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PSYCHOMEDIA
Salute Mentale e Comunicazione 
Dibattiti svoltisi sulla Lista PM-PT Psicoterapia 

Dibattito sulla "metacognizione"
stimolato dall'articolo di Peter Fonagy 
"Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologia nei disturbi di personalità
e dall'articolo di Giovanni Liotti 
"Il nucleo del Disturbo Borderline di Personalità: un'ipotesi integrativa"
avvenuto in Lista "Psicoterapia" di PSYCHOMEDIA (PM-PT)
dal dicembre 1999 al febbraio 2000
 
(Interventi di Andrea Angelozzi, Tullio Carere, Davide Cavagna, Angelo Compare, Mario Galzigna, Anna Grazia, Fabrizio Marcolongo, Andrea Mazzeo, Paolo Migone, Luca Panseri, Giovanni M. Ruggiero, Gian Paolo Scano, Ileana Taddei)

Editing a cura di Paolo Migone


8-12-99, From: Tullio Carere ("Fonagy e Liotti") 
Nell'articolo "Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologia nei disturbi di personalità" messo in rete da Paolo Migone, Peter Fonagy discute il concetto di "metacognizione", o capacità riflessiva, in rapporto alle vicissitudini dell'esperienza di attaccamento. La metacognizione si distingue dalla semplice cognizione in quanto quest'ultima è implicita e irriflessa (la troviamo anche negli animali), mentre la prima prende le distanze dall'identificazione immediata con gli stati mentali per osservarli e riflettere su di essi. Grazie alla metacognizione diamo significato e valore all'esperienza, distinguendo il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto, il reale dall'immaginario. (Nella relazione terapeutica la metacognizione corrisponde precisamente a quello che nel mio modello chiamo "vertice K" del campo). 
La relazione tra metacognizione e modelli di attaccamento è duplice. Da un lato, ha mostrato Fonagy, i genitori che hanno una capacità metacognitiva elevata hanno una probabilità di allevare figli sicuri da tre a quattro volte superiore ai genitori in cui quella capacità è bassa. Dall'altro, i bambini che hanno introiettato un pattern di attaccamento sicuro saranno facilitati nello sviluppo di una buona capacità metacognitiva. L'implicazione per la terapia è così esplicitata da Fonagy: "Il trattamento psicoterapeutico in generale, e il trattamento psicoanalitico in particolare, obbligano il pensiero del paziente a concentrarsi sullo stato mentale di un altro soggetto che si propone come benevolente, il terapeuta. L'interpretazione frequente e profonda dello stato mentale sia dell'analista sia del paziente (ossia l'interpretazione del transfert nel suo senso più ampio) è quindi auspicabile, se non essenziale, nel caso in cui si voglia eliminare l'inibizione di questo aspetto del funzionamento mentale". La chiave della terapia è dunque il lavoro metacognitivo (interpretazione del transfert in senso allargato). 
Non si può non concordare sulla centralità del lavoro metacognitivo nel processo terapeutico. Ma che posto ha in questo contesto quell'altro ordine di operazioni che puntano a produrre "esperienze emotive correttive"? E' strano che Fonagy non ne parli, dal momento che proprio il modello "dialettico" da lui proposto sembrerebbe richiederlo. Se buone esperienze affettive facilitano lo sviluppo della capacità riflessiva, come una buona capacità riflessiva apre la strada a buone esperienze affettive, nella terapia si dovrebbero considerare entrambe le possibilità, valutando di volta in volta la maggiore opportunità dell'una o dell'altra: cioè l'opportunità di partire dalla riflessione (interpretazione) per giungere a buone esperienze affettive, o da buone esperienze affettive per giungere alla riflessione (i due livelli corrispondono nel mio modello rispettivamente all'asse verticale - uncovering - e a quello orizzontale - remaking). In una terapia realmente dialettica nessuno dei due livelli dovrebbe essere privilegiato a priori (altrimenti la terapia non sarebbe più dialettica), ma la loro interazione e combinazione dovrebbe essere regolata di momento in momento in funzione delle esigenze del processo. 
Se poca attenzione riceve il livello "remaking" da Fonagy, come altrettanto poca gliene aveva dedicata Gill (e Fonagy e Gill sono due analisti sicuramente più "aperti" della media) una maggiore apertura troviamo nel cognitivista Liotti, il cui articolo "Il nucleo del Disturbo Borderline di Personalità (DBP): un'ipotesi integrativa" è pubblicato da Paolo Migone come contributo alla discussione sul lavoro di Fonagy. In questo lavoro Liotti mette innanzitutto l'accento sul pattern di attaccamento disorganizzato (DA), al posto di quello insicuro ipotizzato da Fonagy come base di disturbi gravi di personalità. Sulla base di un pattern di attaccamento insicuro (evitante o resistente) si costruirebbero organizzazioni cognitive certamente disfunzionali, ma non così gravi come i quadri derivati da DA, in primo luogo il DBP. 
L'ipotesi che la DA sia il disturbo nucleare da cui parte lo sviluppo del DBP permette di unificare in un *unico processo mentale e interpersonale* gli altri disturbi nucleari ipotizzati dai modelli psicoanalitici e cognitivo- comportamentali (essenzialmente: rappresentazione frammentata di sé-con-l'atro, ipersensibilità all'abbandono, scarsa regolazione delle emozioni, deficit metacognitivo). Il vantaggio, per la terapia, sarà di trovare in un modello unico e coerente la base per un lavoro sia "mentale" (metacognitivo), sia "interpersonale" (nuova esperienza relazionale con il terapeuta). Devo dire, peraltro, che il riconoscimento dell'importanza essenziale per la terapia di questo secondo livello non lo trovo tanto nel lavoro citato sopra, quanto piuttosto nell'articolo "Psychoanalysis and cognitive-evolutionary psychology: an attempt at integration", che Liotti ha scritto assieme a Migone (International Journal of Psychoanalysis, 1998, 79, 6: 1071-1095; scaricabile dal sito dell'IJPA), in cui si dichiara esplicitamente che "l'importanza del concetto di Alexander (et al., 1946) di 'esperienza emotiva correttiva' dovrebbe essere rivalutata e apprezzata. In un certo senso, le esperienze emotive correttive, all'interno e all'esterno della terapia, sono le esperienze che hanno la maggiore probabilità di essere di aiuto alla persona nel perseguimento dei propri piani adattivi innati". Il fatto che Migone e Liotti abbiano scritto queste cose, e l'IJPA le abbia pubblicate, mi sembra un segno molto incoraggiante per l'evoluzione della psicoterapia, per un altro verso rallentata e frenata da tendenze corporative, regressive e parrocchiali ancora consistenti. 

9-12-1999, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti") 
On 08/12/99 Tullio Carere wrote: 
> Nell'articolo "Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologia nei disturbi di 
> personalità" messo in rete da Paolo Migone, Peter Fonagy discute il concetto 
> di "metacognizione", o capacità riflessiva, in rapporto alle vicissitudini 
> dell'esperienza di attaccamento. La metacognizione si distingue dalla 
> semplice cognizione in quanto quest'ultima è implicita e irriflessa (la 
> troviamo anche negli animali), mentre la prima prende le distanze 
> dall'identificazione immediata con gli stati mentali per osservarli e 
> riflettere su di essi. Grazie alla metacognizione diamo significato e valore 
> all'esperienza, distinguendo il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto, il 
> reale dall'immaginario. (Nella relazione terapeutica la metacognizione 
> corrisponde precisamente a quello che nel mio modello chiamo "vertice K" del campo). 

Le osservazioni di Carere mi permettono di sollevare alcune questioni per quanto riguarda la capacità metacognitiva di cui parla Fonagy, i contorni della quale non sono sempre ben definiti nello scritto, e forse danno adito a interpretazioni diverse. 
Da una parte riprende la definizione di Main (1991) come "comprendere la natura meramente rappresentazionale del proprio pensiero (e di quello degli altri)" . La mancanza porterebbe a non essere in grado di "trascendere l'immediata realtà dell'esperienza e di arrivare a comprendere la differenza fra l'esperienza immediata e lo stato mentale che potrebbe essere sottostante". 
Più oltre Main fa esplicito riferimento a Dennett e al suo "atteggiamento intenzionale", dove " Dennett pone l'accento sul fatto che gli esseri umani sono forse gli unici a cercare di comprendersi in termini di stati mentali: pensieri, sentimenti, desideri, credenze, al fine di attribuire significato all'esperienza e poter anticipare le reciproche azioni". A me sembra che per metacognizione Fonagy intenda la capacità di essere consapevoli non tanto dei propri pensieri (intesi nel loro contenuto) ma del fatto di "pensare pensieri" e di essere gli artefici di questa operazione della mente. Sulla base di questa consapevolezza siamo consapevoli del nostro pensare in quanto pensare e del fatto che anche gli altri producono pensieri. 
Questa che Fonagy definisce prima "le rappresentazioni relative al proprio stato mentale" e più oltre "la capacità di rappresentare le idee in quanto idee", è stranamente simile a due altre questioni: 
La prima è che la modalità per cui " il bambino giunge a conoscere la mente del genitore così come il genitore cerca di comprendere e contenere gli stati mentali del bambino" e che a sua volta deriva dalle capacità metacognitive del genitore, appare molto simile al modo in cui Husserl fonda la esistenza dell'altro, cioè sulla capacità di pormi di fronte a me stesso e, in questo essermi opaco nel mio osservare, nel mio essere duale (osservante ed osservato), scopro l'altro da me. 
La seconda è che la metacognizione sembra molto più interessata al produrre pensieri che non al loro specifico contenuto. Fonagy parla di una "attitudine del genitore, una immagine di se stesso come in grado di mentalizzare, desiderare e avere delle opinioni. Egli vede che il genitore ha di lui una rappresentazione come essere intenzionale". Il genitore ha metacognizione che lui è un soggetto con metacognizione!! Quest'aspetto è molto vicino a quanti hanno sottolineato la importanza della capacità di disidentificarsi dai contenuti specifici della propria mente, come di un elemento essenziale per la psicoterapia. Come è vicino al senso vero della meditazione orientale, cioè le capacità di trovare in sè l'osservatore, colui cioè che osserva il proprio pensare. 
Questi elementi trascinano a loro volta a catena altri aspetti. In particolare che rapporto esiste fra la metacognizione ed il pensare cui si riferisce?. In che maniera possono tracciare quasi due identità al mio interno, ciascuna magari con aspettative, idee, valutazioni diverse? La questione della metacognizione (che è poi quella della autotrascendenza), da taluni viene letta in versione radicale, come effettiva testimonianza della pluralità al mio interno, per altri è solo un aspetto linguistico che non rivela alcuna effettiva schisi. 
Rimane un problema non indifferente: se la metacognizione è più orientata all'effettivo processo del pensare, mio e degli altri, e, solo in sede secondaria, al contenuto dei sottostanti pensieri, di cui coglie più il fluire che non l'oggetto specifico, allora la psicoterapia non è né una analisi dei contenuti, né quella della relazione, ma è un costante gioco duale in cui il terapeuta costituisce il modello dell'osservare il pensiero, un modello prima esterno e poi fatto proprio dal paziente. Dalla metacognizione esterna a quella interna (non avviene così per Fonagy con il bambino?). Ed in modo del tutto indipendente dai contenuti che transitano. L'interpretazione allora non interpreta nulla, ma è solo un costante richiamare alla osservazione di sé, qui ed ora, alla stessa stregua del bastone del maestro zen, del koan o delle gambe che dolgono. Come diceva maestro Dogen: "Fa freddo? Sii un buddha freddo!; Fa caldo? Sii un buddha caldo". I contenuti variano, ma quello che devi trovare è la consapevolezza del tuo essere consapevole. 
 
12-12-99, From: Tullio Carere ("Fonagy e Liotti")  
On 09/12/99 Andrea Angelozzi wrote: 
>Le osservazioni di Carere mi permettono di sollevare alcune questioni per 
>quanto riguarda la capacità metacognitiva di cui parla Fonagy, i contorni 
>della quale non sono sempre ben definiti nello scritto, e forse danno 
>adito a interpretazioni diverse. (....)
>A me sembra che per metacognizione Fonagy intenda la capacità di essere 
>consapevoli non tanto dei propri pensieri (intesi nel loro contenuto) ma 
>del fatto di "pensare pensieri" e di essere gli artefici di questa 
>operazione della mente. 
>Sulla base di questa consapevolezza siamo consapevoli del nostro pensare 
>in quanto pensare e del fatto che anche gli altri producono pensieri. 

Caro Andrea, trovo questa mattina sulla lista della SEPI
>Just to throw another idea into the "most important quality for a therapist:" 
>The ability to be happy in the face of all experience 
>and, through that, to thoroughly enjoy one's client 
>(no matter what the content or valence of the experience and the 
>relationship may be at a given moment). 
>How can we help alleviate suffering unless we know happiness? (and 
>know that happiness does not stand apart from nor reject pain and unhappiness). Bob 

La qualità più importante per uno psicoterapeuta, dice Robert Rosenbaum, è la capacità di essere felice di fronte a qualsiasi esperienza, *indipendentemente dal suo contenuto*, che naturalmente può essere carico di dolore e infelicità. Lo sviluppo di questa capacità richiede evidentemente una notevole pratica di "autotrascendenza", per usare un tuo termine. Occorre cioè sviluppare la capacità di ricollegarsi a una dimensione originaria che non è solo "precategoriale", ma anche "precognitiva", o "transcognitiva", e trovare in questa un senso di realizzazione o, come dice Rosenbaum, di "felicità" che prescinde da qualsiasi contenuto emotivo o cognitivo dell'esperienza "ordinaria". 
Ma ti pare che Fonagy, e in genere uno psicoanalista, parlando di "metacognizione" possa avere in mente questo livello "transpersonale" o "transcognitivo" di esperienza? A me non sembra. E' più probabile che uno psicoanalista abbia un atteggiamento scettico e demistificante nei confronti della felicità di cui parla Rosenbaum, che probabilmente vedrebbe come una fuga dalla realtà conflittuale, un disimpegno irresponsabile, una regressione amniotica, o simili. Non per niente Rosenbaum oltre che psicoterapeuta è anche un buddista praticante e autore di un libro molto interessante: Zen and the Heart of Psychotherapy (Brunner/Mazel, 1999). 
Prendi per esempio il modo in cui Fonagy illustra la capacità metacognitiva del bambino: "Se il bambino è in grado di attribuire il comportamento apparentemente rifiutante di una madre distaccata e non responsiva allo stato depressivo della madre stessa piuttosto che alla propria cattiveria o incapacità di suscitare attenzione, è protetto, forse in permanenza, dalle ferite narcisistiche". Come fa il bambino ad arrivare alla conclusione "non è colpa mia, è la mamma che sta male"? I passaggi sono più o meno: la mamma non mi guarda e non mi sorride; però io non ho fatto niente di male e niente di diverso dalla settimana scorsa, quando mi sorrideva; inoltre la mamma ha quell'espressione triste anche con mio fratello e quando cucina; dunque io non c'entro, è la mamma che non sta bene. Sono i normali passaggi di un processo di riflessione, in cui l'attenzione è naturalmente sull'oggetto della riflessione. 
Tuttavia, rileggendo i passaggi di Fonagy citati da te, penso che per un altro verso tu abbia ragione, nella funzione metacognitiva si può intravedere almeno implicitamente anche un orientamento "all'effettivo processo del pensare... di cui coglie più il fluire che non l'oggetto specifico", una modalità quindi simile a quella della meditazione orientale. Affinità anche più esplicite in questo senso si trovano in Bion (il "mistico", F in O, eccetera) - ma non è un caso che Bion sia nato in India, ha fatto notare Speziale Bagliacca in un vecchio lavoro in cui rilevava anche lui le consonanze orientali di Bion. Elementi di questo genere si trovano sparsi qua e là nella letteratura psicoanalitica (nella quale peraltro si trova di tutto), ma non si può dire che siano prevalenti. Non credo sia giusto dire, quindi, che 
>L'interpretazione allora non interpreta nulla, ma è solo un costante 
>richiamare alla osservazione di sé, qui ed ora, alla stessa stregua del 
>bastone del maestro zen, del koan o delle gambe che dolgono. 

Gli psicoanalisti per lo più si sforzano di essere scientifici, di produrre conoscenza scientificamente valida. E anche quando sono di orientamento ermeneutico, per loro la cosa più importante è costruire "buone storie", buone narrative: anche in questo caso l'attenzione prevalente è sul contenuto. L'orientamento al processo di cui parli tu c'è, ma è per lo più implicito, secondario. Esattamente il contrario accade nelle scuole di meditazione, come sai: in queste è secondario il contenuto, ed è primaria la consapevolezza senza oggetto, "satchitananda". La differenza riflette il diverso orientamento della mente occidentale e di quella orientale. Io però non vedo perché tra i due orientamenti se ne debba privilegiare uno. Per me l'asse verticale, "uncovering", della terapia è una linea che congiunge un polo K (object oriented) e un polo O (process oriented). Per quanto personalmente possa restare molto al di sotto di questi modelli ideali, il terapeuta può cercare di muoversi tra i ruoli dello scienziato occidentale e del saggio orientale, realizzando di momento in momento la migliore integrazione possibile dei due modi, o dei due mondi. 

12-12-99, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti")  
Caro Tullio, penso di essere pienamente d'accordo con gran parte delle cose che dici. 
Non sono invece molto d'accordo con quanto dice Rosenbaum: 
>La qualità più importante per uno psicoterapeuta, dice Robert Rosenbaum, 
>è la capacità di essere felice di fronte a qualsiasi esperienza, 
>*indipendentemente dal suo contenuto*, che naturalmente può essere carico di dolore e infelicità. 

A parte che questa teoria del terapeuta felice l'ho gia sentita (non da un buddhista ma da Lai), non mi sembra che questa cosa si possa identificare con l'autotrascendenza (o per lo meno non è così semplice). L'osservatore nel buddhismo non ha per così dire "colore", e cercare l'osservatore (ed eventualmente trovarlo) non implica una qualche felicità; anzi, se l'osservatore ha ancora una qualche "qualità" vuol dire che questa deve diventare ulteriormente oggetto per un ulteriore livello di trascendenza e di autoosservazione· Per così dire, siamo ancora per strada... Distinguerei la beatitudine dalla ebetudine..:-)). E non credo esista alcun testo del buddhismo, per lo meno fra quelli classici in cui viene proposto qualcosa di simile, nella pratica e nello spirito. Tanto per fare un esempio nel buddhismo non esistono estasi mistiche, ma esiste invece la ricerca di "chi" prova l'estasi. E' vero che lo stato di massima autotrascendenza è Ananda, cioè beatitudine, ma è lo stadio ultimo, quello in cui non vi è né soggetto, né oggetto, non vi è più nè chi osserva nè chi è osservato. Il nirvana o la realizzazione non è estasi, ma la scomparsa dell'Io. Se non c'è nessuno, "chi" può provare "cosa"? 
Ma, a parte questi dettagli, condivido tutte le tue perplessità nel volere forzare Fonagy e "tutta" la sua metacognizione nella visione che ho proposto. Credo che, come tu stesso suggerisci, ci siano entrambi gli aspetti. E' un po' sul confine, in cui da una parte vi è la tradizione psicoanalitica e dall'altra gli sviluppi dove può portare la metacognizione (e dove in effetti ha portato, come autotrascendenza, non tanto nella meditazione, ma nella filosofia del mentale e della identità personale). Non a caso, a mio parere, la sua definizione di metacognizione è vaga. E questo è un po' soprendente: che costruisca un edificio su una definizione che non riesce a dare in modo univoco e rigoroso ed ho come la sensazione che di fatto non la padroneggi pienamente. Ed è pienamente comprensibile! Concordo che l'attenzione a queste polarità della metacognizione non sono prevalenti in psicoanalisi ( e non certo per un suo amore per la scientificità: in realtà la autotrascendenza comincia ad avere sviluppi in logica di un rigore che la psicoanalisi può solo sognare). Ma, mi verrebbe comunque da dire... va bene lo stesso! Il mio dicorso non è analitico, ma, scusami il gioco di parole, "metacognitivo" rispetto alla analisi, che dice di operare con determinati meccanismi, e che pertanto dà maggiormente peso ad alcuni aspetti, e che forse invece opera la sua efficacia con altri, ai quali paradossalmente da meno peso. 

12-12-99, From: Ileana Taddei ("Fonagy e Liotti") 
A proposito della mail di Andrea Angelozzi del 12-12-99, trovo vagamente (se si mi si passa l'espressione) "egodistonica" questa concezione così stilizzata di "metacognizione". Anni fa una mia giovane paziente, durante l'ultima seduta (di lì a poco sarebbe partita da Roma per trasferirsi in Africa) mi ringraziò dicendo: "Lei mi ha ridato i miei pensieri". Credo si faccia poca strada, in terapia, con la concezione omeoterma del maestro Dogen. "I contenuti che transitano", però, caro Andrea, resta un'espressione azzeccata. 

12-12-99, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti")   
On 12/12/99 Ileana Taddei wrote: 
>Trovo vagamente (se si mi si passa l'espressione) "egodistonica" questa 
>concezione così stilizzata di "metacognizione". 
>Anni fa una mia giovane paziente, durante l'ultima seduta (di lì a poco 
>sarebbe partita da Roma per trasferirsi in Africa) mi ringraziò dicendo: 
>"Lei mi ha ridato i miei pensieri". Credo si faccia poca strada, in 
>terapia, con la concezione omeoterma del maestro Dogen. 

"Egodistonica" rispetto a quale concezione o sensazione dell'ego? Quello dei pensieri, quello di chi cerca il testimone dei pensieri stessi, o quello di chi coglie il fluire di questo rincorrersi di piani all'interno di quello che chiamiamo "noi stessi"? Ti garantisco che l'attenzione all'osservatore è tutt'altro che "estraniante", anzi! Quanto alla concezione di Dozen non so quanto sia omeoterma. Per trovare il buddha che ha freddo, devo sentire il freddo e trovare chi lo sente, e così per il caldo. E non credo nemmeno che la questione del ruolo di tutto ciò in psicoterapia sia liquidabile con una battuta. In fondo molti degli usuali processi psicoterapeutici passano attraverso un osservare i propri pensieri (sia che avvenga nella propria mente, sia che avvenga - ed in genere è più efficace - comunicandoli ad altri), in una condizione che costringa a non perdersi in essi, come usualmente fa la mente, ma riporti sempre al qui ed ora, e reindirizzi la attenzione dall'oggetto al soggetto, dalla cosa pensata a chi la pensa. Da questo fra l'altro nasce quella disidentificazione che consente di non rimanere prigionieri dei propri pensieri, della propria visione del mondo - direbbe Jaspers - e si apre al cambiamento. Se esprimo quel pensiero, quella convinzione, quello stato d'animo, quella paura eposso pormi di fronte ad essa, allora non sono quella "cosa". Sono colui che la osserva e che può esaminarla, criticarla, modificarla. Peraltro non dico nulla di strano nemmeno per la concezione analitica: fu Sterba, se non erro, a porre per primo la distinzione fra Io sperimentante ed Io osservante in analisi, sottoineando il ruolo terapeutico di quest'ultimo. Alcune concezione fanno riferimento a questa capacità osservante come una "parte sana", in contrasto con la altra "malata". Questo pone la questione fra spazi al medesimo livello. La mia convinzione (per fortuna non solo mia, altrimenti mi sentirei troppo solo..) è che invece siano appunto "metalivelli". Credo che queste cose - dico giusto le prime che mi vengono in mente - abbiano molto a che fare con la psicoterapia. 

12-12-99, From: Luca Panseri ("Fonagy e Liotti")   
Grazie a Carere e Angelozzi per gli splendidi interventi su metacognizione e autotrascendenza. Nella sua ultima mail Angelozzi critica Rosembaum: 
> Non sono invece molto d'accordo con quanto dice Rosenbaum: 
> La qualità più importante per uno psicoterapeuta, dice Robert Rosenbaum, 
> è la capacità di essere felice di fronte a qualsiasi esperienza, 
> *indipendentemente dal suo contenuto*, che naturalmente può esser 
> carico di dolore e infelicità. 
> A parte che questa teoria del terapeuta felice l'ho gia sentita (non da un 
> buddhista ma da Lai), non mi sembra che questa cosa si possa identificare 
> con l'autotrascendenza ( o per lo meno non è così semplice). L'osservatore 
> nel buddhismo non ha per così dire "colore", e cercare l'osservatore (ed 
> eventualmente trovarlo) non implica una qualche felicità; anzi, se 
> l'osservatore ha ancora una qualche "qualità" vuol dire che questa deve 
> diventare ulteriormente oggetto per un ulteriore livello di trascendenza e 
> di autoosservazione..Per così dire, siamo ancora per strada.... 
> Distinguerei la beatitudine dalla ebetudine..:-)). 

Caro Andrea, ma noi siamo ancora per strada... Anch'io condivido una certa perplessità nell'uso della parola "felicità" che preferisco sostituire con "fiducia" o "fede" nell'accezione jaspersiana. 
In "Psicologia delle visioni del mondo" Jaspers scriveva: " Qual è il punto d'appoggio che emerge nei sovvertimenti che hanno luogo ai punti di svolta, cos'è la forza che continuamente sostiene e permette di procedere? Essa è la fede, che in questo senso non è un contenuto determinato, un principio, bensì una direzione, un incondizionato. La fede è l' abbracciante, non un fenomeno particolare, non una forza isolata né qualcosa di specificatamente religioso, bensì la forza suprema dello spirito. La fede non può mai essere paga, tranquilla; essa è sempre in un processo. 
Alla sua certezza è congiunta l'incertezza, al suo contenuto particolare è congiunta l'abolizione di questo contenuto ... questo è anzi il solo processo veramente vivo: fare esperienza di una figura finita come qualcosa di assoluto e insieme di finito". 
Certo non sarà il punto d'arrivo del processo di autotrascendenza ma per un terapeuta in cammino con il paziente credo che questa "fede" sia di fondamentale importanza. Grazie ancora per la ricchezza dei tuoi contributi. 

12-12-99, From: Ileana Taddei ("Fonagy e Liotti")   
A proposito dell'ultimo scambio tra Luca Panseri e Andrea Angelozzi del 12-12-99: 
"It is proposed that happiness be classified as a psychiatric disorder and be included in future editions of the major diagnostic manuals under the new name: "major affective disorder, pleasant type". In a review of the relevant literature it is shown that happiness is statistically abnormal, consists of a discrete cluster of symptoms, is associated with a range of cognitive abnormalities, and probably reflects the abnomal functioning of the central nervous system. One possible objection to this proposal remains - that happiness is not negatively valued. However, this objection is dismissed as scientific irrelevant". (Bentall, citato in: Harris et al., A proposal to classify happiness as psychiatric disorder, Br J Psychiatry, 1993, 539-542). 

Sospetto che la lettura di questo assai breve articolo risulti più illuminante del testo citato di Jaspers (che io ovviamente non conosco). 

