera terapia (senza vero dialogo non c'è vera terapia, ma solo manipolazione), perché non può esistere una terapia genuina (mentre può esistere manipolazione e indottrinamento) senza la capacità e volontà da entrambe le parti di mettere in gioco, in discussione o in sospensione tutte le proprie certezze, convinzioni o teorie, consce o inconsce, personali o di scuola che siano. Nel vero dialogo che fonda la vera terapia l'intenzione fondamentale non è quella di applicare procedure dell'uno o dell'altro tipo, o di verificare teorie scientifiche, ma quella di aprire uno spazio in cui le modalità relazionali ed esperienziali dell'uno e dell'altro (procedurali o non procedurali, scientifiche o non scientifiche) possano confrontarsi alla pari, generando di volta in volta delle combinazioni o sintesi originali non previste dai sistemi teorici, procedurali, ideologici dell'uno e dell'altro.

La terapia resta per me (come prima: rassicurazione per Paolo) composta da dialogo e procedure: in più c'è solo la precisazione che mi sembra utile riguardante i due tipi di procedure. Ma non insisterei troppo su questo, perché non mi sembra molto importante: se vi ho dato l'impressione che tenga molto alla distinzione tra procedure specifiche e generali - almeno a Gianni l'ho data - vorrei chiarire che non è mai stata una mia esigenza, ma più che altro una risposta alla sollecitazione più volte venutami da voi. Per esempio Paolo mi ha chiesto più volte: "Sulla questione delle procedure, vorrei chiedere a Tullio: secondo te è possibile formulare una procedura che possa guidare il più possibile il terapeuta a fare proprio quelle cose che tu ritieni fondamentali in una terapia?". La mia risposta è: sì, le procedure generali servono precisamente a questo. E' utile disporre di una serie di procedure, sia specifiche sia generali. Tuttavia io non do troppa importanza alle procedure perché, come penso sia chiaro, do molta più importanza alle "metaprocedure", cioè ai modi generali in cui il paziente interpreta ciò che facciamo. Concordo in pieno con Luborsky: "una tecnica è supportiva se il paziente la esperimenta come supportiva". Quindi è inutile perdere molto tempo a definire quello che facciamo, se quello che veramente conta è il modo in cui il paziente esperimenta quello che facciamo (sul motivo per cui Luborsky, invece di seguire coerentemente la sua stessa constatazione, ha preferito ripiegare sulle procedure "che generalmente si ritiene che vengano esperimentate dal paziente come supportive", rimando al mio mail del 29 settembre).

Se il paziente sente come supportiva una tecnica comportamentale, questa è una tecnica supportiva, e il suo contenuto specifico è secondario. Si può certo ipotizzare che le tecniche cognitivo-comportamentali siano veicoli di comprensione empatica "proprio perché sono capaci di mostrare al paziente che il terapeuta avvicina il nucleo del loro problema e suggerisce specifici modi per indurre in esso piccoli cambiamenti", come suggerisce Gianni. Ma questa è, appunto, solo un'ipotesi, che sta a fianco dell'altra, fatta per es. da Jerome Frank, che le tecniche specifiche agiscano di regola in modo aspecifico, come semplici rituali rassicuranti (ipotesi che Wampold ritiene dimostrata empiricamente in modo incontrovertibile). Se però io freno rispetto all'eccessivo entusiasmo per le ipotesi contestualiste, empiricamente corroborate o meno, è perché sono sostanzialmente d'accordo con Gianni sul fatto che le procedure, specifiche o generali, non funzionano solo in modo aspecifico, ma almeno in parte anche letteralmente per quello che si propongono (cioè un atteggiamento empatico è vissuto di solito almeno un poco come un atteggiamento empatico, una procedura di desensibilizzazione produce di solito effettivamente almeno un poco una desensibilizzazione, eccetera). Di conseguenza vale la pena occuparsi di come le procedure generali e specifiche, di asse I e II, statisticamente sono sperimentate dai pazienti, qual è insomma il loro effetto "intrinseco"; ma non vale la pena occuparsene troppo, essendo la cosa veramente importante capire come questo paziente in questo momento sta sperimentando quello che sto facendo.

La domanda cruciale è allora: se in psicoterapia la cosa decisiva è capire in che modo il paziente sperimenta ciò che facciamo (dunque non la procedura, ma la metaprocedura), che cosa mi può aiutare soprattutto in questa comprensione? La mia risposta è: in primo luogo l'atteggiamento dialogico, quello che mi obbliga continuamente a sospendere le mie ipotesi e teorie per mettermi in ascolto soprattutto dell'inaudito, di ciò che le mie teorie e procedure non prevedono. Le procedure mi servono per un primo orientamento, ma solo l'ascolto dei messaggi che il mio paziente - e il mio inconscio - continuamente mi inviano può fondare una relazione genuina (cioè non manipolativa). Che posto devono avere allora in questo quadro le teorie, e in particolare quelle "falsificabili e/o quelle che sono emerse dalla confutazione scientifica di precedenti teorie", cui tiene molto Gianni?

