PM - HOME PAGE ITALIANA NOVITÁ MAILING LISTS DIBATTITI

PM 
PSYCHOMEDIA
Salute Mentale e Comunicazione 
Dibattiti svoltisi sulla Lista PM-PT Psicoterapia

Dibattito sulle psicoterapie brevi
avvenuto nella lista "Psicoterapia" 
di PSYCHOMEDIA (PM-PT) 
nell'aprile 1999
 
(interventi di Andrea Angelozzi, Daniele Cacchioni, Tullio CarereGaetano Dell'Anna
Wilfredo Galliano, Gaetano GiordanoPaolo Migone, Emilio Mordini, Fausto Radaelli
Antonio Augusto Rizzoli, Sandro RossetiGian Paolo Scano, Bruno Spinetoli)
 
Editing a cura di Paolo Migone, co-owner della lista PM-PT

10 Aprile 1999, Sandro Rosseti:
Cari colleghi, sono Sandro Rosseti, psichiatra e psicoterapeuta a Firenze, e 
Segretario dell'Istituto Italiano di Psicoterapia Intensiva Dinamica Breve
che è nato nel 1996 per promuovere in Italia la conoscenza e lo sviluppo di
questa tecnica, messa a punto nel corso degli ultimi trent'anni dal Dr.
Habib Davanloo, Professore di psichiatria alla McGill University di Montreal,
Canada. L'Istituto ha già organizzato nel 1997, a Firenze, presso l'Università
degli Studi, un Simposio internazionale di due giorni con il Dr. Davanloo.
Il Simposio, introduttivo alla tecnica, ha visto una numerosa ed attenta
partecipazione (oltre duecento i presenti, fra professionisti e studenti).
Per quest'anno, l'Istituto ha organizzato, sempre a Firenze, un 
Seminario di tre giorni, dal 12 al 14 Novembre 1999, condotto dal Dr. 
Davanloo. Il corso, che sarà tenuto in inglese, con traduzione simultanea, 
si propone una presentazione sistematica ed estensiva della Tecnica di 
accesso all'inconscio e della nuova metapsicologia di Davanloo, attraverso 
la presentazione di materiale audiovisivo proveniente dalle terapie di alcuni
pazienti. La partecipazione è limitata a 65 persone, fra professionisti
dell'area della salute mentale e studenti, così da permettere una discussione approfondita 
della tecnica attraverso il materiale presentato ed una sua più completa comprensione.
Gli interessati sono pregati di contattarmi già da adesso personalmente,
per ulteriori informazioni. Sarò comunque lieto di rispondere, anche in lista,
ad eventuali richieste di approfondimento su questa tecnica, ancora da noi 
poco nota, ancorché diffusa, oltre che in Nord America, in Europa, 
prevalentemente in Svizzera e Germania.
10 Aprile 1999, Gaetano Giordano:
La presenteresti brevemente? Grazie
 
11 Aprile 1999, Paolo Migone:
Vorrei cogliere questa occasione per accennare brevemente a come la penso sul tema 
delle cosiddette psicoterapie brevi ad orientamento psicoanalitico (o "intensive dinamiche 
brevi"), come quella di Davanloo. Anni fa, agli inizi degli anni 1980, mi occupai molto 
di questo tema, andai ad un corso con Davanloo e Malan a Montreal ecc.
Le conclusioni a cui sono arrivato sono che, se così si può dire, non esiste
una "Tecnica di accesso all'inconscio e della nuova metapsicologia di
Davanloo". Davanloo, così come altri terapeuti brevi, può essere un ottimo
clinico, ma non è un buon teorico, nel senso che la teoria utilizzata
presenta varie contraddizioni interne, e anche fraintendimenti (non ultimo
quello di confondere terapie brevi con "brevi terapie"). Il dibattito
attorno alla questione dell'accorciamento della terapia non è specifico a
Davanloo o al movimento di terapia breve, ma appartiene alla tradizione
psicoanalitica, è il classico dibattito sulla tecnica, sempre molto vivo dal
confronto Freud-Ferenczi in poi. I terapeuti brevi non hanno aggiunto
niente, fanno solo leva su concetti metapsicologici in gran parte superati
per muovere le loro critiche (tanto per fare un esempio, già un Gill [1984] supera 
completamente tutte le questioni da loro poste). Ho analizzato uno per uno tutti i concetti 
chiave della teoria di Davanloo, e non ne ho trovato uno che restasse in piedi, tranne 
quello di brevità, che appunto è una tautologia, per cui non vi è nulla.
Ritengo che le psicoterapie dinamiche brevi possano essere utilizzate, a
patto che si sappia cosa si intenda con esse e che si abbia chiarezza sui
criteri con cui vengono praticate, criteri che, nella concezione di Davanloo, sono sbagliati. 
A mio parere le psicoterapie dinamiche brevi sono essenzialmente 
un prodotto che deve essere venduto nel mercato della salute
mentale, perché fa comodo a molte amministrazioni pubbliche e private 
(AUSL, agenzie assicurative in USA, ecc.), al "transfert" di molti pazienti 
(che vengono inconsciamente rassicurati che... "non cambieranno"), e al
"controtransfert" di molti terapeuti (li rassicura sul fatto che può non
essere difficile curare le persone, a volte li aiuta a colludere con certi pazienti, ecc.). 
La sociologia della nostra professione è molto ricca di esempi dome questo. 
Ciò non toglie che io ritenga utilissimo frequentare un corso di Davanloo o
di altri terapeuti brevi (io lo frequentai con grande interesse), perché è
così che si conosce bene come lavorano e come teorizzano quello che fanno, 
e ciascuno si può fare la propria idea (ben vengano idee diverse!).
Non posso ovviamente qui entrare nei dettagli delle mie posizioni, per cui
devo per forza rimandare, chi fosse interessato, a varie cose che ho
scritto, riassunte ad esempio anche nel cap. 3 del mio libro 
Terapia psicoanalitica (Franco Angeli, 1995) (posso mandare anche
degli attachments a chi è interessato, ma preferirei che si leggesse il
libro, sia per una questione di diritti editoriali, sia perché una certa
teoria che fa da sfondo alla mia critica è esposta in altri capitoli del libro).
Inoltre vedi il dibattito sulle terapie dinamiche  brevi nella lista della Society for the Explorayion of Psychotherapy Integration (SEPI), dove vengono toccati alcuni punti centrali di questa problematica.
 
P.S.: se si aprisse un dibattito su questo argomento, proporrei di
continuarlo solo sulla lista "Psicoterapia" di Psychomedia, dato che è stato
mandato anche lì. Per me sarebbe faticoso e dispersivo intervenire su più liste.
 
11 Aprile 1999, Antonio Augusto Rizzoli:
Effettivamente la lettura del libro di Migone, molto chiaro ed aggiornato,
è fondamentale per chi si occupi prevalentemente di psicoterapia (ma anche
per chi non se ne occupi, perché amplia molto gli orizzonti culturali). Saluti.
 
11 Aprile 1999, Bruno Spinetoli (Home Page: http://users.iol.it/bruno.s/)
Esiste una mia recensione di un seminario effettuato nel 1997, l'URL è 
il seguente: http://www.psychomedia.it/pm-cong/1997/dawrec.htm.
ovviamente su PM area congressi.
Con l'occasione saluto il Dott. Rossetti che conobbi a quel Convegno.
 
11 Aprile 1999, Emilio Mordini:
Paolo Migone ha scritto:
>Vorrei cogliere questa occasione per accennare brevemente a come la penso
>sul tema delle cosiddette psicoterapie brevi ad orientamento psicoanalitico
>(o "intensive dinamiche brevi"), come quella di Davanloo. Anni fa, agli
>inizi degli anni '80, mi occupai molto di questo tema, andai ad un corso con
>Davanloo e Malan a Montreal ecc.
>Le conclusioni a cui sono arrivato sono che, se così si può dire, non esiste
>una "Tecnica di accesso all'inconscio e della nuova metapsicologia di
>Davanloo". Davanloo, così come altri terapeuti brevi, può essere un ottimo
>clinico, ma non è un buon teorico, nel senso che la teoria utilizzata
>presenta varie contraddizioni interne, e anche fraintendimenti (non ultimo
>quello di confondere terapie brevi con "brevi terapie").
 
Caro Migone, ti ho letto con il piacere che i concittadini del fanciullino della 
storia devono aver provato sentendo dire che il re è nudo: Davanloo dice
(scrive) una marea di banalità (quando non peggio), e le terapie brevi sono
delle truffe (speriamo che nessuno si offenda troppo!).
Sono delle truffe nel loro presupposto teorico di fondo, al di là della
buona fede di chi le pratica, sia chiaro. Mi spiego: ogni terapia (psico e
no) deve tendere ad essere il più breve possibile, visto che il paziente, o
chi per lui, paga... e visto che nessuno dovrebbe amare farsi curare ( e se
lo ama, deve essere curato da questa malattia). Quindi non possono
coesistere terapie lunghe e terapie brevi, ma ogni cura deve tendere a
durare il minimo indispensabile, se no è, in definitiva, una forma di
sfruttamento del paziente o di collusione con la sua malattia. Allora se le
psicoterapie brevi sono delle forme di trattamento valide, bisogna avere il
coraggio di proclamare che i trattamenti lunghi, per le stesse patologie,
sono truffe a danno dei pazienti. Oppure, se i trattamenti "lunghi" sono
validi, le terapie brevi sono falsi trattamenti. Tertium non datur!
Diverso il concetto di psicoterapie focalizzate su uno specifico problema e
di psicoterapie limitate nel tempo. Per quanto riguarda il primo gruppo, ho
di nuovo il sospetto che siano degli "estetistici infingimenti", per usare
un'espressione di Massimo Mila. Molte psicoterapie prendono le mosse da 
una richiesta specifica del paziente, tuttavia ben raramente le persone 
chiedono ciò che vogliono (o ciò che serve loro). Accettare il contratto 
così come appare in superficie non è, in realtà, né eticamente corretto, né, 
in definitiva, rispettoso del paziente. Ma se la richiesta esplicita diventa
essa stessa un sintomo, che fine fa la terapia focalizzata?
Le terapie limitate nel tempo, per ragioni pratiche (il paziente deve
partire, lo psicoterapeuta ha solo qualche mese a disposizione) sono invece
un fatto che può accadere e che può porre interessanti problemi. Ma sono 
una sfida, un po' come un internista che, capitato in un paesino sperduto,
dovesse curare una polmonite senza nessun ausilio della moderna
tecnologia... ripeto, può essere stimolante da un punto di vista
professionale ma, se io fossi il paziente, mi augurerei che la mia terapia
non fosse né breve, né lunga, ma giusta! "Troppe note, caro Mozart!" -
"L'esatto numero, vostra Maestà".
 
12 Aprile 1999, Paolo Migone:
Caro Mordini, concordo al 100% con quello che dici. Tu sembri fare gli 
stessi ragionamenti che ho sempre fatto io. Ma il fatto è che pare che pochi 
facciano questi ragionamenti, non ho mai capito perché.
Riguardo alle tue parole:
>Le terapie limitate nel tempo, per ragioni pratiche (il paziente deve
>partire, lo psicoterapeuta ha solo qualche mese a disposizione) sono invece
>un fatto che può accadere e che può porre interessanti problemi. Ma sono 
>una sfida, un po' come un internista che, capitato in un paesino sperduto,
>dovesse curare una polmonite senza nessun ausilio della moderna
>tecnologia... ripeto, può essere stimolante da un punto di vista
>professionale ma, se io fossi il paziente, mi augurerei che la mia terapia
>non fosse né breve, né lunga, ma giusta! "Troppe note, caro Mozart!" -
>"L'esatto numero, vostra Maestà".
 
Anche qui trovo giustissimo quello che dici. Se "il paziente deve partire, o lo
psicoterapeuta ha solo qualche mese a disposizione", allora non è una
terapia breve, ma una breve terapia. Qui i criteri della tecnica sono
"esterni", non "interni" alla teoria. In altre parole: se esistesse
veramente una tecnica "specifica" delle terapie brevi, che bisogno vi
sarebbe di fissare un termine a priori? Si terminerebbe appena il paziente
migliora e basta, come in ogni terapia. Qui infatti "casca l'asino": non a
caso si insiste sul fissare una data a priori per il termine (l'unica
caratteristica che definisce inequivocabilmente le terapie brevi), come se
fosse questo il fattore importante. Ma questo è esattamente quello che Freud
faceva in determinati casi (vedi l'Uomo dei Lupi), e anche quello che
Eissler ci ha insegnato a fare quando si decide di usare un "parametro", ecc.
(vedi K.R. Eissler, Effetto della struttura dell'Io sulla tecnica psicoanalitica 
[1953]. Psicoterapia e Scienze Umane, 1981, XV, 2: 50-79; anche in 
Genovese C., a cura di, Setting e processo psicoanalitico. Milano: Cortina, 1988).
 
12 Aprile 1999, Fausto Radaelli:
Seguo da alcuni mesi con interesse le discussioni che avvengono in questa
lista. Trovo sempre molto stimolanti gli interventi di Migone (del quale
apprezzo da anni gli scritti su Psicoterapia e Scienze Umane, le 
sue rubriche sul Il Ruolo Terapeutico e altre riviste). Sono interventi sempre 
ricchi di stimoli e di articolazioni concettuali interessanti e mai banali.
Perché questa ricchezza è svanita, come neve al sole primaverile,
nell'affrontare una tematica come quella della psicoterapia breve ad
orientamento analitico, che offre, se non si vuole semplicemente liquidare
l'eterodosso, molteplici spunti di riflessione teorici e clinici a chi si
interessa del processo psicoterapeutico?
Mi pare che nessuno di coloro che finora sono intervenuti al dibattito sulle
terapie brevi sia entrato in merito alle metodiche e agli specifici elementi
costitutivi di tali tecniche. Ho letto affermazioni quali "concetti chiavi
che non stanno in piedi", "criteri che sono sbagliati", "Davanloo dice un
mare di banalità", "le terapie brevi sono delle truffe", affermazioni che
suonano come meri giudizi perentori aprioristici se non vengono sorrette da
adeguate argomentazioni. Vorrei capire meglio...
 