Inoltre, nella mia mail del 12-12-99 avevo scritto: 
> >Trovo vagamente (se si mi si passa l'espressione) "egodistonica" questa 
> >concezione così stilizzata di "metacognizione". 
> >Anni fa una mia giovane paziente, durante l'ultima seduta (di lì a poco 
> >sarebbe partita da Roma per trasferirsi in Africa) mi ringraziò dicendo: 
> >"Lei mi ha ridato i miei pensieri". Credo si faccia poca strada, in 
> >terapia, con la concezione omeoterma del maestro Dogen. 

E Andrea Angelozzi il 12-12-99 aveva risposto: 
> "Egodistonica" rispetto a quale concezione o sensazione dell'ego? Quello 
> dei pensieri, quello di chi cerca il testimone dei pensieri stessi, o 
> quello di chi coglie il fluire di questo rincorrersi di piani all'interno 
> di quello che chiamiamo "noi stessi"? Ti garantisco che l'attenzione 
> all'osservatore è tutt'altro che "estraniante", anzi! 

Devo avere una soglia panica differente dalla tua. Leggendoti, intendo; provando a provare quello che dici, sono già bella che depersonalizzata. 

> Quanto alla concezione di Dozen non so quanto sia omeoterma. Per trovare 
> il buddha che ha freddo, devo sentire il freddo e trovare chi lo sente, e così  per il caldo. 

Sentirlo, non "esserlo". 

> E non credo nemmeno che la questione del ruolo di tutto ciò in psicoterapia 
> sia liquidabile con una battuta. 

Neanche io. 

> In fondo molti degli usuali processi 
> psicoterapeutici passano attraverso un osservare i propri pensieri (sia che 
> avvenga nella propria mente, sia che avvenga - ed in genere è più efficace 
> - comunicandoli ad altri), in una condizione che costringa a non perdersi 
> in essi, come usualmente fa la mente, ma riporti sempre al qui ed ora, e 
> reindirizzi la attenzione dall'oggetto al soggetto, dalla cosa pensata a 
> chi la pensa. Da questo fra l'altro nasce quella disidentificazione che 
> consente di non rimanere prigionieri dei propri pensieri, della propria 
> visione del mondo - direbbe Jaspers - e si apre al cambiamento. Se espri- 
> mo quel pensiero, quella convinzione, quello stato d'animo, quella paura e 
> posso pormi di fronte ad essa, allora non sono quella "cosa". Sono colui 
> che la osserva e che può esaminarla, criticarla, modificarla. Peraltro non 
> dico nulla di strano nemmeno per la concezione analitica: fu Sterba, se 
> non erro, a porre per primo la distinzione fra Io sperimentante ed Io 
> osservante in analisi, sottolineando il ruolo terapeutico di quest'ultimo. 
> Alcune concezione si riferiscono a questa capacità osservante come una 
> "parte sana", in contrasto con la altra "malata". Questo pone la questione 
> fra spazi al medesimo livello. La mia convinzione (per fortuna non solo 
> mia, altrimenti mi sentirei troppo solo..) è che invece siano appunto "metalivelli". 

Non so più cosa osserveresti tu. Contenenti? Colonnelli? A me sembra che sia i pensieri, sia colui/colei che pensa i pensieri "siano" dei contenuti. 

13-12-99, From: Paolo Migone ("Fonagy e Liotti")  
On 08/12/99 Tullio Carere wrote: 
>Nell'articolo "Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologia nei disturbi di 
>personalità" messo in rete da Paolo Migone, Peter Fonagy discute il 
>concetto di "metacognizione", o capacità riflessiva, in rapporto alle 
>vicissitudini dell'esperienza di attaccamento. (...)
>Non si può non concordare sulla centralità del lavoro metacognitivo nel 
>processo terapeutico. Ma che posto ha in questo contesto quell'altro ordine 
>di operazioni che puntano a produrre "esperienze emotive correttive"? E' 
>strano che Fonagy non ne parli, dal momento che proprio il modello 
>"dialettico" da lui proposto sembrerebbe richiederlo. (...) 
>Se poca attenzione riceve il livello "remaking" da Fonagy, come altrettanto 
>poca gliene aveva dedicata Gill (e Fonagy e Gill sono due analisti 
>sicuramente più "aperti" della media) una maggiore apertura troviamo nel 
>cognitivista Liotti, il cui articolo "Il nucleo del Disturbo Borderline di 
>Personalità (DBP): un'ipotesi integrativa
" è pubblicato da Paolo Migone 
>come contributo alla discussione sul lavoro di Fonagy. (...) 
>Devo dire, peraltro, che il riconoscimento dell'importanza essenziale per la 
>terapia di questo secondo livello non lo trovo tanto nel lavoro citato sopra, 
>quanto piuttosto nell'articolo "Psychoanalysis and cognitive-evolutionary 
>psychology: an attempt at integration
", che Liotti ha scritto assieme a Migone 
>(IJPA, 1998, 79, 6), in cui si dichiara esplicitamente che "l'importanza del 
>concetto di Alexander (et al., 1946) di 'esperienza emotiva correttiva' 
>dovrebbe essere rivalutata e apprezzata. In un certo senso, le esperienze 
>emotive correttive, all'interno e all'esterno della terapia, sono le esperienze 
>che hanno la maggiore probabilità di essere di aiuto alla persona nel 
>perseguimento dei propri piani adattivi innati". Il fatto che Migone e Liotti 
>abbiano scritto queste cose, e l'IJPA le abbia pubblicate, mi sembra un 
>segno molto incoraggiante per l'evoluzione della psicoterapia, per un altro 
>verso rallentata e frenata da tendenze corporative, regressive e parrocchiali ancora consistenti. 

Intervengo brevemente su questo commento di Tullio, e mi rincresce di non essere riuscito, a causa di pressanti impegni in questo periodo, a stare al passo con l'interessante dibattito tra Tullio, Andrea e altri scaturito dagli articoli di Fonagy e Liotti pubblicati recentemente nella mia area di Psychomedia
Tullio dice che Fonagy non presta sufficiente attenzione al concetto di "esperienza emozionale correttiva". A mio parere questo non è vero. Casomai è vero che in questo articolo Fonagy enfatizza altre questioni, dandone per scontate altre. Qualunque terapeuta non può sottovalutare l'importanza del fattore terapeutico dell'esperienza, anche inconscia e mai commentata nel corso della terapia. A riprova del fatto che anche Fonagy non la sottovaluta affatto, anzi la teorizza quasi come uno dei fattori più importanti se non quello determinante, vorrei ricordare il suo editoriale scritto sul n. 2/1999 dell'International Journal of Psychoanalysis (IJPA), dove fa affermazioni a mio parere radicali e nuove per certa psicoanalisi. Fonagy in quell'editoriale, intitolato "Memory and therapeutic action", dice che l'idea che il recupero dei ricordi infantili faccia parte dell'azione terapeutica della psicoanalisi è purtroppo ancora viva, mentre non ne abbiamo alcuna prova scientifica. Di fatto questa eredità, di un secolo fa, danneggia il nostro campo, che nel frattempo si è molto evoluto. Fonagy continua dicendo che le esperienze infantili sono importantissime, ma non possono essere ricordate in parole, anche perché avvennero prima che si formasse il linguaggio. Fanno parte di quel bagaglio di ricordi privi di contenuto (memoria procedurale e non dichiarativa o esplicita, il "come" del comportamento e non il "cosa", ecc.), che sono alla base del comportamento, il quale viene modificato in terapia con eventi altrettanto non verbalizzati (esperienze che potremmo chiamare correttive), quelle che Fonagy chiama "modi di esperire l'altro", rifacendosi naturalmente, in modo esplicito, al concetto di "essere con l'altro" del gruppo di Boston (Daniel Stern e coll.), esposto sempre sull'Intern. Journal qualche numero prima, nel 1998 (anche questo articolo è scaricabile dal sito http://ijpa.org/archives1.htm). 
Potrei continuare a descrivere le idee di Fonagy e le loro importanti implicazioni teoriche e pratiche, ma potete ben immaginarle. Voglio però sottolineare che Fonagy neanche cita Alexander, neppure quando, a pag. 219, sembra che citi una frase di Alexander del 1930 (da me e Liotti opportunamente citata, per una questione di debito storico, a pag. 1081 del nostro articolo citato da Tullio), quando dice che se il miglioramento (sintomatologico, comportamentale) è associato al recupero di nuovi ricordi, ciò significa che il miglioramento è già avvenuto prima... L'affermazione di Fonagy inizia in un modo che sembra coraggioso: "Here I would claim that...", quando però Alexander disse le stesse cose 68 anni prima. Inutile dire inoltre (e qui mi rivolgo ad Andrea e agli altri che conoscono meglio la filosofia e il pensiero non psicoanalitico) che, a proposito della "scoperta" della importanza dell'"essere con l'altro", nessuna menzione vene fatta alla tradizione antropofenomenologica, la quale, mi sembra, ben ha esplorato questo tipo di esperienza, di "being with" e "being there" ecc. Si possono muovere tante accuse ai fenomenologi, ma non quella di voler interpretare l'inconscio dei pazienti. Quando uscì quell'editoriale di Fonagy volevo scrivere una lettera al direttore per segnalare queste cose, ma non ebbi il tempo [questa lettera al direttore è poi stata scritta, e pubblicata anche su Internet, con una risposta di Fonagy, al sito http://ijpa.org/letter3apr00.htm]. (riguardo al concetto di metacognizione, altre cose mi piacerebbe discutere, ad esempio la mia impressione che non vi sia niente di nuovo sotto il sole - si pensi al concetto stesso di insight, di "Io osservante" di Sterba del 1934, opportunamente citato da Andrea, della interiorizzazione della funzione analitica, ecc. - ma ora non c'è tempo). 

P.S.: riporto qui la citazione di Alexander, contenuta a pag. 20 del suo noto libro del 1946, dove si riferisce ad un suo lavoro del 1930: 
"The belief that the recovery of memory is, in itself, one of the most important therapeutic factors, is still held by many psychoanalysts and in a sense can be considered to be a residue of the period of cathartic hypnosis. The persistent emphasis upon intellectual reconstructions of memory gaps can possibly be traced back to the relatively short period of waking suggestion; but it was the still greater emphasis during the free association phase on the intellectual understanding of the past that made psychoanalytic treatment almost synonymous with genetic research. As a result, the filling in of memory gaps became crystallized as the therapeutic goal of psychoanalysis. This exaggerated emphasis has long hampered both the understanding of why patients remember repressed events and the correct evaluation of their therapeutic significance. It was not until 1930 (Alexander, 1930) that the recovery of memories was demonstrated to be not the cause of therapeutic progress but its result, and that recollection of repressed childhood memories occurs, as a rule, only after the same type of emotional constellation has been experienced and mastered in the transference situation" (Alexander et al., 1946, p. 20; italics in the original text).  

Bibliografia 
Alexander F. (1930). Zur Genese des Kastrationskomplexes. Internationale Zeitschrift fur Psychoanalyse, 1930, XVI Band (Engl. transl.: Concerning the genesis of the castration complex. Psychoanalytic Review, 1935, XXII, 1).  
Alexander F., French T.M. et al. (1946). Psychoanalytic Therapy: Principles and Applications. New York: Ronald Press (trad. it. dei capitoli 2, 4, e 17: La esperienza emozionale correttiva. Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 85-101). 
(il classico lavoro del 1946 di Alexander sulla "esperienza emozionale correttiva" è pubblicato sulla mia area di Psychomedia. Come discussione delle idee di Alexander è pubblicata la lucida e durissima critica di Eissler del 1950, che rimane tuttora un esempio dei più alti livelli di sofisticazione teorica della tradizione classica nel puntualizzare determinati aspetti della specificità del discorso psicoanalitico). 

13-12-99, From: Giovanni Ruggiero ("Fonagy e Liotti, ovvero metacognizione ed appraisal emotivo")   
Cari listers di PM-PT, ho trovato interessante il dibattito sulla metacognizione. Aggiungo il mio modesto contributo. In primo luogo, il dibattito sullo psicoterapeuta felice e/o ebete e sulla metacognizione. Mi viene in mente una affermazione di Cristiano Castelfranchi, che ho da poco ascoltato a Milano. Parlando della metacognizione, ha accennato a qualcosa della cosiddetta "metacognizione sana", che dovrebbe essere qualcosa che assomigli alla consapevolezza da parte del soggetto di poter far fronte/sopportare l'esperienza della maggior parte degli stati e delle rappresentazioni mentali future e conseguenti alle decisioni e delle azioni che egli sta intraprendendo hic et nunc. In altri termini, sarebbe un superamento della credenza-scopo "per stare bene, devo mantenere il totale controllo di tutti i miei stati mentali presenti e soprattutto futuri, in quanto prodotti da quelli presenti". Naturalmente, questa metacognizione disfunzionale è tagliata bene soprattutto per i disturbi d'ansia. In questa area, poi, si possono individuare metacognizioni particolari che si adattano a disturbi particolari. Salkovskis, ad esempio, individua nel concetto di responsabilità personale il perno attorno al quale ruotano le metacognizioni dei pazienti ossessivi. 
Detto questo, mi sembra importante la considerazione di Angelozzi a proposito del lavoro psicoterapeutico: 
>Rimane un problema non indifferente: se la metacognizione è più orientata 
>all'effettivo processo del pensare, mio e degli altri, e, solo in sede 
>secondaria, al contenuto dei sottostanti pensieri, di cui coglie più il 
>fluire che non l'oggetto specifico, allora la psicoterapia non è nè una 
>analisi dei contenuti, nè quella della relazione, ma è un costante gioco 
>duale in cui il terapeuta costituisce il modello dell'osservare il pensiero, 
>un modello prima esterno e poi fatto proprio dal paziente. Dalla 
>metacognizione esterna a quella interna (non avviene così per Fonagy con il 
>bambino?). Ed in modo del tutto indipendente dai contenuti che transitano. 
>L'interpretazione allora non interpreta nulla, ma è solo un costante 
>richiamare alla osservazione di sè, qui ed ora, alla stessa stregua del 
>bastone del maestro zen, del koan o dell gambe che dolgono. 
>Come diceva maestro Dogen: "Fa freddo? Sii un buddha freddo!; Fa caldo? 
>Sii un buddha caldo". I contenuti variano, ma quello che devi trovare è la 
>consapevolezza del tuo essere consapevole. 

Sono pienamente d'accordo che la psicoterapia è ANCHE gioco duale in cui il psicoterapeuta (ricito Angelozzi) "costituisce il modello dell'osservare il pensiero, un modello prima esterno e poi fatto proprio dal paziente". Tuttavia, precedendo la sicura (e forte) obiezione di Cavagna "può essere la psicoterapia solo problem solving (in questo caso, problem solving sul piano delle metacognizioni)?" mi chiedo se non sia il caso di introdurre, per una più completa comprensione del lavoro psicoterapeutico, il concetto di appraisal emotivo accanto a quello di metacognizione. 
Come è noto, da tempo le emozioni sono di nuovo sotto i riflettori della ricerca e della riflessione psicologica. Sia in recenti papers e testi di Power e Dalgleish (1997), sia ancora da Castefranchi e Miceli in Italia, ho sentito qualcosa di interessante sul cosiddetto "appraisal emotivo". Esso seguirebbe due possbili strade alternative. La prima, più connessa alle funzioni cognitive superiori, confermerebbe in qualche modo la vecchia teoria cognitivistica beckiana, ovvero che le cognizioni "producono" le emozioni. La seconda via sarebbe, invece, più "irrazionale", e si formerebbe in seguito a meri algoritmi associativi. Caso tipico: la fobia semplice. 
Tutta questa roba mi è sembrata una rinnovata versione del vecchio dibattito tra Lazarus e Zajonc. Gli scritti di Zajonc (1980; 1984; ma già Wundt, 1897; o, addirittura, Baruch Spinoza) erano infatti nati come reazione alla vulgata prevalente fino a quel momento nel campo della teoria cognitiva delle emozioni. Questa vulgata, espressa da Lazarus (1991), definiva le emozioni come segnali valutativi dello stato del sistema "Io" in rapporto all'ottenimento dei suoi scopi (goals). Naturalmente, questa è una semplificazione. Lazarus era cosciente delle componenti sensoriali e motorie delle emozioni. Tuttavia, la sua definizione sottolineava il carattere valutativo e, in qualche modo, razionale delle emozioni. Per la precisione, Lazarus sottolineava il carattere razionale-cognitivo della fase iniziale della emozione, o "appraisal", cioè il riconoscimento dell'evento rilevante in rapporto al raggiungimento del goal. 
A questa teoria Zajonc portava due obiezioni, la prima di tipo fenomenologico, e l'altra di tipo cognitivo. L'obiezione fenomenologica diceva che, quale che sia la natura più o meno ragionevolmente fondata di qualunque appraisal emotivo, la qualità del singolo appraisal emotivo rimane una esperienza mentale immediata ed in qualche modo irriducibile a qualunque forma di pensiero complesso e non associativo. L'appraisal non è valutato, ma sentito, è precisamente un "sentire", un feeling mentale-corporeo. La seconda obiezione nasceva da questa analisi fenomenologica, nonché da alcune interessanti osservazioni sperimentali (in parte discutibili, però), e diceva che l'appraisal emotivo, oltre a non avere i caratteri fenomenologici "freddi" del pensiero razionale, non ne aveva nemmeno i caratteri specifici cognitivi: si trattava, cioè, effettivamente di una valutazione del tutto infondata -almeno in termini logico razionali- e che nasceva da associazioni mentali semplici ed apprese in esperienze precedenti analoghe. Si trattava, quindi, di un fenomeno di tipo associativo "primitivo". 
Personalmente penso che le due vie dell'appraisal emotivo siano due astrazioni polari, tra le quali giace la realtà. L'appraisal emotivo è sì una "cognizione", una valutazione ipotetica della realtà. Ma il fatto che sia espressa in termini non-proposizionali ne modifica radicalmente la natura rispetto alle cognizioni proposizionali. Il soggetto riceve solo messaggi "estensionali" dalle emozioni, e non "intensionali". In altri termini, l'emozione "paura" ci dice solo che esistono dei segni di un pericolo (informazione estensionale), ma non ci dice nulla riguardo la natura particolare della minaccia in arrivo (informazione intensionale). 
Tornando, al lavoro psicoterapeutico, vorrei dire due cose. La prima, è che è vero che in qualche modo il terapeuta deve mostrare al paziente, in un gioco duale, le "metacognizoni sane". Ma, aggiungo, deve soprattutto fargliele sentire! Cioè, riuscire (e qui si vede la megalomania dell'operare psicoterapeutico!) ad attaccare un apprasial emotivo positivo alle "metacognizoni sane". Vogliamo dire: una felicità? E diciamolo pure! Io credo che questo Rosenbaum citato da Carere non sia uno stupido. E' evidente che non intendeva rendere ebeti i pazienti. 
In questo senso, quindi, in parte ha ragione Cavagna quando dice, beffardamente: "Ma può la psicoterapia essere solo problem solving?". In altre parole, come riesce lo psicoterapeuta a convincere emozionalmente il paziente che certe metacognizoni sono "sane" ed altre no? Come funziona il gioco duale? Quali sono le regole tacite e "sentite" di questo gioco? Forse qui entra in campo allora la relazione, ovvero, se si preferisce, il transfert del paziente sul terapeuta e viceversa. 
In termini cognitivi: quali sono gli appraisal cognitivi immediati e "sentiti" che fanno di un determinato psicoterapeuta quello giusto e convincente verso un certo paziente? Quali sono i "criteri di autorevolezza" di un paziente in terapia (Sassaroli, 1999)? 
Tuttavia, anche verso Cavagna ho le mie obiezioni. Quel che convince di meno della psicoanalisi è la parte, diciamo così, più "protocollare" (nel senso proprio carnapiano). Insomma, è vero che certi appraisal emotivi sono inspiegabili (vogliamo dire inconsci, tanto per capirci?). Tuttavia, siamo sicuri che la psicoanalisi abbia trovato l'algoritmo omniesplicativo inconscio di tutti questi appraisal? Parliamoci chiaro: questo algoritmo proposto dalla psicoanalisi non è altro che la metapsicologia, la vecchia "strega" inaffidabile. Ancora Kernberg, in "Le 5 principali teorie della personalità" di pochi anni fa afferma che egli preferisce il concetto di istinto a quello di emozione. A mio parere, invece, è proprio lo studio delle emozioni, appaiato a quello della metacognizione, che può portare ad una buona scienza sperimentale della psicoterapia senza etichette. 
Da altri luoghi della psicoanalisi ci arriva, invece, un sapere clinico-pratico, procedurale nella sua essenza, di certo migliore, quello del terapeuta-contenitore di Bion-Winnicot, o quello kohutiano della seconda analisi del signor Z. Questo, però, mi pare un sapere sicuramente vero, anzi verissimo, ma artigianale. E questo lo dico davvero con tutto il rispetto: poiché, in verità, in altre parrocchie non si è andati ancora molto in là. 
Sperando di non aver annoiato alcuno di voi, vostro Giovanni Ruggiero 

13-12-99, From: Ileana Taddei ("Fonagy e Liotti, ovvero metacognizione ed appraisal emotivo")  
Due domande a Giovanni Ruggiero: 
- un anoressico è assimilabile a un fobico (via irrazionale, algoritmo associativo); 
- per un anoressico l'emozione "paura" (supponiamo relativa all'ingestione di cibo) dice o no qualcosa "riguardo alla natura della minaccia in arrivo"? Grazie. 

15-12-99, From: Giovanni Ruggiero ("Fonagy e Liotti, ovvero metacognizione ed appraisal emotivo")   
Cara Ileana, è difficilissimo parlare della quota di cognizione presente nelle emozioni. A mio parere é vero che probabilmente che esistono due vie diverse di generazione delle emozioni, una più "ragionevole" e l'altra più "primitiva". Ma queste vie sono diverse in una maniera più sottile di quella suggerita da Power e Dalgleish. Io preferirei dire che esistono due modi diversi di selezione e di gestione delle emozioni. Probabilmente, Zajonc è nel vero quando dice che gli appraisal emotivi sono sempre degli stati associativi semplici, dei marcatori sensorio-motori associati agli stati mentali (Damasio, 1994; Damasio e Damasio, 1996). Ciò che cambia, è la capacità del soggetto di gestire - con calma - l'onda emotiva immediata, di sospendere il giudizio per un attimo brevissimo e di effettuare una valutazione rapida ed intuitiva (quella che Lazarus chiama "secondary appraisal"), ma non irrazionale. Intuitiva, in quanto, nel pensiero logico-gerarchico, si può "intuire", cioè intravedere analogicamente i nodi implicazionali principali del ragionamento, e decidere per la soluzione più conveniente. Decidere per la soluzione più conveniente significa scegliere per il matching più conveniente tra interpretazione cognitiva scaturita dalla valutazione logico-gerachica ed appraisal secondario ad essa associato. 
Ma gli appraisal emotivi di ogni singola valutazione cognitiva complessa (sia pure intuitiva) rimangono di tipo associativo, o "primitivo". In quel preciso momento, gli appraisal associativi semplici che si presentano alla mente del soggetto non sono più uno soltanto, ma molteplici. 

Tornando alle tue domande: 
>- un anoressico è assimilabile a un fobico (via irrazionale, algoritmo associativo); 
>- per un anoressico l'emozione "paura" (supponiamo relativa all'ingestione 
>di cibo) dice o no qualcosa "riguardo alla natura della minaccia in arrivo"?
 

La mia risposta è che l'emozione "paura" in entrambi i casi esprime solo sé stessa, cioè paura di un qualcosa percepito come pericolo. Il soggetto poi associa questa paura con un determinato pericolo. Ciò che dà apparentemente alle due paure contenti cognitivi diversi è precisamente l'associazione con una rappresentazione mentale ad elevato contenuto cognitivo, come la rappresentazione di "ingrassare" nell'anoressia. 
Aggiungo che è la funzione dell'"inibizione cognitiva" che permette alle emozioni di essere apparentemente ragionevoli e non meramente associative. Per inibizione cognitiva (Power e Dalgleish, ibidem), si intende la capacità del soggetto di bloccare la singola emozione alla fase dell'appraisal, senza passare allo stadio successivo (anche esso associativo) dell'azione. 
Soltanto in rari casi, l'appraisal associativo si presenta in maniera pura e non gestibile dal soggetto, come ad esempio nelle fobie semplici. In questo caso, l'associazione agisce in maniera inesorabile senza alcuna possibilità di blocco inibitorio cognitivo. 
 
19-12-99, From: Tullio Carere ("Fonagy e Liotti")  
On 15/12/99 Giovanni Ruggiero wrote: 
>... gli appraisal emotivi sono sempre degli stati associativi 
>semplici, dei marcatori sensorio-motori associati agli stati mentali 
>(Damasio, 1994; Damasio e Damasio, 1996). Ciò che cambia, è la capacità 
>del soggetto di gestire - con calma - l'onda emotiva immediata, di sospendere 
>il giudizio per un attimo brevissimo e di effettuare una valutazione rapida ed 
>intuitiva (quella che Lazarus chiama "secondary appraisal"), ma non 
>irrazionale. (...)
>Aggiungo che è la funzione dell'"inibizione cognitiva" che permette alle 
>emozioni di essere apparentemente ragionevoli e non meramente associative. 
>Per inibizione cognitiva (Power e Dalgleish, ibidem), si intende la capacità 
>del soggetto di bloccare la singola emozione alla fase dell'appraisal, senza 
>passare allo stadio successivo (anche esso associativo) dell'azione. 

Caro Giovanni, ho trovato stimolanti le tue riflessioni sulla metacognizione. La "capacità del soggetto di sospendere il giudizio per un attimo brevissimo" e l'"inibizione cognitiva" sono, mi sembra, la stessa cosa. In questa capacità è la chiave della metacognizione. 
E' vero, come ha rilevato Angelozzi, che il concetto di metacognizione non è sviluppato in modo molto chiaro da Fonagy. Vediamo se riusciamo a fare un po' meglio noi. Se ha senso distinguere una metacognizione dalla semplice cognizione, è perché questa è implicita o automatica, quanto quella sospende l'automatismo per osservare, capire meglio, riflettere. Sospendere il riflesso automatico per riflettere: questa può essere la formula della metacognizione, se per "riflessione" intendiamo la funzione della consapevolezza nel senso più vasto, in cui l'attenzione è diretta all'oggetto per conoscerlo nella sua "essenza", come nell'epoché fenomenologica, o all'indietro al soggetto per un'intenzione di autoconsapevolezza, come nelle tecniche meditative orientali, o fluttua liberamente, "ugualmente sospesa" tra soggetto e oggetto, come nel modo utilizzato dalla psicoanalisi. E' un elenco rapido puramente indicativo, perché i tre modi che ho citato a titolo di esempio sono tutti e tre altamente problematici. Ma questo viene dopo. All'inizio o alla radice l'atto fondativo della metacognizione è sempre lo stesso: la sospensione dell'attenzione (sospensione del giudizio, dell'identificazione, dell'azione, delle motivazioni ordinarie...). 
Tu poni due problemi: la distinzione tra una metacognizione sana e una patologica, e il rapporto con le emozioni. Le due questioni sono collegate. Prima di tutto si può riflettere "troppo", cioè riflettere quando sarebbe meglio non riflettere, e agire invece istintivamente, affidandosi cioè a qualche automatismo. E' stata fatta per esempio una ricerca sui giocatori di bridge: si è visto che in certe fasi del gioco ottengono risultati migliori riflettendo, in altre giocando istintivamente. Si potrebbe parlare di "meta-metacognizione", per indicare un tipo di pensiero sovraordinato, che decide appunto quando è meglio riflettere, e quando è meglio non riflettere. 
La riflessione comporta poi ovviamente una presa di distanza dalle emozioni: ma questa distanza può essere eccessiva o impropria o eccessivamente prolungata. Può comportare anestesia (relativamente alle emozioni) o paralisi (rispetto all'azione). Il disturbo può essere quantitativo, come visto sopra, o qualitativo. Anche qui il rimedio sta, a mio parere, in una meta-metacognizione, che permetta di valutare quando è meglio riflettere, e quando conviene invece smettere di riflettere per agire, o per immergersi in qualche esperienza emotiva. L'inibizione eccessiva dell'azione (e dell'interazione), per esempio, è un disturbo da cui è affetta quella pratica comunemente indicata come "psicoanalisi classica". E' un'inibizione che non ha giustificazione terapeutica, se si considera che in primo luogo una quantità appropriata di azione o interazione favorisce la stessa consapevolezza (o l'"insight"), come è stato ripetutamente dimostrato da diversi autori (Wachtel e Hoffman, per esempio). In secondo luogo solo da nuove interazioni possono derivare quelle esperienze di cui una persona che ne è stata deprivata in precedenza ha ovviamente bisogno. Non è facile capire come potrebbe altrimenti correggere i disturbi che sono derivati da quella mancanza. 