Tutte le teorie della psicologia evolutiva, che ci dicono di che cosa ha bisogno un bambino per una crescita sana, sono evidentemente utili. Così come lo sono le teorie delle neuroscienze, che ci danno informazioni sul funzionamento del cervello. Ancora più utile, d'altra parte, mi sembra lo studio comparato di tutte le principali teorie psicoterapeutiche, come anche delle principali scuole filosofiche e religiose che in tutti i tempi e in tutte le culture hanno cercato di decifrare gli enigmi dell'esistenza e hanno sperimentato ogni sorta di rimedi per il male di vivere. "Nihil humanum alienum puto" (Terenzio) potrebbe essere il motto della psicoterapia. Ma come orientarsi nella sconfinata varietà di teorie dell'anima umana, dei suoi disturbi e del suo risanamento? Gianni, bisogna riconoscerlo, una bussola ce l'ha: sceglie solo le teorie che hanno superato il vaglio della prova scientifica, o che comunque sono tali da poter essere sottoposte a prova. Di questa bussola ho molto rispetto, un rispetto che è cresciuto da quando è iniziato il nostro dialogo. Tanto è vero che nell'ultimo anno ho elaborato due progetti di ricerca correlazionale, e non dispero di riuscire a elborarne un terzo assieme a voi. Ma farei una distinzione. E' possibile fondare una pratica terapeutica sulla teoria dell'attaccamento, come fa Gianni, o sul buddismo zen, come fa Marsha Linehan. A priori, la scelta della Linehan non mi sembra meno fondata di quella di Gianni: entrambi hanno ottimi motivi di pensare che una relazione sicura o un esercizio meditativo abbiano valore terapeutico. Non penso che la "scienza" debba essere una discriminante a questo livello, nel senso che la scelta di Gianni sia corretta, perché basata su una teoria scientifica, e quella della Linehan no, perché basata su una pratica religiosa. La ricerca scientifica deve a mio parere intervenire successivamente, per rispondere alle domande: che cosa ci autorizza a pensare che le procedure di Gianni e della Linehan, per quanto derivate da ricerche rigorose o da tradizioni venerabili, funzionino veramente in psicoterapia? Possiamo pensare che una procedura che si è dimostrata utile in un contesto possa mantenere intatta la sua utilità se trapiantata in un altro contesto? E soprattutto: che rapporto c'è tra il valore specifico di queste procedure, e il modo in cui sono sperimentate dal paziente X nella seduta Y? Abbiamo motivo di pensare che il valore "medio" di queste procedure sia sufficientemente elevato da trasferirisi in modo significativo nelle rispettive metaprocedure?

Mi piace pensare che in un futuro non troppo lontano si possa costituire tra di noi un gruppo di ricerca correlazionale per indagare su questi punti. Ma per ora mi sembra già molto riuscire a collaborare al chiarimento dei concetti fondamentali di una psicoterapia "senza aggettivi", con graduale introduzione di materiale clinico: una ricerca teorico-euristica, insomma. Quella che, fino a prova contraria, preferisco. Cari saluti, Tullio

Paolo Migone, 21 ottobre 2002:

Caro Tullio, grazie della tua ultima mail, sulla quale faccio alcune obiezioni anche per vedere se è possibile dare un diverso inquadramento teorico. Tu dici:
>Per esempio mi sembra che Paolo applichi col suo paziente prevalentemente procedure o strategie di tipo kohutiano, comprensivo-empatico, e di tipo confrontativo à la Kernberg - cioè i due modi che io chiamo rispettivamente Materno e Paterno - come mi pare del tutto appropriato con un borderline

ma non è del tutto esatto, nel senso che io dicevo che la regola dovrebbe essere quella di applicare la tecnica adatta al tipo di paziente. Se a me sembrava che quel paziente "meritasse" quella tecnica (giusto o sbagliato che sia dire questo) allora la applicavo, mentre è possibile che con un altro paziente io applicassi un'altra tecnica (es. una piena di "procedure").

Tu poi dici:
>Ogni terapia è una storia a sé, l'incontro unico tra due persone. E tuttavia se da più di un anno stiamo discutendo è perché non ci accontentiamo di questa unicità ma miriamo a cogliere, nella varietà degli stili personali e degli incontri, una serie di regolarità costitutive dell'operazione psicoterapeutica "senza aggettivi", un terreno comune sul quale ritrovarci. 