11 Aprile 1999, Tullio Carere:
Concordo in pieno con il giudizio di Paolo Migone. Le terapie cosiddette
brevi - tutte quelle di cui mi sono occupato, almeno - sono molto deboli, o
del tutto inconsistenti, sul piano teorico. Vedi ad esempio le "terapie
strategiche", di ispirazione watzlawickiana, del gruppo di Arezzo. Però è
vero che "funzionano", almeno nelle mani dei loro inventori o fautori: come
è vero che "funziona" l'ipnosi, soprattutto quando è praticata da individui
molto abili o geniali come Milton Erickson. Il paragone con l'ipnosi non è
casuale. Le terapie brevi o brevissime funzionano tutte - tutte quelle di
cui mi sono occupato - grazie a un fortissimo elemento di suggestione. Vedi
ad esempio Davanloo, che si piazza davanti al paziente avvolto in un camice
bianco, sotto l'occhio di una telecamera e con varie modalità intimidatorie
(per esempio dichiarando subito che se la terapia non funzionerà, sarà per
responsabilità del paziente - grazie a Bruno Spinetoli per la sua recensione).
Non importa affatto, quindi, se la teoria è debole o debolissima: la teoria
infatti conta poco o nulla. L'unica cosa che conta veramente è la capacità
di manipolazione del "terapeuta". La sfida posta da questo tipo di
"terapeuti" è comunque intrigante: se grazie a manipolazioni di vario
genere ed entità si ottiene una modificazione del modo in cui il soggetto
"costruisce" la propria esperienza, e grazie a questa
decostruzione/ricostruzione il soggetto sta meglio, e sta meglio in fretta,
più in fretta di quanto sia possibile con un processo basato sulla
consapevolezza e la crescita personale, perché no? Secondo i costruttivisti
radicali (dichiarati o mascherati) la verità, la consapevolezza, la crescita 
sono cose che non esistono. Esistono solo descrizioni (narrazioni, costruzioni)
che funzionano o non funzionano. Da questo punto di vista, l'ipnoterapia 
è la terapia perfetta. Ed è brevissima: può durare anche una sola seduta.
 
12 Aprile 1999, Paolo Migone:
Caro Tullio, non solo può essere brevissima la terapia, può essere 
brevissima anche la permanenza del cambiamento ottenuto. 
Il punto mi sembra questo: nessuno mette mai in discussione che si possa
cambiare la gente con la psicoterapia. Questa situazione fu proprio quella cui
si trovò di fronte Freud, prima di "inventare" la psicoanalisi. Lui, che era
un ipnotista, voleva solo vedere se si riusciva ad ottenere cambiamenti più
stabili, attraverso operazioni cliniche diverse, che agissero sulla psiche
operando un diverso tipo di ristrutturazione psichica che non fosse quella
dell'ipnosi o della suggestione. Sicuramente molti diranno che la
suggestione avviene comunque, o che "tutto è suggestione", ma a mio parere
solo il fatto di porre questo problema (se "è suggestione o no") ci pone ad
un livello "meta", quindi più sofisticato, al limite di "quale tipo di
suggestione è più suggestione dell'altra".
 
11 Aprile 1999, Gaetano Giordano:
Paolo Migone ha scritto:
>Vorrei cogliere questa occasione per accennare brevemente a come la penso
>sul tema delle cosiddette psicoterapie brevi ad orientamento psicoanalitico
>(o "intensive dinamiche brevi"), come quella di Davanloo. (...)
>Ho analizzato uno per uno tutti i concetti chiave della teoria di Davanloo, 
>e non ne ho trovato uno che restasse in piedi, tranne quello di brevità, 
>che appunto è una tautologia, per cui non vi è nulla.
 
In che senso "non restavano in piedi"? Potresti (ho letto il resoconto di 
Spinetoli sul Convegno 1997) essere più chiaro sulla tua analisi in proposito?
Poi dici:
>Ritengo che le psicoterapie dinamiche brevi possano essere utilizzate, a
>patto che si sappia cosa si intenda con esse e che si abbia chiarezza sui
>criteri con cui vengono praticate, criteri che, nella concezione di
>Davanloo, sono sbagliati.
 
Perché sono sbagliati? Poi continui:
>A mio parere le psicoterapie dinamiche brevi sono
>essenzialmente un prodotto che deve essere venduto nel mercato della 
>salute mentale, perché fa comodo a molte amministrazioni pubbliche e 
>private (AUSL, agenzie assicurative in USA, ecc.), al "transfert" di molti 
>pazienti (che vengono inconsciamente rassicurati che... "non cambieranno"),
>e al "controtransfert" di molti terapeuti (li rassicura sul fatto che può non
>essere difficile curare le persone, a volte li aiuta a colludere con certi
>pazienti, ecc.). La sociologia della nostra professione è molto ricca di
>esempi dome questo.
 
Un'obiezione: questi fraintendimenti sono interni alle teorie o alle persone
(o ai rapporti terapeutici), nella tua opinione ?
 
12 Aprile 1999, Sandro Rosseti:
Non credevo che l'annuncio del seminario suscitasse un così ampio
dibattito. Ha aperto una discussione che credo possa essere 
(al di là delle opinioni di ciascuno) altro che utile per la lista 
(a proposito, anche questo messaggio è cross-posted su PM-PT e
PM-SMC, visto che alcune delle risposte sono su quest'ultima lista, ma
concordo con Migone e Giordano sull'opportunità di proseguire - se 
vorrete - la discussione solo su PM-PT, per evitare duplicati o incompletezza
della thread). Cercherò di seguire quanto richiesto da Giordano, delineando,
in breve, alcuni aspetti della Tecnica al suo stato attuale, con la speranza
in tal modo di chiarire alcuni dei punti emersi nelle risposte sino a qui giunte.
Vorrei ringraziare anzitutto Paolo Migone, il quale riporta la sua
esperienza a Montreal agli inizi degli anni '80.
Ha colto, credo, l'aspetto fondamentale della Psicoterapia Intensiva
Dinamica Breve (Intensive Short-Term Dynamic Psychotherapy): quello
clinico. Questa è infatti una tecnica che si é sviluppata secondo il
metodo scientifico fondato sulla continua verifica dei risultati, per
finalità cliniche. L'inconscio è un sistema psicobiologico il cui
funzionamento è organizzato in modo molto preciso tanto da fornire
risposte specifiche a stimoli specifici. Come sempre nei sistemi biologici
la riproducibilità è la base della verifica di validazione e sviluppo di
una teoria: da questo punto di vista l'uso della (video)registrazione della
terapia è stato lo strumento rivoluzionario per lo sviluppo della ricerca
clinica in psicoterapia - vedi anche la scuola di Palo Alto per le terapie
sistemiche, le ricerche di Thomae e Kaechele per la psicoanalisi.
Chiunque utilizzi questa tecnica verifica la possibilità, pur nella
varietà delle organizzazioni inconsce, di riprodurre, riconoscere ed utilizzare
clinicamente i segnali del funzionamento dinamico dell'inconscio. I
parametri che il terapeuta deve seguire per arrivare all'apertura
dell'inconscio sono le caratteristiche di scarica e i livelli dell'Ansia
Inconscia (attraverso cioè la muscolatura somatica, la muscolatura liscia,
o il sistema cognitivo), l'attività dell'Alleanza Terapeutica e della
Resistenza nel Transfert. L'ansia inconscia è il parametro che meglio
orienta il clinico, fornendo preziose e continue informazioni sulla
mobilizzazione della Organizzazione Primitiva Inconscia. La IS-TDP é 
quindi una tecnica che mira a mobilizzare la Alleanza Terapeutica Inconscia
(UTA, Unconscious Therapeutic Alliance) contro la Resistenza 
al fine di sperimentare direttamente gli impulsi inconsci 
(la rabbia primitiva ed il dolore della colpa) nel Transfert e, in tal modo, 
permette la comprensione (anche nella loro valenza autosabotante) da parte 
del paziente delle forze dinamiche che concorrono a mantenerli inconsapevoli.
La UTA inoltre permette che la PMR, sperimentata inizialmente nel Transert,
sia successivamente vissuta nella sua realtà originaria nel corso dello
sviluppo della nevrosi, verso un genitore o verso altre figure importanti
dell'infanzia. Questo permette l'esperienza dolorosissima della colpa che ha
un ruolo fondamentale nel sostenere la psicopatologia sia di tratto che di stato.
La ricerca nella IS-TDP é in continuo sviluppo. Dagli anni '80, cioè il
periodo a cui si riferiscono l'esperienza e gli studi di Migone, la tecnica
si é modificata per la cura di pazienti fragili (nei quali il pattern di
scarica dell'ansia inconscia coinvolge in maniera prevalente od esclusiva il
sistema cognitivo), psicosomatici e depressi. Questi grandi gruppi
richiedono interventi a livelli inconsci molto più profondi dei nevrotici e
una analisi del Transfert e una integrazione cognitiva molto più dettagliata.
Questo dal punto di vista tecnico ha portato allo sviluppo della Tecnica
Psicoanalitica di Davanloo, ancora meno conosciuta in Italia, e dal punto di
vista metapsicologico ha fornito informazioni molto più precise ed
organiche, oltre che estremamente affascinanti, sul funzionamento dell'inconscio. 
Per altre notizie rimando al libro di Davanloo Il terapeuta instancabile,
edito per FrancoAngeli, 1998. Lavori di Davanloo più recenti sono
reperibili sull'International Journal of Short-Term Dynamic 
Psychotherapy, pubblicato da Wiley (Vol. 10, 121-230, 1995; Vol. 11, 
129-152, 1996): in questi testi molto materiale clinico viene presentato e 
discusso, al pari di quanto viene fatto nelle presentazioni audiovisive. 
Riguardo poi alla posizione, espressa da Tullio Carere, di essere una
terapia suggestiva, si è recentemente occupata in modo specifico di questo
aspetto la Dr.ssa Therese Augsburger sull'International Journal of 
Short-Term Dynamic Psychotherapy (Specificity of technical interventions 
in Davanloo's Intensive Short-term Dynamic Psychotherapy, Part I-II-III, 
Vol 12, 231-291, 1998); anche in questi articoli, come è d'uso nella Rivista,
vengono riportati brani estesi di una prima intervista, attraverso i quali 
l'Autore mostra come solo la corretta valutazione dei parametri anzidetti 
permetta di applicare interventi tecnici corretti, nel senso del permettere 
l'accesso al materiale inconscio; quando ciò non avviene (e nell'articolo sono 
riportati, proprio a tale scopo, interventi errati del terapeuta nel corso della 
seduta, e la loro correzione), si ottiene solo un incremento improduttivo della
Resistenza, e la terapia ristagna. In tal senso l'Autore mostra come
l'inconscio non sia una struttura manipolabile, ma richieda interventi
tecnici specifici.
Spero di aver contribuito a fare almeno una iniziale chiarezza su questa
tecnica. Sono, naturalmente, a disposizione.
 
12 Aprile 1999, Paolo Migone:
Ringrazio Rosseti per la dettagliata descrizione della tecnica di Davanloo.
Ritengo che non vi siano dubbi sulla abilità tecnica di Davanloo, e sul su
acume clinico in determinati casi. Mi ricordo che imparai molto da lui per
esempio nella tecnica di elaboarzione del lutto, per il suo stile confrontativo.
Consiglierei a chiunque di seguire i suoi seminari e di vedere i suoi videotapes.
Il mio punto è che qui non si tratta di terapie brevi, ma questa tecnica,
giusta o sbagliata che sia, vorrebbe essere la tecnica di una psicoterapia
ben condotta, che mira ad aiutare il paziente nel più breve tempo possibile.
Non ha senso fare terapie lunghe se si possono fare corte, quindi mi sembra
che tutta la questione decada, nel senso che rimane solo la questione della
terapia migliore per ogni paziente.
 
13 aprile 1999, Paolo Migone:
L'11/04/99, Gaetano Giordano ha scritto:
>In che senso [i concetti chiave della teoria di Davanloo] "non restavano in
>piedi"? Potresti (ho letto il resoconto di Spinetoli sul Convegno 1997)
>essere più chiaro sulla tua analisi in proposito?
 
I concetti chiave che ho analizzato sono quelli di "attività", che in
terapia breve dovrebbe essere aumentata (non ha senso perché siamo tutti
attivi, non si tratta di una questione comportamentale, ma dei significati
di comportamenti, non esiste un "intervento passivo"), di "focalità" (questo
avrebbe più senso, perché con meno tempo si analizzano meno cose, ma 
non esiste una analisi "totale", e si è sempre più o meno focali, vedi ad
esempio la "terapia a focus variabile" con cui Thomä & Kächele 
definiscono la psicoanalisi stessa - vedi il cap. 9.4, pag. 445, del loro 
Trattato di terapia psicoanalitica. 1: Fondamenti teorici [1985]
Torino: Bollati Boringhieri, 1990), di "evitamento di una nevrosi di transfert" 
(come si fa, se nel contempo si dice che si vuole coinvolgere profondamente 
il paziente?), e di setting a durata limitata (il "time-limit setting", l'unico
fattore specifico, che però è una petitio principii; esso ha vari effetti,
ma il punto è perché lo si usa).
Inoltre chiede Giordano:
>Un'obiezione: questi fraintendimenti sono interni alle teorie o alle
>persone (o ai rapporti terapeutici), nella tua opinione?
 