21-12-99, From: Ileana Taddei ("Fonagy e Liotti") 
On 15/12/99 Giovanni Ruggiero wrote: 
> Cara Ileana, è difficilissimo parlare della quota di cognizione presente nelle emozioni. 
> A mio parere é vero che probabilmente che esistono due vie diverse di 
> generazione delle emozioni, una più "ragionevole" e l'altra più "primitiva". 
> Ma queste vie sono diverse in una maniera più sottile di quella suggerita da Power e Dalgleish. 

Per vie diverse intendi diverse strutture cerebrali, o diverse sequenze di 
attivazione di strutture cerebrali, o diverse modalità di "interferire" con 
una o più strutture? Qual è la via suggerita da Power e Dalgleish? 

> Io preferirei dire che esistono due modi diversi di 
> selezione e di gestione delle emozioni. Probabilmente, Zajonc è nel vero 
> quando dice che gli appraisal emotivi sono sempre degli stati associativi 
> semplici, dei marcatori sensorio-motori associati agli stati mentali 
> (Damasio, 1994; Damasio e Damasio, 1996). 

Se ricordo bene, nella versione di Damasio la "fonte" sensorio-motoria di un'emozione non è tanto un "marcatore", quanto una sorta di linguaggio privilegiato che consente input fulminei e in gran parte inconsci, che possono portare alla scelta di un percorso di risposta più rapido e più efficiente di quello "razionale". 

> Ciò che cambia, è la capacità del 
> soggetto di gestire -con calma- l'onda emotiva immediata, di sospendere il 
> giudizio per un attimo brevissimo e di effettuare una valutazione rapida ed 
> intuitiva (quella che Lazarus chiama "secondary appraisal"), ma non 
> irrazionale. Intuitiva, in quanto, nel pensiero logico-gerarchico, si può 
> "intuire", cioè intravedere analogicamente i nodi implicazionali principali 
> del ragionamento, e decidere per la soluzione più conveniente. 

"Intravedere analogicamente i nodi implicazionali principali del ragionamento" mi sembra una funzione molto più "a valle" e pertinente ad un livello non omologo a ciò che tu, o Lazarus, definite "secondary appraisal". Tanto più se: 
> Decidere per la soluzione più conveniente significa scegliere per il matching più 
> conveniente tra interpretazione cognitiva scaturita dalla valutazione 
> logico-gerachica ed appraisal secondario ad essa associato. 
> Ma gli appraisal emotivi di ogni singola valutazione cognitiva complessa 
> (sia pure intuitiva) rimangono di tipo associativo, o "primitivo". In quel 
> preciso momento, gli appraisal associativi semplici che si presentano alla 
> mente del soggetto non sono più uno soltanto, ma molteplici. 

Intendi: molteplici e in accordo tra loro, o molteplici e potenzialmente dissonanti? 

> Tornando alle tue domande: 
> >- un anoressico è assimilabile a un fobico (via irrazionale, algoritmo associativo); 
> >- per un anoressico l'emozione "paura" (supponiamo relativa all'ingestione 
> >di cibo) dice o no qualcosa "riguardo alla natura della minaccia in arrivo"? 
> la mia risposta è che l'emozione "paura" in entrambi i casi esprime solo sé 
> stessa, cioè paura di un qualcosa percepitio come pericolo. Il soggetto poi 
> associa questa paura con un determinato pericolo. 

É una risposta alla Damasio? Se sì, siamo certi che: 
> Ciò che dà apprentemente 
> alle due paure contenti cognitivi diversi è precisamente l'associazione con 
> una rappresentazione mentale ad elevato contenuto cognitivo, come la 
> rappresentazione di "ingrassare" nell'anoressia.   ? 

La rappresentazione di ingrassare non può essere meno forte di altri 
prodotti associativi correlati a: ingerire, accettare, assimilare, etc, 
molto più primitivi? Anche in questi casi il potenziale associativo può 
essere molto forte, non altrettanto quello cognitivo in senso stretto, 
specie in assenza di terapia. 

> Aggiungo che è la funzione dell'"inibizione cognitiva" che permette alle 
> emozioni di essere apparentemente ragionevoli e non meramente associative. 

Che le emozioni siano comunque "ragionevoli" - nel senso che abbiano le loro buone, o cattive, ragioni - non vedo perché possa essere spiegato ricorrendo solo a un concetto di inibizione cognitiva. Il telencefalo è probabilmente un filtro molto meno rustico nei suoi interventi sulle emozioni, e anch'esso può avere le sue buone, o cattive, ragioni. 

> Per inibizione cognitiva (Power e Dalgleish, ibidem), si intende la capacità 
> del soggetto di bloccare la singola emozione alla fase dell'appraisal, senza 
> passare allo stadio successivo (anche esso associativo) dell'azione. 

Tu lavori con dei robot, oppure molti dei tuoi pazienti sono cleptomani :-)? 
La vita psichica non si esaurisce mica nella decisione di rubare o meno un cosmetico in un supermercato. 

23-12-99, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti")   
Le riflessioni di Carere sono indubbiamente interessanti: 
> La "capacità del soggetto di sospendere il giudizio per un attimo brevissimo" 
> e l'"inibizione cognitiva" sono, mi sembra, la stessa cosa. In questa capacità 
> è la chiave della metacognizione. 

anche se, a mio parere, andrebbero completate. Il primo aspetto riguarda la sospensione del giudizio o una inibizione cognitiva. Queste, come mi sembra intendere Carere - e sono parzialmente d'accordo - riguardano un piano, ma non necessariamente quello "meta". 
--- Sto riflettendo su quanto scrive Carere --- Posso riflettere sul mio riflettere su quanto scrive Carere e osservare ad esempio la modalità con cui costruisco le mie argomentazioni, o le sensazioni che mi da il fatto di riflettere su quanto scrive --- In questo la riflessione su quanto scrive Carere, certo, subisce una specie di inibizione cognitiva e di sospensione del giudizio, e questo non mi sembra che avvenga per il "riflettere sul riflettere" in cui metto in moto meccanismi cognitivi, giudicanti ed emotivi. 
L'aspetto interessante è che, a sua volta, questo aspetto "meta", può aprire la strada ad un ulteriore "meta" rispetto ad esso. --- Non solo posso riflettere sul mio riflettere circa quanto scrive Carere, ma riflettere, a sua volta può essere preso ad oggetto da un ulteriore livello. Posso ad esempio interrogarmi su cosa significhi per me questo mio riflettere sulle mie modalità di ragionare intorno ai ragionamenti di Carere...--- 
Ancora una volta sembra che il giudizio e l'aspetto cognitivo si spostino, passando ad un ulteriore livello. Non so se tuttavia - ad essere rigorosi - l'aspetto di inibizione cognitiva del primo livello sia un passaggio obbligato. In fondo posso proprio riflettere sugli aspetti cognitivi che compio al primo livello ed osservarli nel loro svolgimento... Il loro essere soggetto è diverso dal momento in cui sono oggetto? Probabilmente si, ma in cosa? 
Quanti livelli di metacognizione esistono? Difficile dirlo...Vi è qualcosa di faticoso e di costoso in questa operazione, forse anche di "pericoloso". Il problema è che ciascun livello può operare con parametri e misure diversi dagli altri. ---- Posso essere contento del mio essere arrabbiato e ritenere che questa mia contentezza sia in fondo una cosa stupida...--- Tracciano diverse identità? Credo che dire che "siamo tutti quanti questi livelli, che aggreghiamo in una unità" sia solo una semplificazione, che non aggiunge molto. Così come credo che la distinzione è troppo soft per creare effettive identità. Forse è solo uno dei segni delle pluralità al nostro interno, che si rivelano in questa, come in altre modalità. 
La fatica avviene soprattutto se tentiamo di avere presenti i vari livelli contemporaneamente nel nostro riflettere, cosa che può avvenire - fra l'altro - solo creando un ulteriore livello "meta" che osservi l'interagire dei vari livelli. E' un po' forse come quando si installano una Virtual Machine sul computer, in cui all'interno di un sistema operativo NT facciamo girare un sistema operativo Linux o Win 95, per eseguire un programma che gira solo su questi ultimi sistemi ed il PC rallenta terribilmente "per la fatica"... Il pericolo, per noi umani, è la frammentazione e la perdita possibile (ma direi non scontata) degli automatismi spontanei del primo livello, quello "irriflesso". Nel misticismo questa perdita non è problematica: il processo viene portato alle estreme conseguenze perché - in maniera però del tutto intenzionale - ad ogni livello viene perso sempre di più l'aspetto cognitivo e valutativo, e rimane un puro osservare i vari aspetti, fra cui la spontaneità con cui opera il livello base. E' come se la non spontaneità degli altri livelli, non incidesse su quello originario. Una breve osservazione transitoria: sono due livelli del linguaggio, uno cui affidiamo il mondo implicito, l'altro cui affidiamo quello esplicito. Forse in questa distinzione che qualcuno ha anche tentato di descrivere e formalizzare vi sono molti segreti del gioco della metacognizione.
Il rapporto fra automatismo ed intenzionalità appare giocato fra più piani, in cui uno prende ad oggetto il precedente, ma non necessariamente lo modifica. Posso commuovermi guardando un film e posso osservare il fatto che sono commosso. La commozione rimane, così come la "parte" che, per niente commossa, osserva il mio commuovermi. Posso anche però osservare che sto guardando delle pure immagini su un telo o su uno schermo: questo può inibire la commozione, ma non forse l'automatismo che scopro in me per cui sono comunque catturato dalle immagini. 
La mia impressione è che questi vari aspetti in realtà non costituiscano l'essenza della metacognizione, ma suoi eventuali accessori, che possono essere indirizzati in un senso o in un altro. In fondo credo che la differenza più marcata fra gli usuali procedimenti terapeutici e la meditazione sia nella accentazione diversa data al processo metacognitivo: nelle psicoterapie ci si serve della metacognizione per approfondire le caratteristiche dell'oggetto di cui ci si occupa; nella meditazione invece per approfondire le caratteristiche del soggetto che osserva l'oggetto. E' vero che in psicoterapia questo oggetto siamo noi, per cui prendiamo per oggetto la nostra soggettività, ma nella meditazione è come se comunque vi fosse la costante sfasatura dei piani in un gioco in cui qualunque livello di soggettività diventa a sua volta oggetto di osservazione "metacognitiva". Il primo è una dinamica "finita" la seconda apparentemente "infinita". 
La mia sensazione è che, alla fine, la radice effettiva della "metacognizione" sia poi appunto la "autotrascendenza", cioè il prendere ad oggetto il nostro pensare, anche se questo è più un processo intenzionale che una effettiva descrizione di situazioni, proprio per il fatto che ciò che è soggetto, appena prende forma diventa oggetto, e così via. Ancora una volta ci imbattiamo nel gioco dell'implicito e dell'esplicito, in cui la intenzione diventa il motore del disvelamento. 
Circa il problema della metacognizione sana e di quella patologica Carere scrive: 
>Anche qui il rimedio sta, a 
>mio parere, in una meta-metacognizione, che permetta di valutare quando è 
>meglio riflettere, e quando conviene invece smettere di riflettere per 
>agire, o per immergersi in qualche esperienza emotiva. 

Sono pienamente d'accordo: il problema non è la metacognizione, ma perdere o fermare la capacità di compiere questa operazione. Per esempio un ossessivo può osservare in maniera patologica ogni evento del suo esistere, ma difficilmente farà l'operazione di osservare quanto è rigido e compulsivo il proprio osservare. E' un po' come la questione della coscienza di malattia: talvolta affermiamo che alcuni pazienti hanno coscienza di malattia perchè chiedono aiuto, senza però considerare che tante modalità del loro chiedere aiuto sono gravemente patologiche, senza che se ne rendano conto... 
Mi scuso se queste riflessioni sono un po' contorte· Mi illudo di pensare che ciò sia dovuto alla complessità della questione, fino ad ora in fondo non molto esplorata. Credo comnque che non siano discorsi "bizantini": in fondo ciascuno di noi può metterli alla prova su sè stesso e riflettere su quanto siano legati ai tanti aspetti del lavoro che facciamo con i pazienti. 

27-12-99, From: Tullio Carere ("Fonagy e Liotti")  
On 23/12/1999 Andrea Angelozzi wrote: 
> In fondo credo che la differenza più marcata fra gli usuali procedimenti terapeutici e la 
>meditazione sia nella accentazione diversa data al processo metacognitivo: 
>nelle psicoterapie ci si serve della metacognizione per approfondire le 
>caratteristiche dell'oggetto di cui ci si occupa; nella meditazione invece 
>per approfondire le caratteristiche del soggetto che osserva l'oggetto. (...)

>La mia sensazione è che, alla fine, la radice effettiva della 
>"metacognizione" sia poi appunto la "autotrascendenza", cioè il prendere ad 
>oggetto il nostro pensare 

La differenza su cui Angelozzi giustamente richiama l'attenzione è a mio parere costitutiva della "ricerca di sé". Anche se l'interesse per l'oggetto è prevalente nella "psicoterapia", e quello per il soggetto lo è nella "meditazione", una giusta misura di entrambi si dovrebbe trovare nella Terapia (con la maiuscola, come ha suggerito Sforza nello SPI-panel). "Terapia" era la filosofia antica, in cui, come in Platone, conoscenza di sé e cura di sé erano inscindibili. Può essere utile ricordare in che modo la tematica che oggi chiamiamo "metocognitiva" è stata affrontata dagli antichi. 
Il monito delfico "conosci te stesso" era stato interpretato inizialmente, in periodo presocratico, nel senso di un'ammonizione a prendere atto della propria finitezza: "conosci te stesso come mortale e vivi in modo conforme a questa consapevolezza" (v. Beierwaltes, commentario a Plotino V 3). Un 
primo livello di "autotrascendenza" consisteva allora, e consiste tuttora, nel superamento dell'illusione di immortalità (di onnipotenza, diremmo oggi). Conosci i tuoi limiti, ammoniva il dio in questa prima parte del messaggio: conosci i tuoi bisogni, i tuoi desideri, le inevitabili contraddizioni e frustrazioni che ne derivano, le menzogne e le contraffazioni che metti in atto per sottrarti al dolore connesso alla finitezza. La maggior parte di ciò che oggi si chiama psicoterapia o psicoanalisi è la ripresa e lo sviluppo di questa indicazione. 
Ma già con Socrate, e più esplicitamente con Platone (nell'Alcibiade Maggiore), a questa prima lettura se ne aggiunse un'altra. Una volta che hai preso atto della tua finitezza, non fermarti qui, dice il secondo messaggio: procedi oltre, e cerca la tua vera essenza. Una volta tolta di mezzo la "cattiva infinitezza", scopri la vera infinitezza del tuo nucleo essenziale, in cui sei simile al dio. Questo è il secondo livello di autotrascendenza: dopo aver superato l'identificazione, carica di hybris, con l'onnipotenza infantile, devi superare anche quella, carica di disperazione, con i limiti della tua corporeità e del tuo mondo. A questo secondo livello allude Bion (in Attenzione e Interpretazione) quando dice che l'analista "deve centrare la propria attenzione su O, l'ignoto e l'inconoscibile", anzi deve diventarlo, deve lui stesso "diventare infinito grazie alla sospensione della memoria, del desiderio e della comprensione". 
Il primo livello di autotrascendenza corrisponde all'attenzione prevalente all'oggetto ("psicoterapia", vertice K del campo della Terapia), il secondo all'attenzione prevalente al soggetto ("meditazione", vertice O). Una giusta dialettica tra questi due poli della ricerca di sé ("uncovering") mi sembra la sostanza del processo "metacognitivo". Con questa riflessione/meditazione auguro a tutti buon anno. 

3-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti")   
Con solo un millennio di ritardo, riprendo il discorso della metacognizione. Vorrei aggiungere un altro aspetto, che proprio nella sua particolarità e nel portare all'estremo lo sfondo di quanto accade, consente di sottolineare l'aspetto così peculiare del metalivello cognitivo, in cui si è consapevoli del fatto di pensare. Mi riferisco al sogno lucido. 
A tutti è probabilmente capitato di fare sogni in cui, ad un certo punto si è pienamente consapevoli del fatto di stare sognando. Questa situazione conduce a interessanti aspetti, che non si limitano al fatto di poter, a quel punto, indirizzare gli eventi del sogno nella maniera in cui si "decide consapevolmente". Dalla improvvisa consapevolezza di stare sognando, possono originare riflessioni sul sognare, sul significato ed il modo del risvegliarsi, sulle regole di coerenza interne proprie dei due mondi (quello della veglia e quello del sogno) di cui questa situazione è confine ed intreccio. Personalmente ricordo uno di questi sogni in cui discutevo della struttura interna del mondo onirico, mentre in sogno ero consapevole di sognare. Discutevo il rapporto fra le due condizioni e le situazioni di coerenza "logica" necessarie ad ognuno, sia pure possedendo strutture diverse. Ora, l'aspetto interessante è proprio che la metacognizione in questo caso riguarda aspetti cognitivi che si riferiscono a stati di coscienza diversi. Questo già avviene ordinariamente quando ad esempio al risveglio ricordo un sogno e sono consapevole di avere sognato. La metacognizione sembra raggiungere un estremo in cui i livelli non sono separati solo dalla dinamica soggetto-oggetto, ma dal loro appartenere a mondi diversi. Nel sogno lucido questo è ancora più estremo, perché la consapevolezza di stare sognando (cioè il nostro pensare "lucido" che prende ad oggetto il nostro sognare) è all'interno di una condizione in cui il mio pensare lucido è a sua volta il prodotto (l'oggetto quindi) di un sogno. Sogno di stare lucidamente osservando un sogno e, quando mi sveglio, lucidamente osservo come il sognare ha prodotto una mia lucida consapevolezza all'interno del sogno. Direi che qui gli aspetti metacognitivi raggiungono il loro estremo e si offrono, ancora più netti, ad uno studio di cosa significhi essere "meta" rispetto a se stessi. 
Una ultima riflessione. Questi passaggi metacognitivi, proprio nell'attraversare stati di coscienza diversi, si svincolano da tutto ciò cui usualmente colleghiamo la identità personale. La storia personale di lockiana memoria, i vincoli del corpo fisico, la stessa idea che abbiamo di noi, scompaiono attraverso i giochi dei passaggi fra stati di coscienza e di passaggi di livello cognitivo. Al fine rimane qualcosa, per cui sappiamo che vi è sempre un soggetto al metalivello superiore, che sentiamo che ha a che fare con "noi", anche se è difficile definire in cosa, se non per un sentirlo in qualche maniera a noi implicito. Buona notte. Vado a sognare (o a svegliarmi?) 

3-1-2000, From: Davide Cavagna ("Sognare lucido", era "Fonagy e Liotti")   
On 03/01/2000 Andrea Angelozzi wrote: 
>Mi riferisco al sogno lucido. A tutti è probabilmente capitato di fare sogni in 
>cui, ad un certo punto si è pienamente consapevoli del fatto di stare sognando. 

Pur avendo letto con interesse le precedenti mail sulla metacognizione, un tema sicuramente affascinante, ho atteso ad intervenire avendo l'impressione che fosse facile scivolare dal piano della clinica a quello della metafisica, errore che possiamo correggere grazie a un'attenzione fenomenologica. Perciò vorrei proporvi le mie osservazioni, a partire l'intervento di Angelozzi sul "sognare lucido" (espressione che ritengo più corretta della sua corrispondente sostanzializzazione) perché penso che possa rendere più accessibili una serie di fantasie teoriche che a mio avviso impediscono di vedere le cose stesse. 
Premessa: sottolineo il fatto che il sognare lucido risulti una esperienza più comune e meno bizzarra di quanto la sua denominazione sembri far credere; in effetti, l'ossimoro con cui lo definiamo rivela piuttosto una difficoltà di comprensione nostra, più che una sua qualità incomprensibile. Detto ciò, il sognare lucido, proprio per la paradossalità che ci comunica, permette di togliere di mezzo alcune credenze da psicologia ingenua che interferiscono proprio con la comprensione degli stati di coscienza. 
In primo luogo, il sognare lucido ci costringe a rifiutare l'assioma che lo stato di veglia coincida con lo stato di coscienza. Il sognare lucido ci presenta una interazione tra stati di coscienza solitamente separati, per cui impone di ripensare alla separazione tra questi stati non come una condizione naturale, ma semmai come una condizione funzionale a una organizzazione di pensiero evoluta. Questo aspetto toglie di mezzo la convinzione che lo stato di coscienza sia un processo-prodotto del tipo tutto-o-niente. Mi sorprende pertanto leggere, tra le righe, un ingenuità del tipo: 
>[nel sogno lucido] si è pienamente consapevoli del fatto di stare sognando 
in quanto una caratteristica del sognare lucido è proprio il fatto di presentare alterata la condizione di "pienezza" dell'esperienza mentale. In altre parole: per comprendere la fenomenologia del sogno lucido, occorre falsificare l'assioma che la consapevolezza rappresenta una condizione unitaria-continuata-coerente, che sottosta all'esperienza personale. E siamo pertanto a quello che la psicologia dinamica ha da ben più di un secolo mostrato: quello che chiamiamo mentale, psichico ecc. non si riduce e non è esaurito dagli stati fisiologici della coscienza, ma comprende un insieme più vasto di processi e prodotti contraddistinti dal maneggiamento e dall'organizzazione differenziata dei contenuti intenzionali. Possiamo cioè cominciare a differenziare stati di coscienza parziali e quindi paradossali, al limite inaccessibili; occorrerà poi pensare al continuum lungo il quale posizionarli, continuum che non può essere semplicemente quello "consapevolezza-coma". 
In secondo luogo, tale considerazione conduce a concludere che lo stato di coscienza cosiddetto "di veglia" non è affatto lo stato di coscienza più completo e compiuto. E' semmai la configurazione funzionale più adatta all'azione adattativa, ma ciò non significa che esso esaurisca o meglio sintetizzi le varie dimensioni processuali dell'attività psichica. Detto in altre parole: le funzioni sintetiche dell'Io certo rappresentano un prodotto altamente evoluto della psichicità, ma allo stesso tempo non esauriscono l'ambito dei processi attuabili dall'apparato psichico. Come corollario: abbiamo una serie di atti psichici (fantasticare, immaginare percettivamente, rappresentare illusionalmente ecc.) che eccedono le funzioni di giudizio ed esame dello stato di veglia. Tali atti psichici costituiscono modalità di azione adattativa pregressa o alternativa, che tuttavia l'organismo vivente mantiene tuttora a scopi economici. Ne deriva una inferenza: quello che noi chiamiamo "consapevolezza" è meglio definibile come il risultato interattivo di processi e funzioni psichiche differenziate, che si stratificano, combinano, delimitano reciprocamente ecc. (metaforicamente parlando) producendo una risultante percepita come "stato di coscienza". Questo permette di spiegare perché ne possiamo descrivere differenti dimensioni che rappresentano gli assi dinamici su cui si realizza ogni singolo stato di coscienza. 

>Sogno di stare lucidamente osservando un sogno e, quando mi sveglio, 
>lucidamente osservo come il sognare ha prodotto una mia lucida 
>consapevolezza all'interno del sogno. 

La descrizione di Angelozzi del sognare lucido mostra senz'altro come la mancata distinzione tra atti psichici e stati di coscienza rende con difficoltà l'esperienza a noi immediata del sognare lucido (altro che "pienezza"!). Questa descrizione ha però il vantaggio di mostrare come "sogno", "mi sveglio", "osservo", siano (ingenuamente parlando) stati discreti di coscienza che interagiscono con contenuti intenzionali altrettanto diversificati, quali "un sogno", "il sognare", "l'interno del sogno". Non c'è dunque un vincolo assoluto tra atto e contenuto, ma semmai sono possibili deroghe rispetto alle condizioni dell'organizzazione mentale di veglia. Potremmo divertirci a schematizzare questi processi, vedendo quali sono le differenti operazioni "contenitore-contenuto", magari per arrivare a definire ciascun singolo stato di coscienza come una combinazione di "pensieri" con "pensatori", o, per dirla ancora in altri modo, di particolari configurazioni mentali con particolari organi psichici. E arriviamo così alla cosiddetta metacognizione: 
>La metacognizione in questo caso 
>riguarda aspetti cognitivi che si riferiscono a stati di coscienza diversi. 

Affermazione senz'altro corretta, tranne per il fatto che quel "meta" finisce per trarre in inganno (vedi sotto). La cosiddetta metacognizione non è un processo ultrasintetico dell'Io, che rimanda alla fantasia di una "piramide idealista" che dalla semplice percezione accede a livelli "superiori" della coscienza. La metacognizione si risolve in uno dei particolari operatori che concorre alla costruzione di uno qualunque degli stati di coscienza. Se usiamo l'analogia di una riunione di lavoro, la metacognizione assomiglia piuttosto a un "segretario" che riferisce "l'ordine del giorno" e registra a testimonianza del futuro l'andamento della presente sessione di lavoro. Questo fa pensare forse che il segretario sia il direttore dei lavori? Io credo di no. Ma veniamo all'elemento a mio avviso più grave: 
>rimane qualcosa, per cui 
>sappiamo che vi è sempre un soggetto al metalivello superiore, che sentiamo 
>che ha a che fare con "noi", anche se è difficile definire in cosa, se non 
>per un sentirlo in qualche maniera a noi implicito. 