Sono d'accordo anch'io che bisogna trovare "nella varietà degli stili personali e degli incontri, una serie di regolarità costitutive dell'operazione psicoterapeutica 'senza aggettivi', un terreno comune sul quale ritrovarci", e questo io lo ritrovavo nella regola che la tecnica deve adattarsi al paziente, alla sua "psicopatologia" (per usare una parola usata da Gianni), per cui è chiaro che bisognerebbe avere una teoria comune sulla psicopatologia e su come va curata.

Poi dici:
>Questa modalità [la tua terza modalità di interazione del terapeuta, che può essere detta "non procedurale"] può essere detta dialogica solo in quanto le capacità, intuizioni, procedure dell'uno non sono considerate a priori superiori a quelle dell'altro.

ma questa cosa, che sottolinei in corsivo, presuppone che chi lavora con le procedure si pone in un'ottica di superiorità rispetto al paziente. A me sembra assolutamente non vero, poiché tutti i terapeuti si pongono in modo rispettoso, anzi, soprattutto i cognitivo-comportamentali che appunto sottolineano la cooperazione col paziente, e tentano le procedure, d'accordo con lui, per aiutarlo meglio! La questione della manipolazione, che tu poni, secondo me non centra, mi sembra un pregiudizio che tu hai verso certi terapeuti che non esistono più (anche certi psicoanalisti, come ben sai, potevano essere autoritari o poco dialettici, tra l'altro).

Riguardo poi alla questione del modo con cui un paziente percepisce quello che gli facciamo, questa cosa, come abbiamo detto, si risolve a livello statistico, ed è scontato che noi miriamo a fargli provare quello che vogliamo noi, non qualcos'altro o magari il suo opposto.

Dici anche:
>Le procedure generali hanno un carattere relazionale e sono dirette alla persona (o alla "personalità", asse I del DSM), mentre quelle specifiche hanno un carattere più tecnico e sono dirette al problema specifico (asse II del DSM).

A parte il fatto che tu qui fai un piccolo errore (hai confuso l'asse I con l'asse II, ma è solo una svista), non sarei d'accordo con questi schematismi, che mi ricordano la peggiore psichiatria accademica. Io ci andrei adagio, siamo ben lontani dall'avere una chiarezza su cosa siano l'asse I e l'asse II e su come si rapportano tra loro (nel senso che a me sembra che vi sia un certo intreccio, a dir poco).

Ribadisco quello che penso, e mi sembra dissi già una volta: ogni nostro intervento serve a ottenere degli scopi, e quello che tu chiami atteggiamento dialogico o dialettico è un intervento sofisticato che può servire ad ottenere degli effetti complessi in un paziente, a più livelli, e questo atteggiamento dialogico del terapeuta può al limite essere operazionalizzato o "proceduralizzato" (es. può essere insegnato a qualcun altro, non è ineffabile) e può accadere anche mentre il terapeuta mette in atto delle cosiddette procedure. Paolo.

Tullio Carere, 22 ottobre 2002:

At 19:48 +0200 21-10-02, Paolo Migone wrote:
>Caro Tullio, grazie della tua ultima mail, sulla quale faccio alcune obiezioni anche
>per vedere se è possibile dare un diverso inquadramento teorico. Tu dici:
>><<Per esempio mi sembra che Paolo applichi col suo paziente prevalentemente procedure o strategie
>>di tipo kohutiano, comprensivo-empatico, e di tipo confrontativo à la Kernberg - cioè i due modi
>>che io chiamo rispettivamente Materno e Paterno - come mi pare del tutto appropriato con un borderline>>
>ma non è del tutto esatto, nel senso che io dicevo che la regola dovrebbe essere quella di applicare la
>tecnica adatta al tipo di paziente. Se a me sembrava che quel paziente "meritasse" quella tecnica
>(giusto o sbagliato che sia dire questo) allora la applicavo, mentre è possibile che con un altro
>paziente io applicassi un'altra tecnica (es. una piena di "procedure").
Caro Paolo, in certi momenti sembri persino più dialogico di me. Certo che bisogna cercare sempre di ritagliare la tecnica adatta su misura per ogni singolo paziente, e ogni singolo momento di ogni singola seduta, è quello che dico sempre anch'io. Tuttavia, come dico nella mia frase che citi qui sotto:
>>Ogni terapia è una storia a sé, l'incontro unico tra due persone. E tuttavia se da più di un anno
>>stiamo discutendo è perché non ci accontentiamo di questa unicità ma miriamo a cogliere, nella
>>varietà degli stili personali e degli incontri, una serie di regolarità costitutive dell'operazione
>>psicoterapeutica "senza aggettivi", un terreno comune sul quale ritrovarci. 
 
A cui hai risposto:
>Sono d'accordo anch'io che bisogna trovare "nella varietà degli stili personali e degli incontri, una
>serie di regolarità costitutive dell'operazione psicoterapeutica 'senza aggettivi', un terreno comune sul
>quale ritrovarci", e questo io lo ritrovavo nella regola che la tecnica deve adattarsi al paziente, alla sua
>"psicopatologia" (per usare una parola usata da Gianni), per cui è chiaro che bisognerebbe avere una
>teoria comune sulla psicopatologia e su come va curata.