Sono fraintendimenti teorici; naturalmente possono fare leva anche su
aspetti caratterologici delle persone, come in tutte le cose.
Caro Giordano, mi rendo conto che il discorso è lungo e complicato. Forse 
la cosa migliore è che ti copi alcuni brani tratti da miei lavori precedenti,
ringraziando gli editori per il permesso di citazione
("Le differenze tra psicoanalisi e psicoterapia breve ad orientamento 
psicoanalitico", in: Terapia psicoanalitica, Franco Angeli, 1995, cap. 3; 
"Le terapie brevi non esistono", in: Carla Giovannoli Vercellino, a cura di, 
Le psicoterapie "brevi" ad indirizzo psicodinamico: storia e attualità
Padova: Imprimitur, 1997, pp. 19-45. Per i riferimenti bibliografici, 
rimando alla bibliografia al termine del libro Terapia psicoanalitica):
 
"Molti si chiederanno come mai ho scelto il titolo 'Le terapie brevi non
esistono'. Questo non vuole essere solo un titolo provocatorio, ma esprimere
un importante concetto che intendo spiegare nel modo più chiaro possibile.
Quando si discute delle terapie brevi, in genere quello a cui si vuole
alludere è una teoria che ci permetta di accorciare la durata delle terapie
ottenendo risultati simili alle terapie "lunghe": è questa teoria che io
ritengo non esista. Non esiste cioè una teoria autonoma dalla "teoria
generale" della psicoterapia, lunga o breve che sia. Infatti, se è per
questo, ritengo che non esistano neanche le "terapie lunghe". Esiste la
terapia e basta, la cui tecnica dipende da una determinata teoria, teoria
che per esempio potrebbe portarci a ritenere che in un determinato
trattamento una interruzione anticipata potrebbe essere "terapeutica", cioè
mutativa in senso lato, mentre in un altro potrebbe indurci a ritenere il
contrario, cioè che solo la nostra insistenza nel prolungare la terapia
sarebbe l'intervento più utile dell'intero trattamento. Una terapia breve o
una terapia lunga possono essere entrambe terapeutiche o contro-terapeutiche
a seconda dei significati che assume la fine della terapia, cioè la
elaborazione di quella che viene chiamata termination. Non sapere elaborare
i significati della termination non implica solo fare errori tecnici nella
conduzione della stessa terapia breve che si vuole fare, ma potenzialmente
anche non capire il significato di tutte le altre variabili, ad esempio
dell'eventuale uso delle cosiddette associazioni libere, dell'uso o non uso
del lettino, o di qualunque intervento all'interno del setting in terapie
sia brevi che lunghe. Significa non capire il motivo per cui una determinata
regola è stata proposta nel corso della storia della teoria della tecnica:
una confusione quindi non da poco. 
Molti penseranno che tutto ciò è scontato, e che ogni analista sa benissimo
che un determinato comportamento in analisi non ha valore in quanto tale
(come secondo un approccio "comportamentistico"), ma acquista significato
secondo la costellazione transferale. Eppure sono convinto che in una certa
tradizione - che qui per brevità chiamerò ortodossa - questo non è così
scontato: basti pensare a alcune inveterate discussioni sulla importanza del
lettino, o della alta frequenza settimanale, o del silenzio analitico, e
così via, dove questi elementi del setting vengono trattati come dotati di
un significato proprio e quindi prescritti per tutti i pazienti "in
analisi", tanto da identificare la psicoanalisi proprio con questi elementi
"estrinseci" (altrove [nel cap. 3 del libro Terapia psicoanalitica, Franco 
Angeli, 1995] ho cercato di dimostrare che in realtà questa operazione, con
buona pace di questi analisti "ortodossi", è una operazione antipsicoanalitica). 
Molti terapeuti brevi, senza rendersene conto, ragionano proprio come i 
terapeuti "ortodossi" che loro stessi criticano. Mentre cercano di essere 
innovatori, ricadono nel vecchio modo di ragionare basato su una certa 
stereotipia secondo la quale, potremmo dire, la tecnica viene mostruosamente 
innalzata al rango di teoria: non vi sono più dei precisi principi teorici, ma solo 
delle regole di comportamento da rispettare all'interno di un setting prestabilito, 
così come erano state insegnate dai propri supervisori e analisti didatti, i
quali a loro volta le avevano apprese dalla generazione precedente. Con una
differenza però: mentre i maestri hanno insegnato a fare le terapie lunghe,
questi terapeuti le fanno brevi, senza rendersi conto di ripetere, in modo
uguale e contrario, gli stessi errori che credono di voler correggere.
In questo mio intervento entrerò dettagliatamente nel merito di queste
affermazioni e le spiegherò il più chiaramente possibile, e per fare questo
presenterò anche due esempi clinici per essere sicuro che i miei passaggi
teorici vengano compresi nella loro declinazione clinica.
Ho incominciato ad interessarmi delle terapie brevi agli inizi degli anni
'80, quando lavoravo negli Stati Uniti e ebbi la opportunità di vedere da
vicino come lavoravano e teorizzavano i principali terapeuti brevi
(soprattutto Malan, Sifneos, e Davanloo). Scrissi poi una critica teorica
alla terapia breve, che mi fu chiesto di presentare in una conferenza a New
York il 10-10-82, e che fu poi pubblicata su The Psychoanalytic Review nel
1985. Negli anni seguenti mi convinsi sempre di più delle mie posizioni, che
resi ancor più radicali grazie anche alla revisione teorica della tecnica
psicoanalitica e della concezione del transfert compiuta da Merton Gill
(1982, 1983, 1984, 1993, 1994), un autore al quale sono stato molto vicino.
Le idee di Gill ebbero in me l'effetto di sentire cose che mi sembrava di
aver sempre pensato ma che per la prima volta vedevo teorizzate in modo così
coerente e lucido. La critica di Gill non riguarda direttamente le terapie
brevi (vedi però la prefazione di Gill al manuale sulle terapie brevi
scritto da Strupp & Binder nel 1984 [Psicoterapie dinamiche brevi. Bologna: 
Il Mulino, 1994], che a mio parere sono tra i pochi autori
a inquadrare la loro tecnica in una più vasta e coerente teoria della
psicoterapia), ma riguarda la problematica che ne è a monte, cioè la
differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: una questione che ha fatto
discutere generazioni di analisti, e che a mio parere si è aperta fin dal
momento in cui si è imposta la Psicologia dell'Io (con i concetti di difesa,
adattamento, sviluppo, ecc., concetti che tendenzialmente resero
sovrapponibili psicoanalisi e psicoterapia [vedi il cap. 4 del mio libro, 
prima citato, Terapia psicoanalitica, Franco Angeli, 1995]).
In questa sede riprenderò la mia critica teorica, necessariamente
sintetizzandola. Per un approfondimento, rimando al mio libro Terapia
psicoanalitica (1995), dove nel cap. 3 vi è anche una storia del movimento
di terapia breve e una esposizione della tecnica dei principali terapeuti
brevi dell'ultima generazione (Malan, Sifneos, Mann, e Davanloo), mentre nel
cap. 4 vi è una presentazione dettagliata della revisione teorica compiuta
da Gill, che, come ho detto, costituisce un più completo retroterra teorico
delle mie posizioni.
 
Terapie brevi o "brevi terapie"? Contraddizioni non risolte
Innanzitutto va ricordato che quando si parla di terapie brevi si
sottintende sempre "ad orientamento psicoanalitico", perché al di fuori
della psicoanalisi le terapie in genere sono sempre state brevi, per cui non
si è sviluppato un dibattito attorno alla esigenza di accorciare la terapia.
Da Ferenczi (1920) in poi esistono molti autori che hanno proposto tecniche
per accorciare l'analisi. Da un punto di vista generale si può dire che le
tecniche di terapia breve abbiano in comune due caratteristiche generali: da
una parte quella di far riferimento al modello psicoanalitico, e dall'altra
quella di individuare strategie tecniche per abbreviare la durata
dell'analisi. Ad uno sguardo più attento però ci accorgiamo che dietro a
questa semplice formulazione si nascondono varie contraddizioni che vanno chiarite.
Ad esempio potremmo chiederci: la terapia breve va concepita come una
soluzione di ripiego, con la quale cioè si ottengono risultati minori
rispetto alla psicoanalisi a lungo termine, oppure essa è la tecnica più
indicata per un certo tipo di pazienti? E in quest'ultimo caso, se è vero -
come affermano i principali terapeuti brevi tra cui Sifneos - che è indicata
per quel tipo di pazienti definiti "classici nevrotici" (cioè con un
conflitto circoscritto, discreta "forza dell'Io", motivazione, ecc.), non
sono forse questi stessi pazienti quelli che da sempre sono considerati i
candidati alla psicoanalisi classica? Inoltre, se è possibile accorciare la
durata del trattamento riuscendo ugualmente ad ottenere risultati
soddisfacenti e stabili, con quale giustificazione etica possiamo chiedere
un così alto investimento di tempo e denaro per la psicoanalisi tradizionale?
In effetti, come ha giustamente osservato Malan (1976), all'interno del
variegato movimento di terapia breve esistono due tendenze, quella dei
"conservatori" e quella dei "radicali". Ciò rivela innanzitutto che questo
movimento non ha una precisa identità teorica. Ma vediamo brevemente in che
cosa consistono queste due anime presenti nel movimento di psicoterapia breve.
Secondo il punto di vista dei "conservatori", la psicoterapia breve sarebbe
una tecnica di efficacia più limitata rispetto alla psicoanalisi, indicata
per certi pazienti e in determinate situazioni cliniche o istituzionali in
cui non è possibile fare una psicoanalisi a lungo termine a causa di fattori
"esterni", quali le situazioni di emergenza o comunque quando non vi è
sufficiente tempo a disposizione, quando il paziente non ha disponibilità
economiche tali da permettersi di pagare un alto numero di sedute, oppure
quando si lavora in un setting di ricerca sulle terapie brevi, e così via.
In certi casi, sempre secondo il punto di vista dei "conservatori", si
ricorre all'uso del time-limit setting, cioè si stabilisce in anticipo un
limite alla durata della terapia, quando il terapeuta ritiene che il
paziente non possa tollerare una analisi prolungata, in quanto ad esempio
potrebbe non controllare il suo bisogno di dipendenza dal terapeuta o
regredire eccessivamente, o per altri motivi che comunque dipendono dal
livello di patologia del paziente. In tutti questi casi si modifica la
tecnica classica ricorrendo a un cosiddetto "parametro", termine coniato da
Eissler in un importante lavoro del 1953 in cui viene giustificata
l'introduzione di modificazioni al modello della tecnica psicoanalitica di
base per motivi che dipendono dalla struttura dell'Io del paziente1. 
In conclusione, non vi è nulla da eccepire riguardo alla posizione dei
"conservatori", e ogni contraddizione verrebbe risolta: ci troveremmo
semplicemente di fronte a una psicoanalisi modificata, cioè a una
applicazione dei principi psicoanalitici a situazioni diverse da quelle
tradizionali, con i vantaggi e gli svantaggi che ne derivano.
Le cose sono molto diverse se consideriamo il punto di vista dei "radicali".
Essi considerano la terapia dinamica breve come una vera e propria terapia
che mira ad ottenere dei cambiamenti strutturali nel paziente, e che è
applicabile a una vasta gamma diagnostica che comprende anche quella per la
quale è indicata la psicoanalisi. Un tipico esempio di questa tendenza è
rappresentato da Davanloo (1980), ma a ben vedere la tendenza radicale
serpeggia anche negli altri autori, in quanto sembra che mirino a
individuare una diversa teoria della tecnica che permetta di accorciare la
durata del trattamento. A questo riguardo si può citare una provocatoria
affermazione di Malan a proposito della tecnica di terapia breve di Davanloo: 
Essa è il più importante sviluppo in psicoterapia dopo la scoperta
dell'inconscio... Freud ha scoperto l'inconscio, Davanloo ha scoperto come
usarlo terapeuticamente. (Malan, 1980, p. 23).
Sembra quindi che il movimento di terapia breve ponga una sfida alla
psicoanalisi classica, mettendo in dubbio la necessità di un trattamento
prolungato, e sollevando quindi delle critiche a livello di teoria della
tecnica. Dal punto di vista teorico, questa tendenza radicale è l'aspetto
più interessante del dibattito sulla psicoterapia analitica breve. Ma va
ricordato questa problematica non è originale né propria del dibattito sulle
terapie brevi, perché è stata sempre presente nella storia della
psicoanalisi, dove non a caso Ferenczi (1920), con il concetto di "tecnica attiva", 
e Alexander (1946), con il concetto di "esperienza emozionale correttiva" 
(Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 85-101), furono
considerati dei "radicali" o dei dissidenti dall'ortodossia psicoanalitica.
La problematica teorica delle terapie brevi quindi non è originale, ma fa
parte del dibattito storico sulla teoria della tecnica, e sconfina in temi
più generali che riguardano, da un lato, l'identità della psicoanalisi nei
confronti della cosiddetta "psicoterapia psicoanalitica", e, dall'altro,
l'annoso problema della teoria dei fattori curativi (per un approfondimento
rimando, rispettivamente, ai capitoli 4 e 6 del mio libro Terapia
psicoanalitica [1995] prima citato). 
Quello che intendo fare qui è discutere alcuni aspetti caratterizzanti la
tendenza radicale della psicoterapia breve: come si vedrà, ne mostrerò, uno
per uno, la inconsistenza teorica.
 
La inconsistenza teorica della terapia breve
Considererò solamente i seguenti quattro aspetti caratterizzanti la tecnica
della terapia dinamica breve: 1) la tecnica "attiva"; 2) la focalità; 3)
l'evitamento della nevrosi di traslazione e di altri fenomeni regressivi; 4)
il time-limit setting (cioè la decisione presa a priori, come regola del
setting, di fissare una data per la fine della terapia). Questi quattro
aspetti sono separati tra loro un po' artificiosamente, in quanto, come si
vedrà, vi sono varie interdipendenze (per la discussione di un quinto
fattore spesso presente nelle terapie brevi, che consiste nell'uso
sistematico del videotape a scopo di ricerca, vedi Migone, 1982, pp. 76-77).
.... (omissis)
 