Già, e con ciò siamo punto e daccapo: questa è a mio avviso la fantasia di un "ente-mente" che domina la materia e che, grazie a particolari discipline, purificazioni, astrazioni ecc. diventa lo "spirito" di hegeliana memoria che risolve il reale, ovverosia il corpo, in una condizione superiore di 'ragione' sempiterna. Un 'Sé' in noi, un omuncolo interno che, per una sua speciale natura, incorruttibile e inalienabile, può essere raggiunto e reso "vero", cioè impersonato. Chissà perché mi viene da pensare alla dissociazione patologica dall'esperienza corporea. Una bella fantasia, non c'è che dire: peccato che il sognare lucido sia lì a dirci che anche la metacognizione può essere facilmente ingannata, e possa finire con il processare come reale-esterno proprio l'"interno del sogno". Insomma: che il sognare lucido sia il desiderio di uno scrivano che per una volta vuol decidere lui come debba lavorare l'assemblea? A presto 

3-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Sognare lucido")   
Le osservazioni di Cavagna sono molto interessanti, e concordo con molti degli spunti che ha sollevato. Tuttavia una critica la devo formulare: mi sembra che di fatto anteponga la teoria all'esperienza; è vero che gran parte delle nostre esperienze derivano dalle teorie sottostanti, ma che dire quando l'esperienza è in contrasto con la teoria? Di fatto mi sembra dia per scontate, all'interno di quella che lui ritiene una esauriente concezione degli stati di coscienza, elementi che di fatto rimangono problemi. 
Sono perfettamente d'accordo che bisogna distinguere fra "eventi mentali" e "stati di coscienza" anche se di fatto nel nostro linguaggio ordinario (e nel pensare quindi ordinario) confondiamo i due aspetti (ad esempio noi identifichiamo veglia con consapevolezza, cosa che per un orientale è una bestemmia). Lo stesso Cavagna nel sostenere le sue tesi, opera, contro la sua volontà, la medesima confusione: 
> Il sognare lucido ci presenta una interazione 
> tra stati di coscienza solitamente separati 

E questa confusione ritorna proprio nel negare, sulla base dello stato di coscienza, la possibilità di una "pienezza" di un evento mentale. Peraltro non so cosa farci se questa "ingenuità" (per fortuna che c'è chi può spiegarci come sono le cose...) non lo convince, quella è la mia esperienza ( e non solo mia, basta vedere la letteratura in materia), e le asserzioni teoriche relative ad 
>un insieme più vasto di processi e prodotti contraddistinti dal maneggiamento 
>e dall'organizzazione differenziata dei contenuti intenzionali. 

non mi sembrano che aggiungano né tolgano nulla a questa "pienezza" né a ciò che effettivamente si sa. Di fatto anche la lucida teorizzazione: 
>Ne deriva una inferenza: quello che noi chiamiamo "consapevolezza" è 
>meglio definibile come il risultato interattivo di processi e funzioni psichiche 
>differenziate, che si stratificano, combinano, delimitano reciprocamente 
>ecc. (metaforicamente parlando) producendo una risultante percepita come 
>"stato di coscienza". Questo permette di spiegare perché ne possiamo 
>descrivere differenti dimensioni che rappresentano gli assi dinamici su cui 
>si realizza ogni singolo stato di coscienza. 

che cosa aggiunge al nostro sapere? 
>La descrizione di Angelozzi del sognare lucido mostra senz'altro come la 
>mancata distinzione tra atti psichici e stati di coscienza rende con 
>difficoltà l'esperienza a noi immediata del sognare lucido (altro che 
>"pienezza"!). Questa descrizione ha però il vantaggio di mostrare come 
>"sogno", "mi sveglio", "osservo"... siano (ingenuamente parlando) stati 
>discreti di coscienza che interagiscono con contenuti intenzionali 
>altrettanto diversificati, quali "un sogno", "il sognare", "l'interno del sogno". 

Cavagna, affascinato giustamente dalla questione del sogno lucido (di cui giustamente sottolinea la frequenza, ma tralascia la scarsa letteratura in materia e il fatto che semplicemente non se ne parli...) dimentica che la questione era la metacognizione. Proprio le distanze che il linguaggio usuale (ampiamente criticabile, sono il primo a dirlo!) crea fra gli stati di coscienza, credendoli erroneamente degli interi distinti, offre il pretesto per rimarcare ulteriormente la questione del pensiero che riflette su un evento mentale. Qui la distanza fra questi due eventi sembra (ripeto "sembra") ancora maggiore. Fra l'altro, per chi interessi, ci sono splendide descrizioni formali di queste situazioni in Gilles Fouconnier (Mental Spaces, Boston: MIT Press), dove ci si addentra nelle costruzioni con cui il linguaggio (e quindi il pensiero) entra in questi eventi, ed in cui viene sottolineato come, al di là della "ontologia" o meno degli stati di coscienza, il nostro parlare relativamente ad essi e agli eventi mentali che in essi avvengono, crea complesse forme relazionali, che devono essere comprese, senza essere date per scontate. 

>La cosiddetta metacognizione non 
>è un processo ultrasintetico dell'Io, che rimanda alla fantasia di una 
>"piramide idealista" che dalla semplice percezione accede a livelli 
>"superiori" della coscienza. 
>La metacognizione si risolve in uno dei particolari operatori che concorre 
>alla costruzione di uno qualunque degli stati di coscienza. Se usiamo 
>l'analogia di una riunione di lavoro, la metacognizione assomiglia piuttosto 
>a un "segretario" che riferisce "l'ordine del giorno" e registra a 
>testimonianza del futuro l'andamento della presente sessione di lavoro. 
>Questo fa pensare forse che il segretario sia il direttore dei lavori? Io credo di no. 

Credo che quanto detto sia indubbiamente interessante, ma non mi sembra aiuti a risolvere la questione: che rapporto c'è fra il segretario e gli altri componenti? E' una pura funzione di registrazione per cui la metacognizione è una forma di memoria? A me non sembra... Cosa significa dire "uno dei particolari operatori"? Quale è? Con che caratteristiche? Non è questo che dobbiamo capire? 

>Ma veniamo all'elemento a mio avviso più grave: 
Addirittura !!! 

>Già, e con ciò siamo punto e daccapo: questa è a mio avviso la fantasia di 
>un "ente-mente" che domina la materia e che, grazie a particolari 
>discipline, purificazioni, astrazioni ecc. diventa lo "spirito" di hegeliana 
>memoria che risolve il reale ,ovverosia il corpo, in una condizione 
>superiore di 'ragione' sempiterna. Un 'Sé' in noi, un omuncolo interno che, 
>per una sua speciale natura, incorruttibile e inalienabile, può essere 
>raggiunto e reso "vero", cioè impersonato. 
>Chissà perché mi viene da pensare alla dissociazione patologica 
>dall'esperienza corporea 

So perfettamente, nonostante la mia ingenuità, che esistono mille obiezioni teoriche da prendere in considerazione seriamente e duemila teorie metafisiche da ritenersi superate e da guardare con sospetto. Però, di fatto, come sta questa faccenda? Questa è la mia esperienza e vorrei obiezioni un po' più forti ed argomentate che non la accusa di spiritualismo (per me che ho simpatia per il misticismo è una accusa troppo debole...) ed un generico "non può essere così". 
Una osservazione a latere: perché viene giustamente ribadito il continuum fra stati di coscienza e non viene ribadito quello delle transizioni dal normale al patologico? Nella dissociazione "patologica" non c'è nulla che possa intrecciarsi in maniera interessante con la dissociazione "usuale" dei vari stati di coscienza e degli eventi mentali al loro interno? 

>Una bella fantasia, non c'è che dire: peccato che il sognare lucido sia lì a 
>dirci che anche la metacognizione può essere facilmente ingannata, e possa 
>finire con il processare come reale-esterno proprio l'"interno del sogno". 

A questo punto però non so se stiamo parlando della stessa cosa. La metacognizione del sognare lucido non è ingannata, anzi è appunto perfettamente consapevole del fatto che l'interno del sogno non è "reale esterno". Il problema è che questa è proprio in questo non essere ingannata che è l'essenza del sognare lucido!! 
Di cosa abbiamo parlato? 

3-1-2000, From: Davide Cavagna ("Sognare lucido")   
On 03/01/2000 Andrea Angelozzi wrote: 
>Di fatto mi sembra dia per scontate, all'interno 
>di quella che lui ritiene una esauriente concezione degli stati di 
>coscienza, elementi che di fatto rimangono problemi. 

E io che pensavo di non avere affatto una teoria compiuta degli stati di coscienza, per cui racimolavo brandelli di modelli differenti, nel tentativo di capirci qualcosa! Si vede che non so proprio andare a naso! 

>Questa confusione ritorna proprio nel negare, sulla base dello stato di 
>coscienza, la possibilità di una "pienezza" di un evento mentale. 

Ben mi sta, così imparo a esprimermi meglio! Credo che vada tolto un equivoco: ogni stato mentale (veglia, sogno ecc.) ha una sua perspicuità e autopresenza (che è la sua impronta fenomenologica). Con "pienezza" mi riferisco invece alla presunzione che uno stato, meglio di altri, possa "totalizzare" il pensiero. Personalmente ritengo che crei meno problemi intendere ogni stato di coscienza sempre e comunque come il prodotto di una organizzazione complessa e sovradeterminata di fattori-operatori (?) mentali. Dunque, non ritengo che esista uno "stato primigenio della coscienza", ma che la coscienza sia un processo-prodotto complesso, che può assumere varie fogge e forme. La cosa che mi sembra interessante è che in tal modo possiamo cominciare a chiederci: quanti e quali sono gli "elementi" mentali che operano a produrre i nostri stati di coscienza? E poi, se proprio vogliamo: esistono processi-prodotti mentali che non acquisiscono MAI la qualità della coscienza? (ad esempio, il famoso "senso di colpa inconscio", ma anche complesse operazioni cognitive silenti, e non ultimo lo stesso insight). 

>Di fatto anche la lucida teorizzazione: : 
>>Ne deriva una inferenza: quello che noi chiamiamo "consapevolezza" è 
>>meglio definibile come il risultato interattivo di processi e funzioni psichiche 
>>differenziate, che si stratificano, combinano, delimitano reciprocamente 
>>ecc. (metaforicamente parlando) producendo una risultante percepita 
>>come "stato di coscienza". Questo permette di spiegare perché ne 
>>possiamo descrivere differenti dimensioni che rappresentano gli assi 
>>dinamici su cui si realizza ogni singolo stato di coscienza. 
>che cosa aggiunge al nostro sapere? 

Mi stupisce molto questa domanda. Che qualcosa si possa "aggiungere" a un sapere mi trova semmai molto perplesso. Pensavo che il sapere fosse uno spazio di lavoro e di ricerca, magari anche ludica. Se però il sapere è un sapere ingenuo che riguarda "spiriti nella testa", allora comprendo perché esso teme di essere esorcizzato. 

>Credo che quanto detto sia indubbiamente interessante, ma non mi sembra 
>aiuti a risolvere la questione: che rapporto c'è fra il segretario e gli altri componenti? 

L'analogia con il segretario non è certo la più azzeccata, ma almeno ci permette di pensare a un lavoro gruppale che produce uno stato mentale (o una trasformazione del lavoro stesso). In più, mi volevo anche riferire all'elemento del "segreto", che mi sembra possa centrare in qualche modo. Troviamo una migliore analogia e forse ne capiremo di più. 
Quanto alla metacognizione, raccolgo l'obiezione di "essere andato fuori tema". In effetti ho volutamente cambiato subject. La mia preoccupazione, infatti, è che, sotto l'egida della metacognizione, passi una teoria idealistica, per cui la mente si sviluppa verticisticamente (e vertiginosamente) fino a uno stato imperturbabile e inattingibile, cosa che trovo paragonabile solo al ritiro dissociativo. Per questo insisto sul fatto che la metacognizione non è una funzione "superiore", che chissà come mai compare anche nei sogni, ma è essenzialmente una funzione superficiale della mente che presuppone un ingente lavoro "in sordina". Importante quanto ad adattamento, ma fortemente dipendente dal più ampio lavoro mentale. 

>Una osservazione a latere: perché viene giustamente ribadito il continuum 
>fra stati di coscienza e non viene ribadito quello delle transizioni dal 
>normale al patologico? Nella dissociazione "patologica" non c'è nulla che 
>possa intrecciarsi in maniera interessante con la dissociazione "usuale" 
>dei vari stati di coscienza e degli eventi mentali al loro interno? 

Per quanto riguarda il continuum, accennavo al fatto che andrebbe inteso diversamente rispetto alla dimensione "consapevolezza-coma". Forse va da un polo "fluido" a un polo "solido", non so. Credo che dobbiamo trovare un'altra dimensione lungo cui posizionare i nostri "discreti" stati di coscienza. Quanto al "patologico" penso che un criterio utilizzabile possa essere: "ciò che costituisce un impedimento a ogni ulteriore lavoro mentale". E' una proposta, ovviamente. 

>A questo punto però non so se stiamo parlando della stessa cosa. La 
>metacognizione del sognare lucido non è ingannata, anzi è appunto 
>perfettamente consapevole del fatto che l'interno del sogno non è "reale 
>esterno". Il problema è che questa è proprio in questo non essere ingannata 
>che è l'essenza del sognare lucido!! 

Mi sa che invece parliamo proprio della stessa cosa; sognando lucidamente la coscienza si autopresentifica: "eccomi qua che sto sognando, incredibile ma vero" (potremmo parlare di un sovrainvestimento di una funzione dell'Io?). La cosa che conta, a mio avviso, è però l'emozione che accompagna questo stato: la sorpresa di essere disposti a un'esperienza mentale che si accompagna alla minore paura della libertà del sogno, paura del pensiero illusionale, paura del nuovo ("sogno o son desto?") ecc. Inoltre, il sognare lucido si distingue dal sognare "ordinario", perché comporta una attitudine all'autoconvincimento ("sogno quindi sono") e alla comunicabilità rispetto a un ambito di realtà separato (il ritiro narcisistico che produce lo stato di sonno, come si diceva una volta). Comprensibile dunque che molte culture abbiano inteso i sogni, in particolare quelli lucidi, come "comunicazione con un'altra realtà". Sennonché ­ e qui mi duole, ma mi tocca fare il becero materialista ­ quest'altra realtà cosa "altro" può mai essere, se non una porzione del continuum percettivo-cognitivo con cui siamo quotidianamente all'opera? Alla prossima 

5-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Sognare lucido")   
Ringrazio Cavagna della sua mail e della occasione per riflettere su queste questioni. In effetti non ci siamo capiti sulla questione della "pienezza", che non voleva essere nel senso di totalizzante, ma nel senso di "intenso", "carico", "vivo", con le caratteristiche cioè (ed anche questo è un atto metacognitivo) che può avere qualcosa che al contempo sia vivamente vissuto e di cui si abbia intensa consapevolezza. Anzi, sembra quasi che la particolarità della situazione, per contrasto con quella usuale del sogno, renda ancora più acuta questa consapevolezza. Viene in mente Pessoa: " Si, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all'improvviso si trovi in una città estranea, senza sapere come vi è arrivato; e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo, (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia senza rimedio. Aspetto dunque, affacciato al ponte, che passi la verità e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale". 
Cavagna parla, a mio parere giustamente, dell'aspetto complesso della coscienza ordinaria, dove di fatto avvengono eventi mentali spesso in contrasto fra di loro (si pensi alla questione dell'autoinganno, studiata attualmente dai logici, dove il soggetto di fatto ha due credenze opposte e contemporanee) e anche stati di coscienza diversi sono "ospitati" all'interno della stessa situazione. Senza finire nella ipnosi ericksoniana, che sottolinea il costante slittamento reciproco degli stati di coscienza ipnotico e di quello ordinario (cosa rimanga poi di "ordinario" al di là di questa denominazione usualmente accettata, non si capisce) in situazioni quotidiane, senza specifiche induzioni, basti pensare al ruolo del fantasticare e del ricordare nella nostra esistenza. Esistono dei fantasticare, del ricordare, in cui io sono in quella situazione "della mente" ed oscillo fra i due stati, li mescolo, posso separarli ma dare quasi vita autonoma a loro e ai loro protagonisti (me compreso). Ancora una volta lo slittamento fra piani della coscienza rende più rimarchevole l'evento mentale della metacognizione. Andrea ora (che è fatto in una certa maniera) ricorda Andrea2 (se stesso) di dieci anni or sono, i suoi (sottolineo suoi, non miei - questo termine appartiene più al sapere che al sentire) pensieri, le emozioni. Posso riconoscermi, ma anche no, o solo in parte. Anche questa è una forma di metacognizione, solo che è filtrata attraverso il tempo (ma può essere la fantasia), rifletto sui pensieri di me-allora. Gilles Fauconnier ha fatto interessanti descrizioni formali di queste che la logica chiama le "controparti", che acquisiscono senso (identità forse...) all'interno degli spazi mentali cui appartengono. Si può arrivare a situazioni di metacognizione molto particolari: se sono un personaggio molto famoso, mi può capitare di andare al cinema e vedere me stesso come attore impersonato da me. Pensate se Maradona va a vedere il film che ha recentemente interpretato dove interpreta sé stesso. C'è un libro molto bello di Dick (quello di Blade Runner) che si chiama "Un oscuro scrutare", dove il protagonista, agente della narcotici in anonimato, riceve l'incarico di sorvegliare sé stesso in quanto sospettato di essere un grosso spacciatore (si era infiltrato fra i tossici) di sostanza M (che ha come effetto di fare perdere l'identità). Il bello di queste questioni è che ciascuno può fare tutti gli studi possibili sul proprio pensare, servendosi in pratica solo del pensiero... 
Per tutta una serie di riferimenti, non sono pertanto convinto del cambiamento nel Subject che ha fatto Cavagna. Credo che anche questa sia una modalità di parlare della metacognizione (e quindi di Fonagy) proprio partendo dalla osservazione di Carere che possiamo tentare noi di entrare meglio in un concetto che Fonagy di fatto non chiarisce. 
Di fatto però non so convincermi del tutto che queste varie metacognizioni, questi riflettere su di sé ed il proprio stesso pensare, che possono avvenire in questi slittamenti fra situazioni diverse (io che osservo me nel ricordo, me nella fantasia, me di quando sognavo), siano la stessa cosa della consapevolezza che in questo momento ho del mio pensare o della situazione che si viene a creare nel sognare lucido. 
Ad esempio mentre nel primo caso sento molto la validità del concetto di controparti e credo che potrebbero esserci anche le possibilità di una apertura alle pluralità dell'Io, questo aspetto mi sembra meno forte nel secondo. Sembra quasi (ma so che rischio di peccare di spiritualismo - e dallo spiritualismo allo spiritismo il passo è brevissimo...) che mentre il primo riguardi una metacognizione per così dire orizzontale, il secondo rimandi a piani sovrapposti. 
Adesso però vado. Come nota Pessoa (e qui il cerchio si chiude e così la mail) "E' stato solo un attimo e mi sono visto. Poi non so più dire ciò che son stato. E, alla fine, ho sonno, perché, non so perché, penso che il senso è dormire". 

6-1-2000, From: Davide Cavagna ("Sognare lucido")  
On 05/01/2000 Andrea Angelozzi wrote: 
>sembra quasi che la 
>particolarità della situazione, per contrasto con quella usuale del sogno, 
>renda ancora più acuta questa consapevolezza. 
>(cosa rimanga poi di "ordinario" al di là di questa 
>denominazione usualmente accettata, non si capisce) 

Giustamente rilevi l'aspetto perturbante che il sognare lucido solleva rispetto al sonno/veglia usuale e ordinario. Ciò nonostante, credo che si possa parlare di ordinarietà nel senso di fitness. La particolarità è a mio avviso relativa a un tentativo di funzionamento innovativo e creativo (ma anche catastrofico e delirante) che si può a volte esprimere nel sognare lucido. A mio avviso, il sognare lucido presenta la caratteristica di falsificare il pregiudizio che i sogni siano fatti privati, o, al limite, possano essere raccontati già deformati ad esempio a un'analista. Mi è capitata sott'occhio una citazione di Bion: 
>>Quando il paziente dice di aver fatto un sogno è sveglio è "conscio". 
>>Allora, sia il paziente che lei [analista] siete nello stesso stato 
>>mentale, che non è lo stesso stato mentale in cui ci si trova quando si 
>>dorme. Il paziente sta invitando lei e se stesso ad assumere un 
>>atteggiamento pregiudiziale in favore dello stato mentale in cui ci troviamo 
>>quando siamo svegli. (Bion, Seminari clinici
>Ancora una volta lo slittamento fra piani della coscienza rende 
>più rimarchevole l'evento mentale della metacognizione. 
>Si può arrivare a situazioni di metacognizione molto particolari: se sono 
>un personaggio molto famoso, mi può capitare di andare al cinema e vedere 
>me stesso come attore impersonato da me. 

Rimango critico rispetto all'idea della metacognizione come funzione separata e "superiore" della mente perché mi richiama un problema mentalistico già affrontato dalla psichiatra dinamica ottocentesca: se le "altre parti" della mente siano o meno dotate di una loro coscienza, quindi siano come dei personaggi di un teatro psichico. Se la risposta è positiva, è evidente che occorre poi una meta-cognizione che funga da regista o da produttore dello spettacolo (oppure da soggeritore nel boccascena): tradotto in linguaggio corrente, è l'ipotesi di un Sé "forte" come unità d'azione aristotelica della scena psichica. Da qui l'effetto pirandelliano della mente, o il gioco identitario di Philip Dick (che, aggiungo, ben si intendeva di stati mentali "replicanti" o pseudo-umani), o anche, se ti è capitato di vederlo, l'effetto vertiginoso di "Essere John Malkovich". 
Personalmente, credo che intendere le parti di sé come omologhe alla persona nel suo complesso crei un rimando a un cattivo infinito di "omuncoli nella testa". Preferisco invece considerare la coscienza come il risultato complessivo "di superficie" di processi multipli e sovrapposti, che si "riducono" in uno stato mentale. Questo mi spiega perché, nella psicologia ingenua, coscienza e consapevolezza sono sinonimi. La "persona complessiva" (ma anche complessa) che ognuno di noi è ha sicuramente quelle caratteristiche identitarie di continuità, spontaneità, azione e coerenza, ma è, fortunatamente, dinamicamente incompiuta e trasformativa. Sono portato a credere che la meta-cognizione, se viene considerata come una funzione "superiore" sia quindi una sorta di deus ex machina, uno di quei personaggi strumentali inventati ad hoc per risolvere le difficoltà nell'intreccio narrativo. 

>Di fatto però non so convincermi del tutto che queste varie metacognizioni, 
>questi riflettere su di sé ed il proprio stesso pensare, che possono 
>avvenire in questi slittamenti fra situazioni diverse (io che osservo me 
>nel ricordo, me nella fantasia, me di quando sognavo), siano la stessa cosa 
>della consapevolezza che in questo momento ho del mio pensare o della 
>situazione che si viene a creare nel sognare lucido. 

Detto in senso più psicodinamico, la metacognizione potrebbe avere la funzione di mettere in comunicazione parti di sé che non sono altrimenti comunicanti - come ad esempio gli stati mentali della veglia e del sogno. Come è possibile che ciò accada? Forse la metacognizione origina da una anticipazione cognitiva rispetto ai processi di integrazione del pensiero; direi quindi che la metacognizione rappresenta l'"effetto" emotivo dovuto alla percezione di una possibile evoluzione mentale, anziché essere uno stato mentale autonomo risultante dall'evoluzione stessa. In tal senso mi sembrerebbe possa assumere anche aspetti antievolutivi rispetto all'insight. Ritengo che nel sognare lucido abbiamo una "ipotesi di consapevolezza" rispetto a due stati mentali ordinariamente dissociati, che può essere avvicinata all'effetto metacognitivo che sperimentiamo nella vita diurna quando ci accorgiamo dei nostri processi mentali. Ma mi accorgo di fare un po' troppe congetture, perciò concludo qui. A presto 

6-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")   
Facciamo il punto. La preoccupazione di Cavagna è che 
>sotto l'egida della metacognizione, passi una teoria 
>idealistica, per cui la mente si sviluppa verticisticamente (e 
>vertiginosamente) fino a uno stato imperturbabile e inattingibile, cosa che 
>trovo paragonabile solo al ritiro dissociativo. Per questo insisto sul fatto 
>che la metacognizione non è una funzione "superiore", che chissà come mai 
>compare anche nei sogni, ma è essenzialmente una funzione superficiale della 
>mente che presuppone un ingente lavoro "in sordina". Importante quanto ad 
>adattamento, ma fortemente dipendente dal più ampio lavoro mentale. 

Il sospetto nei confronti della metacognizione si affianca, mi pare, a quello verso tutto ciò che è "meta" (metafisica, metateoria). Il sospetto è sacrosanto, vista tutta la paccottiglia che si autonobilita con quel prefisso. Ma attenzione a non buttare via il bambino con l'acqua del bagnetto. Cavagna suggerisce, mi sembra, che del prefisso meta si può tranquillamente fare a meno, dal momento che i fenomeni cui la metacognizione si riferisce non sono altro che una "porzione del continuum percettivo-cognitivo con cui siamo quotidianamente all'opera". 
D'accordo: se in questo continuum non c'è alcun salto - se non siamo in grado di indicare un punto preciso di discontinuità - il prefisso meta è inutile. Ma io affermo che questo punto esiste, e la sua esistenza è dimostrata dal fatto che se non esistesse, la (vera) psicoterapia perderebbe il suo ubi consistam e sarebbe impraticabile. Tocca a me, psichiatra, ricordare a Cavagna, filosofo, che l'esistenza di questo punto è stata messa in luce per la prima volta in Occidente da Socrate. Tutti gli 
esseri animati (dotati di anima o psiche) sanno (hanno cognizione), solo il (vero) filosofo sa di non sapere (ha metacognizione). L'essere psicologico (uomo ordinario o mucca) si muove nel continuum percettivo-cognitivo per schemi o pattern, innati o acquisiti. Solo l'essere spirituale è capace di sospendere deliberatamente schemi o pattern e di soggiornare, anche se temporaneamente e parzialmente, in un vuoto di sapere. 
Anche il terapeuta (o analista) ordinario non si allontana mai dai modelli appresi sui banchi o i divani della sua scuola, rimanendo, come la mucca, sul piano puramente cognitivo che contiene tutti i suoi punti teorici di riferimento. Solo il vero terapeuta, capace di metacognizione, può aiutare il suo paziente a liberarsi dagli schemi in cui è rimasto intrappolato (fantasie inconsce o malapprendimenti), grazie al fatto che, e nella misura in cui, lui stesso per primo ha imparato a liberarsi dai propri. 
Da questo punto di rottura, il pensiero metacognitivo può muoversi, come fa notare Angelozzi, in due direzioni, o oscillare tra due poli. Nella prima, "orizzontale" o object-oriented, la riflessione sospende le cognizioni date solo per tornare all'oggetto e conoscerlo meglio, in modo più completo, realistico o adattivo. Della seconda, "verticale" o being-oriented, è difficile parlare, perché l'epoché qui è più radicale: non è sospesa solo l'adesione a determinati schemi cognitivi, ma (tendenzialmente) la stessa distinzione tra soggetto e oggetto. Bene ha fatto Angelozzi a richiamare, a questo proposito, le ricerche sui sogni lucidi. Ricordo una "Conversation Between Stephen LaBerge and Paul Tholey in July of 1989", reperibile in rete. LaBerge e Tholey sono due delle massime autorità nel campo del lucid dreaming, per niente inclini allo spiritualismo e fieri avversari di spiritismo, viaggi astrali e simili. Riporto qui sotto un estratto di quella conversazione: 
>Tholey: Sometimes it happens that you actually lose the ego-core  
>completely. There is no point of view anymore from which to look or think.  
>There is only seeing left; thinking without any difference between the  
>object and the subject-no difference whatsoever between the object and the subject.  
>LaBerge: This sounds like a dream that I described in my book, a dream in  
>which I decided that I wanted to experience the highest potential in me. I  
>flew up into the clouds, without any other intention than that. My  
>dream-body disappeared and yet I still existed, in a sense. I could sing,  
>for example, although I had no mouth. Yet I had the sense of a unity with  
>the space. There wasn't an I there, yet there was still some-thing I would call a perspective.  
>Tholey: In the state I am talking about, the perspective is gone. There is  
>the state with one perspective and there is the state with two  
>perspectives. This is hard to imagine in the waking state. There also is  
>the state of seeing without a subject, without the ego-core and without  
>seeing. There isn't anybody who sings anymore, but something like a singing entity.  
>LaBerge: Yes, that was exactly the experience!  
Può essere uno spunto per un approfondimento di questa difficile, ma essenziale dimensione del pensiero metacognitivo. 