Prima ancora di avere una teoria comune, bisognerebbe accordarsi sul concetto che se esistono delle configurazioni psicopatologiche ricorrenti (e certamente esistono, visto che tutti, tu compreso, usiamo espressioni tipo "personalità borderline" e "DOC"), allora devono esistere anche delle modalità di trattamento o procedure che statisticamente sono almeno un po' più efficaci di altre per una data configurazione (concetto tante volte espresso da Gianni e soprattutto da Giorgio). Se non ammetti questo, vuol dire che sei un terapeuta dialogico ben più radicale di me.

>Poi dici [Tullio]:
>>Questa modalità [la tua terza modalità di interazione del terapeuta, che può essere detta "non
>>procedurale"] può essere detta dialogica solo in quanto le capacità, intuizioni, procedure
>>dell'uno non sono considerate a priori superiori a quelle dell'altro.
>[Paolo risponde:] ma questa cosa, che sottolinei in neretto, presuppone che chi lavora con le procedure
>si pone in un'ottica di superiorità rispetto al paziente. A me sembra assolutamente non vero, poiché tutti i
>terapeuti si pongono in modo rispettoso, anzi, soprattutto i cognitivo-comportamentali che appunto
>sottolineano la cooperazione col paziente, e tentano le procedure, d'accordo con lui, per aiutarlo
>meglio! La questione della manipolazione, che tu poni, secondo me non centra, mi sembra un
>pregiudizio che tu hai verso certi terapeuti che non esistono più (anche certi psicoanalisti, come ben
>sai, potevano essere autoritari o poco dialettici, tra l'altro).

E' vero che tutti i terapeuti cercano la collaborazione del paziente (sarebbe folle non cercarla): ma molti lo fanno per applicare le loro procedure, non per negoziare un trattamento in cui le procedure (o le idee, o le intuizioni) del paziente sono messe a priori sullo stesso piano di quelle del terapeuta. Nella collaborazione paritetica può e deve accadere che le procedure del terapeuta siano modificate o del tutto abbandonate nel dialogo terapeutico per seguire le indicazioni e i suggerimenti del paziente, o per costruire integrazioni ad hoc tra il punto di vista del terapeuta e quello del paziente. La questione della manipolazione c'entra eccome. Ci sono terapeuti molto dogmatici, che non si spostano di una virgola dalle concezioni teoriche e tecniche che hanno in testa, e cercano la collaborazione del paziente solo per applicare meglio le loro procedure (e se si spostano, lo fanno malvolentieri perché costretti, applicano dei "parametri" e cercano di tornare quanto prima a fare della "buona analisi" o "buona terapia comportamentale").

>Dici anche [Tullio]:
>>Le procedure generali hanno un carattere relazionale e sono dirette alla persona (o alla
>>"personalità", asse I del DSM), mentre quelle specifiche hanno un carattere più tecnico e sono
>>dirette al problema specifico (asse II del DSM).
[Paolo:] A parte il fatto che tu qui fai un piccolo errore (hai confuso l'asse I con l'asse II, ma è solo una
>svista), non sarei d'accordo con questi schematismi, che mi ricordano la peggiore psichiatria
>accademica. Io ci andrei adagio, siamo ben lontani dall'avere una chiarezza su cosa siano l'asse I e l'asse II
>e su come si rapportano tra loro (nel senso che a me sembra che vi sia un certo intreccio, a dir poco).

Chiedo scusa per la svista, che svela quanto poca confidenza io abbia col DSM. Tralasciando questo, ribadisco la mia convinzione che si possano e si debbano distinguere strategie generali (i "fattori comuni") dirette alla persona del paziente (ai suoi bisogni), e strategie specifiche, dirette ai suoi sintomi. Che i due piani siano variamente intrecciati, non c'è dubbio. Ribadisco anche che faccio queste distinzioni soprattutto per vedere se riusciamo a intenderci almeno in linea generale su cosa intendiamo per psicopatologia e procedure, se no non facciamo un passo avanti. L'alternativa è lasciar perdere queste distinzioni, e occuparci solo di come il paziente sperimenta quello che facciamo (le "metaprocedure"). Ma non mi pare che sia questo l'orientamento prevalente tra di noi.

>Ribadisco quello che penso, e mi sembra dissi già una volta: ogni nostro intervento serve a ottenere
>degli scopi, e quello che tu chiami atteggiamento dialogico o dialettico è un intervento sofisticato che
>può servire ad ottenere degli effetti complessi in un paziente, a più livelli, e questo atteggiamento
>dialogico del terapeuta può al limite essere operazionalizzato o "proceduralizzato" (es. può essere insegnato
>a qualcun altro, non è ineffabile) e può accadere anche mentre il terapeuta mette in atto delle cosiddette procedure.