4. Il "time-limit setting"
La decisione presa a priori, come regola di base, di stabilire una data per
la fine della terapia è sicuramente un fattore comune a tutte le terapie
brevi. Anzi, alla luce della discussione fatta prima sugli altri tre
fattori, si può dire che il time-limit setting sia l'unico fattore specifico
delle terapie brevi; questa affermazione, dato che non è altro che una
tautologia, ribadisce il fatto che le terapie brevi non hanno una differenza
teorica qualitativa rispetto alla psicoanalisi (e quindi che esse "non
esistono"). E' scontato che la durata deve essere stabilita prima
dell'inizio della terapia, non durante il suo decorso, altrimenti la terapia
breve diventerebbe semplicemente una "breve terapia".
Gli effetti del time-limit setting sono stati discussi da vari autori (Mann,
1973; Schafer, 1973; ecc.). Esso può aiutare a far emergere fin dall'inizio
della terapia le dinamiche di separazione e di perdita. Secondo Marmor
(1979, p. 153), rinforza l'indipendenza e l'autostima del paziente,
trasmettendogli un messaggio di speranza e di guarigione possibile (ma -
potremmo chiederci - perché mai dovremmo a tutti i costi trasmettergli
questa speranza? Abbiamo forse pura che non sappia vedere e analizzare il
suo pessimismo?). Vi è anche chi afferma che il time-limit setting può
aiutare a superare le resistenze, sia del paziente che del terapeuta, a
lavorare analiticamente, a non "sprecare sedute", ricordando, come elemento
di realtà, che l'analisi ha un termine. In altre parole, il time-limit
setting può far diminuire il rischio che la terapia diventi una tranquilla e
interminabile analisi, che forse non è altro che il risultato della
resistenza del paziente in collusione con problemi controtransferali
dell'analista (la comune fantasia di trovare un paziente ricco come "buon
investimento economico" esprime bene la razionalizzazione di alcuni di
questi problemi controtransferali - inutile far notare quanto sia
"antipsicoanalitico" illudersi di risolvere questo controtransfert
impedendone la comparsa anziché interpretandolo). 
Queste considerazioni, se generalizzate, portano ad errori tecnici, sia
perché si basano sull'assunto che esistano solo questi tipi di resistenze
transferali e non altre (ad esempio di tipo opposto, come la paura della
terapia lunga e il conseguente desiderio di accorciarla), sia perché, come
si è detto, questo utilizzo del time-limit setting rischia di aggirare una
resistenza senza analizzarla. Non viene cioè esplorato a sufficienza perché
mai vi dovrebbe essere una tendenza a "sprecare sedute", quasi come se 
essa fosse "normale", o inanalizzabile, o una "pulsione" che andrebbe solo
controllata da un intervento educativo del terapeuta che autoritariamente
pone un limite alle sedute. Si rischia anche di concepire la resistenza in
senso moralistico, come se essa non dovesse essere compresa ma eliminata 
in quanto tale. Inoltre in una terapia breve certe fantasie narcisistiche (come
quella di essere in eterna fusione col terapeuta e così via) rischiano di
non venire alla luce, sfuggendo al lavoro analitico e all'interpretazione.
Il setting di terapia breve insomma potrebbe favorire la resistenza in certi
pazienti, offrendo loro una scusa per "fuggire impunemente", se così si può
dire (si ricordino le considerazioni di Eissler, citate prima, sul
"sequestro di materiale analitico"). Non a caso alcuni terapeuti brevi
sottolineano l'importanza di una "alta motivazione" (Sifneos, 1980) come uno
dei criteri di selezione dei pazienti: ciò fa venire il sospetto che questi
terapeuti brevi abbiano la implicita consapevolezza che i pazienti che
preferiscono la terapia breve rischiano di essere proprio quelli che hanno
determinate paure ad intraprendere una terapia a lungo termine, cioè che
sono "poco motivati" ad analizzare i conflitti legati alla paura dei
significati da loro attribuiti alla analisi a lungo termine. Ma, come ho
detto prima, aggirare queste resistenze è cosa ben diversa dall'analizzarle,
ed eliminare i pazienti con poca motivazione non significa certo curarli.
Ma per tornare alla nostra discussione teorica, la domanda che dobbiamo
porci è la seguente: il time-limit setting è l'unico fattore caratterizzante
la terapia breve, o esiste anche una tecnica specifica? Infatti, allo scopo
di isolare un fattore dall'altro, possiamo chiederci: se esiste una tecnica
specifica di terapia breve che porta a risultati soddisfacenti nel breve
periodo, perché dobbiamo stabilire a priori la data del termine, e non
semplicemente terminare la terapia quando si ottengono dei risultati così
come si fa in psicoanalisi e nelle altre terapie? Se poi questi pazienti
sono anche dotati di una "alta motivazione", tanto meglio, e a maggior
ragione potremmo aspettarci che essi elaborino i propri problemi e finiscano
la terapia nel breve periodo, senza la necessità che noi imponiamo loro di
aderire a un contratto di terapia breve. 
In altre parole, la domanda che dobbiamo porci è perché si decide di fare
una terapia breve, cioè secondo quale teoria della tecnica si decide di
introdurre il time-limit setting: se per motivi "esterni" (mancanza di tempo
o di denaro, decisione presa a priori perché si lavora in un progetto di
ricerca sulle terapie brevi, ecc.), e nel qual caso si rientrerebbe nella
posizione conservatrice e non vi sarebbe nulla da eccepire; oppure per
motivi "interni" a una precisa teoria della tecnica. Sembra questo il caso,
secondo i terapeuti brevi radicali: si assume che il paziente, avendo già
fin dall'inizio la consapevolezza che la terapia ha una durata limitata,
mobilizzi più in fretta determinati contenuti e superi certe resistenze.
L'ipotesi è che il time-limit setting abbia un effetto "terapeutico" sul
paziente (e forse anche sul terapeuta).
Ebbene, se questo è il caso, bisogna osservare che la cosa è nota da sempre
agli psicoanalisti; basti ricordare l'Uomo dei lupi, dove Freud (1914) usò
questo parametro per mobilizzare i conflitti inconsci del paziente. Come si
è già detto, Eissler (1953) ha teorizzato la legittimità dell'introduzione
di modificazioni alla tecnica di base, da lui definiti "parametri", nel caso
la struttura dell'Io del paziente presenti determinati deficit che non
rendono possibile l'impiego della tecnica standard. Ma secondo Eissler per
fare un appropriato lavoro analitico il parametro deve essere interpretato
ed eliminato prima della fine della terapia, non introdotto a priori come
componente fissa del setting così come avviene nelle terapie brevi. Quindi
considerare il time-limit setting come "terapeutico" implicherebbe assumere
che i pazienti candidati alla terapia breve siano tutti inanalizzabili per quanto 
riguarda questo specifico problema: essi cioè svilupperebbero sempre
una eccessiva dipendenza dal terapeuta e altri fenomeni regressivi che
impedirebbero di terminare la terapia in un tempo ragionevole.
A riprova di una possibile funzione "difensiva" della terapia breve, ho
notato, nella mia pratica professionale, che i pazienti che si presentano
con una richiesta esplicita (e a volte pressante) di terapia breve spesso
sono proprio quelli che poi entrano in una analisi interminabile o fanno
fatica a terminare la terapia; quelli invece che senza timore chiedono
semplicemente una analisi o esprimono una richiesta di approfondimento e 
di conoscenza di sé, generalmente terminano in un tempo ragionevole senza
eccessivi problemi. Possiamo cioè ipotizzare che certi pazienti chiedano una
terapia breve (con varie razionalizzazioni, come mancanza di tempo, di
denaro, sfiducia nella psicoanalisi "freudiana", ecc.) perché inconsciamente
vogliono difendersi dalla paura di legarsi troppo al terapeuta, col quale
entrerebbero in una viva conflittualità attorno a problemi di dipendenza.
Sta al terapeuta esperto, sempre che voglia lavorare attorno a questi nuclei
conflittuali, non cadere nella trappola tesagli da questi pazienti, a meno
che l'offerta di una terapia breve venga fatta come estremo rimedio per
coinvolgere il paziente in terapia (per "sedurlo"), e quindi come vero e
proprio "parametro" secondo Eissler, parametro che poi nel corso delle
successive sedute viene elaborato ed eventualmente eliminato tornando a 
un setting senza limite di tempo prestabilito. Considerazioni simili sulla
possibile funzione difensiva della terapia breve da parte del paziente
possono essere fatte a proposito del terapeuta, che può preferire le terapie
brevi a scopo difensivo, temendo di non saper gestire un eccessivo
coinvolgimento coi pazienti (le scelte teoriche e tecniche dei terapeuti
sono sempre condizionate da precise fantasie inconsce; si veda a questo
proposito l'interessante articolo di Arlow [1981] sulle "teorie della
patogenesi").
La psicoterapia breve avrebbe dunque una efficacia limitata, essendo
indicata solo per quei pazienti che si suppone abbiano un conflitto "non
analizzabile" riguardante la dipendenza o l'attaccamento, per cui si decide
a priori di non elaborare questo problema in terapia (la terapia breve
sarebbe dunque, per così dire, una "non terapia"). E' comunque difficile per
un terapeuta, anche molto preparato, fare tale diagnosi all'inizio del
trattamento, ma anche ammettendo che ciò sia possibile, rientreremmo
comunque nella posizione conservatrice: i pazienti per i quali la
conflittualità è legata alla dipendenza e ad un rapporto a lungo termine
(paura e desiderio di un rapporto di accettazione "incondizionato", di una
terapia lunga come una delle prove per sentirsi "amati" e non rifiutati, e
così via), troverebbero nell'offerta di terapia breve una buona conferma
delle proprie credenze patogene inconsce. In questo senso, estremizzando,
potremmo dire che questi pazienti chiedono una terapia breve "per non
cambiare", e che i terapeuti brevi li accettano in terapia "per non
cambiarli", o "per rassicurarli che non cambieranno".
In conclusione, si può dire che il time-limit setting, che è l'aspetto
maggiormente caratterizzante le terapie brevi, è proprio l'elemento che
rivela la debolezza teorica della tendenza radicale.
Infine, giova ricordare che anche in psicoanalisi si prevede un periodo per
così dire di "terapia breve", e precisamente quella fase finale dell'analisi
detta termination. Questa fase, che dura alcuni mesi e che è considerata 
una delle fasi più importanti dell'analisi, inizia quando paziente e analista si
accordano su una data in cui terminare le sedute. In questa tanto delicata
quanto importante fase della terapia si sottopone il paziente alla
consapevolezza della data del termine, onde osservare configurazioni emotive
e movimenti transferali nuovi in genere legati al tema della separazione e
alla capacità del paziente di interiorizzare i risultati raggiunti, proprio
come accade in terapia breve. Quindi la psicoanalisi, che inizia open ended,
cioè senza fissare una data per la fine della terapia (esponendo così il
paziente ad una esperienza di accettazione "illimitata" per analizzarne le
reazioni transferali), con la inevitabile fase di termination si trasforma
in una "terapia breve" (esponendo il paziente anche allo stimolo opposto,
quello della fine del rapporto, affinché sia appropriatamente analizzato).
 
L'elaborazione della fine della terapia come intervento terapeutico: 
due esempi clinici uguali e opposti
Per approfondire meglio questa discussione teorica sulle complesse
implicazioni della termination, e per dare una idea più chiara sui vantaggi
di un approccio che non prevede il time-limit setting come regola di base
della tecnica, farò due esempi clinici in cui vengono descritte due
situazioni opposte caratterizzate però dalla stessa problematica teorica:
una situazione in cui un contratto di terapia breve permise un importante
cambiamento terapeutico, e una situazione invece in cui fu proprio la ferma
opposizione del terapeuta alla intenzione della paziente di terminare la
terapia il decisivo punto di svolta nel senso del miglioramento. Presento
questi due casi clinici anche per cercare di evitare ogni fraintendimento
sulle mie posizioni: con la mia critica alle terapie brevi non intendo dire
che "sono meglio le terapie lunghe", anzi, ragionare in questi termini
vorrebbe dire proprio non aver capito la mia critica teorica e ripetere gli
stessi errori uguali e contrari. Invito il lettore a prestare attenzione,
più che ai dettagli clinici, alle implicazioni teoriche sottostanti che sono
le stesse nei due casi: i significati specifici, consci e inconsci, dati dal
paziente alla esperienza terapeutica nel suo complesso, e l'importanza per
l'analista di saperli interpretare." (ecc.) [questi due casi clinici sono stati riportati 
anche nelle rubriche n. 62/1993 e 68/1995 de Il Ruolo Terapeutico]
 
13 Aprile 1999, Paolo Migone:
Cari Fausto Radaelli e Gaetano Giordano,
mi scuso col ritardo (di alcune ore!) con cui ho risposto alle vostre 
richieste di chiarimento espresse nelle mail del 12-4-99, e se alcune 
espressioni hanno risentito di una certa emotività, che riconosco che è 
inutile e controproducente. Evidentemente questo argomento mi coinvolge 
un po'. Ho esposto queste posizioni da quasi 20 anni, in molti contesti, e 
non ho mai avuto la soddisfazione che qualcuno entrasse nel merito e me 
le criticasse. Spero tanto che qualcuno prima o poi mi faccia questo regalo.
 
14 Aprile 1999, Gian Paolo Scano:
Paolo Migone ha scritto:
>Quando si discute delle terapie brevi, in genere quello a cui si vuole 
>alludere è una teoria che ci permetta di accorciare la durata delle terapie 
>ottenendo risultati simili alle terapie "lunghe": è questa teoria che io 
>ritengo non esista. Non esiste cioè una teoria autonoma dalla "teoria 
>generale" della psicoterapia, lunga o breve che sia. Infatti, se è per 
>questo, ritengo che non esistano neanche le "terapie lunghe". Esiste la 
>terapia e basta, la cui tecnica dipende da una determinata teoria, teoria 
>che per esempio potrebbe portarci a ritenere che in un determinato 
>trattamento una interruzione anticipata potrebbe essere "terapeutica", cioè 
>mutativa in senso lato, mentre in un altro potrebbe indurci a ritenere il 
>contrario, cioè che solo la nostra insistenza nel prolungare la terapia 
>sarebbe l'intervento più utile dell'intero trattamento. (...)
>(Freud) che era un ipnotista, voleva solo vedere se si riusciva ad
>ottenere cambiamenti più stabili, attraverso 
>operazioni cliniche diverse, che agissero sulla psiche 
>operando un diverso tipo di ristrutturazione psichica che non fosse quella 
>dell'ipnosi o della suggestione. Sicuramente molti diranno che la 
>suggestione avviene comunque, o che "tutto è suggestione", ma a mio parere 
>solo il fatto di porre questo problema (se "è suggestione o no") ci pone ad 
>un livello "meta", quindi più sofisticato, al limite di "quale tipo di 
>suggestione è più suggestione dell'altra".
 