6-1-2000, From: Davide Cavagna ("Metacognizione")   
On 06/01/2000 Tullio Carere wrote: 
>Solo l'essere spirituale è capace di 
>sospendere deliberatamente schemi o pattern e di soggiornare, anche se 
>temporaneamente e parzialmente, in un vuoto di sapere. 

Quest'affermazione conferma purtroppo la mia preoccupazione sul valore dogmatico assegnato all'argomento 'metacognizione'. Mi dispiace che Carere usi l'espressione "essere spirituale", di cui non ho alcuna esperienza per poterne discutere consensualmente. Potrei piuttosto ammettere che "spirituale" sta per "essere in uno stato mentale di disattenzione corporea". Personalmente, cerco faticosamente di essere "dotato di spirito" e non "abitato da uno spirito". Mi chiedo, in seconda battuta, se ci si può collocare "deliberatamente" sempre e comunque in un vuoto di sapere, o se invece si tratti di un'attivazione fisiologica di fronte a determinato problemi cognitivi, quale l'affioramento alla coscienza di processi mentali appartenenti a configurazioni evolutive differenti. Al posto di metacognizione, preferirei parlare allora di processi di pensiero duttili e plastici (commutabilità degli schemi?); penso a quello che Green chiama "processo terziario" per indicare modalità di pensiero capaci di combinare processi primari e secondari. 

>Solo il vero terapeuta, capace di metacognizione, può aiutare 
>il suo paziente a liberarsi dagli schemi in cui è rimasto intrappolato 
>(fantasie inconsce o malapprendimenti), grazie al fatto che, e nella misura 
>in cui, lui stesso per primo ha imparato a liberarsi dai propri. 

Pessima argomentazione: che il "vero" terapeuta ne sappia sempre un po' di più e un po' meglio del paziente, mi ricorda l'indottrinamento, non la terapia. Preferisco un falso terapeuta poco maieutico che non "ha in mente" i propri pensieri-'bambini belli e furbi' da far germogliare nella testa-'utero 
malato' di qualcun altro. E che dire della fantasia pseudopedagogica di un lavoro "correzionale" per le fantasie-'bambini disobbedienti e poco studiosi' (leggasi: fantasie inconsce e malapprendimenti)? Saluti 

6-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")   
On 6-01-2000 Davide Cavagna wrote: 
>On 06/01/2000 Tullio Carere wrote: 
>>Solo l'essere spirituale è capace di  
>>sospendere deliberatamente schemi o pattern e di soggiornare, anche se  
>>temporaneamente e parzialmente, in un vuoto di sapere.  
>Quest'affermazione conferma purtroppo la mia preoccupazione sul valore 
>dogmatico assegnato all'argomento 'metacognizione'. 

Dov'è il dogma? Osservo semplicemente che esistono due livelli di funzionamento mentale, descritti sin dall'antichità come "credere di sapere" e "sapere di non sapere", e chiamo "psicologico" il primo (perché è proprio di tutti gli esseri animati, cioè dotati di anima o psiche), e "spirituale" il secondo (perché la capacità di sospendere la validità dei propri schemi cognitivi sta alla base di ogni attività mentale superiore). Alla coppia psicologico/spirituale si può sostituire la coppia cognitivo/metacognitivo, o altre. Non mi formalizzo sui termini, basta intendersi sulla sostanza. 

>Mi dispiace che Carere usi l'espressione "essere spirituale", di cui non ho 
>alcuna esperienza per poterne discutere consensualmente. Potrei piuttosto 
>ammettere che "spirituale" sta per "essere in uno stato mentale di 
>disattenzione corporea". 

Al contrario, la sospensione degli automatismi cognitivi è il presupposto per un'attenzione più profonda e più precisa agli stati corporei, come è pratica corrente in molte tradizioni orientali. Cavagna può non saperne nulla, ma dovrebbe conoscere almeno Nietzsche, nei cui scritti potrebbe trovare una definizione di spiritualità un po' aggiornata rispetto al materialismo ottocentesco: 
"Il genio del cuore che fa ammutolire ogni voce troppo sonora e ogni compiacimento di sé e insegna a porsi in ascolto, che leviga le anime scabre e infonde loro un nuovo desiderio da assaporare - quello di starsene taciturni come uno specchio affinché in esse si rispecchi il profondo cielo. Il genio del cuore che insegna alla mano maldestra e precipitosa l'indugio e una maggiore delicatezza nell'afferrare: che sa divinare il tesoro occulto e obliato, la goccia di bontà e di dolce spiritualità sotto un ghiaccio torbido e spesso, ed è una bacchetta magica per ogni granello d'oro, che a lungo sia restato sepolto nel carcere di molto fango e sabbia..." (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male).  

>Mi chiedo, in seconda battuta, se ci si può collocare "deliberatamente" 
>sempre e comunque in un vuoto di sapere, o se invece si tratti di 
>un'attivazione fisiologica di fronte a determinato problemi cognitivi, quale 
>l'affioramento alla coscienza di processi mentali appartenenti a 
>configurazioni evolutive differenti. 

Nella misura in cui siamo capaci di collocarci deliberatamente in un vuoto di sapere, siamo liberi dal credere di sapere. Ma, come ha fatto notare Bion, è difficile, perché la presa di distanza dall'esperienza abituale è avvertita, "fintanto che F (fede in O) non sia stato istituito, come un attacco estremamente grave all'Io". Il fatto che occorra un atto deliberato di affidamento a un vuoto di sapere (niente a che fare con "un'attivazione fisiologica") non può che dare fastidio a quegli psicoanalisti che vorrebbero bonificare l'inconscio a suon di interpretazioni, come se fosse lo Zuider See

>>Solo il vero terapeuta, capace di metacognizione, può aiutare 
>>il suo paziente a liberarsi dagli schemi in cui è rimasto intrappolato 
>>(fantasie inconsce o malapprendimenti), grazie al fatto che, e nella misura 
>>in cui, lui stesso per primo ha imparato a liberarsi dai propri. 
>Pessima argomentazione: che il "vero" terapeuta ne sappia sempre un po' di 
>più e un po' meglio del paziente, mi ricorda l'indottrinamento, non la terapia. 
>Preferisco un falso terapeuta poco maieutico che non "ha in mente" i propri 
>pensieri-'bambini belli e furbi' da far germogliare nella testa-'utero 
>malato' di qualcun altro. 

L'argomentazione sembra pessima a Cavagna perché non la capisce. Il vero terapeuta non è quello che sa "di più e meglio", ma quello che sa di non sapere (nulla di certo), e quindi apre uno spazio di ascolto e di indagine in cui l'inaudito potrà essere ascoltato. Esattamente il contrario dell'indottrinamento somministrato inevitabilmente da chi essendo identificato con le proprie teorie non può sospenderle, perché se lo fa gli manca il terreno sotto i piedi e non sa più chi è. Il vero terapeuta non ha nella propria mente 'bambini belli e furbi' da trapiantare nella testa altrui. Esattamente al contrario, è quello che sa quanto meno tenerli a bada, in modo che non invadano lo spazio in cui nuove idee e nuove forme potranno essere generate. L'argomentazione è rifiutata semplicemente perché è intesa al contrario. 

6-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Metacognizione")   
La faccenda si ingarbuglia e non poco... 

Sogno lucido 
Scrive Cavagna: 
>A mio avviso, il sognare lucido presenta la caratteristica di falsificare il 
>pregiudizio che i sogni siano fatti privati, o, al limite, possano essere 
>raccontati già deformati ad esempio a un'analista. 

Non sarei così certo della cosa. E' vero che esistono situazioni, quali quelle create da LaBerge (citato da Carere) che mentre viveva il sogno lucido contemporaneamente stabiliva una comunicazione con i presenti nel laboratorio del sonno attraverso movimenti palpebrali, creando un ponte fra le "tre" situazioni; ...tuttavia cosa abbiamo? Il racconto in genere mediato, più raramente (come in LaBerge) un po' più diretto, del proprio essere stato consapevole nel sogno. E' uno degli aspetti del sogno che si aggiunge al sogno, non una cosa diversa. Per lo meno questa è la mia impressione. Cavagna cita Bion da cui traggo, fra le altre, la nota considerazione che gli stati di coscienza sono per così dire "contagiosi". E' una cosa ben nota alla ipnosi di Erickson, la cui tecnica di induzione più elementare (e complessa) era quella di andare lui in ipnosi. Perché questo contagio?. Forse vi è un qualcosa di specifico nella struttura degli stati di coscienza (come sostiene Tart) per cui proporre elementi di quella struttura è inizializzarla nell'ascoltatore? Quanto è imparentata la struttura del linguaggio con quella particolarità? 

La questione dei piani 
Max Stirner, fondatore dell'anarchismo scriveva: "I nostri atei sono gente pia", sottolineando il valore di credo, l'aspetto fideistico dell'ateismo proclamato. Sinceramente, credo che il materialismo sia una metafisica come tante altre, forse meno argomentata di tante altre. Il materialismo è infarcito di asserzioni "meta" di cui sembra non accorgersi... Il problema non è la presenza o l'assenza dei livelli, ma la forza delle argomentazioni. In fondo anche i materialisti di più stretta osservanza ragionano, argomentano, valutano, usando lo strumento di un qualcosa che chiamiamo "razionalità", la cui riduzione materialistica non ci dice nulla sul perché funzioni e venga di fatto condivisa. Il problema, al di là dei sospetti, è solo la possibilità di definire effettivamente se esiste una differenza fra piani orizzontali della metacognizione e piani verticali, e vedere, in questo caso, di cosa sia fatta la verticalità. Non so se si arriva agli omuncoli... (in fondo i vedantini pensano che la consapevolezza sia al di fuori dei singoli), più che altro non so dove si arriva, ma perché impedirsi di percorrere la strada con la asserzione metafisica che non esiste? 
Una notazione a latere: A mio parere Dick paradossalmente non si occupa di "replicanti" se non per contrasto, ed il suo problema è piuttosto definire cosa sia umano e di cosa sia fatta l'identità dell'essere umano; alcune sue intuizioni sulla natura della empatia credo siano straordinarie. 

>Personalmente, credo che intendere le parti di sé come omologhe alla 
>persona nel suo complesso crei un rimando a un cattivo infinito di "omuncoli 
>nella testa". Preferisco invece considerare la coscienza come il risultato 
>complessivo "di superficie" di processi multipli e sovrapposti, che si 
>"riducono" in uno stato mentale. 
Ah le teorie emergentiste!! Tu senti che dicono veramente qualcosa? 

Metacognizione 
>Sono portato a credere che la meta-cognizione, se viene considerata come 
>una funzione "superiore" sia quindi una sorta di deus ex machina, uno di quei 
>personaggi strumentali inventati ad hoc per risolvere le difficoltà 
>nell'intreccio narrativo. 

Questo è un problema non da poco. Mi viene da domandare: chi è che racconta? Il problema è in quel chi. Quando io rifletto sul mio pensiero, chi riflette sul pensiero di chi, e chi ascolta queste riflessioni? Per me il problema - ma è il mio problema - è semplicemente qui. 

>Detto in senso più psicodinamico, la metacognizione potrebbe avere la 
>funzione di mettere in comunicazione parti di sé che non sono altrimenti 
>comunicanti - come ad esempio gli stati mentali della veglia e del sogno. 
>Come è possibile che ciò accada? 

Sono d'accordo su questa ipotesi, però non parlerei di funzione (e mi rendo conto che è una differenza che cambia non poco le cose) ma di "ciò che è": è appunto l'invarianza dell'essere coscienti (non della coscienza, che muta oscillando fra il suo essere soggetto ed oggetto) attraverso i vari stati di coscienza. Come è possibile questa invarianza, cosa è? 

Metacognizione e corporeità  
Scrive Carere: 
>Al contrario, la sospensione degli automatismi cognitivi è il presupposto 
>per un'attenzione più profonda e più precisa agli stati corporei, come è 
>pratica corrente in molte tradizioni orientali. 

e devo dire che sono pienamente d'accordo. Come la consapevolezza del pensiero dà colore al pensiero (anche se la consapevolezza di per sé non ha colore...) e ci rende vivo il fatto di essere esseri pensanti, così la consapevolezza del corpo, ne toglie l'aspetto abitudinario e lo rende vivo. 
E' come aiutare un bulimico, che si abboffa di cibo, senza sentirne il sapore, a essere consapevole del fatto di mangiare e dei sapori che sente. La dissociazione è la prima, quella senza consapevolezza, non la seconda. 

Metacognizione e terapia  
>Forse la metacognizione origina da una 
>anticipazione cognitiva rispetto ai processi di integrazione del pensiero; 
>direi quindi che la metacognizione rappresenta l'"effetto" emotivo dovuto 
>alla percezione di una possibile evoluzione mentale, anziché essere uno 
>stato mentale autonomo risultante dall'evoluzione stessa. In tal senso mi 
>sembrerebbe possa assumere anche aspetti antievolutivi rispetto all'insight. 

Il problema è che credo esistano diverse cose che uniformiamo sotto il nome di insight. L'insight per cui un evento acquista senso all'interno della sua storia è qualcosa legato all'oggetto; l'insight per cui sono consapevole del gioco per cui voglio cercare un senso è un altro; quello per cui sono consapevole dei mille modi con cui la mia mente gioca con il senso delle cose ed il modo in cui cerco chi sono nel rapportarmi ad essa e al suo giocare, è un altro ancora. Forse esistono diversi modi di fare psicoterapia in rapporto a questa questione. Jaspers ad esempio riteneva una modalità "inautentica" il processo terapeutico basato sulla modifica della propria visione del mondo (cambiare il senso di un evento o dargli semplicemente senso) rispetto alla modalità per cui ci si rende conto che sono comunque "solo" visioni del mondo. 
Concordo pertanto con Carere: 
>L'argomentazione sembra pessima a Cavagna perché non la capisce. Il vero 
>terapeuta non è quello che sa "di più e meglio", ma quello che sa di non 
>sapere (nulla di certo), e quindi apre uno spazio di ascolto e di indagine 
>in cui l'inaudito potrà essere ascoltato. 

e ribadirei che il fatto di essere consapevoli di qualcosa ne toglie il carattere automatico, implicito rendendomene meno vincolato. Fino a che non sono consapevole di qualcosa io sono quella cosa. Quando ne sono consapevole, ci sono io e quella cosa. Posso osservarla (per domandare ad un pesce cosa è l'acqua bisogna renderla non implicita, distanziarlo, cioè fargli sentire l'esperienza dell'aria), posso cambiarla, perché ho creato una distanza fra me e quella cosa. Questo non è estraniazione, tutt'altro, forse anzi posso accorgermene per la prima volta: io vivo quella cosa, ma appunto i termini si chiariscono: "io" - vivo - "quella cosa". Ci sono due elementi, non uno solo: l'accento si sposta dall'oggetto al soggetto, e questo diventa finalmente oggetto della "mia" ricerca. In questo sta a mio parere il valore di esprimere i propri pensieri ad alta voce in psicoterapia: per dirli devo definirli, li dico, cioè li porto fuori da me, li osservo e posso ascoltarli con le orecchie è cose se avessi messo quel minimo di distanza focale che mi consente di sentire veramente quello che dico, cioè quello che penso. Nei gruppi è ancora più facile: il mio pensiero talvolta lo dice un altro: in un altro posso osservare ciò che in me è difficile osservare, perché non ho messo distanza! Non voglio banalizzare meccanismi che sono infinitamente più complessi, ma sottolineare alcuni aspetti per entrare in quello che, a differenza di Cavagna, considero un valore essenziale della metacognizione in terapia. Il terapeuta è solo colui che può aiutare ad indicare questa strada (se la ha vissuta come esperienza...). 

7-1-2000, From: Ileana Taddei ("Metacognizione")  
Non avevo capito l'affermazione di Cavagna e non capisco l'osservazione di Angelozzi (loro due mail del 6-1-2000). Potete provare a riformulare questo punto? Grazie. 
Vorrei segnalare tre articoli che mi è capitato di leggere qualche tempo fa, di cui non sono in grado oggi di riassumere il contenuto, ma che potrebbero interessare, riguardo al tema dei livelli: 
- Where is the self? A neuroanatomical theory of consciousness. Strehler, Synapse, 7: 44-91, 1991;  
- How can we find the neural correlates of consciousness? Block, TINS, 19 (11): 456-459, 1996;  
- The functional neuroanatomy of awareness: with a focus on the role of various anatomical systems in the control of intermodal attention. Smythies, Consciousness and cognition, 6: 455-481, 1997.  
Grazie per i molto interessanti interventi in lista di tutti sul tema partito - e che personalmente spero torni al - dal "sognare lucido". 

7-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Metacognizione")  
On 07-01-2000 Ileana Taddei wrote: 
>Non avevo capito l'affermazione di Cavagna e 
>non capisco l'osservazione di Angelozzi (loro due mail del 6-1-2000). 

Provo a riformulare diversamente la mia parte Mi sembrava che Cavagna negasse l'aspetto "privato", cioè strettamente soggettivo dell'evento mentale del sogno, sulla base della presenza della lucidità. Ora, il punto è che tutti i nostri eventi mentali sono soggettivi e gli altri per conoscerli devono attendere che il soggetto, unico proprietario ed esperiente, li comunichi. So (è un discorso a latere, che non ha riferimenti con quanto affermato da Cavagna) che molte teorie psichiche pretendono di sapere cosa vi è in un soggetto meglio del soggetto stesso, ma ritengo che siano solo pretese. Certo, in talune situazioni abbiamo aspetti comportamentali, oggettivi, che possono suggerire, fare sospettare gli eventi mentali ad essi legati, ma non certo sostituirli o per questo renderli pubblici. In fondo posso nascondere un mio dolore o simulare un dolore che non ho. Ma solo io posso dire se sento o non sento dolore. 
Il sogno rimane un evento privato (io sono l'unico testimone degli eventi del sogno, e gli altri devono fidarsi del mio racconto) anche nella condizione di lucidità (io sono l'unico testimone anche della mia coscienza). LaBerge stabiliva delle comunicazioni basate su cenni palpebrali, con i presenti nella stanza dove stava dormendo e sognando un sogno lucido, ove era consapevole di sognare e a tratti mandava comunicazioni su quanto stava vivendo e sognando, ai presenti. E' di fatto diverso dal fatto che io racconti una mia fantasia?. Compare un qualcosa di oggettivo che sostituisca il racconto che faccio di un mio evento soggettivo? A mio parere no. A parte poi le situazioni di LaBerge, noi in genere abbiamo che, al risveglio (!), ricordiamo di essere stati consapevoli nel sogno. In fondo quell'evento mentale è avvenuto nello stato di coscienza del sogno, e siamo debitori a Cavagna della riflessione che non è bene confondere eventi mentali e stati di coscienza. 
Ti ringrazio molto per i tre riferimenti bibliografici. 

7-1-2000, From: Davide Cavagna ("Metacognizione")  
Lunga risposta, me ne scuso con i lettori. Scrive Ileana Taddei: 
>Non avevo capito l'affermazione di Cavagna e non capisco l'osservazione di 
>Angelozzi (loro due mail del 6-1-2000). Potete provare a riformulare questo punto? Grazie. 

Ci provo: quando raccontiamo un sogno "non è più lo stesso, anche se gli va vicino". Ovvero: abbiamo per lo più la sensazione che i sogni siano fatti privati che a stento possono essere compresi da un'altra persona. Per questo, credo dicesse sempre Bion, è una cosa ben strana che si vada da un analista a raccontarli... Il sognare lucido dà invece l'impressione che il sogno sia già bell'e preparato per essere riferito tale e quale, perché è facilmente accessibile la sua verbalizzazione interiore "io sto sognando questa cosa X". Sognare lucido ha l'effetto di far pensare: "allora i sogni sono cose comunicabili, non sono inafferrabili, possono essere trattenuti e ricordati tali e quali ecc.". Di fatto, a mio avviso, questa convinzione non è scevra dall'illusorietà propria di tutti i sogni. Illusorio, però, non significa irreale, ma parzialmente reale. Potremmo dire: c'è uno stato di coscienza parzialmente desto (?) che riguarda processi sia onirici che lucidi. Tutto qui. 

Risposte ad Angelozzi:  
1. Parlando di comunicabilità del sogno, mi riferivo alla *presunzione* e non alla *realizzazione* di una vera comunicazione. Credo sia esperienza comune aver la sensazione di poter *afferrare* il sogno e riprodurlo al risveglio - analogamente al sognare di avere un oggetto materiale tra le mani e soprendersi al risveglio di non trovarlo più. Credo dunque che l'esperienza onirica sia comunicabile solo come racconto e che "il sogno raccontato" sia l'unica esperienza condivisibile che abbiamo durante la veglia. Quanto al contagio sono perfettamente d'accordo: le mamme contagiano i bambini quando sono nervose, depresse ecc. Ritengo che il contagio sia un processo emozionale fisiologico e basilare per la crescita psichica. Quindi, se accettiamo che gli stati di coscienza sono stati emotivo-cognitivi complessi ed elaborati (che dipendono cioè da una fitta trama di processi a vari livelli), possiamo capire perché a volte siamo contagiati dallo stato emotivo altrui e finiamo per "pensare" a quello che vuole l'altro. Personalmente, a differenza dell'ipotesi lacaniana, ritengo che l'emozione non sia propriamente effetto del significante linguistico; semmai assomiglia di più all'"idioma" di cui parla Bollas. Il linguaggio può però fare da "mezzo di trasporto" - per questo l'induzione ipnotica avviene anche con determinate modificazioni del paralinguistico. 
2. Materialismo e spiritualismo 
Senz'altro d'accordo sul fatto che il materialismo sia una metafisica. Personalmente ritengo che, per discutere scientificamente di psicologia, vadano utilizzati esclusivamente i seguenti strumenti (l'ordine è casuale): 
- paradigma evoluzionista come orizzonte di riferimento 
- dati tratti dalla ricerca qualitativa e quantitativa 
- attenzione fenomenologica all'introspezione 
- osservazione clinica. 
Entrando nel merito: 
Concordo su quanto dici di Dick: come tutti i buoni scrittori ha saputo esplorare inediti territori della mente. Se la fantascienza nasce dall'inquietudine per il "non-umano dell'uomo", Dick senz'altro ha saputo cercare una risposta umana, intuitiva e poetica, a una profonda paura. 

>Ah le teorie emergentiste!! Tu senti che dicono veramente qualcosa? 
Soltanto che la coscienza non è il momento di inizio, ma un frutto prelibato, che richiede una complessa e continua maturazione da un buon albero in un buon terreno. 

>Questo è un problema non da poco. Mi viene da domandare: chi è che racconta? 
Personalmente ritengo più semplice pensare che per avere un "chi" occorre un lavoro di continua mobilitazione degli schemi mentali e di organizzazione gerarchica degli stessi ecc. Quindi penso che la testa di ciascuno sia giusto sufficiente per produrre uno di questi chi, e per lo più (ad esempio di notte) in *modalità provvisoria*, per usare una espressione informatica. 

>Come è possibile questa invarianza, cosa è? 
Replico con una domanda: il "sé" è sempre la stessa invarianza, oppure è un processo in parte ricorsivo, in parte cumulativo, in parte distruttivo? 

>ribadirei che il fatto di essere consapevoli di qualcosa ne toglie il 
>carattere automatico, implicito rendendomene meno vincolato. 

Direi meglio: se "sono consapevole" e basta la cosa non si risolve; se la consapevolezza nasce da una ristrutturazione dinamica profonda che si traduce magari in un insight, allora si passa ad altro. Per questo non basta "dire" al paziente che cosa ha perché questo ne faccia a meno. 

>Il terapeuta è solo colui che può aiutare ad indicare questa strada (se la ha 
>vissuta come esperienza...). 

Ovviamente sono d'accordo sul fatto che il terapeuta ha fatto un po' di lavoro con se stesso. Ma il problema è un altro: se la mettiamo così, allora la terapia antropologicamente non si distingue da un rito di iniziazione. Invece reputo che la terapia, se vogliamo che sia una pratica scientificamente adeguata, debba essere riconducibile a una tecnica comunicabile e insegnabile, e non ai misteri eleusini. 

Tullio Carere scrive: 
>Osservo semplicemente che esistono due livelli di 
>funzionamento mentale, descritti sin dall'antichità come "credere di 
>sapere" e "sapere di non sapere", e chiamo "psicologico" il primo (perché è 
>proprio di tutti gli esseri animati, cioè dotati di anima o psiche), e 
>"spirituale" il secondo (perché la capacità di sospendere la validità dei 
>propri schemi cognitivi sta alla base di ogni attività mentale superiore). 
>Alla coppia psicologico/spirituale si può sostituire la coppia 
>cognitivo/metacognitivo, o altre. Non mi formalizzo sui termini, basta intendersi sulla sostanza. 