Bisognerebbe intendersi meglio sui termini. Io ho proposto questo: una procedura è un'operazione definita diretta a uno scopo definito. Altrimenti tutto quello che facciamo diventa procedura, e il termine diventa inutilizzabile. Se la definizione è questa, allora il dialogo non è una procedura: è se mai la sospensione di tutte le procedure, un tacere e mettersi in ascolto, e poi rispondere in base a quello che sembra giusto dire o fare sul momento, non in base al proprio repertorio di procedure (che peraltro restano sempre sullo sfondo e possono essere utilizzate all'interno del dialogo). Sul fatto che il dialogo possa essere insegnato sono d'accordo: ma solo dialogando, non vedo altro modo. Si può definire "procedura" la sospensione di ogni procedura, come si può definire "sapere" il sapere di non sapere: basta ricordarsi che siamo a un altro livello. Tullio

Giorgio G. Alberti, 23 ottobre 2002:

Cari amici, vorrei ricollegarmi al mail di Tullio del 22 ottobre, ore 0.39, intitolato "Scienza e Dialogo" per qualche osservazione sul concetto di specificità dei processi patogenetici e delle conseguenti procedure da attuare per modificarli. Chiedo scusa se non cito a mia volta le citazioni "a matrioscka" di Tullio, ma ciò che volevo dire è che nella mia visione la specificità (relativa) del processo patogenetico (che è credo, approssimativamente simile a ciò che Gianni intende con "Psicopatologia") è al meglio esposta attraverso esempi. Uno è quello di quel caratteristico meccanismo intrapsichico e interpersonale che caratterizza le personalità borderline, e cioè la tendenza a indurre nell'altro ruoli, sentimenti, idee e anche comportamenti, che ne perpetuano il ciclo interpersonale attraverso la conferma delle rappresentazioni mentali del Sè, dell'altro e della loro relazione che il paziente ha dentro di sé. E' certo vero che non solo i borderline funzionano così, ma è altrettanto vero che i borderline sono tra le personalità che più spesso e intensamente funzionano secondo questo meccanismo.

Allora, da ciò consegue che prima o poi, più o meno spesso, più o meno intensamente, con variabili modalità personali, il terapeuta che tratta borderline deve apprestarsi a gestire induzioni di quel tipo. E che quindi deve apprestarsi a mettere in atto quel complesso lavoro, rivolto a se stesso e al paziente (ed eventualmente anche a i suoi parenti), che è definito di contenimento, di metacomunicazione e quant'altro, che non solo è necessario in questi casi, ma è addirittura indispensabile, è cioè chiave esclusiva per uscire dall'impasse antiterapeutica che si creerebbe nel caso in cui soggiacesse reattivamente alle induzioni del paziente.

Corollario di questa considerazione è che al di là di questo, che è un aspetto specifico del processo patogenetico attuale che sostiene e perpetua la personalità borderline, e che condiziona un certo aspetto chiave dell'intervento, tutto il resto quanto a prassi e procedure pro-relazione e pro-cambiamento può essere meno definito e quindi liberamente adattato alle particolarità individuali del paziente, della sua patologia psichica del momento (crisi psicotica, tossicodipendenza etc.) e della sua momentanea condizione relazionale.

In altre parole, il fatto che esistano passaggi proceduralmente obbligati, dettati dalle peculiarità generali del processo patogenetico, senza i quali il paziente non fa passi avanti - e che, dico a Tullio specificamente, vanno attuati anche contro la volontà del paziente perché rispettare la volontà del paziente potrebbe voler dire controaggredirlo o andarci a letto - non impedisce che esistano molte altre cose liberamente attuabili a discrezione del terapeuta ed eventualmente anche del paziente. Quindi un approccio procedurale, che individui e attui interventi specifici in funzione di un certo aspetto nodale del processo patogenetico attuale che sostiene la patologia, è anche alquanto flessibile.

Un secondo corollario di questo esempio è che le strategie specifiche(di cui parla Tullio nel mail), se le intendo correttamente come sinonimo di procedure specifiche, non sono rivolte esclusivamente ai sintomi. Anzi, proprio l'esempio dell'induzione del borderline dimostra che contenimento e metacomunicazione agiscono non sui sintomi ma sulla struttura della personalità, come sostengono anche diversi autori che hanno studiato l'enactment e l'identificazione proiettiva.

Infine, terzo corollario, l'esempio dimostra anche che - a mio vedere ovviamente - Paolo ha perfettamente ragione quando afferma che "...questo atteggiamento dialogico del terapeuta può al limite essere operazionalizzato o "proceduralizzato" (es. può essere insegnato a qualcun altro, non è ineffabile)...". Infatti la scoperata della natura reattiva e controtransferale dei propri sentimenti, idee, tendenze all'azione e comportamenti, che il terapeuta deve imparare a fare, come anche il vero e proprio containment, sono atti rivolti verso di sè e verso il paziente, ma squisitamente relazionali.