Caro Paolo, ti scrivo in margine alla discussione sulle "terapie brevi" per 
proporre due riflessioni. Dico "in margine" perché sullo specifico la penso 
come te e anch'io tendo a impostare e risolvere il problema in termini
gilliani. Ho riflettuto, però, sulla "forma" del ragionamento (che,
ripeto, è anche mio riguardo a questo e ad altri problemi), che
sintetizzo in questo modo: non esiste una teoria autonoma della
psicoterapia breve, esiste (una teoria che istruisce) una teoria della
tecnica, che istruisce una tecnica, quindi la psicoterapia breve o è un
caso particolare di tale tecnica (il paziente parte per l'Australia tra
quattro mesi; resta lo spazio per una necessaria, ma "breve" terapia)
oppure la tecnica "breve", se valida e validata, sarebbe alternativa alla
tecnica "lunga", che diventerebbe obsoleta a parità di indicazione. Il
ragionamento ha un punto debole nel primo anello e cioè nella nozione di
teoria della tecnica. Se diamo a tale termine un significato formale siamo
nelle peste, perché la teoria della tecnica è istruita dalla "teoria" e in
concreto dalla metapsicologia, se la metaspicologia è confutata, non
possiamo più fare riferimento solido alla teoria della tecnica, che ha
perso il suo fondamento. Di conseguenza Eissler, cui giustamente fai
riferimento, poteva negli anni cinquanta, fare il ragionamento in modo
formale; noi no, perché ci siamo persi lo sgabello su cui la teoria della
tecnica sedeva e non lo abbiamo sostituito con un'altra sedia. Resta
un'alternativa e cioè che assumiamo "teoria della tecnica" in modo meno
preciso e come istruita non da una teoria formale (per esempio da una
formale teoria del cambiamento), ma piuttosto da "generalizzazioni
affidabili tratte dall'esercizio secolare della tecnica" oppure da
"spezzoni di teoria non formalizzata" (per esempio istruzioni ricavate da
una "teoria dell'attaccamento"). In questo caso il ragionamento resta
verosimile e affidabile, ma non decisivo. 
Credo che questa riflessione sia importante non tanto per quanto riguarda
lo specifico problema della terapia breve, ma perché sono molte le
questioni tecniche e cliniche, in cui siamo costretti a utilizzare questa
forma di ragionamento e ciò potrebbe indurci a dare per scontato,
surretiziamente, che esista una vera teoria della tecnica e che non sia
così urgente e primario lavorare per costruirne una. Credo invece che
riguardo all'assenza di teoria dobbiamo comportarci come i monaci con la
morte: "memento mori!" e cioè "ricordati sempre che la tua borsa teorica si
è svuotata e che dunque la teoria della tecnica poggia quantomeno su uno
sgabello a due gambe!"
La seconda osservazione riguarda la nozione di suggestione. Credo di aver
compreso quanto vuoi dire e di poterlo condividere; mi chiedo però se non
faremmo bene a evitare il termine di "suggestione", che era ben definito
nel '900, (quando la psicoanalisi si costruì in opposizione), ma che è meno
chiaro (e anzi francamente equivoco), oggi. "Suggestione" non è, per così
dire, un "numero primo" e confonde almeno tre livelli differenti. Un primo
livello rimanda ad azioni o a situazioni intenzionalmente manipolatorie,
che non vengono analizzate e che si pongono come da non analizzare. 
Secondo la concezione corrente tali tecniche manipolatorie sono estranee 
alla terapia psicoanalitica. Potremo fare riferimento ad esse con il termine di
"manipolazione", che è più ampio e più definibile di quanto non sia
"suggestione". Un secondo livello rimanda, invece, a sempre più evidenti
"implicazioni suggestive" proprie di ogni rapporto abbastanza stretto. Di
queste implicazioni parla Gill, che le intende inevitabili e intrinseche
all'interazione terapeutica e oggetto necessario dell'analisi e
dell'interpretazione. Anche Freud considerava inevitabile e necessaria una
"implicazione suggestiva" di questo tipo, nel transfert positivo e non
solo, come sai meglio di me. Su questo livello, grazie al transfert e al
controtransfert, sappiamo, se non abbastanza, almeno quanto pensiamo basti
a farci sentire meno vuota la borsa della teoria della tecnica rimasta
orfana del suo sgabello. Se ne sapessimo di più, forse potremmo costruire
una rinnovata e "formale" teoria della tecnica. C'è infine un terzo
livello, che presumibilmente sta sotto tutti gli altri e di cui
cominciarono ad aver sentore proprio gli ipnotisti del XVIII secolo, oltre
che Freud quando si imbatté nel non gradito "fenomeno" del transfert.
Questo livello di base potrebbe riguardare la struttura, formazione e
funzionamento della "macchina per costruire e decodificare significati" e
se ne sapessimo di più potrebbe essere la base della teoria formale del
cambiamento, che potrebbe istruire una vera teoria della tecnica. Quando
parliamo di suggestione tendiamo a confondere i tre livelli. Freud, invece,
cominciò proprio distinguendo il primo dal secondo livello. Perché 
dovremmo tornare indietro? Ti ringrazio per il gran lavoro che fai.
 
14 Aprile 1999, Paolo Migone:
Caro Gian Paolo, tu sollevi due questioni. Nella prima metti in dubbio che 
esista una assodata teoria "forte" della tecnica, come ad esempio traspare dalla
teorizzazione di Eissler che io cito. Io sono d'accordo con te, infatti
considero Eissler coerente al suo interno, ma superato per quanto riguarda
alcuni assunti da cui parte. Il punto è che io usavo Eissler (come peraltro
ho usato anche Gill, che è ben diverso da lui) come esempi di un modo di
teorizzare, e non per dire che loro hanno assolutamente ragione o che esiste
oggi una metapsicologia "forte". Come è emerso anche dal nostro dibattito su Gill
se scaviamo attorno a Gill scopriamo anche lì dei problemi, e tu sei il primo a vederli.
Ma il mio discorso era un altro. A me interessavano solo le terapie brevi, e
più precisamente mi interessava dimostrare che qualunque teoria o
metapsicologia noi usiamo (forte, debole, giusta, sbagliata, ecc.), siamo
nelle stesse peste sia che siamo terapeuti brevi che lunghi. Non solo: sono
i terapeuti brevi quelli che per primi vantano una teoria forte (non
dimentichiamo che si è parlato di "nuova metapsicologia di Davanloo", e sono
proprio queste affermazioni, che ho spesso sentito fare dai terapeuti brevi,
quelle che mi hanno reso un po' emotivo). Ed è naturale che sia così, perché
se i terapeuti brevi non avessero questo carattere "forte", radicale, non
avrebbero più quella identità che li caratterizza, e non vi sarebbe più
differenza tra noi, cadrebbe ogni discorso.
Come emerge bene anche dalla bella descrizione di Davanloo che ci ha fatto
Sandro Rosseti, emerge una teoria della tecnica (e una metapsicologia) di
tutto rispetto, giusta e sbagliata che sia. Ma appunto per questo io non ho
voluto entrare nel merito di questa teoria, perché non mi interessava farlo,
non era indispensabile per il mio ragionamento. Anzi: più i terapeuti brevi
sono bravi, più hanno una forte teoria alle spalle, più mi danno ragione,
infatti meno si spiega perché devono prefissare un termine alla terapia (è
ovvio che se non prefissassero un termine alla terapia - unico criterio
definitorio delle terapie bervi - loro non farebbero mai delle terapie
brevi, ma delle terapie che finiscono prima per il fatto che sono bravi, e
allora si ricomincia da capo: se sono così bravi, perché devono vincolare il
paziente con un termine prefissato? Se non prefissassero un termine, non
sarebbero più dei terapeuti brevi, sarebbero solo dei terapeuti bravi, come
ciascuno di noi agogna di essere).
La seconda questione che sollevi è quella, annosa, della suggestione. E' un
terreno minato, molto complesso, sul quale al momento non me la sento di
intervenire oltre alle cose dette, a mo' di battuta, alla fine della mia
ultima mail. Temo che prima o poi qualcuno (ad esempio Angelozzi, che ha
studiato a fondo l'ipnosi, Milton Erickson, gli stati di coscienza, ecc.) ci
provocherà e ci costringerà ad approfondire questo tema, ma io per il
momento non penso di avere gli strumenti concettuali per farlo seriamente.
Capisco bene comunque le tue perplessità, però di nuovo, come anche tu dici,
questo non centra con le terapie brevi.
 
16 Aprile 1999, Gian Paolo Scano:
Caro Paolo, sull'argomento specifico sono (ed ero) d'accordo. Naturalmente,
proponendoti le riflessioni della mia precedente mail, sapevo di andare
"fuori tema" e, anzi, (mi scuserai per questo), lo facevo in modo un pò
malandrino, tentando in prima persona la provocazione che "temevi" da
Angelozzi. Anch' io mi aspettavo, che egli riprendesse il tema che aveva
introdotto in una mail di un mesetto fa, che trovai molto bella,
interessante e, dal mio punto di vista, anche sorprendente perché non so
(quasi) nulla di ipnosi e di Erikson, ma mi ritrovo a pensare in modo
abbastanza simile a partire da tutt'altre premesse. Ho appena visto che
Angelozzi ha colto l'occasione (e anche Rossetti) e adesso speriamo si
accenda un bel fuoco. E sarebbe un bel fuoco se terapisti di differente
estrazione teorica e tecnica si interrogassero sui temi cruciali della
teoria della tecnica . La "suggestione" (o i tre livelli di significato che
credo di poter leggere nella suggestione) può essere un punto di partenza
ottimo tra i tanti possibili: chissà che non riusciamo almeno a eliminare
questo homuncolus
Apprezzo e rispetto la tua prudenza e il tuo desiderio di non entrare in
questo campo minato. Però purtroppo in questo campo minato ci siamo 
con tutti i piedi. Qualunque questione tecnica di maggiore o minore rilevanza
affrontiamo (terapia breve, setting fisso o variabile, interpretazione\
insight e\o esperienza correttiva... per stare agli ultimi che sono stati
affrontati) possiamo certo spendere la saggezza che ci deriva dagli
antichi, la critica, la logica, il buon senso, ma non potremo mai attingere
una posizione sufficientemente solida, perché nella mappa viaria delle
argomentazioni, in definitiva, tutti i sentieri, le strade e le autostrade
prima o poi portano inesorabilmente al nodo del "come" e del "perché" e,
purtroppo, le nostre risposte più confortanti sono andate in pezzi con la
metapsicologia. Anche il sentiero della terapia breve porta a questo nodo.
In fondo l'unica maniera seria di accorciare le terapie (troppo) "lunghe"
consiste nel conoscere meglio il cambiamento e nel mettere a punto
strategie che siano più efficaci e precise nel renderlo più possibile e più
probabile. A presto. 
 
15 Aprile 1999, Daniele Cacchioni:
Sono il dr. Daniele Cacchioni e posso provare a rispondere io anche 
se su una vecchia discussione tecnica c'è stato un po' di maretta.
L'antica lingua egizia non è stata capita e tradotta finché non è stata
trovata la "stele di rosetta" dopodiché è stato facile tradurre l'egiziano e
il tempo di traduzione dipende dalla singola persona.
Watzlawick (pragmatica delle relazioni umane) nell'ultimo libro di Nardone
(la terapia strategica) afferma che questo tipo di terapia è indicata per
chi mostra un sintomo mentre per chi "cerca" "sé stesso" è opportuno e
indicato una terapia del profondo.
Bandler (PNL, Programmazione Neuro-Linguistica) ha curato un 
"matto" che si credeva Gesù andando da Lui, prendendogli le misure 
e presentandosi con assi di legno, martello e chiodi.
Mony Elkaim invece riesce a produrre il cambiamento tramite le assonanze
(cosa mi colpisce in quello che dice la persona) e rispondendo così al
principio della teoria sistemica che l'osservatore dipende ed è integrato all'osservato.
In altre parole secondo la terapia sistemica TUTTE le terapie riescono
(anche quelle del profondo) in quanto costruiscono delle nuove realtà (la
realtà inventata) e perché nel momento in cui si crede in ciò che si dice
quel "momento" diventa una "profezia che si autodetermina".
La Palazzoli (l'anoressia mentale) nel suo ultimo libro (mi sembra
s'intitoli "ragazze anoressiche e bulimiche") dimostra come in poche sedute
(max 20) di terapia familiare (ad orientamento sistemico) riesce a risolvere
le gravi difficoltà delle persone che si rivolgono a lei ma verifica anche
come le stesse persone "guarite" (la verifica è stata fatta dopo 20 anni )
non capendo "come" sia avvenuto ciò siano andate a fare psicoterapia
individuale. Inutile dire, quindi, che esistono terapie truffa o simili.
 
16 Aprile 1999, Paolo Migone:
Sono d'accordo con te che vi sono tanti modi, anche geniali e rapidi, per 
modificare quello che tu chiami un "sintomo", nessuno ha mai negato questo.
Ma, a scopo di esempio, vorrei farti una domanda: se la Selvini (o chi per lei) 
è stata così brava da eliminare in poche sedute un sintomo così grave come 
un disturbo alimentare, come mai non è stata capace di evitare che la paziente 
fosse ancora convinta di essere malata? La richiesta da parte della paziente di 
un'altra terapia non è anch'essa un "sintomo"? Cosa significa "sintomo"? Per di 
più in questo caso non si trattava di un vissuto soggettivo, ma di un dato 
comportamentale (fare un'altra terapia), cosa che i sistemici sono stati sempre 
maestri nel modificare. A mio modo di vedere un terapeuta bravo (breve o 
lungo che sia) è quello che riesce a dare coerenza di significati, maggiore 
adattamento, e stabilità nel tempo al cambiamento.
 
15 Aprile 1999, Sandro Rosseti:
Caro Migone, scrivevi ieri sera (il 14 Aprile 1999):
>Anzi: più i terapeuti brevi
>sono bravi, più hanno una forte teoria alle spalle, più mi danno ragione,
>infatti meno si spiega perché devono prefissare un termine alla terapia (è
>ovvio che se non prefissassero un termine alla terapia - unico criterio
>definitorio delle terapie bervi - loro non farebbero mai delle terapie
>brevi, ma delle terapie che finiscono prima per il fatto che sono bravi, e
>allora si ricomincia da capo: se sono così bravi, perché devono vincolare il
>paziente con un termine prefissato? Se non prefissassero un termine, non
>sarebbero più dei terapeuti brevi, sarebbero solo dei terapeuti bravi, come
>ciascuno di noi agogna di essere).
 