Non ho interesse a prolungare oltre la discussione filosofica, perciò ribadisco solo i problemi a cui faccio riferimento: 
- spirituale non mi sembra per nulla coincidente con metacognitivo: se li usi come sinonimi dai ad intendere che ci sia una similarità tra i campi di esperienza che designano; 
- mi sembra che ci sia la tendenza a omogeneizzare "metacognizione", "epoché fenomenologica", "meditazione trascendentale" ecc.; a me sembrano funzionamenti differenti, con qualità descrittive distinte, che vale la pena di non livellare altrimenti si corre il rischio di perdere differenze importanti; 
- va dunque chiarito a che preciso ambito di esperienza ci si riferisce con "metacognizione". Il sognare lucido potrebbe essere a mio avviso un buon esempio paradigmatico della metacognizione in fieri. 
Quindi, lasciamo perdere la "psiche o anima", e parliamo dei livelli di funzionamento. Ipotesi: 
- mi sembra che con metacognizione si intenda l'autoosservazione del funzionamento cognitivo, non del funzionamento fisiologico; per questo parlavo di "disattenzione corporea"; 
La mia congettura è che la differenza tra cognizione e metacognizione non stia nel fatto che nella metacognizione sono presenti funzionamenti nuovi e diversi dalla cognizione, ma che gli stessi funzionamenti di base della cognizione siano trattati in modo aspecifico, commutabile e forse dissociabile. A sostegno di ciò, porto il fatto che il funzionamento metacognitivo opera su "oggetti mentali" al pari del funzionamento cognitivo; solo che questi oggetti sono i processi cognitivi stessi che vengono *oggettualizzati*. 
Esempio: faccio metacognizione quando mi soffermo a riflettere su "come penso"; ma per farlo non utilizzo funzioni nuove, bensì applico e affino le mie strategie che utilizzo per il problem solving "ordinario". La qualità differente tra cognizione e metacognizione compare a mio avviso a livello di coscienza, per l'effetto emotivo della temporanea esclusione dei dati sensoriali (mi penso come "io" e non come "io corporeo"?). L'autoconsapevolezza risulta affine alla metacognizione in quanto osservo *a breve distanza* (memoria di lavoro?) alcuni processi attivati, come il mantenimento dello stato di coscienza. Coscienza e consapevolezza sono sovente sinonimi per la psicologia ingenua in quanto la percezione di uno stato mentale ordinariamente non si trova disgiunto dallo stato di veglia. Al contrario, i sogni si dimenticano. Il sognare lucido è un controfatto alla teoria ingenua che avvengono processi di autoconsapevolezza e metacognizione solo nello stato di coscienza diurna. 

>Il fatto che occorra un atto 
>deliberato di affidamento a un vuoto di sapere (niente a che fare con 
>"un'attivazione fisiologica") non può che dare fastidio a quegli 
>psicoanalisti che vorrebbero bonificare l'inconscio a suon di 
>interpretazioni, come se fosse lo Zuider See

Sono d'accordo sulle interpretazioni-idrovore; preferisco però non sganciare un funzionamento mentale dalla sua ipotetica base neurofisiologica (sempre che si consideri la nascita psicologica come un momento dello sviluppo individuale, e non come l'infusione di un'anima dall'alto). Che poi, nell'individuo adulto, la funzione metacognitiva sia "autonoma" dalla fisiologia, non significa che sia "incorporea". 
Quando alla terapia, ti ri-cito: 
>Solo il vero terapeuta, capace di metacognizione, può aiutare 
>il suo paziente a liberarsi dagli schemi in cui è rimasto intrappolato 
>(fantasie inconsce o malapprendimenti), grazie al fatto che, e nella misura 
>in cui, lui stesso per primo ha imparato a liberarsi dai propri. 

Tre cose: 
1) Il fulcro della terapia, a quanto capisco, consiste nel "liberare gli altri dagli errori che hanno nella testa". Se l'idea è che ci sia una eliminazione di tali errori, penso invece che la realtà psichica sia "incorreggibile" proprio come si dice di un bambino un po' discolo. Se invece si tratta di un lasciar da parte schemi obsoleti, allora sarebbe meglio dire: la terapia può aiutare a pensare soluzioni non pensate in precedenza. Ma ciò non toglie che i vecchi schemi permangano, magari "disattivati", meno investiti ecc. 
2) Mi sembra eccessivo che la condizione necessaria-sufficiente (tu dici: "grazie al fatto che e nella misura in cui") della terapia sia che il terapeuta sia esentato da conflitti, schemi inadeguati ecc. E chi l'ha detto? Come se i terapeuti fossero tutti sant'uomini, saggi e pieni di buone intenzioni e ottimi consigli, ehehehe! Non è forse più realistico pensare che il terapeuta forse è divenuto sufficientemente in grado di non dare troppo conto ai suoi schemi ed è sufficientemente disponibile per interessarsi ai processi del paziente per vedere se sono funzionali o meno? 
3) Quanto al paziente, vogliamo dargli anche a lui poverino un po' di metacognizione sua propria, magari un po' sgangherata? O forse va "a scuola di metacognizione" dal terapeuta e deve superare l'esame? In fondo, chissà come mai si usano i sogni del paziente e non (per lo più) quelli del terapeuta? Se non erro la differenza con gli sciamani che utilizzano invece i propri sogni per curare sta tutta qui. A presto 

7-1-2000, From: Ileana Taddei ("Metacognizione")  
Per Andrea Angelozzi (mail del 7-1-2000): Per favore, puoi scrivere qualcosa di più su LaBerge, che come autore di fantascienza non conosco? :-) "Stabiliva delle comunicazioni basate su cenni palpebrali"??? "A tratti mandava comunicazioni su quanto stava vivendo e sognando, ai presenti"??? Scusate l'ignoranza, ma qui devo proprio avere un buco nero. 

7-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Metacognizione")  
Per Ileana Taddei (mail del 7-1-2000): Come scrittore di fantascienza è un po' difficile da conoscere, dato che di fantascienza non ha mai scritto. Più facile come matematico prima e psicofisiologo poi, che ha lavorato a Stanford e ha collaborato con autori del livello di Dement sui problemi del sonno e del sogno. In inglese (reperibili alla Amazon) trovi diversi suoi libri: Lucid Dreaming, Exploring the world of lucid dreaming, Attentional Processing: The Brain's Art of Mindfulness (Perspectives in Cognitive Neuroscience). Ha fondato un Lucidity Institute e in rete trovi parecchi riferimenti a questo istituto e al suo fondatore. 

7-1-2000: From: Giovanni Ruggiero ("Metacognizione")   
A proposito di metacognizione, dico la mia. 

1. La metacognizione è stata dimostrata come un buon indicatore di "sanità psicoterapeutica", o di buon outcome da almeno 15 anni. I lavori di Teasdale sono della metà degli anni '80. Considerando la metacognizione un indicatore di outcome e basta, darei ragione a Cavagna: la metacognizione non è un "livello superiore" della coscienza, ma un semplice evento mentale come un altro, sia pure riflessivo. Tuttavia, proprio perché riflessivo, è comunque indice di capacità mentale "evoluta", critica. 

2. In questo senso, non comprendo assolutamente la confusione tra metacognizione e dissociazione fatta da alcuni. La metacognizione è invece apparentata alla capacità critica. Ha ragione Carere quando ci ricorda i greci e Socrate, come iniziatori della riflessività mentale. Ma è proprio così? Capacità critica-riflessiva e sanità mentale sono inevitabilemnte accoppiate? Faccio due esempi messaggeri di dubbi. 

3. Quasi due millenni dopo Socrate, Martin Lutero scrive i Discorsi a tavola. Tra le tante cose interessanti che troviamo in questo libro, assistiamo, nel capitoletto "sul peccato", all'autopsicoterapia di Lutero per il suo gravissimo caso di ossessività, esperienza che lo perseguitò per circa 15 anni. Il poveretto, all'inseguimento di un impossibile sogno di purezza, si rendeva conto di non riuscire a non peccare. Poteva astenersi dagli atti, ma non riusciva mai a non peccare mentalmente. Lutero né usci fuori di colpo, intuendo che doveva uscire fuori dal campo delle "buone e cattive opere", incontrollabili dal soggetto umano, per approdare al campo della "fede". 

4. Quel che è secondo me interessante è che Lutero dimostra - da un certo punto di vista - basse capacità metacognitive. Come un greco pre-classico Lutero attribuisce i propri "cattivi pensieri" ad un agente esterno, naturalmente il diavolo. Non dice mai: "Io penso il peccato X", e nemmeno "Il diavolo mi induce a pensare il peccato X", ma semplicemente "Il diavolo mi dice X". Sente le voci? 

5. La soluzione di Lutero alla propria ossessività è - apparentemente - non metacognitiva, ma somiglia piuttosto alla tecnica degli alcolisti anonimi: egli si abbandona ad una entità superiore, annullando la propria volontà di "guarire", ammettendo la superiorita del "diavolo", e smettendo il tentativo di disintossicarsi con le proprie forze. In tal modo, approda alla sanità mentale, dialoga con forza e sicurezza con il diavolo, e - come é noto - impara anche a mandarlo a farsi fottere (sic!) 

6. Passano un altro paio di secoli, e trovo qualcosa che, a differenza del "dissociato" Lutero, mi appare estremamente metacognitivo. Parlo delle Lettere Persiane di Montesquieu. Qui abbiamo un autore, Montesquieu, il quale immagina di conoscere le lettere di un persiano fuggito per motivi politici in Francia. In queste lettere il persiano riporta le proprie impressioni di viaggio. Egli osserva i francesi, ne assorbe i principi filosofici illuministici, ma rimane stupito e scandalizzato quando osserva il loro modo liberale di trattare le donne. 

7. Usbek (è questo il nome del persiano) "razionalmente" osserva ed assorbe perfino i principi filosofici dell'occidente, arrivando a criticare il Corano. E', quindi, molto riflessivo e metacognitivo. Tuttavia, quando si tratta di andare nel vivo (il rapporto con le donne), "emozionalmente" non si smuove di un millimetro. Persiano è e persiano rimane. Infatti, Usbek, accanto alle lettere "illuminate ed illuministiche" ai suoi amici colti, continua a scrivere mostruose lettere minatorie ai suoi eunuchi, rimasti in Persia a sorvegliare un harem di 5 donne. Uno spaventoso delirio di gelosia si sviluppa. 

8. In conclusione, Lutero guarisce quasi dissociandosi. Non arriva mai a cogliere la natura psichica del peccato mentale, ma continua ad attribuirlo ad un agente esterno. In un certo senso non metacognitivizza. Eppure guarisce. 

9. Usbek, invece, con tutta la sua capacità critica in ambito filosofico, e la sua capacità di oscillare metacognitivamente e virtuosisticamente tra oriente ed occidente, "emozionalmente" non metacognitivizza per niente, ed anzi si comporta da sadico a distanza con le sue donne (e tra l'altro non riesce poi ad evitare corna e ribellione dell'harem. Ben gli sta). Sembrerebbe, quindi, che ci sia una metacognizione razionale ed una emozionale, quest'ultima ben più efficace psicoterapeuticamente. 

10. Tuttavia, mi contraddico subito. Osservo che la posizione di "fede" e non di "opere" di Lutero somiglia moltissimo alla sospensione degli automatismi cognitivi ricordata da Carere: 
>Al contrario, la sospensione degli automatismi cognitivi è il presupposto 
>per un'attenzione più profonda e più precisa agli stati corporei, come è 
>pratica corrente in molte tradizioni orientali. 

e come dice anche Angelozzi: 
>Come la consapevolezza del 
>pensiero dà colore al pensiero (anche se la consapevolezza di per sè non ha 
>colore...) e ci rende vivo il fatto di essere esseri pensanti, così la 
>consapevolezza del corpo, ne toglie l'aspetto abitudinario e lo rende vivo. 
>E' come aiutare un bulimico, che si abboffa di cibo, senza sentirne il 
>sapore, a essere consapevole del fatto di mangiare e dei sapori che sente. 
>La dissociazione è la prima, quella senza consapevolezza, non la seconda. 

11. Infine, è altrettanto vero che probabilmente Montesquieu, con le lettere persiane esorcizzò, pare, la sua indomabile gelosia, costruendo quindi, con il suo romanzo epistolare, un gigantesco edificio metacognitivo a più piani di coscienza sovrapposti. 

8-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")  
On 07/01/2000 Davide Cavagna wrote: 
>lasciamo perdere la "psiche o anima", e parliamo dei livelli di funzionamento. Ipotesi: 
>- mi sembra che con metacognizione si intenda l'autoosservazione del funzionamento cognitivo 

Non ha senso parlare di "meta"-cognizione, se non in funzione di un livello basale di cognizione, rispetto al quale la metacognizione si pone a un livello superiore. Questo livello basale è facilmente identificabile, perché è presente naturalmente in tutti gli esseri animati o psicologici, cioè dotati di anima o psiche (non è osservabile nei vegetali). E' il livello della cognizione "implicita" o "procedurale", che procede automaticamente grazie a schemi e meccanismi innati o acquisiti (anche l'acquisizione di muovi schemi, come nell'addestramento di un animale, si appoggia comunque a meccanismi innati). Il superamento di questo livello basale, allora, non consiste nell'"auto-osservazione del funzionamento cognitivo". La parola chiave non è "osservazione" (anche nella semplice cognizione si osserva e ci si auto-osserva), ma *sospensione* del funzionamento percettivo-cognitivo automatico, dei suoi schemi e meccanismi. In questa sospensione si accede a un livello superiore di funzionamento, non più automatico, quindi non più prevedibile. Letteralmente si disinserisce il pilota automatico e si passa alla guida manuale (cosa che l'essere soltanto animato o psicologico non è in grado di fare). Che cosa accade in questo stato di sospensione? I meccanismi del livello cognitivo non sono ovviamente cancellati, ma sono governati dal soggetto in funzione di un'esperienza che quei meccanismi ancora influenzano, ma non sono più in grado di condizionare del tutto. E' questo margine di libertà dal funzionamento cognitivo automatico che è corretto chiamare metacognizione. Si può tralasciare di chiamare "spirituale" questo livello (visto che questo termine sembra un po' sconveniente in circoli "psicologici"), e chiamarlo invece consapevole, o metacognitivo, o altrimenti. L'importante è che sia chiaro di che cosa si sta parlando. Questo è il punto di partenza, da cui si può procedere per indagare che cosa succede, come funziona, dove si può andare a partire da questa sospensione. 

>faccio metacognizione quando mi soffermo a riflettere su "come 
>penso"; ma per farlo non utilizzo funzioni nuove, bensì applico e affino le 
>mie strategie che utilizzo per il problem solving "ordinario" 

Il "problem solving ordinario", se non consiste semplicemente in una serie casuale di tentativi ed errori, ma si basa sulla riflessione e sul pensiero creativo, è già metacognizione: è il lato "object-oriented" (orizzontale) della metacognizione. Da questo punto di vista, in effetti, non è rilevante se gli oggetti in questione siano esterni o interni. 

>Il fulcro della terapia, a quanto capisco, consiste nel "liberare gli 
>altri dagli errori che hanno nella testa". 

No, non dagli errori che hanno nella testa. L'errore non consiste in una "idea o fantasia erronea" (tutte le idee o fantasie sono erronee per un verso o per l'altro), ma nel fatto stesso di essere intrappolati in una fantasia o idea, cioè nel fatto di non essere capaci di prenderne le distanze: dunque di non essere capaci di metacognizione relativamente a questa o quella idea o fantasia. 

>Mi sembra eccessivo che la condizione necessaria-sufficiente (tu dici: 
>"grazie al fatto che e nella misura in cui") della terapia sia che il 
>terapeuta sia esentato da conflitti, schemi inadeguati ecc. 

A) La capacità metacognitiva è necessaria, ma non sufficiente. La terapia è un'operazione complessa che richiede anche altre capacità. B) Disporre di una capacità metacognitiva "sufficientemente buona" non significa essere "esentato da conflitti, schemi inadeguati ecc". Significa esserne sufficientemente consapevoli, capaci di prenderne le distanze, di non farsene condizionare. 

>Quanto al paziente, vogliamo dargli anche a lui poverino un po' di 
>metacognizione sua propria, magari un po' sgangherata? 

Altroché. Può ben essere anzi che in certe fasi o momenti della terapia i ruoli si invertano, e il paziente si dimostri più consapevole del terapeuta, soprattutto sulle "aree cieche" di questo. Ma in generale la terapia procede se il terapeuta è "un po' più avanti" del suo paziente. Se non lo è, o cessa di esserlo, il paziente di solito se ne accorge e chiude la terapia. 

Alla domanda chiave di Angelozzi: "chi è che racconta?", Cavagna risponde: 
>Personalmente ritengo più semplice pensare che per avere un "chi" occorre 
>un lavoro di continua mobilitazione degli schemi mentali e di organizzazione 
>gerarchica degli stessi ecc. 

Questa mi sembra una risposta "cognitiva". Una risposta "metacognitiva" potrebbe essere: "non lo o, forse è impossibile saperlo, certo non lo saprà mai un soggetto che si pone di fronte a un oggetto; invece è possibile, anche se non è facile, accedere a un livello di esperienza in cui quella differenza viene temporaneamente meno, come indicano, senza andare troppo lontano, LaBerge e Tholey; a quel livello non si 'sa' nulla, nel senso comune del sapere, ma forse si 'sa' qualcosa in un altro senso". 

On 7/01/2000 Giovanni Ruggiero wrote: 
>La soluzione di Lutero alla propria ossessività è -apparentemente- non 
>metacognitiva, ma somiglia piuttosto alla tecnica degli alcolisti anonimi: 
>egli si abbandona ad una entità superiore, annullando la propria volontà di 
>"guarire", ammettendo la superiorità del "diavolo", e smettendo il tentativo 
>di disintossicarsi con le proprie forze. In tal modo, approda alla sanità 
>mentale, dialoga con forza e sicurezza con il diavolo (...)
>In conclusione, Lutero guarisce quasi dissociandosi. Non arriva mai a 
>cogliere la natura psichica del peccato mentale, ma continua ad attribuirlo 
>ad un agente esterno. In un certo senso non metacognitivizza. Eppure 
>guarisce. (...)
>Tuttavia, mi contraddico subito. Osservo che la posizione di "fede" e 
>non di "opere" di Lutero somiglia moltissimo alla sospensione degli 
>automatismi cognitivi ricordata da Carere 

Ringrazio Ruggiero per averci ricordato la straordinaria autoterapia di Lutero. Osservo: 

1. Si guadagna qualcosa localizzando l'impulso trasgressivo nell' Es, piuttosto che nella mente del diavolo? Il guadagno, se c'è, è modesto. In entrambi i casi si prende atto della natura "non-Io" di un impulso pericoloso per l'Io. Il nome che si vuol dare al territorio non-Io mi pare poco rilevante, rispetto alla sostanza della questione: che fare con questo impulso? Cercare di dominarlo cognitivamente o interpretativamente (con la forza e i mezzi dell'Io), o abbandonare un tentativo destinato alla sconfitta per passare a un livello che è evidentemente "meta" rispetto alla cognizione? 

2. La fede di Lutero è certamente una posizione metacognitiva, ma "being-oriented", o "verticale". Anche qui possiamo chiederci: che differenza c'è tra la fede in Dio di Lutero e la fede in O di Bion? Sono entrambi simboli dell'ignoto, ignoto in quanto inconoscibile: il noumeno, la cosa in sé. Lutero e Bion sono "veri terapeuti", in quanto hanno scoperto il potere generativo, rigenerativo e risanativo dell'essere noumenico. Il terapeuta che non ha ancora scoperto questo potere, che non sa affidarsi all'ignoto, tenderà fatalmente ad affidarsi al già noto, al proprio sapere, alle teorie della propria scuola: perché a qualcosa bisogna comunque affidarsi. E' la posizione che gli antichi chiamavano "hybris". 

>Usbek, invece, con tutta la sua capacità critica 
>in ambito filosofico, e la sua capacità di oscillare metacognitivamente e 
>virtuosisticamente tra oriente ed occidente, "emozionalmente" non 
>metacognitivizza per niente, ed anzi si comporta da sadico a distanza 
>con le sue donne (e tra l'altro non riesce poi ad evitare corna e 
>ribellione dell'harem. Ben gli sta). 
>Sembrerebbe, quindi, che ci sia una metacognizione razionale ed una 
>emozionale, quest'ultima ben più efficace psicoterapeuticamente. 

Non sottovaluterei la metacognizione culturale di Usbek: ce ne fosse un po' di più in giro, staremmo tutti molto meglio. E' solo una conquista parziale. Io loderei Usbek per quello che è riuscito a fare e lo incoraggerei a procedere per bonificare anche il suo rapporto con le donne, visto che gli è riuscito così bene con gli uomini. 

8-1-2000, From: Davide Cavagna ("Metacognizione")  
On 08/01/2000 Tullio Carere wrote: 
>La parola chiave non è "osservazione" (anche nella semplice 
>cognizione si osserva e ci si autoosserva), ma *sospensione* del 
>funzionamento percettivo-cognitivo automatico, dei suoi schemi e 
>meccanismi. In questa sospensione si accede a un livello superiore di 
>funzionamento, non più automatico, quindi non più prevedibile. 

Presumo che la sospensione implichi un particolare dispositivo mentale in grado di sospendere; come funziona? 

>Che cosa accade in questo stato di sospensione? I meccanismi del 
>livello cognitivo non sono ovviamente cancellati, ma sono governati dal 
>soggetto in funzione di un'esperienza che quei meccanismi ancora 
>influenzano, ma non sono più in grado di condizionare del tutto. 

Potremmo dire che il soggetto è servoassistito dai suoi meccanismi, per cui ha uno spazio di manovra più libero? Questo a mio avviso non significa che funziona a un livello superiore, ma soltanto che funziona con maggior discrezionalità. 

>L'errore non consiste in una 
>"idea o fantasia erronea" (tutte le idee o fantasie sono erronee per un 
>verso o per l'altro), ma nel fatto stesso di essere intrappolati in una 
>fantasia o idea, cioè nel fatto di non essere capaci di prenderne le 
>distanze: dunque di non essere capaci di metacognizione relativamente a 
>questa o quella idea o fantasia. 

Quindi concorderai sul fatto che si tratta di un aumento della discrezionalità, non di un accesso a facoltà presunte superiori. 

Sempre Carere: 
>Alla domanda chiave di Angelozzi: "chi è che racconta?", Cavagna risponde: 
>>Personalmente ritengo più semplice pensare che per avere un "chi" occorre 
>>un lavoro di continua mobilitazione degli schemi mentali e di organizzazione 
>>gerarchica degli stessi ecc. 
>Questa mi sembra una risposta "cognitiva" [omissis

Mi sembra già entusiasmante e emozionante avere una risposta cognitiva. E poi mi sovviene l'Alighieri... 

Passando a Ruggiero, che ringrazio per le gustose vignette quasi-meta-cliniche :-)) 
>non comprendo assolutamente la confusione tra 
>metacognizione e dissociazione fatta da alcuni. La metacognizione è invece 
>apparentata alla capacità critica. 
>Sembrerebbe, quindi, che ci sia una metacognizione razionale ed una 
>emozionale, quest'ultima ben più efficace psicoterapeuticamente. 

Io uso il termine "dissociazione", non come descrittore psicopatologico, ma per indicare più in generale una modalità di selezione degli stati mentali che implichi la separazione e la esclusione dal campo di coscienza (attenzione e concentrazione). In tal senso la vedrei come una procedura fisiologica che può assumere però significato patologico nel momento in cui non è più reversibile. Mi sembra plausibile supporre che la metacognizione si basi su un siffatto "trascegliere" di stati mentali, quindi è eminentemente "critica". Se con metacognizione "emozionale" intendi qualcosa di affine all'insight sono d'accordo. Prorpio perché riguarda l'"in-sight" (la vista interna) che ritengo che la metacognizione sia afferente alla auto-osservazione (mentre Carere sembra non ritenerlo un fattore discriminante). 

Carere risponde quindi a Ruggiero: 
>Si guadagna qualcosa localizzando l'impulso 
>trasgressivo nell' Es, piuttosto che nella mente del diavolo? Il guadagno, 
>se c'è, è modesto. In entrambi i casi si prende atto della natura "non-Io" 
>di un impulso pericoloso per l'Io. 

L'utilità (o il danno) di posizionare l'impulso dentro o fuori l'individuo è forse connessa alla reazione emotiva di fronte a una prospettiva di decentramento del soggetto. Alcune teorie, come la psicoanalisi, vi fanno riferimento, altre no. Dove stiano in verità gli impulsi mi sembra una questione metafisica al pari di definire "dove sta l'anima". 

>Lutero e Bion sono "veri 
>terapeuti", in quanto hanno scoperto il potere generativo, rigenerativo e 
>risanativo dell'essere noumenico. Il terapeuta che non ha ancora scoperto 
>questo potere, che non sa affidarsi all'ignoto, tenderà fatalmente ad 
>affidarsi al già noto, al proprio sapere, alle teorie della propria scuola: 
>perché a qualcosa bisogna comunque affidarsi. E' la posizione che gli 
>antichi chiamavano "hybris". 

Mah, tutto sommato penso che a volte gli dei siano meno vendicativi di quello che crediamo... A presto 

8-1-2000, From: Ileana Taddei ("Lucidity Institute")   
On 07/01/2000 Andrea Angelozzi wrote: 
> Ha fondato un Lucidity Institute e in rete trovi parecchi riferimenti a 
> questo istituto e al suo fondatore. 

Grazie. Ho trovato il sito del Lucidity Institute e ho letto alcuni articoli (mentre dallo schermo si sprigionava un sottile profumo New Age). Mi sono trovata incuriosita ma anche incapace sia di calarmi nell'entusiasmo per l'ennesima individuazione di una "nuova frontiera", sia soprattutto di apprezzare il lato pratico-didattico della faccenda. Ad esempio, non ho capito nulla dei devices impiegati (NovaDreamer, Supernova, ecc.). Per quanto riguarda questo secondo punto, qualcuno è così gentile da spiegarmi di cosa si tratta? 