Potremmo rifare un analogo esempio con la prescrizione, variamente modulata e personalizzata, di affrontare le situazioni ansiogene con le agorafobiche. Ma ve lo risparmio, con l'unica eccezione della seguente osservazione: nel caso delle agorafobiche la prescrizione di esposizione appare rivolta soprattutto al comportamento sintomatico di evitamento, ma le sue ripercussioni non sono affatto soltanto sintomatiche, come è stato rilevato da diversi autori, per primo S. Freud ma anche da diversi altri, tra cui alcuni sconcertati comportamentisti, in quanto l'affrontare l'angoscia incide anche sul processo patogenetico più ampio e dà luogo all'accesso in coscienza di ricordi e altri vissuti che attengono alla motivazione inconscia della fobia. Quindi l'intervento sintomatico incide anche sul processo patogenetico che mantiene la nevrosi, in cui evidentemente il sintomo d'evitamento ha un ruolo non solo epifenomenico ma co-patogenetico, e lo modifica non solo sintomaticamente. Giorgio

Tullio Carere, 25 ottobre 2002:

Caro Giorgio, ti dico subito che sono molto d'accordo con le tue ultime riflessioni, e spero che questo accordo aiuti a chiarire i motivi di disaccordo che stanno a monte. Tu dici che, data la tendenza dei borderline "a indurre nell'altro ruoli, sentimenti, idee e anche comportamenti che ne perpetuano il ciclo interpersonale" il terapeuta deve in primo luogo mettere in atto procedure di "contenimento" e "metacomunicazione", mentre il resto del lavoro può essere "meno definito e quindi liberamente adattato alle particolarità individuali". Certo: queste sono precisamente quelle che ho proposto di chiamare "procedure generali" (precedentemente: fattori comuni). Virtualmente in ogni terapia, non solo con i borderline, il terapeuta si trova poco o tanto a dover dare delle risposte di "contenimento" delle esperienze che il paziente dimostra di non saper ancora contenere, e quindi nega, evacua o proietta in vario modo (risposte di "vertice Materno", nel mio modello); così come si troverà sempre, in ogni terapia degna del nome, a "metacomunicare", cioè analizzare e commentare il modo in cui avviene la comunicazione ("vertice K", nel mio modello).

Stabilito questo, le modalità "specifiche" di queste due modalità generali di intervento varieranno caso per caso, secondo le variabili del paziente e del terapeuta. Per esempio con alcune pazienti di sesso femminile nella mia esperienza il contenimento corporeo è quasi indispensabile, o comunque straordinariamente più potente di ogni altra forma di contenimento solo verbale che io sia in grado di offrire. Per quanto riguarda l'altro vertice, con alcuni pazienti la comunicazione privilegiata su cui metacomunicare è quella tra paziente e terapeuta, mentre con altri è quella con il partner o altre figure significative della vita attuale. Il fatto che si scelga una forma di holding piuttosto che un altra, o si privilegi l'analisi della relazione terapeutica piuttosto che di altre relazioni, dipende dalla specificità della situazione terapeutica in questione, che include il problema particolare presentato dal paziente in un momento dato, le sue preferenze personali, e le preferenze personali e di scuola del terapeuta.

Affermi poi che "le procedure specifiche, non sono rivolte esclusivamente ai sintomi... l'intervento sintomatico incide anche sul processo patogenetico che mantiene la nevrosi". Anche su questo sono del tutto d'accordo. Per esempio nel mio lavoro intitolato "La logica della relazione psicoterapeutica", sull'ultimo numero di Psicoterapia e scienze umane (la versione inglese è in rete, sull'ultimo numero del Journal of European Psychoanalysis: http://www.psychomedia.it/jep), scrivo: "Un lavoro centrato sul sintomo può portare a un'importante trasformazione personale, come un lavoro sulle dinamiche profonde può portare alla risoluzione di un sintomo. Ma è tanto più probabile che questo avvenga quanto più l'altro polo del lavoro, anche se implicito, è tenuto presente".

Mi sembra che stiamo mettendo a fuoco sempre meglio la differenza tra "generale" (o "comune") e "specifico". Il primo aggettivo era ed è tuttora usato per indicare le procedure che si trovano virtualmente in ogni pratica psicoterapeutica indipendentemente dal metodo impiegato dal terapeuta, mentre il secondo aggettivo era usato in un primo tempo per indicare ciò che apparteneva ai singoli approcci. Poi l'aggettivo "specifico" è passato a indicare ogni procedura rivolta a problemi specifici, come per esempio una procedura di esposizione per una fobia. Ora stiamo vedendo che l'aggettivo è usato nel modo più appropriato per la situazione specifica del trattamento, che include certo il problema particolare da affrontare in un momento dato, ma anche le variabili sia del paziente che del terapeuta.