Certo che hai ragione, ma non perché io mi senta un terapeuta "bravo" e/o
"breve". Quanto dici tu, ed è stato detto da altri in questi giorni,
sull'inesistenza delle terapie brevi in quanto tali, ed in particolare la
critica che fai al time-limit, non può che essere condivisa.
Tuttavia, il discorso sulla psicoterapia, sui suoi sviluppi, deve
(dovrebbe) ripartire proprio da lì; ci sono, e quella messa a punto da
Davanloo lo è, terapie che, a parità di indicazione, permettono una cura
(e una stabilità di risultati) in tempi inferiori di altre (vorrei/potrei
essere ancora più radicale, e dire che permettono una cura, tout-court, ma
poi finirei essere preso da alcuni per un "true believer" che cerca di fare
accoliti, e non è questo che mi interessa), non perché il terapeuta sia
bravo, ma perché sta usando una tecnica, nuova o modificata che sia, che
ha questa "conseguenza"; usa e mette a punto, cioè, uno strumento diverso
per guardare e trattare la stessa cosa, la patologia dell'inconscio. Credo
allora che non si possa non riconoscere a Davanloo quantomeno l'onestà
intellettuale di mostrare il proprio lavoro nei suoi tapes (e non solo a
lui, e non solo sui suoi nastri), di far "vedere", non solo di dire, cioè,
cosa fa e il materiale inconscio che emerge come conseguenza degli
interventi, e di lasciare che chi li vede valuti da solo quello che osserva
e quella che è la teoria della tecnica e la metapsicologia che la sottende
(e chi, come Migone, ha avuto modo di osservare a lungo quel materiale -
anche se quello che tu hai visto negli anni '80 è riferito allo stato
dell'arte di allora, e molta acqua è passata nel frattempo sotto quei
ponti, strutturando di più quelle che allora, per Davanloo stesso, erano
poco più che intuizioni - ne conosce la ricchezza). 
C'è poi la questione della "nuova metapsicologia": perché se io voglio
studiare qualcosa che non conosco completamente, ma di cui ho un'idea, 
che pure derivo da chi mi ha preceduto, non posso costruirmi uno strumento 
che mi permetta, sulla base di un principio di trial and error, di raggiungere 
il livello di accuratezza (di informazione) che io ricerco? E perché,
allora, come avviene peraltro con l'introduzione di altri strumenti in
altri campi (microscopio/Rx/TAC/RMN ecc.), a questo non può conseguire 
la possibilità di conoscere nuovi aspetti di ciò che si cerca, o di rivedere
aspetti già conosciuti sotto nuova luce? Questo è, sostanzialmente,
quello che Davanloo ha fatto e continua a fare, utilizzando come principi
quelli fisiologici di stimolo/risposta/feedback, e come mezzo di verifica e
validazione quello delle registrazioni audiovisive.
Gian Paolo Scano diceva a proposito del "terzo livello" del concetto di
manipolazione in una mail di ieri:
>C'è infine un terzo livello, che presumibilmente 
>sta sotto tutti gli altri e di cui cominciarono 
>ad aver sentore proprio gli ipnotisti del XVIII secolo, oltre
>che Freud quando si imbatté nel non gradito "fenomeno" del transfert.
>Questo livello di base potrebbe riguardare la struttura, formazione e
>funzionamento della "macchina per costruire e decodificare significati" e
>se ne sapessimo di più potrebbe essere la base della teoria formale del
>cambiamento, che potrebbe istruire una vera teoria della tecnica. 
 
Ecco, se capisco bene quello che Scano vuol dire, credo che il lavoro di
Davanloo permetta di gettare luce in quella direzione, di-mostrando
(letteralmente) come l'inconscio psicobiologico sia tutto sommato regolato
dalle medesime leggi fisiologiche che regolano il funzionamento di altri
sistemi ed apparati biologici. Questa non è una conclusione, o una ipotesi
a priori, ma passa ed è passata attraverso un processo costante di
revisione, che è poi quello che permette di utilizzare una (qualunque)
tecnica in situazioni o in modi precedentemente impraticati. Che poi
ognuno, di fronte a ciò che vede, possa, consciamente e inconsciamente,
prendere una posizione, è parte del processo di sviluppo della
psicoterapia: quello che mi premeva sottolineare, ancorché banale, è che
il processo di cura (perché ricordiamoci che stiamo parlando di "terapia",
di cura delle persone, e non di mero sviluppo della conoscenza) non è
basato (solo) sulla capacità del terapeuta, ma su quello che il terapeuta
fa, in base a quella che è la sua teoria e la tecnica che ne consegue; e
questo anche per sgombrare il campo da riduzionismi, per fortuna non letti
qui, del tipo che a Davanloo riesce perché è Davanloo (un terapeuta
"bravo"): se una tecnica è tale, deve poter essere insegnabile ad
apprendibile, altrimenti resta improvvisazione.
Grazie per l'attenzione e lo stimolo che dai.
 
16 Aprile 1999, Paolo Migone:
Caro Sandro, sono completamente d'accordo con tutto quello che tu dici. 
La questione non è della bravura di una persona o del suo talento innato, 
quanto della possibilità di trasmettere questa conoscenza ad altri, la questione del training, 
della replicabilità, altrimenti la psicoterapia non sarebbe una scienza 
(questo problema non riguarda solo Davanloo, ma anche tanti altri teraputi, 
es. Kernberg col manuale per i borderline, ecc., e la posta in gioco, la sfida, è appunto 
quella della replicazione dell'"esperimento", la questione "scientifica" della psicoterapia).
Riguardo al videotape, anche qui sono d'accordissimo, ma con me sfondi 
una porta aperta (tra le altre cose ho fondato la sezione italiana della 
Society for Psychotherapy Research [SPR], i cui pionieri, andando 
spesso controcorrente, usavano il registratore, il video, ecc.).
Hai ragione anche nel dire che la tecnica di Davanloo si è molto evoluta 
negli ultimi 15-20 anni, e non conosco bene quella attuale a parte la tua 
descrizione. Mi rimane l'impressione comunque che sia più adatta a certi 
pazienti e non ad altri (dovrei però conoscerla meglio per esprimere una 
opinione più precisa), e anche che la "brevità" a priori (su cui in fondo 
ruota tutto il suo discorso, a meno che non sia un fattore propagandistico) 
sia un forte vincolo, che ne inficia la coerenza teorica, nell'interesse stesso 
dei risultati sintomatologici.
 
15 Aprile 1999, Wilfredo Galliano:
Caro Paolo, il 14/04/99 hai scritto:
>...Anzi: più i terapeuti brevi
>sono bravi, più hanno una forte teoria alle spalle, più mi danno ragione,
>infatti meno si spiega perché devono prefissare un termine alla terapia (è
>ovvio che se non prefissassero un termine alla terapia - unico criterio
>definitorio delle terapie bervi - loro non farebbero mai delle terapie
>brevi, ma delle terapie che finiscono prima per il fatto che sono bravi, e
>allora si ricomincia da capo: se sono così bravi, perché devono vincolare il
>paziente con un termine prefissato? Se non prefissassero un termine, non
>sarebbero più dei terapeuti brevi, sarebbero solo dei terapeuti bravi, come
>ciascuno di noi agogna di essere).
 
In linea generale sono molto d'accordo con te (come anche con quanto 
Scano dice nella lettera cui tu rispondi, ma questo effettivamente è un altro discorso).
Rispetto alla citazione di sopra, tuttavia, ho da porti una questione:
"Perché noi terapeuti (lunghi) dobbiamo NON porre un limite di tempo alla
terapia?", ovvero "Dove sta scritto che la terapia e basta è quella che non 
ha un limite di tempo prefissato?"
Il ragionamento che c'è dietro a queste domande, ovviamente, è il mio
tormentone: oltre a una tecnica le terapie, come qualsiasi altra cosa, hanno 
una forma, un aspetto ed è da un aspetto che noi guardiamo ogni altro aspetto.
(Certo che una bella discussione sulla suggestione sarebbe proprio da fare,
nel nostro gruppetto o qui in lista: speriamo che Andrea raccolga l'invito). Ciao.
 
16 Aprile 1999, Paolo Migone:
Caro Wilfredo, tu mi chiedi "perché noi terapeuti (lunghi) dobbiamo NON porre un limite 
di tempo alla terapia", e "dove sta scritto che la terapia e basta è quella che non ha un limite 
di tempo prefissato". Mi stupisci, perché dietro mia richiesta fosti proprio tu a leggermi, 
molto gentilmente, il capitolo sulle terapie brevi del mio libro prima che fosse dato alle stampe, 
facendomi una ultima revisione generale, e mi desti preziosi consigli! Il fatto che quindi 
ancora una volta sia difficile fare chiarezza su questo punto deve significare qualcosa, 
anche se non so bene cosa, forse riguardo a pregiudizi radicati, prevalentemente preconsci, 
sulla terapia così come ce l'hanno insegnata. O probabilmente la tua domanda è "ad arte", 
e vuoi darmi un preteso affinché spieghi meglio agli altri cose che potrebbero non essere chiare.
In breve, non è assolutamente vero che noi terapeuti lunghi non siamo liberi di 
fare terapie brevi, cioè di interrompere la terapia, sono i terapeuti brevi che 
non sono liberi di fare le terapie lunghe, e questo per una loro precisa questione di identità teorica 
e pratica, che, come ho già argomentato, a mio parere li limita nelle loro potenzialità terapeutiche.
L'interruzione della terapia è uno dei più potenti strumenti terapeutici, noto e 
discusso fin dai tempi di Freud. Ha tanti effetti, uno dei quali può essere quello 
di fare improvvisamente "guarire" il paziente, a volte con grande sorpresa di 
entrambi i partner della terapia. Ogni terapeuta "bravo" che si rispetti deve sapere 
quando essere "breve", cioè quando ad esempio dire gentilmente al suo 
paziente (o non gentilmente, o contro la sua volontà), che la terapia finisce 
subito o ad una certa data, proprio come fece Freud con l'Uomo dei Lupi 
(Freud, che era sempre stato un "sistemico", aveva una tecnica molto dinamica, 
collegata sempre alla teoria che stava costruendo). Il fatto che queste cose non siano 
chiare a tanti psicoanalisti fa parte del modo con cui certi aspetti della teoria della tecnica 
sono stati trasmessi e deformati dalla tradizione. Come ben sai la Selvini (che si chiama 
sistemica ma senza saperlo è una "psicoanalista inconscia") usa la "non terapia" (es. il rifiuto 
di farla a un paziente, lo scacciarlo, l'interromperla, ecc.) come un potente modo di 
"fare terapia", appunto perché guarda al significato degli interventi, al loro impatto.
In sintesi: partendo con una terapia open ended, il terapeuta può farla sia corta che lunga, 
può usare tutti gli interventi ad libitum. Può farla durare solo una 
seduta. E poi, anche se l'analisi dura 10 anni, è costretto comunque a 
sperimentare la tecnica della terapia breve nel momento in cui entra nella fase 
di termination (in genere 6 mesi), per cui espone il paziente anche a quella 
(l'unico caso in cui un terapeuta lungo non fa una terapia breve è quando uno 
dei due muore nel corso della terapia).
Se invece parti con il time-limit setting, non potrai mai analizzare il tipo di 
reazioni che sarebbero sorte (quel transfert) se tu fossi partito con uno stimolo 
diverso, di terapia lunga (es. transfert narcisistici, di fusione, paura della intimità ecc. 
- perdona qui il riduzionismo).
Tu eri ben presente quando nel 1991 venne al nostro gruppo di Bologna 
George Silberschatz, del gruppo di Weiss & Sampson (abbiamo avuto l'onore
di organizzare il primo seminario in Italia di un membro del 
San Francisco Psychotherapy Research Group, che tra le altre cose ha alle 
spalle alcuni decenni di ricerca empirica fatta con registrazione di sedute). 
Ci parlò di uno straordinario esempio clinico (indipendenetemente dalla "verità" delle ipotesi 
fatte, che qui non ci interessano assolutamente, ci interessano le implicazioni teoriche) 
che si riferisce appunto ai possibili effetti di una termination. Riporto qui questo caso clinico, 
che farebbe invidia a qualunque sistemico, copiandolo da quel capitolo del mio libro:
 
Un professionista di 35 anni chiese una terapia con la motivazione conscia di trovare il coraggio di sposare la fidanzata e di impegnarsi in questo progetto di vita con lei. Fu messo in un programma di ricerca di terapia breve (16 sedute), con un terapeuta che seguiva la tecnica di Davanloo. Dalla anamnesi il terapeuta apprese che il paziente era figlio unico di genitori infelicemente sposati; il padre era operaio, e la madre una donna cronicamente depressa che si lamentava sempre del marito. Essa aveva usato il figlio come amico e confidente e si era appoggiata a lui, il quale era arrivato al punto di trascurare le sue amicizie per stare accanto alla madre. Quando il paziente si trasferì in un'altra città per frequentare l'università, i rapporti che incominciò ad avere con le ragazze mimavano quello avuto con la madre: erano donne che avevano bisogno di lui, che aiutava e per le quali si sacrificava. L'analista aveva formulato l'ipotesi di una "inibizione edipica verso il matrimonio", e era convinto che lo scopo della terapia fosse quello di liberarlo dai suoi sensi di colpa di "tradire" la madre e di sposare la fidanzata. 
Osserviamo ora come andò il trattamento. Nelle prime 9 sedute la terapia procedette con fatica, più o meno in uno stallo: il terapeuta continuava a far notare al paziente le sue paure di sposarsi interpretando le dinamiche edipiche e il legame con la madre che non voleva tradire. Alla 10a seduta il paziente disse che non era migliorato, e che temeva di non migliorare neanche nelle restanti 6 sedute; questo materiale venne elaborato e infine considerato una forma di resistenza. Alla 12a seduta il paziente era sempre più agitato, e chiese ancora di poter continuare la terapia oltre le 16 sedute. Il terapeuta non cedette, e rimase legato al contratto iniziale. Il paziente continuava a peggiorare mostrando sempre più ansia e agitazione, fino a quando inaspettatamente, alla 14a seduta, annunciò di aver lasciato la fidanzata. Il terapeuta rimase sorpreso, continuò nella sua linea interpretativa della resistenza verso il matrimonio, non cedette sul contratto, e alla 16a seduta terminarono come stabilito, senza una chiara comprensione di cosa fosse accaduto e cosa avesse fatto in modo che il paziente lasciasse la fidanzata.
Questo caso clinico, una volta completato e interamente registrato su nastro, viene studiato da una équipe di ricercatori del San Francisco Psychotherapy Research Group guidato da Weiss e Sampson. I ricercatori ipotizzano che in realtà il paziente, contrariamente alle sue intenzioni consce, avesse il "piano inconscio" che la terapia lo aiutasse a districarsi da questo rapporto, e incominciano a cercare elementi che convalidino questa loro ipotesi. Osservano ad esempio che la attuale fidanzata era più anziana di 12 anni, alcolista, con due bambini da un precedente matrimonio. Fanno quindi l'ipotesi che il paziente inconsciamente avesse voluto "testare" il terapeuta sulla capacità di interrompere il rapporto con una persona dipendente e bisognosa di aiuto come la madre. Col meccanismo del "rivolgimento del passivo in attivo" avrebbe invertito i ruoli nel transfert e voluto vedere se il terapeuta fosse stato capace di separarsi da lui. Lo supplicò di non lasciarlo, ma il terapeuta avrebbe superato il test terminando ugualmente la terapia, rispondendo così, inconsapevolmente, non alla sua richiesta conscia ma a quella inconscia. 
Il terapeuta, intervistato dai ricercatori, dice che interruppe alla data prefissata per tener fede all'impegno della terapia breve del programma di ricerca di cui faceva parte. Interrogato su possibili altri motivi per cui fu capace di resistere alle pressioni del paziente, superando anche eventuali questioni etiche, dice che comunque non avrebbe potuto continuare perché doveva assentarsi per impegni presi in precedenza (ironicamente questi impegni si rivelarono poi essere il proprio matrimonio e successivo viaggio di nozze!). Nonostante quindi le motivazioni per l'interruzione fossero state molto diverse, il terapeuta senza saperlo avrebbe superato il test del paziente e sarebbe stato capace di aiutarlo. Al follow up il paziente risultò ancora non sposato, e non fidanzato con quella donna né impegnato in relazioni masochistiche, ma non troppo insoddisfatto della propria condizione di single.
 