9-1-2000, From: Andrea Mazzeo ("Sognare lucido") 
Ho seguito il dibattito con molto interesse; vi è qualche punto che mi piacerebbe approfondire. 
Nel caso di LaBerge, che riusciva a stabilire una comunicazione attraverso movimenti palpebrali mentre sognava, lo stato di sonno REM (fase del sogno) era verificato con la registrazone polisonnografica? 
Trovo strana la possibilità di compiere movimenti muscolari volontari durante il sogno, poiché in quella fase si ha l'abolizione fisiologica del tono muscolare in tutta la muscolatura; sono possibili dei movimenti automatici del viso e degli arti (mioclonie) ma privi di qualsiasi significato comunicativo. 
Potrebbe essersi trattato di uno stato di coscienza particolare, una sorta di trance autoipnotica, in cui sia possibile sperimentare un'attività mentale simile a quella onirica, pur potendo mantenere un certo contatto comunicativo con il mondo esterno. 
Fra parentesi, il dato EEG del sonno REM è alquanto curioso: l'attività elettrica del cervello durante il sonno REM è simile all'attività elettrica dello stato di veglia; che oscuro significato ha questo fatto? 
Sul cosiddetto "sogno lucido" mi ritrovo in difficoltà: se sogno di stare sognando sto pur sempre sognando; è un sogno sulla facoltà di sognare (meta-sogno?) ma è pur sempre un'attività mentale onirica; al risveglio posso ricordare il sogno, posso ricordare di avere sognato di stare sognando; ma quel che ricordo corrisponde effettivamente a quel che ho sognato? Al risveglio ricordiamo frammenti di sogno, cioè solo quei contenuti dell'attività mentale onirica che trovano "agevole" integrazione nell'attività mentale della veglia. Ciò sia con riferimento alla questione freudiana della censura onirica, sia alla necessità, per poterli pensare (e comunicare), della "traduzione" dei contenuti non-verbali del sogno (che sono prevalenti) nel linguaggio verbale; credo che in questo passaggio, da analogico a digitale, si perda qualcosa. 
Certamente, quella "istanza" che ci consente di avere cognizione durante il sogno di stare sognando è una parte della coscienza, una sezione molto peculiare della coscienza (sottocorticale?) che, presumo, conservi anche durante il sonno la capacità, ad es., di registrare eventi ambientali integrandoli, a volte, nel sogno; probabilmente questa istanza, in alcuni momenti, riesce ad attivare strutture corticali metacognitive che, senza svegliarci, inseriscono nell'attività onirica la consapevolezza di stare sognando. 
Pur essendo chiaro il concetto, l'aggettivo lucido rimanda alle valutazioni psicopatologiche dello stato di coscienza nella veglia (coscienza lucida come contrario di coscienza confusa, obnubilata, oniroide, crepuscolare) e si può prestare a qualche fraintendimento. Cordiali saluti 

12-1-2000, From: Mario Galzigna ("Il 'barocco', la 'metacognizione' (MTC) et alia") 
Ho seguito con grande interesse il dibattito sulla metacognizione, portato avanti da qualche tempo in questa lista. Voglio anzitutto congratularmi con coloro che lo hanno promosso ed alimentato (Carere, Cavagna, Angelozzi, Ruggiero): l'impegno intellettuale profuso e lo stile adottato (cioè la capacità di far emergere chiaramente la diversità delle posizioni nell'assoluto rispetto delle "differenze"), da un lato fanno ben sperare sul futuro di queste nostre liste, dall'altro lato dovrebbero servire da esempio per chi ancora privilegia polemiche personali e atteggiamenti distruttivi ad un franco e civile confronto sui contenuti. 
Vorrei portare un mio piccolo contributo al dibattito in corso, cercando di svolgere qualche riflessione storico-critica sul tema della metacognizione (MTC): stimolato, tra l'altro, anche dalla generosa e gradita attenzione che Tullio Carere ha recentemente dedicato al mio articolo "La trasgressione barocca e il soggetto multidimensionale" (POL.it, "Storia & Epistemologia"). 
Procederò schematicamente per punti, senza nessuna pretesa di completezza e di sistematicità: 

1. ASCENDENTI STORICI 
Se la parola "metacognizione" è recente, l'attenzione al concetto che essa designa non è certo nuova nella storia della psicologia. Si pensi, ad esempio, agli studi sulla consapevolezza dei processi cognitivi complessi maturati nell'ambito della scuola di Wurzburg e del cosiddetto "introspezionsimo" (cfr. W. Wundt - e il suo laboratorio di psicologia a Lipsia (1879) - ed E. Tichener). Prevale qui un atteggiamento "elementistico", che punta a scomporre i contenuti coscienti nelle loro componenti elementari. Un contributo importante dell'introspezionismo - tuttora istruttivo, a mio parere - è la distinzione tra una introspezione simultanea ed un'introspezione retroattiva: nella prima osservo il contenuto del processo psichico superiore che mi riguarda (intellettivo e/o emozionale) mentre esso si svolge; nella seconda ne descrivo la funzione (e gli effetti di varia natura che tale processo induce in me), ma posso farlo solo "post festum". In caso contrario, la mia osservazione (la mia MTC, diremmo oggi), sviluppatasi contemporaneamente allo svolgersi dell'evento psichico, non può non modificarlo. Se sono sessualmente eccitato, ad esempio, una mia MTC relativa al mio eccitamento non potrà non produrre una qualche modifica sulla qualità stessa dell'eccitamento. 
A latere di questa breve annotazione storica una doverosa aggiunta: anche la categoria freudiana di autoosservazione (Selbstbeobachtung) sembra molto vicina al concetto di MTC. Nella lezione 31 dell'Introduzione alla psicoanalisi, del 1932 ("La scomposizione della personalità psichica"), Freud si chiede: "L'Io è il soggetto per eccellenza, come può diventare oggetto"? E continua: "L'Io può prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi (...) Così facendo, una parte dell'io si contrappone alla parte restante. L'Io è dunque scindibile". Questa parte verrà chiamata Super-io (o coscienza morale), a cui viene attribuita, tra le altre, la capacità di "auto-osservazione". Questa auto-osservazione che obiettivizza l'Io potrà anche assumere, nell'ambito della psicoanalisi freudiana, la caratteristica di un "insight": ma se l'insight è solo intellettivo - e quindi privo di ogni componente emozionale - sarà anche possibile vederlo come un meccanismo difensivo, di carattere superegoico, nei confronti di idee o di affetti che l'Io non riesce a vivere ed a tollerare. Anche questa idea, credo, non dovrebbe essere trascurata in un dibattito sulla MTC: una MTC che ha per oggetto un certo vissuto emozionale, dovrebbe, normalmente, possedere anch'essa una certa coloritura emotiva. In caso contrario - nel caso, ad esempio, in cui la MTC sviluppatasi a ridosso di una emozione intensa sia "soltanto" un atto cognitivo (asettico, neutro) - non sembra illegittimo il sospetto che si tratti, per l'appunto, di un meccanismo difensivo, o critico, o correttivo: tale, quindi, da alterare o da filtrare l'emozione di partenza. 

2. ANTECEDENTI STORICI 
La problematica specifica della MTC - anche se influenzata dall'introspezionismo - si sviluppa agli inizi degli anni 70, in ambiti molto specifici: la psicologia del pensiero e dell'apprendimento, le ricerche sullo sviluppo delle strategie di memoria e gli studi sull'intelligenza artificiale. Si pensi soprattutto ai lavori di J.H.Flavell, che usa per primo il termine "metamemoria" (1970). Da questa prima stagione della MTC emerge una sua definizione, complessa ma precisa, che va tenuta presente: la MTC è sia la CONSAPEVOLEZZA che il CONTROLLO che l'individuo ha dei propri processi cognitivi. I due aspetti (conoscenza, da un lato, controllo e regolazione dall'altro lato) vengono considerati, da molti autori, distinti, anche sa tra di loro collegati. 
Emerge, già in questa fase iniziale, quello che mi azzarderei a definire un *riduzionismo cognitivista*, che tende ad isolare la MTC dalle sue implicazioni affettive. Non solo: si tende anche a trascurare il fatto che la MTC stessa può riguardare non soltanto aspetti dell'attività concettuale, ma anche vissuti ed esperienze di carattere emozionale. Queste rapide indicazioni storiche dovrebbero, a mio parere, porci il seguente problema: in quale misura noi, oggi, siamo inclini a riprodurre acriticamente la curvatura riduzionista di queste prime ricerche? 

3. MATRICI FILOSOFICHE 
Tra le matrici filosofiche della MTC è stata giustamente evocata la posizione socratica e, più in generale, tutta la problematica della *cura di sé*, che tanta parte ha avuto nell'etica e nella gnoseologia degli antichi. Qualche sintetica annotazione potrà forse servire allo sviluppo del nostro dibattito. Socrate visto da Hegel: è colui che "si rinchiude in se stesso per trovarvi il giusto e il buono". Socrate visto da Merleau-Ponty: "pensava che non si può essere giusti da soli, che se si è giusti da soli si cessa di essere giusti". La ricerca storiografica di molti antichisti (tra gli altri: Vegetti, Hadot, Vernant) e dell'ultimo Foucault (cfr. La cura di sé, Miolano: Feltrinelli, 1985), danno ragione, inequivocabilmente, a Merleau-Ponty. La socratica cura di sé (che include, al suo interno, una postura metacognitiva), si coniuga sempre al sentimento di appartenenza ad un tutto, ad un mondo: il mondo umano (gli altri), il mondo sociale (la pòlis), il mondo naturale (il cosmo). La cura e la conoscenza di sé si raggiunge - come dirà più tardi Seneca - "inserendosi nella totalità del mondo" ("toti se inserens mundo", Lettera LXVI, 6). Non solo: cura e conoscenza di sé significano, tout court, pratica di un "esercizio spirituale" (per dirla con Hadot) che è al tempo stesso virtù, affettività, eros. 
Si potrebbe dimostrare dettagliatamente la correttezza di questa interpretazione, testi alla mano. Mi limito per ora a segnalarla, nella consapevolezza di quanta distanza (epistemologica e culturale) ci sia tra la cura di sé socratica e la MTC dei cognitivisti, dalla quale scompare totalmente ogni riferimento al rapporto tra queste attività "superiori" della coscienza e il mondo. La MTC "cognitivista" - il più delle volte disincarnata, destoricizzata, decontestualizzata, vista sovente come puro atto di pensiero, scisso dalle emozioni - è antropologicamente lontana dalla MTC socratica, anche se ha in comune con essa la specificità dell'atto conoscitivo: cioè la capacità di trattare l'Io come un "oggetto" da conoscere. Anche qui, le cose non sono così semplici. L'anima di Socrate, infatti, non è l'individuo psicologico dei moderni: è un oggetto interno, un demone impersonale o addirittura sovrapersonale. Ragionare in termini di "io" e di "soggetto", significa, di fatto, rimanere fuori dall'orizzonte culturale e gnoseologico degli Antichi. Il loro pensiero è stato infatti definito correttamente, da Mario Vegetti, un "pensiero senza soggetto". 
In ogni caso, è lecito, credo, porsi il seguente interrogativo: in qualemisura la curvatura *antiriduzionista* della MTC socratica (ed antica) può tornare utile alla nostra riflessione attuale? 
Mi fermo qui. Avrei voluto sviluppare altre considerazioni, soprattutto attorno a due punti: il tema della relazione tra cognizione ed emozione (con qualche cenno al "lascito" del barocco), ed il tema della relazione tra queste problematiche ed alcune importanti e recenti elaborazioni (a carattere *non riduzionista*!!!) nell'ambito delle neuroscienze. 
Non so se troverò la forza e il tempo di farlo. Le mail troppo lunghe mi creano qualche problema: quando le scrivo e quando le leggo... :))) Questa mia mail è comunque troppo lunga, e me ne scuso con tutti voi. Cordiali saluti 

15-1-2000, From: Gian Paolo Scano ("Metacognizione")   
Tornando in linea dopo un'assenza assai lunga, ho letto di corsa i numerosi interventi sulla metacogizione. Mail dopo mail sentivo crescere l'interesse, ma anche la perplessità; l'idea di metacognizione, piuttosto che precisarsi mi si confondeva e soprattutto andava perdendosi dietro quinte molto più interessanti. Forse non è un caso che la discussione abbia tracimato in territori quali la coscienza, la coscienza della coscienza, la riflessione, l'autoriflessione, l'osservazione, l'auto-ossevazione, il sapere e il non sapere socratico sino al problema del "chi" osserva, metaosserva, conosce o metaconosce "cosa". Dico non a caso perché ho il sospetto che il termine metacognizione sia il risultato di una lodevole, ma ingannevole "operazionalizzazione", che tenti cioè di definire, (rischiando di fattorializzare e di entificare) ciò che invece a me sembra il prodotto finito dell'operare complessivo del cervello di homo sapiens sapiens. Da questo punto di vista sono del tutto d'accordo con le puntualizzazioni e preocupazioni di Cavagna quando sottolinea che la "cosidetta metacognizione" non può essere intesa come "un processo ultrasintetico dell'Io, che rimanda alla fantasia di una "piramide idealista" che dalla semplice percezione accede a livelli "superiori" della coscienza". D'accordo con lui preferisco considerare, invece, "la coscienza come il risultato complessivo "di superficie" di processi multipli e sovrapposti, che si "riducono" in uno stato mentale". Anch' io credo che pensare alla metacognizione o a qualunque prestazione "alta" in termini di "funzione" superiore sia un gioco pericoloso che produce inesorabilmente "enti-menti", "omunculi" e ingombranti "sé". Fatta questa premessa, vorrei esprimere due riflessioni come contributo alla discussione. 

1) Anzitutto la "coscienza". Ho qualche dubbio che sia utile e conveniente proiettare in un "inizio" strumentalmente scelto (Socrate e perché non Amenofis IV, Davide o Geremia?...) domande e problemi relativi alla Coscienza che non sono del tutto chiare nemmeno oggi, interpretando gli asserti di ieri con le domande di oggi. Dico questo perché la distinzione tra "coscienza", "coscienza della coscienza" e "autocoscienza", sarà stata anche chiara per i greci (ma io ho qualche dubbio), è certo, tuttavia, che non era così chiara all'inizio di questo secolo. Freud (non il signor Bonaventura, quindi!) , per esempio, sicuramente a livello descrittivo padroneggiava la distinzione, ma tuttavia confondeva la "coscienza" con l' "autocoscienza" nelle sue descrizioni dell'emergere dell'Io, tanto è vero che egli riferisce l'inizio dell'Io e della costruzione della realtà al momento in cui comincia a definirsi una distinzione tra corpo e oggetto, tra interno ed esterno, ciò che naturalmente implica il non riuscire a comprendere la coscienza se non in termini di autocoscienza. Ma a parte Freud, molta psicoanalisi ancora oggi si rappresenta il neonato come un piccolo adulto larvale impegnato a costruirsi precocissime rappresentazioni in qualche modo "proprie" e separate dagli oggetti e talvolta persino complicate elucubrazioni degne di un Aristotele in sedicesimo. In realtà la definitiva precisazione di questo punto è molto recente ed è merito, sul piano filosofico, di sir B. Russel (e di Ryle con la distinzione tra conoscenza procedurale e conoscenza descrittiva), ma soprattutto è merito della psicologia animale. E' stato infatti il progressivo chiarirci le idee sulla "coscienza" animale che ci ha consentito di capire meglio la nostra coscienza. Un pipistrello (giusto per rendere omaggio a Nagel) senza occhi e con il suo radar è del tutto vigile e cosciente e in grado di muoversi nella sua "mappa del mondo" evitando gli ostacoli e centrando le zanzare. Certo noi non sappiamo "cosa si prova ad essere un pipistrello", ma nemmeno lui lo sa perché presumibilmente è troppo impegnato ad essere un pipistrello per perdere il suo tempo in domande, per lui, inutili. Uno scimpanzé invece sembra proprio che sia in grado di potersi riconoscere e che in qualche modo si possa considerare un "agente separato" dunque dobbiamo attribuirgli una sorta di "autocoscienza". Anche in questo caso sfortunatamente non sappiamo "cosa si prova a essere uno scimpanzé" e anzi, se vogliamo credere a Gallup, quando è allevato da umani, tenderebbe a "credersi un umano". Noi invece sappiamo essere vigili come un pipistrello muovendoci nella mappa del nostro mondo, siamo "autocoscienti" in quanto sappiamo includere nei stessi nella mappa, sappiamo descriverci (e già noi parliamo e il linguaggio ci regala la posizione "meta") le nostre emozioni, rappresentazioni, desideri, scopi e persino fantasie e sogni, abbiamo una serie di competenze che sappiamo tranquillamente eseguire, (infatti possiamo parlare senza essere grammatici) e possiamo descrivere le nostre competenze e lavorando sulla descrizione inventare nuove competenze e nuove possibilità di descrizione. Ciò che sto tentando di dire allungando troppo il brodo è la scoperta dell'acqua calda: la coscienza l'autocoscienza e via dicendo sono problemi complicati, ma diventano più addomesticabili se ci ricordiamo di Darwin. 

2) la seconda riflessione riguarda il "chi", secondo quanto scrive Dario: Mi viene da domandare: chi è che racconta?. Il problema è in quel chi. Quando io rifletto sul mio pensiero, chi riflette sul pensiero di chi, e chi ascolta queste riflessioni? Cavagna risponde: 
>Personalmente ritengo più semplice pensare che per avere un "chi" occorre 
>un lavoro di continua mobilitazione degli schemi mentali e di organizzazione 
>gerarchica degli stessi ecc. 

Tullio invece dice (a Cavagna): 
>Questa mi sembra una risposta "cognitiva". Una risposta "metacognitiva" 
>potrebbe essere: "non lo o, forse è impossibile saperlo, certo non lo saprà 
>mai un soggetto che si pone di fronte a un oggetto; invece è possibile, anche 
>se non è facile, accedere a un livello di esperienza in cui quella differenza 
>viene temporaneamente meno, come indicano, senza andare troppo lontano, 
>LaBerge e Tholey; a quel livello non si 'sa' nulla, nel senso comune del 
>sapere, ma forse si 'sa' qualcosa in un altro senso". 

Temo che per la via indicata da Tullio si possa riuscire "in un altro senso" anche a "pensare i pensieri di Dio". Lo dico con sincera invidia per quanti sono sicuri della percorribilità di queste vie. Per le nostre tematiche e i nostri mezzi, penso però che questa risposta sia off topic. Anche per questo problema penso che Darwin sia più utile di Kant e di Aristotele. Io provo a dire come la penso e avverto che si tratta ancora della scoperta dell'acqua calda. Si tratta di scegliere: o il "chi" è un "prodotto" (dell'evoluzione, del cervello, della relazione tra il cervello e l'universo semantico intersoggettivo) o è il "padrone del vapore". Sorvolo sulla possibile terza via, (quella furbetta: è un prodotto, ma, per vie oscure, è anche il padrone del vapore e, perciò, restano buone tutte le meditazioni cartesiane!), salto la seconda, lasciandola a che riesce a crederci, e mi fermo sulla prima. Parliamo di "Giacomo". 
i) Giacomo non ha un "profondo, più profondo, più profondo" o come dice Dennett, uno "studio ovale" da cui procedono le decisioni, in cui risuonano i vissuti e i sentimenti "più veri". La sua unità è costruita e come tale è precaria. Essa poggia: a) sull'organizzazione biologica dell'organismo; b) sul programma di costruzione e sul funzionamento del suo "Io-me", che da tale organizzazione si sviluppa; c) sulla "continuità" soggettiva della sua storia. 
ii) Tale programma lo si può intendere come qualcosa di analogo a ciò che fa si che nascano formiche adatte al formicaio, in modo tale che esse possano formare il formicaio, il quale a sua volta "produce" formiche adatte al formicaio: e dunque il programma è ciò che consente ai membri della specie umana di formare un "Io" adatto all'ambiente linguistico e semantico intersoggettivo, di modo che tali "Io" possano continuare a formare l'ambiente linguistico e semantico intersoggettivo. Presumibilmente questo "programma" non sta materialmente né nel cervello della formica né nel "cervello del formicaio", ma sarà piuttosto la "regola di interazione formica-formicaio". Nel caso di Homo sapiens e del suo territorio semantico e linguistico, saranno le regole di relazione tra lâ "ambiente semantico" e il cervello. Il cervello con la sua organizzazione strutturale, la sua progettualità e le sue modalità operative è in rapporto all'ambiente semantico. Sul piano filogenetico, tale rapporto, (analogo a quello formica-formicaio, spinarello-ambiente "spinarellato", lupo-ambiente lupizzato) ha coprodotto l'ambiente semantico e il cervello sintonico con l'ambiente semantico in modo circolare e tale che il mondo semantico riflette le modalità mentali della produzione di senso e le modalità mentali di produzione del senso riflettono quelle del mondo semantico. 
iii) Quando Giacomo nasce non ha un "Io", ma ha tutto quello che serve per costruirne uno (la psicoanalisi ha sempre equivocato tra l'Io" e la strumentazione che serve per costruirne uno) in virtù di tale strumentazione egli si trova scaraventato (e a questo livello egli è comunque già un "tu" nel discorso) su un terminale virtuale di quella sorta di Internet, che è il mondo semantico intersoggettivo che lo avvolge. Il cervello di Giacomo, (come il cervello dello spinarello, dell'oca, o del lupo, al loro livello), è strutturato per interagire con l'ambiente umano linguistico e semantico. Tale sincronizzazione si verifica di fatto con la formazione di un "Io" (che è, a un tempo "modo", "forma", "strumento", "effetto" e "causa" della sincronizzazione) secondo un programma che rifletterà la struttura interconnessa di internet e del cervello produttore-prodotto di Internet. 
iv) Presumibilmente, ci fu un tempo in cui un internet rudimentale già esisteva e funzionava efficacemente da qualche centinaio di migliaia di anni almeno, senza che ai punti di accesso corrispondesse alcun "Io" e nemmeno dei "Tu". Impastati come siamo nella semantica e nel linguaggio è difficile per noi figurarci una tale situazione, che però dovrà pur esserci stata: l'antenato comune di Lucy e degli scimpanzé del suo tempo non parlava; è difficile pensare che Lucy parlasse, forse Homo habilis o erectus: piano piano il linguaggio è nato come sviluppo delle forme di comunicazione, che già esistevano ed esistono nei mammiferi. A meno di ipotizzare un demiurgo o un sapiente abitante di Vega, che sulle rive del lago Turkana, un giorno, inopinatamente, insegnò agli habilis o agli erectus la grammatica e la sintassi, sembra logico pensare a un linguaggio compatibile con la semplice coscienza. A quel tempo, forse ai primordi di homo sapiens, intorno a un bivacco, i nostri progenitori erano del tutto in grado di progettare un piano di caccia. Del resto anche i lupi lo sanno fare e senza parlare! Essi invece proto-parlavano e, presumibilmente erano in grado di prospettare semanticamente le situazioni e le occorrenze evocando immagini, ricordi e suggerimenti. Secondo una congettura di D. Dennett, poteva accadere che "quando uno di questi ominidi si trovava in difficoltà con un progetto "chiedesse aiuto", e in particolare "chiedesse informazioni". Talvolta l'uditorio presente poteva rispondere "comunicando" qualcosa, che aveva l'effetto giusto sul richiedente. Anche a quei lontani sapiens, però, accadeva di star soli e di trovarsi di fronte a difficoltà; forse, in quelle situazioni, la soluzione o i suggerimenti potevano risuonare con le parole di un membro del clan, che si era già trovato di fronte a quel problema. Le parole di un altro nella mente! Oppure secondo la congettura di Dennett 
"un bel giorno... uno di questi ominidi chiese aiuto 'erroneamente' quando non c'era nessun uditorio utilizzabile a portata di voce - tranne lui stesso! Quando udì la sua propria richiesta, la stimolazione lo spinse a produrre proprio quel tipo di vocalizzazione in aiuto di altri che la richiesta da parte di altri avrebbe provocato. E con grande gioia, quella creatura scoprì che aveva spinto sé stesso a rispondere alla sua propria domanda". 
Questa naturalmente è una favola, ma la morale è che l'Io è la parola di un "altro nella mente" che l'Io (l'autocoscienza) è nato e nasce nella rete della comunicazione linguistica, che è il linguaggio a creare tutti gli spazi meta, per questo il pipistrello non sa di essere un pipistrello e uno scimpanzé, pur potendosi riconoscere, non può dirsi-dirci cosa si prova a essere uno scimpanzé. Ma a ben guardare nemmeno io so dire bene cosa si prova a essere Gian Paolo Scano o cosa si provava a esserlo 20 anni fa, dato che se leggo quello che allora scrivevo, so per certo di essere io quello che scriveva, eppure ho la fastidiosa sensazione di leggere qualcosa scritta da un altro o quantomeno devo usare le stesse modalità di interpretazione che utilizzo qaundo leggo le cose scritte da un altro "Io". Mi sa che l'Io è un prodotto precario. Avevo avvertito che intendevo parlare della scoperta dell'acqua calda! Saluto tutti e a tutti porgo, in ritardo, gli auguri per il neonato anno 2000. 

15-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")  
On 8/01/2000 Davide Cavagna wrote:  
>Presumo che la sospensione implichi un particolare dispositivo mentale in 
>grado di sospendere; come funziona? 

Il tentativo di riportare la metacognizione a un "dispositivo mentale", di cui ti chiedi "come funziona", mi sembra corrispondere all'intenzione di ricondurla nell'alveo del pensiero meccanicistico. Ma il pensiero metacognitivo (riflessivo, creativo) è tale perché fa uso di "servomeccanismi" (come felicemente ti esprimi più sotto), senza essere riducibile a questi. La sospensione del funzionamento percettivo-cognitivo automatico, dei suoi schemi e meccanismi, avviene (quando avviene): è un fatto osservabile. Se questa sospensione fosse a sua volta dovuta all'attivazione di un qualche meccanismo, la sospensione sarebbe naturalmente solo apparente: nella grande macchina del cervello si passerebbe semplicemente da un tipo di funzionamento a un altro. Tuttavia l'evidenza è che la mente umana è capace di lavorare anche in modo consapevole, cioè non meccanico, non automatico, non prevedibile. Questa è l'evidenza. Se tu preferisci pensare che anche la consapevolezza sia il prodotto di qualche meccanismo ignoto, padronissimo. Ma questa sarebbe appunto una preferenza, non un'argomentazione. 

>Potremmo dire che il soggetto è servoassistito dai suoi meccanismi, per cui 
>ha uno spazio di manovra più libero? Questo a mio avviso non significa che 
>funziona a un livello superiore, ma soltanto che funziona con maggior 
>discrezionalità. 

Da un funzionamento automatico a uno anche solo parzialmente consapevole si passa da discrezionalità 0 a discrezionalità diversa da 0: quindi a un livello superiore. 

>Se con metacognizione "emozionale" intendi qualcosa di affine all'insight 
>sono d'accordo. Prorpio perché riguarda l'"in-sight" (la vista interna) che 
>ritengo che la metacognizione sia afferente alla auto-osservazione (mentre 
>Carere sembra non ritenerlo un fattore discriminante). 

L'autoosservazione di per sé non è metacognitiva, anzi spesso è un atteggiamento patologico, come l'uso prevalente dell'aggettivo inglese "self-conscious" testimonia. Se l'autoosservazione è governata da un meccanismo ansioso, o narcisista, o simili, ovviamente è un'operazione cognitiva e non metacognitiva. L'insight invece è una visione interna cheavviene grazie al fatto che è stato aperto uno spazio metacognitivo in cui si può vedere qualcosa che i meccanismi cognitivi oscuravano. 

On 12/01/2000 Mario Galzigna wrote: 
>Nella lezione 31 dell'Introduzione alla psicoanalisi
>del 1932 ("La scomposizione della personalità psichica"), 
>Freud si chiede: "L'Io è il soggetto per eccellenza, come può diventare 
>oggetto"? E continua: "L'Io può prendere come oggetto sé medesimo, 
>trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi (...) Così facendo, 
>una parte dell'io si contrappone alla parte restante. L'Io è dunque 
>scindibile". Questa parte verrà chiamata Super-io (o coscienza morale), a 
>cui viene attribuita, tra le altre, la capacità di "autoosservazione". 

Infatti, la funzione di autosservazione può ben essere, e molto spesso è, superegoica: nel senso che per lo più l'autosservazione non è affatto neutralizzata, sospesa, ma ansiosa e autocritica. 

>Questa autoosservazione che obiettivizza l'Io potrà anche assumere, 
>nell'ambito della psicoanalisi freudiana, la caratteristica di un 
>"insight": ma se l'insight è solo intellettivo - e quindi privo di ogni 
>componente emozionale - sarà anche possibile vederlo come un 
>meccanismo difensivo, di carattere superegoico, nei confronti di idee o di 
>affetti che l'Io non riesce a vivere ed a tollerare. 

Esatto. Se questa autoosservazione superegoica produce un "insight", non può trattarsi che di uno pseudo-insight: precisamente "un meccanismo difensivo, di carattere superegoico". 