Credo sia molto importante definire le strategie generali di intervento nella psicoterapia "senza aggettivi", distinguendole dagli approcci specifici come sopra definiti. A questo è necessario aggiungere a mio parere due cose: [A] la componente propriamente dialogica, che serve sia per capire quale combinazione di procedure generali e specifiche adottare in un momento dato, sia per interagire in modo non procedurale, ma intuitivo e spontaneo, in sintonia con ciò che il processo (non la nostra teoria) richiede momento per momento; e [B] la dimensione "metaprocedurale" della terapia, consistente nell'osservazione continua di come i nostri interventi procedurali o non procedurali sono interpretati e vissuti dal paziente, nella consapevolezza che ciò che veramente agisce non è ciò che facciamo, ma il modo in cui il paziente sperimenta ciò che facciamo (ne consegue che per indurre un vissuto, poniamo, di contenimento, non dovremo necessariamente adottare una procedura di contenimento, ma dovremo piuttosto fare quello che per quel paziente in quel momento è vissuto come contenitivo - che cosa sia, lo potremo capire solo attraverso il dialogo). Tullio

Giorgio G. Alberti, 26 ottobre 2002:

Caro Tullio, ho appena ricevuto il Tuo mail qui allegato, che si presta molto bene a mostrare quale tipo di malinteso si crei talora tra noi.

A) Tu dici: "Certo: queste sono precisamente quelle che ho proposto di chiamare "procedure generali" (precedentemente: fattori comuni)." Non direi che questa Tua equazione è giusta: il "resto del lavoro", come lo intendevo io, non era identificabile con procedure generali o fattori comuni, era tutto ciò, anche molto individuale e personalizzato, cioè non comune, che il terapeuta può fare oltre alle procedure che sono specificamente indispensabili per gestire terapeuticamente e mutativamente le manovre induttive del paziente boderline. Ho poi anche una certa difficoltà a seguire le Tue frequenti mutazioni terminologiche: "fattori comuni" è per me, stando alla letteratura, un cattivo e inesatto termine con cui si designano i fattori relazionali (infatti, ho avuto modo di dimostrare nel recente passato che comuni possono essere anche delle procedure specifiche). "Procedure generali", confesso, non ricordo ora cosa voglia dire. Certamente però, non è quello che intendevo io quando parlavo del "resto del lavoro".

B) Tu dici che "Virtualmente in ogni terapia, non solo con i borderline, il terapeuta si trova poco o tanto a dover dare delle risposte di contenimento...", e più avanti dici ancora: "...come si troverà sempre, in una terapia degna del nome, a ‘metacomunicare’...". Ora, qui Tu stai negando quello che io avevo sostenuto in precedenza, che il forte ricorso all'induzione interpersonale sia un elemento specifico del processo patogenetico che sottende la patologia di personalità borderline, e che contenimento e metacomunicazione sono procedure specifiche per gestire proprio quell'elemento del processo patogenetico. Stai cioè attribuendomi una visione che non è la mia, trasfigurando ciò che io presentavo come specifico in qualcosa di comune a tutti i pazienti. Certamente si può discutere sul fatto se le mie affermazioni siano o no giuste, se cioè le manovre induttive siano più o meno specifiche dei borderline, col relativo corollario procedurale, ma certamente non puoi eguagliare ciò che ho detto a ciò che dici invece Tu, per poi dedurne che ciò che dicevo io coincide pienamente con ciò che avevi detto Tu. Insomma, mi sembra che per il desiderio di trovare un accordo Tu talvolta travisi un po' quello che dico. Ma ciò per me è alquanto problematico in quanto sto perseguendo la ipotesi che pur con molte variazioni individuali i singoli quadri clinici abbiano dei processi patogenetici caratterizzati da - anche pochi ma irriducibili - meccanismi distinti ed esclusivi, per cui si richiedono certe specifiche procedure, in momenti magari diversi e anche in forme diverse, ma quelle, e non altre, affinché il processo patogenetico muti. E davo per esempi i borderline con l'attività induttiva (ma potrebbe essere anche la carenza di funzione riflessiva e di metacognizione), e le agorafobiche con un qualche aspetto del processo patogenetico che sempre richiede l'esposizione alle situazioni o ai contenuti temuti ed evitati.