Commentando brevemente questo caso, e ammettendo che le ipotesi fatte dai ricercatori siano corrette, sembra si tratti un tipico esempio di miglioramento senza insight. L'insight avrebbe potuto avvenire se il terapeuta avesse avuto un'altra teoria alle spalle, o se la terapia fosse continuata e il terapeuta avesse potuto elaborare meglio i problemi del paziente. Ma non sappiamo se la continuazione del trattamento avrebbe potuto privare il paziente di questa importante "esperienza emozionale correttiva" (Alexander, 1946: vedi Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 85-101) e se l'interpretazione da sola sarebbe bastata. Conoscere il peso dei rispettivi ruoli dell'"esperienza emozionale" e della interpretazione cognitiva, come fattori terapeutici, fa parte del mistero della psicoterapia (per una discussione dei fattori curativi, vedi Migone, 1995, cap. 6, la rubrica n. 52/1989 del Ruolo Terapeutico). Fu comunque proprio Alexander (1946) il primo a riflettere sulle ragioni per cui molti pazienti che non erano migliorati in lunghe analisi miglioravano inaspettatamente quando finalmente l'analista decideva di arrendersi e terminarle. Mentre anche altri hanno osservato questi fenomeni (ad esempio Milner, 1950), Alexander fu capace di capirli come una forma di "esperienza emozionale correttiva", e di studiarne le implicazioni teoriche.
 
(segue un altro caso clinico, mio, in cui si vede l'esempio uguale e 
contrario, cioè di una paziente che fece un importante passo avanti nella 
terapia solo grazie al fatto che il terapeuta si rifiutò categoricamente 
di cedere alla sua richiesta di terminare)
 
15 Aprile 1999, Andrea Angelozzi:
Colgo al volo la provocazione di Paolo Migone circa la faccenda della 
suggestione. Secondo me è un discorso molto difficile soprattutto perché 
molto ampio e in cui tutta una serie di relazioni, ad esempio il rapporto fra 
ipnosi e suggestione, è tutt'altro che definito.
Cominciamo da alcune considerazioni sulla natura della suggestione.
 
a) Che io sappia la questione viene posta da Liebault e Bernheim (la cosiddetta Scuola di Nancy) 
in contrasto con Charcot, ed è strettamente legata alla ipnosi. Charcot dice che la isteria 
è una lesione neurologica irreversibile e la ipnosi che ne riproduce i sintomi è una lesione reversibile; 
mentre la Scuola di Nancy dice che la faccenda non è neurologica, non comporta lesione, ma 
rimanda a una plasticità ideativa, per cui una persona può influenzare la forma che assumono 
le idee e le convinzioni di un'altra persona. Questa potenzialità rimanda a caratteristiche della 
persona soggetto (la suggestionabilità, appunto) e dell'operatore (ruolo, autorità, carisma, etc).
Questa visione della suggestione, considerata anche come base della ipnosi,
rimane a lungo dominante.
 
b) Il rapporto di Freud con la suggestione e la ipnosi è molto complesso. 
E' arcinoto come il lettino e la tecnica della mano sulla fronte fossero stati
imparati presso Berheim; anche dopo l'abbandono dell'ipnosi continua ad
imbattersi in fenomeni "simil allucinatori" analoghi a quelli che aveva
conosciuto quando praticava ipnosi. Vi sono dei passi (se qualcuno vuole 
posso anche riferire dove) dove si domanda se non stia facendo ipnosi 
senza saperlo (e quindi senza usare tecniche formali di induzione); afferma 
che non sa rispondere a questi problemi e che può solo decidere che non 
vuole più occuparsene; il problema riemerge di fronte alla discussione fra la 
analisi come costruzione o come ricostruzione, imposta dalle prime scissioni 
nelle varie scuole, in cui ritiene che aspetti suggestivi siano in gioco; lo
perseguita anche in Costruzioni nell'analisi.
 
c) la concezione della suggestione viene radicalmente modificata con Erickson.
Per due motivi. Il primo è l'introduzione della cosiddetta suggestione
indiretta. In pratica mentre le suggestione dirette (aria autoritaria,
sguardo profondo, voce tonante : ora ti addormenterai) sono esposte alla
coscienza, alla opposizione o alla compiacenza (ed in quest'ultimo caso si
scambia per mutamento di stato di coscienza una pura adesione, un desiderio di assecondare 
o un gioco di ruolo), e al rituale, le suggestioni indirette fanno
riferimento a meccanismi molto più sottili, che per definizione devono sfuggire
alla consapevolezza. Sono strettamente imparentati con le modalità con cui
costruiamo il nostro mondo mentale. Qualche esempio:
un meccanismo (fra i tanti) è la presupposizione, che ha un suo correlato
specifico in logica. Riguarda la costruzioni di parti implicite di realtà, date
per scontate (a quando non lo sono affatto). In logica: "è stato John a
catturare il ladro". Anche se neghiamo questa frase (non è stato John)
avvaloriamo la parte implicita (esiste un ladro e qualcuno lo ha catturato).
Pensate alla banale frase "Maria ha telefonato di nuovo" e alla sua negazione
che lascia inalterato il fatto che chi ascolta da per scontato che "ha già
chiamato"; oppure a tutto un uso di verbi come "accorgersi", "rendersi conto",
"sapere" "scoprire", detti fattivi e che nel nostro linguaggio ordinario
vengono usati solo in relazione a cose di cui è data per sconatata la esistenza.
Gli esempi ulteriori di come nel linguaggio ordinario noi creiamo un universo
dato per scontato, sono infiniti. Ma cosa succede se utilizziamo queste frasi
per costruire un universo che, per nulla implicito, viene invece ad essere dato
per scontato? Questa è una forma di suggestione indiretta. In Erickson diventa
(è il primo esempio che mi viene in mente) che non dice: "il tuo braccio
diventa pesante", bensì "Ti sei già accorto della pesantezza del braccio?".
Pensate a frasi "non fare" o "non sapere" in cui affermiamo una frase
negandola: "non hai bisogno di sapere quanto profondamente stai dormendo".
Oppure ai condizionamenti indiretti di tipo non verbale, dove il terapeuta
induce il rilassamento rilassandosi lui o modificazioni nel respiro
sincronizzando prima il proprio respiro e poi alterandone il ritmo
O la tecnica di disseminazione, dove non si dice al soggetto di levitare il
braccio, ma si comincia a raccontare infinite storie (magari una dentro
l'altra) in cui il braccio si muove spontaneamente.
Non ho intenzione di tirarla per le lunghe: vorrei fare notare come esista un
livello della suggestione che affonda nel linguaggio ordinario. Di qui le
ipnosi informali, cioè senza rituale induttivo. Il linguaggio ordinario ci
mostra poi un altro livello, a volta ancora più sottile, che riguarda tutti gli
aspetti "pragmatici" del linguaggio. Anche l'aspetto conversazionale che
crediamo più esente da "suggestione", di fatto è infarcito dei suoi meccanismi.
Ed anche il linguaggio non verbale: Erickson amava raccontare una serie di
esperimenti che segnalavano come le persone si segnalino non verbalmente ed in modo
 inconsapevole le loro aspettative, trovando spesso piena risposta.
Siamo davvero sicuri di non usare questi meccanismi (di cui forse nemmeno
sospettavamo l'esistenza) nelle nostre psicoterapie "consapevoli"?
Quando parliamo di inconscio con il paziente e dei suoi meccanismi, non stiamo 
dando per scontato un intero mondo?
 
d) vi è un altro punto che secondo me è importante. Le suggestioni, dirette o
indirette, sono solo una parte della ipnosi di Erickson. Una parte essenziale
sono le tecniche "dissociative" che sono utilizzate per modificare lo stato di
coscienza del soggetto. Alcune sono: lasciare che il soggetto si immerga nei
propri pensieri ed anzi agevolarlo in questo; operare una osservazione del
proprio pensiero, che dissoci appunto un io sperimentante da quello osservante; 
usare "referenti parziali" in terza persona per rompere l'idea di unità della identità 
(ad esempio che vi è un inconscio che ha una sua vita autonoma, pensa, decide); 
entrare nei meccanismi in cui affonda la nostra identità, cioè la memoria e il ricordo. 
Ma se Erickson usava questi meccanismi per indurre ipnosi, nelle psicoterapie usuali 
che cosa stiamo facendo effettivamente?
 
e) questi sono solo frammenti delle questioni poste da Erickson e dalla ipnosi
in genere. Io non intendo sostenere che è tutto suggestione, né tantomeno
ipnosi. Intendo avanzare il sospetto che tanti meccanismi che utilizziamo e
crediamo siano una cosa, in realtà sono altro; e che in effetti siamo molto
poco consapevoli di cosa effettivamente facciamo. Scusate la prolissità.
 
21 Aprile 1999, Gian Paolo Scano:
Il 16/04/99 Andra Angelozzi scritto: 
>Colgo al volo la provocazione di Paolo Migone circa la faccenda della
>suggestione. (·)
>e) questi sono solo frammenti delle questioni poste da Erickson e dalla
>ipnosi in genere. Io non intendo sostenere che è tutto suggestione, né
>tantomeno ipnosi. Intendo avanzare il sospetto che tanti meccanismi che 
>utilizziamo e crediamo siano una cosa, in realtà sono altro; e che in effetti
>siamo molto poco consapevoli di cosa effettivamente facciamo.
 
Ho trovato molto stimolante il tuo ultimo intervento e sono anche andato a
rileggermi una tua mail del 27.02.99, che avevo trovato molto interessante.
In quel contesto (si parlava di Gill e della suggestione) mi trovavo molto in
sintonia su due punti e cioè 
1° "che i meccanismi con cui creiamo il mondo e lo possiamo modificare, sono infinitamente 
più sottili della suggestione di cui parla Gill... fanno parte di ogni nostro evento mentale 
e di ogni psicoterapia" 
2° che "la distinzione di Gill basata sull'analizzare quella che lui ritiene suggestione (...) 
urta irrimediabilmente contro la vastità e la sottigliezza (...) dei meccanismi con cui il linguaggio 
verbale e non verbale del terapeuta può agire sui meccanismi con cui il paziente costruisce 
la sua realtà e la sua identità (anche quella di malato)". In maniera più chiara
stavolta affermi di nutrire il sospetto "...che tanti meccanismi che
utilizziamo e crediamo siano una cosa, in realtà sono altro; e che in effetti
siamo molto poco consapevoli di cosa effettivamente facciamo". Io so molto
poco di Erickson e di ipnosi e anche di suggestione (a proposito ti sarei grato 
se mi indicassi una bibliografia essenziale sui "meccanismi" visti da questo
punto di vista), ma nutro lo stesso sospetto a partire da considerazioni di
ordine differente partite, originariamente, proprio dalla riflessione sul testo
di Gill oltre che dal problema di come poter intendere i due ordini di fattori
(e l'articolazione tra i due ordini di fattori) cui, in modo diseguale, la
psicoanalisi ha sempre ricondotto il cambiamento e cioè i fattori "conoscitivi"
e "di rapporto". 
Se pensi che mentre pensiamo di fare una cosa in realtà ne stiamo facendo
altre, forse avrai qualche idea più precisa riguardo a ciò che facciamo e ti
inviterei a dire qualcosa di più, non tanto in riferimento alla suggestione in
sé, ma piuttosto in relazione all'azione "inconsapevole" di questi meccanismi e
fattori nell'ambito dell'attività tecnica e clinica. Spero di riuscire a farlo
anch' io se riuscirò a dirlo i modo conciso e tuttavia chiaro (e se interesserà a 
qualcuno!).
Per ora mi attengo alla suggestione. Sono un po' allergico a questo termine
perché, nella sua accezione corrente, lascia presupporre una causazione
lineare diretta tra soggetti e, contemporaneamente, tende a dare per scontata 
una essenzialistica "suggestionabilità" da mettere nella testa delle persone
per spiegare l'effetto del comportamento suggestivo. Credo, invece, che ciò
che, con termine confusivo, viene chiamato suggestione, (aldilà delle azioni
intenzionalmente manipolatorie o anche semplicemente "direttive", che in
contesti differenti da quello psicoanalitico potrebbero anche essere
considerate giustificabili), debba essere "scomposto in fattori" e riportato,
da un lato, a quell'ambito che normalmente indichiamo come transfert e
controtransfert e, dall'altro, ad un livello ancora sottostante, che dovrebbe
riguardare le regole e i meccanismi della comunicazione e relazione tra
soggetti, cui tu direttamente fai riferimento e, da un punto di vista più
eminentemente intrasoggettivo, le regole e i meccanismi che governano i
processi di attribuzione, costruzione e ricostruzione del senso. Forse questi
elementi ultimi non sono analizzabili nel senso corrente o forse lo sono
soltanto se scegliamo una griglia abbastanza alta come i vari livelli di
aspettative congetturate da Weiss e Sampson, mentre lo sono certamente 
meno se la griglia si colloca, invece, a un livello prossimo o analogo a quello 
delle ipotesi formulate e studiate, ad esempio, da Seganti 
(La memoria sensoriale delle relazioni: ipotesi verificabili di psicoterapia 
psicoanalitica. Torino: Bollati Boringhieri, 1995), mentre risulterebbero forse 
per nulla analizzabili se il livello scelto fosse decisamente micro come, come 
quello disegnato, ad esempio, dal quadro delle ipotesi di Damasio 
(L'errore di Cartesio, 1995). Mi piacerebbe che si creasse la possibilità 
di discutere con calma di questecose e delle relative inevitabili conseguenze 
sulla teoria della tecnica. 
 