>una MTC che ha per oggetto un certo vissuto emozionale, dovrebbe, normalmente, possedere 
>anch'essa una certa coloritura emotiva. In caso contrario - nel caso, ad 
>esempio, in cui la MTC sviluppatasi a ridosso di una emozione intensa sia 
>"soltanto" un atto cognitivo (asettico, neutro) - non sembra illegittimo il 
>sospetto che si tratti, per l'appunto, di un meccanismo difensivo, o 
>critico, o correttivo: tale, quindi, da alterare o da filtrare l'emozione di partenza. 

Distinguerei tra "asettico" e "neutro", essendo il primo aggettivo appropriato per il meccanismo difensivo, il secondo no. La metacognizione presuppone una sospensione o neutralizzazione di ogni automatismo ("del desiderio e della memoria"). Lo stato di consapevolezza che ne deriva può essere detto neutro, in quanto non parteggia per, o non si identifica con, alcuna motivazione "ordinaria" (non è sospeso il desiderio di conoscere il vero). Ma questa neutralità non è asettica, o priva di "coloritura emotiva". Il fatto è che a questo livello nemmeno l'emozione è più l'emozione ordinaria: è anch'essa una "metaemozione", come quella che accompagna la "socratica cura di sé": 
>La socratica cura di sé (che include, 
>al suo interno, una postura metacognitiva), si coniuga sempre al sentimento 
>di appartenenza ad un tutto, ad un mondo: il mondo umano (gli altri), il 
>mondo sociale (la pòlis), il mondo naturale (il cosmo) 

Così come, si può aggiungere, a questo livello nemmeno la volontà è più la volontà ordinaria, ma è anch'essa una "metavolizione": la volontà che vuole il giusto, il fondamento dell'etica. Qui però bisognerebbe distinguere la vera etica, basata su questa metavolizione, dalla pseudo-etica di derivazione superegoica (un impasto di narcisismo infantile e morale convenzionale). Distinzione troppo ardua per molti psicoanalisti, anche se scrivono libri sul senso di colpa... Se dunque la metacognizione si accompagna a una metaemozione e una metavolizione, ci vorrebbe un termine diverso da metacognizione per evitare il sospetto di un'egemonia cognitiva sulle altre facoltà: 
>cura e conoscenza di sé significano, tout court, pratica di un 
>"esercizio spirituale" (per dirla con Hadot) che è al tempo stesso virtù, affettività, eros 

Sì, esercizio spirituale (espressione ripresa da Hadot in un libro splendido) andrebbe benissimo, se non fosse che è troppo démodé per molti colleghi. Credo che sarà meglio tenerci la metacognizione, termine non elegantissimo, ma abbastanza tollerato dalla maggioranza degli psicantropi. 

15-1-2000, From: Davide Cavagna ("Metacognizione")   
On 15/01/2000 Tullio Carere wrote: 
>Il tentativo di riportare la metacognizione a un "dispositivo mentale", di 
>cui ti chiedi "come funziona", mi sembra corrispondere all'intenzione di 
>ricondurla nell'alveo del pensiero meccanicistico. 
>Se tu preferisci pensare che anche la consapevolezza sia il 
>prodotto di qualche meccanismo ignoto, padronissimo. Ma questa sarebbe 
>appunto una preferenza, non un'argomentazione. 

Sarà anche perché siamo al tramonto della metafisica occidentale, ma per il momento porre domande come "qual è il funzionamento" e "qual è l'agente" mi sembrano legittime culturalmente e scientificamente. Altrimenti presupponiamo di avere a che fare con una dimensione della realtà che non è mostrabile, e come tale non ha valore scientifico. 

>L'insight invece è una visione interna che 
>avviene grazie al fatto che è stato aperto uno spazio metacognitivo in cui 
>si può vedere qualcosa che i meccanismi cognitivi oscuravano. 

L'insight non dipende forse da quella che Bion chiama 'capacità negativa'? La sospensione non sarebbe allora un più di conoscenza, ma un meno di conoscenza antievolutiva... 

>Infatti, la funzione di autosservazione può ben essere, e molto spesso è, 
>superegoica: nel senso che per lo più l'autosservazione non è affatto 
>neutralizzata, sospesa, ma ansiosa e autocritica. 
Utilizzi però in questo caso superegoico come sinonimo di patologico, cosa su cui mi sembra non si possa concordare. Il problema di Freud è che l'osservatore interno "deve" permanere come funzione psichica dissociata per consentire all'Io di operare. 

>Il fatto è che a questo livello nemmeno l'emozione è più 
>l'emozione ordinaria: è anch'essa una "metaemozione", come quella che 
>accompagna la "socratica cura di sé": 

Ma non è più semplice pensare a questa "sospensione" non come a una metaemozione, ma semplicemente come all'emozione del sollievo che subentra alla riduzione della tensione? Ovvero l'effetto di una tonicità psichica ottimale? Perché ne fai qualcosa che sta su un altro piano, come se non ci potesse poi essere un sollievo ad esempio misto a rabbia (cioè un'emozione mista a un'altra emozione?). Altrimenti temo che finiremo con il pensare che la metacognizione serve al conseguimento dell'atarassia e non all'azione nel mondo. 

15-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Metacognizione")  
Vorrei aggiungere qualche altra considerazione, in particolare su una questione che mi sta sorgendo...: che rapporto esiste fra metacognizione ed empatia? Fonagy nel suo scritto segnala questo legame, notando come la possibilità di cogliere sé stessi in quanto pensanti (e percepenti) è la premessa per poter cogliere gli altri in quanto pensanti (e percepenti). Sembra un procedere strettamente legato a quello descritto da Husserl per scoprire, in modo fenomenologico, l'altro: solo nella opacità che trovo nel mio osservare gli oggetti del mondo, in cui lo sguardo ad un certo punto incontra me stesso, cioè la mia esistenza, trovo la possibilità di scoprire l'opacità rappresentata dagli altri, cioè la loro esistenza. Riflettere su di me porta a riflettere sugli altri. Scoprirmi, porta a scoprire gli altri. La questione che si pone è però, a questo punto, di dove collocare la possibilità di percepire empaticamente l'altro. La possibilità di attingere ad elementi che sono in me, per scoprire la loro identità con quanto prova l'altro, e scoprire anche che è l'altro che li ha attivati, cioè quindi che sta provando quelle cose, è una vicenda emotiva o cognitiva, anzi, metacognitiva? La empatia è stata vista talvolta con sospetto per il suo attingere a elementi poco definibili, legati a vicende emotive, ad un sentimento, con tutti i rischi che può avere un sapere creato su queste basi. Nel caso della terapia poi si aggiunge anche il rischio di un agire su queste basi... Ora il sospetto invece è che sia una operazione in parte metacognitiva, che richiede proprio la possibilità duale di osservare sè stessi, di poter riconoscere la esistenza degli altri, di poter discriminare quanto di me stesso è mio e quanto per risonanza all'altro, e quindi dell'altro. Come a dire che è una forma della coscienza, anzi, una forma particolarmente raffinata della coscienza. Non dunque (o per lo meno, non solo) un elemento del sentimento, ma una complessa (e molto fragile...) operazione cognitiva su di esso. Giusto per aggiungere una questione... come se quelle in campo non fossero già abbastanza :-)) 

15-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Sognare lucido")  
Ho controllato il riferimento che ricordavo a memoria: si trattava di specifici movimenti oculari che erano stati concordati prima con gli sperimentatori. Il riferimento si trova in: LaBerge & Rheingold, Exploring the World of Lucid Dreaming, Ballantine, New York, 1991, pp. 23,24. Gli esperimenti vennero condotti presso il Laboratori del Sonno alla Stanford University, sotto controlli poligrafico dell'EEG, del tono muscolare e dei movimenti oculari. Oltre agli esperimenti con LaBerge, quelli con altre dozzine di soggetti hanno confermato questa possibilità. 

16-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")  
On 15/01/2000 Gian Paolo Scano wrote: 
>Ho qualche dubbio che sia utile e conveniente 
>proiettare in un "inizio" strumentalmente scelto (Socrate e perchè non 
>Amenofis IV, Davide o Geremia?... ) domande e problemi relativi alla coscienza 

Non so quale sia stato il contributo di Amenofis IV, ma quello di Socrate è ancora oggi attualissimo. Come è vero che oggi, come ieri, c'è una vasta maggioranza di umani che credono di sapere qualcosa di positivo (per es. che siamo il prodotto dell'evoluzione), e su questo sapere costruiscono il loro stare nel mondo. E ce ne sono altri, nettamente in minoranza, che sanno unicamente di non sapere nulla di certo, e su questo non sapere fondano la loro esistenza. 

> noi parliamo e il linguaggio ci regala la posizione "meta" 
Magari la posizione meta fosse un dono del linguaggio. Si può parlare tutta la vita senza mai sfiorare la posizione meta: quella in cui si sospende la validità di tutto ciò che si crede di sapere. Se non lo facciamo noi, comunque, lo fa il tempo. Prendi le certezze scientifiche di cui sei così orgoglioso, come il darwinismo. Fra duecento anni al massimo, ma credo molto prima, queste cose saranno fiabe per bambini, come lo sono per noi i miti scientifici del medioevo. Invece la distinzione tra chi crede di sapere positivamente qualcosa, e chi sa di non sapere nulla, non ha perso nulla del suo valore euristico nel corso dei millenni. 

> è il linguaggio a creare tutti gli spazi meta, 
Esattamente al contrario, uno spazio meta si apre quando uno impara a tacere, almeno per qualche attimo. L'incapacità di tacere (di sospendere l'incessante verbalizzazione interna) è la migliore dimostrazione della natura automatica, non consapevole, del meccanismo cognitivo dichiarativo con cui continuiamo a costruire e a tenere assieme il nostro io e il nostro mondo. E' vero che Socrate non sta in silenzio a lungo: sospende il sapere ordinario, ma riparte subito con discorsi spesso pesantemente razionalistici. Questa maieutica martellante è stata ben vista da Nietzsche come la parte caduca della filosofia socratica. A questa ricaduta cognitiva Nietzsche contrappone il momento metacognitivo del "genio del cuore", che ho citato in una mail precedente: "Il genio del cuore... che insegna a porsi in ascolto, che leviga le anime scabre e infonde loro un nuovo desiderio da assaporare - quello di starsene taciturni come uno specchio affinché in esse si rispecchi il profondo cielo". 

> Ma a ben guardare nemmeno io so dire bene cosa si prova a essere. Gian Paolo Scano 
Finalmente un piccolo spiraglio metacognitivo... 

>Mi sa che l'Io è un prodotto precario. 
Altroché. L'Io nasce nella rete del linguaggio, come giustamente osservi, e non si regge senza rete. La consapevolezza, invece, esiste solo al di fuori di quella rete. Ma non dimentichiamo che stiamo discutendo su una lista di psicoterapia. Qual è la materia prima della psicoterapia? Non è l'esperienza? Saremo tutti d'accordo che una terapia con tanti discorsi e poca esperienza è una terapia che non vale niente, no? E come si ottiene che una persona presa nella rete dei propri discorsi ripetitivi, sterili, circolari, inizi a fare veramente esperienza? A volte lo si ottiene con un'interpretazione azzeccata, ma è raro. E' invece molto più semplice e diretto invitare il paziente, dopo che ha detto quello che aveva da dire, a tacere e mettersi in ascolto dell'esperienza elementare, proprio di ciò che sente in questo momento a livello corporeo, e a parlare solo per descrivere ciò che sente. Con un po' di pratica il paziente impara a entrare in contatto con quella che Nietzsche chiamava la "saggezza del corpo", la percezione preverbale, precategoriale di una situazione o di un problema. Bisogna emanciparsi dal mito della terapia come "talking cure". Parlare va bene, anzi è necessario, purché sia un parlare dell'esperienza: un parlare consapevole, quella parola che è generata dal silenzio, non dalla rete dei significanti in cui il soggetto, e tutta la cultura in cui è immerso, sono impigliati. 

19-1-2000, From: Giovanni Ruggiero ("Emozioni [per I. Taddei]") 
Rispondo ad Ileana Taddei a proposito del nostro scambio di messaggi sulle emozioni (il nostro mini-dibattito si è tenuto finora a latere a quelo della che finora si è tenuto a latere a quello della metacognizione, eppure gli è, secondo me, strettamente correlato). 
Cara Ileana, ho riflettuto sulle tue obiezioni, e sono giunto alla conclusione che il problema è sempre la difficoltà a distinguere tra emozione e cognizione. Per questo motivo, chiamerò ora la "cognizione" con il termine più giusto di "elaborazione dell'informazione", mentre userò il termine "emozione" solo per indicare una categoria di esperienze psichiche. 
Ora, già al livello della "elaborazione dell'informazione" la situazione non è semplice. Come è noto, i meccanismi sono molteplici. Per semplicità, posso limitarmi a citare due gruppi principali, quello delle cognizioni esplicito-dichiarative, che chiameremo di tipo A, e che sono elaborate in sequenza, in maniera consapevole, sono generate in differita ed usando codici combinatori di segni dichiarativi; e quelle che chiameremo di tipo B, che sono procedurali (quindi non fanno uso di codici combinatori di segni espliciti), istantanee e continue (e quindi non differite), non del tutto consapevoli ed elaborate in parallelo (e non in sequenza). 
Ora, l'articolo di Lazarus che rispondeva a Zajonc si intitolava: "On the primacy of cognition"; la risposta di Zajonc era invece intitolata: "Feeling and thinking: preferences need no inferences". E' evidente che Lazarus si riferiva ad un significato molto lato di cognizione, come qualunque fenomeno mentale di elaborazione dell'informazione, mentre Zajonc si riferiva soltanto alla manipolazione consapevole di segni dotati di significato non ambiguo all'interno di codici combinatori logici (Inference). 
Veniamo ora a Power e Dalgleish. Essi dicono che, accanto ai due tipi di elaborazione dell'informazione, vi sono anche due vie alternative di generazione delle emozioni può seguire due vie fondamentali ed alternative (Power e Dalgleish, 1997). La prima, legata alle forme di pensiero superiore e logico-gerarchico, che proviene da una valutazione soggettivamente ragionevole di una situazione; la seconda, di tipo più primitivo, legata ad un'associazione diretta. 
Ora bisogna tenere ben presente che non bisogna fare confusione tra i due tipi di generazione delle emozioni ed i due tipi di elaborazione dell'informazione. In realtà, si tratta di fenomeni differenti. E' vero che le emozioni sembrerebbero più strettamente collegate alla cognizione di tipo procedurale. Parrebbe che la componente valutativa delle emozioni sia in realtà di tipo procedurale: ogni emozione, infatti, ha una componente di riconoscimento (appraisal) di un evento come positivo o negativo, ed una componente di generazione di schemi operativi associati (action readiness). Ora entrambi queste componenti presuppongono schemi cognitivi procedurali complessi, ma niente affatto obbligatoriamente associativi (cioè meccanici? bisognerebbe capire bene cosa intendono Power e Dalgleish). 
A questo punto, distinguendo quindi tra almeno due tipi di elaborazione dell'informazione e due tipi di generazione del segnale emotivo, è più facile orientarsi. Possiamo tentare una definizione in quattro punti. 1) Tenendo ferma la definizione di emozione come evento complesso di tipo valutativo, essa si caratterizza prima di tutto per la sua natura di esperienza psichica, che contiene una sua quota di informazione intrinseca sia retroattiva (valutazione di un evento rispetto ai goals) che proiettata in avanti (ogni emozione implica dei programmi operativi di reazione agli eventi) (del resto, qualunque evento psichico ha la sua quota di informazione: ad esempio, le percezioni) 2) Come segnale valutativo, l'emozione può legarsi a qualsiasi processo mentale di elaborazione delle informazioni: sia a quelli di tipo procedurale che quelli di tipo esplicito. E' questa la posizione di la posizione di Damasio (1994) e Damasio & Damasio (1996). 3) Ha però ragione anche Zajonc quando nota che l'emozione è una esperienza psichica soggettiva; aggiungiamo che l'emozione comunque porta con sé una quota intrinseca di informazione che è di tipo implicazionale, inconsapevole ed assolutamente non esplicita. 4) E' difficile dire poi quanto questa quota implicazionale sia associativa o meno. Se per associativo si intende un sottogruppo dell'elaborazione procedurale dell'informazione particolrmente semplice e diretta, diremo che la sua forza diminuisce a mo' di gradiente andando da un primo livello di appraisal primario di mera positività-negatività dell'evento, al secondo livello delle 5 o 6 emozioni di base, per arrivare poi al livello delle emozioni complesse, altamente cognitivizzate. 

Bibliografia 
Lazarus, R.G. (1984). On the primacy of cognition, American Psychologist, 39, 124-129.  
Lazarus, R.L. (1991). Emotion and Adaptation. Oxford: Oxford University Press.  
Lazarus, R.G. (1984). Thoughts on the relations between emotion and cognition, American Psychologist, 37, 1019-1010.  
Mandler, G. (1982). The structure of value: Accounting for taste. In M.S. Taste and S.T. Fiske (eds), Affect and Cognition, Hillsdale, N.J.: Lawrence Erlbaum.  
Zajonc, R.B. (1980). Feeling and thinking: preferences need no inferences. American Psychologist, 35, 151-175.  
Zajonc, R.B. (1984). On the primacy of affect. American Psychologist, 39, 117-123.  
Zajonc, R.B., Pietromonaco, P. and Bargh, (1982). Independence and interaction of affect and cognition. In M.S. Clarke and S. T. Fiske (eds), Affect and Cognition, Hillsdale, N.J.: Lawrence Erlbaum.  

27-1-2000, From: Paolo Migone ("forward: Workshop sulla Funzione Riflessiva") 
Mando in lista PM-PT questo forward di Gherado Amadei dalla lista di Psicologia, dove si pubblicizza un Workshop sulla Funzione Riflessiva di Fonagy, dato che abbiamo discusso della metacognizione: 
26-1-2000, From: "Angelo Compare" (Newsgroups: it.scienza.psicologia)  
Subject: Workshop sulla "Funzione Riflessiva" a Milano  
Cari colleghi, ho il piacere di segnalarvi che il giorno 29-01-2000 si terrà a Milano il primo Workshop sulla "Funzione Riflessiva" o "Reflective Function". Questa è una abilità mentale che è stata definita teoricamente e operazionalizzata, attraverso un Manuale di valutazione, da Peter Fonagy e dai suoi colleghi dell'UCL di Londra. Il suo utilizzo riguarda sia gli ambiti della clinica e sia gli ambiti della ricerca clinica, della ricerca in psicoterapia e della ricerca in psicopatologia e psicologia dello sviluppo. Il Workshop intende fornire ai partecipanti le conoscenze teoriche necessarie alla comprensione della "Funzione Riflessiva" e le conoscenze operative necessarie alla valutazione del livello di "Funzione Riflessiva" di un soggetto. Il Workshop sarà tenuto dal "Gruppo Italiano della Funzione Riflessiva" che è certificato alla formazione dagli Autori e al termine sarà rilasciato un certificato di frequenza di valore internazionale.  

6-2-2000, From: Anna Grazia ("Socrate e Freud") 
On 01/02/00 Carere wrote: 
>Se, come è stato detto da molti e come mi sembra 
>ragionevole credere, Freud si è posto un problema simile a quello di 
>Socrate, 'conosci te stesso', allora è chiaro perché l'attacco riduzionistico fallisce". 

Sulla nascita del concetto di "Psiche" nella cultura occidentale, il richiamo a Socrate e al "conosci te stesso", viene riproposto da Giovanni Reale in Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Milano: Raffaello Cortina, 1999. L'autore sottolinea come la dimensione del concetto di 'psiche' sia in stretta relazione con la presenza di un "altro" con cui si dialoga e si interagisce. Nell'Alcibiade Maggiore Platone fa dire a Socrate: "l'anima ci ordina dunque di conoscere colui che comanda "conosci te stesso". Ora l'invito a conoscere se stessi viene avvertito non tanto come qualcosa che proviene dall'esterno (oracolo di Delfi), ma come una "voce interna" che ci parla e alla quale rispondiamo. Nel Carmide si sottolinea che la psiche altrui (ma anche la nostra) può essere 'spogliata' dialogando con essa. Poiché conoscere la psiche vuol dire dialogare, si può avanzare l'ipotesi che nell'epoca socratica si sia realizzata un'epocale interiorizzazione delle forme di comunicazione e interazione sociale: la tecnica dell'argomentazione e del dialogo, insegnata dai sofisti come mezzo per le transazioni sociali, viene adottata come strumento di ricerca e conoscenza per la dimensione interiore: qesto rimanda ad una corrente detta "psicologia discorsiva" (Harré e Gillet, La mente discorsiva, 1994). Tale dialogo interiore, sempre secondo Reale, assolverebbe essenzialmente ad una finalità etica, alla realizzazione di una psiche che sappia discriminare il bene e il bello e in sostanza, alla fondazione di ciò che intendiamo nella cultura occidentale con l'idea di "coscienza morale". All'epoca di Socrate il concetto di psiche muta radicalmente poiché viene assimilato all'immagine dello "spirito che pensa", che è capace di decisioni morali e di conoscenza scientifica ed è la sede della responsabilità morale, e in definitiva alla "cura dell'anima". Socrate precisa che la cura dell'anima non va perseguita con i farmaci, ma con "bei discorsi". Si inaugura con la lezione socratica la direzione di ricerca sulla psiche che insiste sulla dimensione educazione-trattamento attraverso il dialogo: questo concetto della "cura dell'anima" attraverso le parole apre la strada ad una tradizione che corre per tutta la storia dell'Occidente, da Sant'Agostino a Freud.(In fondo il motto "conosci te stesso" è molto prossimo a quello psicoanalitico di "autorischiaramento"). Questa linea di ricerca correrà parallela all'altro tipo di ricerca sulla psiche, che viene studiata come 'oggetto' di natura che è il principio fondativo della c.d. "psicologia scientifica". 
La concezione della psiche come oggetto di natura, e non come luogo socratico che consente il dialogo con altri e con sé stessi, è stata ripetutamente criticata da Galimberti in Psiche e technè, all'interno di una linea di pensiero (da Diltey a Jaspers) che ha messo in evidenza i limiti di una psicologia modellata sui criteri di scientificità delle discipline fisiche e naturali, fino al punto di mettere in discussione la concezione di psicologia come "scienza forte", tanto da suscitare dibattito e polemiche tra gli esponenti della psicologia scientifica contemporanei. Sappiamo che ogni discorso sulla storicità (e relatività) sui propri costrutti e dei propri risultati mette in crisi lo scienziato non 
addestrato alla riflessione epistemologica e storica. Quando Galimberti afferma che la tecnica è nata non come espressione dello "spirito" umano, ma come "rimedio" alla sua insufficienza biologica, ci troviamo non solo immersi nel mito di Prometeo, ma a tutto lo sviluppo della psicologia del secolo scorso(da Vygotski e Meyerson fino a Brumer e Norman). 
La conclusione di questa linea di ricerca di Galimberti (e di altri) è che la psiche occidentale (con tutte le sue protesi tecnologiche) può essere pensata come lo strumento di cui si è dotata la specie umana per superare la propria finitezza e instabilità, facendo perno sulle strategie dell'anticipazione interiore rispetto al mondo esterno, sia sul piano degli eventi sociali che naturali. 

8-2-2000, From: Tullio Carere ("Socrate e Freud")  
On 06/02/2000 Anna Grazia wrote: 
>Sulla nascita del concetto di "Psiche" nella cultura occidentale...

Conclusione condivisibile con una premessa. Come ha osservato Beierwaltes (delle cui opere più importanti Reale ha curato l'edizione italiana), e come ho ricordato in un recente intervento in questo forum ("Fonagy e Liotti", 27/12/99) il monito delfico "conosci te stesso" è stato inteso dagli antichi in due sensi, legati da una relazione dialettica. Il primo senso (presocratico) di questa autoconoscenza è l'accettazione della propria finitezza (conosci la tua mortalità, la tua differenza dagli dei, la tua non onnipotenza). Il secondo senso (esplicitato proprio nell'Alcibiade Maggiore e nel Carmide) riguarda invece il superamento del senso di finitezza, grazie alla scoperta, all'interno dell'anima, della capacità di trascendere ogni identificazione finita. Questo luogo, in cui non si sa nulla e non si è nessuno, è la sede del più autentico esser sé stessi, del "vero sé", diremmo oggi. E' lo spazio della metacognizione, scoperto per la prima volta in Occidente da Socrate: lo spazio della ricerca del vero e del giusto, il fondamento dell'etica e della scienza. E' necessario che i due sensi (presocratico e socratico) del processo di autoconoscenza - e la dialettica tra questi due poli - siano tenuti ben presenti, per evitare di cadere da una parte (una identificazione eccessiva con la nostra condizione mortale, che porta al materialismo) o dall'altra (una disidentificazione eccessiva dalla medesima condizione, che porta allo spiritualismo). 

7-2-2000, From: Mario Galzigna ("Socrate e Freud [e la metacognizione (MTC)]")   
Scusate se vi ripropongo qui sotto l'ultima parte della mia mail del 12 gennaio, nella quale riprendevo alcuni temi del dibattito portato avanti in lista sulla metacognizione. In questa parte della mail accennavo ad una caratteristica peculiare della "cura di sé" che mi sembra assente nelle elaborazioni di parte cognitivista e di parte freudiana. Lo spazio (socratico) della metacognizione, di cui parla Tullio - ed anche quello della "anticipazione interiore rispetto al mondo" (di cui parla Anna, riferendosi a Galimberti) - non erano mai pensati, nel mondo classico, fuori da una precisa e riconosciuta appartenenza al tutto: all'HOLON, di cui parla Platone proprio nel Carmide, quando individua, per la prima volta, lo statuto epistemologico della medicina, intesa come "scienza della salute e della malattia" ed anche come conoscenza della *totalità* a cui esse appartengono. Non è inutile, a mio avviso, ripensare la lezione socratica ponendo attenzione a questa sensibilità nei confronti della relazione che intercorre tra la cura di sè ed il suo stretto legame con un sentimento di appartenenza al tutto (mondo umano, mondo sociale, mondo naturale). Sto attualmente discutendo, proprio con alcuni analisti, il danno inflitto alle discipline "psi" da questa negazione della storicità, da questa *perdita del contesto*, che proietta le categorie in una sfera astratta ed extramondana. L'etnopsichiatria e l'etnopsicoanalisi non sono forse nate, a ben guardare, proprio come risposta critica a questo movimento di universalizzazione delle categorie e, al tempo stesso, a questa concezione astorica della mente, dei suoi costrutti e del suo funzionamento? 
[segue l'ultima parte della mail di Mario Galzigna del 12-1-2000 (cap. 3: MATRICI FILOSOFICHE)

15-2-2000, From: Marcolongo Fabrizio ("Contact") 
Scusate, forse non sono proprio in tema su Fonagy, ma forse lo sono? Leggendo l'articolo "Eyes wide shut. La psicoanalisi ha contatto con il reale? Scientificità, ermeneutica e rapporto al reale nella pratica analitica" di Sergio Benvenuto, pubblicato su Psychomedia,  mi è parso un bellissimo articolo riguardo al problema della scientificità e alla possibilità di descrivere l'esperienza analitica, ...anch'io ho considerato il film Contact, ma da un altro punto di vista, quello effettivamente neurobiologico. Mi piace pensare che il nostro cervello contiene tutto l'universo, ...in forma di fotoni. 
 


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