C) Tu trovi a un certo punto una bella concordanza tra la Tua e la mia posizione sul fatto che le procedure specifiche non si rivolgono solo ai sintomi. Sono ben contento che Tu lo dica. Ma io a mia volta avevo battuto su questo chiodo perchè Tu in un altro mail avevi parlato proprio delle procedure specifiche come indirizzate ai sintomi: dicevi infatti nella Tua lettera del 22.10 diretta primariamente a Paolo: "Chiedo scusa per la svista, che svela quanta poca confidenza io abbia col DSM. Tralasciando questo, ribadisco la mia convinzione che si possano e si debbano distinguere strategie generali (i "fattori comuni") dirette alla persona del paziente (ai suoi bisogni), e strategie specifiche, dirette ai suoi sintomi." Vedo quindi che hai cambiato opinione, e ciò mi rallegra. Ma forse bisognerebbe non perseguire l'unanimità ad ogni costo. Giorgio

Tullio Carere, 27 ottobre 2002:

Caro Giorgio, com'è difficile capirsi. E tuttavia non bisogna rinunciare a questo sforzo sovrumano, perché se restiamo al livello semplicemente umano, di ordinaria incomunicabilità, non c'è speranza né per la psicoterapia senza aggettivi, ma (oserei dire) nemmeno per la stessa sopravvivenza dell'umanità.

Proviamo a districare i malintesi. Per cominciare, io distinguevo "procedure generali" (come quelle citate da te: contenimento e metacomunicazione) e il "resto del lavoro", certo individuale e personalizzato: evidentemente non facevo un'equazione tra quelle e questo. Il malinteso nasce qui probabilmente dal fatto che quelle che io chiamo, credo a buon diritto, procedure generali - infatti contenimento e metacomunicazione sono strategie comuni a ogni tipo di terapia, indipendentemente dall'orientamento teorico del terapeuta e dalla diagnosi del paziente - per te sono "specificamente indispensabili" per la terapia dei borderline.

Supponiamo che esista un piccolo numero di "procedure generali" o "fattori comuni" alle diverse terapie, come ipotizzato da alcuni, me incluso. Si potrà poi legittimamente ritenere che ogni particolare disturbo richieda una diversa combinazione di questi fattori. Allora i fattori in questione resterebbero comuni o generali, mentre sarebbe specifica una particolare combinazione di essi, con prevalenza di alcuni rispetto ad altri, che si ritiene più indicata in un determinato disturbo. Quale sia poi la specifica combinazione più indicata per i borderline, è questione controversa. Come ho detto commentando il caso di Paolo, io sono più incline a pensare (seguendo la Linehan) che i fattori veramente basilari e indispensabili nella cura dei borderline siano contenimento e confrontazione (vertice materno e paterno), piuttosto che contenimento e metacomunicazione. Ma, ripeto, la questione è controversa e comunque secondaria. Potremo riprenderla, dati alla mano, una volta che saremo riusciti a intenderci almeno sulle questioni principali.

Quanto al rapporto tra fattori generali e specifici, non ho cambiato opinione. Continuo a pensare che sia utile distinguere strategie generali (supportive ed espressive, nei termini di Luborsky; riparative ed esplorative, nei miei, con l'aggiunta che ognuno dei due livelli base si duplica in due modalità polari, per un totale di quattro strategie generali) dirette principalmente alla persona del paziente (ai suoi bisogni evolutivi), e strategie specifiche, dirette a problemi o sintomi specifici: tanto è vero che gli psicoanalisti per lo più fanno uso di strategie generali, con ridotta attenzione a sintomi e problemi particolari, mentre i comportamentisti fanno il contrario. Trovo che la distinzione sia utile, mentre quello che non trovo utile è scegliere il generale a scapito del particolare o viceversa, dal momento che una procedura generale può avere un effetto specifico e viceversa. Data questa distinzione, che non ho abbandonato, il discorso è andato (per me) progressivamente chiarendosi nel senso che si debbono considerare diversi tipi di specificità, a partire dalla specifica combinazione di fattori generali per una determinata situazione (vedi sopra), per continuare con i modi specifici di intendere un fattore comune (ci sono molti modi diversi per favorire per es. un'esperienza di contenimento, specifici di diverse tradizioni e stili di lavoro), per finire alla specificità idiosincratica di ogni particolare paziente, ogni particolare terapeuta e ogni particolare seduta.

Se ci perdiamo nella selva delle specificità, senza prima avere definito quali sono i fattori invarianti, le tessere base con le quali costruiamo qualsiasi tipo di atto terapeutico, la possibilità di intesa è già finita prima ancora di cominciare. Quello che non mi stanco di dire è che ho il massimo rispetto per le differenze, per tutto ciò che è locale o specifico, ma che sarà tanto più facile il rispetto reciproco se saremo riusciti a trovare almeno una base comune di fattori, concetti, termini su cui ritrovarci e con cui intenderci. E' come con l'Europa: benissimo le specificità locali, ma cerchiamo di trovare un minimo di regole comuni che ci consentano di dirci "europei", e non solo italiani o tedeschi. Tullio.

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