22 Aprile 1999, Paolo Migone:
Credo che questo tipo di riflessioni su cosa si possa intendere per
"suggestione", questo scomporla, verrebbe considerato da Gill come un tipico
esempio appunto di una approfondita "analisi della suggestione", dei suoi
meccanismi, cioè un modo di riflettere sulla relazione.
 
23 Aprile 1999, Gian Paolo Scano:
Sono più che d'accordo, infatti, qualche tempo fa sottolineavo la necessità
di superare una lettura prevalentemente tecnica della lezione gilliana e
di approfondirne e prolungarne, invece, il solco teorico. Nella stessa linea
proponevo, successivamente, di lasciar cadere il termine poco perspicuo di
suggestione. Poiché, però, il fuoco non si era acceso con i rami della
"interazione", ho provato a buttare un fiammifero sotto le frasche della
"suggestione": relazione, suggestione, interazione, a mio modo di vedere,
appartengono alla stessa specie "botanico-logica", ma sono tutti termini
del linguaggio quotidiano da "scomporre in fattori". La concordanza con
Angelozzi riguarda la complessità della "cosa-suggestione" (o relazione o
interazione), non la lettera del testo di Gill, che utilizza il termine
"suggestione" in un modo che mi sembra facilmente spiegabile.
 
18 Aprile 1999, Gaetano Dell'Anna:
Cari Colleghi e dotti Maestri,
senza nulla aggiungere alle considerazioni per le quali la durata della
terapia è una variabile dipendente solo dalle necessità di cura del paziente
escludendo ogni altra che riguardi presupposti meramente teorici e (non sia
mai) bisogni economici del terapeuta o di taluna istituzione, mi sono chiesto:
Se il paziente ha le idee molto chiare e vuole stare bene subito e non
importa quanto costerà, purché sia solo denaro e si faccia in fretta, non
si potrebbe prendere il suo denaro e dargli quello che chiede?
Ed è conveniente coltivare nell'attesa sociale l'illusione che ci siano
terapie buone solo perché corte, e quindi meno costose (in tutti i sensi), e
quindi condotte da professionisti meno avidi e perciò più simpatici anche ideologicamente?
E non è prevedibile che il paziente che fallisce al più presto la
psicoterapia altrettanto presto potrà divenire abituale consumatore di
prodotti farmaceutici sempre grazie al denaro che non gli manca (specie se
lo passa l'assicurazione)?
E ci sono ricerche longitudinali sull'efficacia delle cosiddette psicoterapie brevi?
E non sono basate solo sulla consistenza dei rientri in specifica recidiva
Della precedente diagnosi? E qualche grande istituzione della Sanità Mondiale 
le ha verificate e certificate? Ora, ignorante che sono, mi piacerebbe anche avere 
chiarimenti su qualche elemento di teoria:
Quali sono, per favore, senza escludere naturalmente il carisma del dott.
Davanloo, i presupposti fondanti, nella teoria e nella prassi, cui si può
fare riferimento e in base ai quali si ammettono i seguenti parad... ehm...
enunciati contenuti nella mail di Sandro Rosseti del 12-4-99?
>L'inconscio è un sistema psicobiologico il cui
>funzionamento è organizzato in modo molto preciso tanto da fornire
>risposte specifiche a stimoli specifici. (·)
>Chiunque utilizzi questa tecnica verifica la possibilità, pur nella
>varietà delle organizzazioni inconsce, di riprodurre, riconoscere ed
>utilizzare clinicamente i segnali del funzionamento dinamico dell'inconscio. (...)
>I parametri che il terapeuta deve seguire per arrivare all'apertura
>dell'inconscio... (...)
>L'ansia inconscia è il parametro che meglio
>orienta il clinico, fornendo preziose e continue informazioni... ecc.
 
20 Aprile 1999, Paolo Migone:
Il 18/04/99 Gaetano Dell'Anna ha scritto:
>Se il paziente ha le idee molto chiare e vuole stare bene subito e non
>importa quanto costerà, purché sia solo denaro e si faccia in fretta, non
>si potrebbe prendere il suo denaro e dargli quello che chiede?
 
Non sono sicuro di capire cosa intendi qui. Poi dici:
>Ed è conveniente coltivare nell'attesa sociale l'illusione che ci siano
>terapie buone solo perché corte, e quindi meno costose (in tutti i sensi), e
>quindi condotte da professionisti meno avidi e perciò più simpatici anche ideologicamente?
 
Il coltivare questa illusione è un rischio, sono d'accordo. Cito sempre
dalla fonte (dove si può vedere anche la bibliografia) 
che ho utilizzato nell'altra mia mail (sono le ultime righe):
 
"Infine, se è vero che dalla discussione teorica che abbiamo fatto risulta
che la posizione radicale è meno giustificata di quella conservatrice, è
anche vero che una anima teorica radicale all'interno del movimento
psicoterapeutico non può che essere di stimolo ai molti analisti ortodossi e
conservatori che rimangono ancorati su concezioni del setting classico ormai superate.
Un pericolo però deve essere evitato, insito in una adesione alla posizione
radicale: quello di giustificare l'uso delle terapie brevi come terapia
ottimale o di elezione per determinati pazienti, mascherando il fatto che
invece spesso questi pazienti sono semplicemente meno privilegiati di altri.
Infatti una cosa è affermare che la terapia breve è l'unica terapia che
certi pazienti si possono permettere dato il servizio sanitario attuale,
un'altra è affermare che è l'unica terapia che essi si meritano. E'
importante invece mantenere aperto questo arco di tensione verso il continuo
miglioramento del servizio pubblico. In questo senso, i teorici radicali
della terapia breve rischiano di servire come strumento di propaganda per un
prodotto di consumo che oggi deve a tutti i costi essere venduto nel mercato
della salute, un prodotto chiamato "le psicoterapie brevi ad orientamento
psicoanalitico". Come lucidamente fece notare Eissler nel 1950 
(Il Chicago Institute of Psychoanalysis e il sesto periodo dello sviluppo della tecnica psicoanalitica
Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, XVIII, 4: 5-35 [II parte], p. 27) a proposito di Alexander, 
storicamente l'interesse per le terapie brevi è stato più vivo in periodi in cui erano molto sentite 
determinate pressioni economiche, e oggi potremmo essere in una simile fase."
 
Inoltre chiedi:
>E non è prevedibile che il paziente che fallisce al più presto la
>psicoterapia altrettanto presto potrà divenire abituale consumatore di
>prodotti farmaceutici sempre grazie al denaro che non gli manca (specie se
>lo passa l'assicurazione)?
 
Tutto è possibile. Continui:
>E ci sono ricerche longitudinali sull'efficacia delle c.d. psicoterapie brevi?
>E non sono basate solo sulla consistenza dei rientri in specifica recidiva
>della precedente diagnosi?
>E qualche grande istituzione della Sanità Mondiale le ha verificate e certificate?
 
Qui il discorso sarebbe lungo. I risultati delle ricerche spesso sono
ingannevoli, dipende da come sono fatte le ricerche ecc.
Per brevità, cito di nuovo dalla stessa fonte:
 
"Veniamo ora ad una sintetica revisione della letteratura sull'efficacia
delle terapie brevi. Questa problematica è talmente vasta che non è
possibile in questa sede darne un panorama completo (vedi anche Cap. 11, pp.
186-192). La discussione verrà limitata ad alcuni problemi generali e alla
segnalazione di alcuni studi in riferimento alle psicoterapie brevi ad
orientamento psicoanalitico (per una review più completa, vedi Brusa, 1994).
Innanzitutto va notato che nel complesso gli autori che abbiamo considerato
e la maggioranza di quelli che si sono dedicati alle psicoterapie brevi ad
orientamento psicoanalitico sono dei clinici, non dei ricercatori. Come
Parloff (1985) ha fatto notare, nel campo della psicoterapia esiste tra
clinici e ricercatori una "lotta fratricida, solo apparentemente fatta di
buone maniere" (p. 10). Il principale interesse dei terapeuti brevi è
rivolto al lavoro clinico, o eventualmente alla teorizzazione della loro
tecnica (e abbiamo visto qui anche le difficoltà che hanno incontrato). E'
vero che essi hanno prodotto alcune ricerche sull'efficacia dei loro
interventi, ma molte volte si è trattato del resoconto di un limitato numero
di casi o di studi il cui livello di sofisticazione metodologica non è molto
alto se paragonato a quello oggi accettabile in questo campo.
Può essere interessante qui ricordare quello che mi disse una volta Davanloo
(1981) il quale, quando gli mossi delle critiche alla metodologia delle sue
ricerche di follow up, ammise che esse peccavano di una certa
approssimazione, ma che "la ricerca sui risultati della psicoterapia è
talmente complessa e difficile che se noi vogliamo applicare i carismi di
una seria metodologia scientifica ciò significa semplicemente non fare
nessuna ricerca in psicoterapia". Una certa approssimazione degli standard
scientifici quindi viene a volte giustificata dall'esigenza di fare ricerca.
Oggi però non possiamo guardare con leggerezza alle questioni metodologiche,
e forse è proprio il caso di dire che se una ricerca non poggia su un metodo
rigoroso è meglio non farla, perché i suoi risultati aumenterebbero solo la
confusione in questo campo, essendo inattendibili (per avere un panorama
della contradditorietà dei risultati delle ricerche sui risultati della
psicoterapia, vedi anche Minguzzi, 1986).
Le difficoltà della ricerca sulla psicoterapia sono molte, ed aumentano se
si tratta di psicoterapia psicoanalitica. Si pensi alla difficoltà a
misurare il miglioramento del paziente (sintomatico o psicodinamico; in
valori assoluti o relativo alla gravità della diagnosi; ecc.), oppure alla
impraticabilità della formazione di gruppi di controllo, sia per motivi
etici che per la difficoltà a distinguere la psicoterapia dal placebo
essendo esso stesso un intervento psicologico, oppure ancora alla
impossibilità a praticare in psicoterapia il "doppio cieco" per ovvi motivi, e così via.
Ma uno degli ostacoli principali alla ricerca sulla psicoterapia è, come ho
detto all'inizio di questo capitolo, la sua durata. Ed è per questo che
l'interesse dei ricercatori va soprattutto alle terapie brevi. A questo
proposito è interessante notare che se noi guardiamo attentamente
all'insieme delle ricerche sulla efficacia della psicoterapia scopriamo che
la stragrande maggioranza di queste ricerche sono su terapie brevi. Va
notato inoltre che solo in una piccola percentuale di casi si tratta di
psicoterapie ad orientamento psicoanalitico.
Tra i molti studi prodotti riguardo all'efficacia della psicoterapia, vanno
ricordati innanzitutto quelli storicamente importanti di Eysenck (1952,
1966), il quale avanzò seri dubbi sull'efficacia di qualsiasi psicoterapia,
e disse che i suoi effetti erano dovuti alla "remissione spontanea". Questo
autore prese in considerazione una vasta mole di ricerche: psicoanalitiche,
eclettiche (tutte della durata inferiore alle 40 sedute) e brevi. Una prima
risposta venne da Meltzoff & Kornreich (1970) che revisionarono 101 studi
controllati, sostenendo invece che dal loro punto di vista la psicoterapia
era efficace. A simili risultati alcuni anni dopo giunsero vari gruppi di
ricercatori (Luborsky, Singer & Luborsky, 1975; Smith & Glass, 1977; Smith,
Glass & Miller, 1980; VandenBos & Pino, 1980; Yates & Newman, 1980; Office
of Technology and Assessment, 1980; Shapiro & Shapiro, 1982; American
Psychiatric Association Commission on Psychotherapies, 1982; Banta & Saxe,
1983; ecc.), anche se vi è ancora chi è meno convinto che la controversia
sia del tutto risolta (Garfield, 1984). Eysenck (1985, p. 66-91) dal canto
suo ha ribadito la sua tesi originaria criticando le recenti ricerche (vedi
anche Rachman & Wilson, 1980).
Vari autori hanno studiato esplicitamente gli effetti delle psicoterapie
brevi, eventualmente paragonandole a terapie a lungo termine o ad altre
forme di terapia. Nel Temple Study (Sloane et al., 1975) sono stati
paragonati tre tipi di interventi: terapia comportamentale, psicoterapia
breve ad orientamento psicoanalitico, lista d'attesa; la conclusione è che
l'80% dei pazienti dei due gruppi di trattamento migliora, ed entrambi i
gruppi migliorano più della lista d'attesa. Reid & Shyne (1982) hanno
paragonato terapie brevi e lunghe, dimostrando che sono più efficaci le
prime. Invece Luborsky et al. (1975) hanno revisionato 8 studi che
paragonano terapie brevi e lunghe, e non hanno trovato una differenza
significativa nei risultati. A simili conclusioni sono giunte anche le
imponenti review meta-analitiche di Smith, Glass & Miller (1980) e Shapiro &
Shapiro (1982), ma va notato che la media delle sedute delle terapie
considerate in questi studi è molto bassa, per cui l'interpretazione di
questi risultati diventa discutibile (si pensi che nello studio di Smith et
al. le terapie hanno una durata media di 16 sedute, e in quello dei Shapiro
solo 7; questo è un esempio di come bisogna fare attenzione a valutare i
risultati delle ricerche). Per contro, Howard et al. (1986) hanno trovato
una correlazione positiva tra durata e risultato nelle terapie brevi: il 50%
dei pazienti miglioravano in media all'8a seduta, e il 75% alla 26a. 
Recentemente sono state fatte alcune importanti review meta-analitiche
sull'efficacia delle terapie dinamiche brevi, come quella di Svartberg &
Stiles (1991), Crits-Cristoph (1992), e Luborsky et al. (1993), e nel
complesso non si è riusciti a dimostrare una superiorità della dimensione
del risultato (effect size) delle terapie dinamiche rispetto alle altre
terapie; la review di Svartberg & Stiles (che però è meno selettiva delle
altre due e contiene alcuni errori segnalati da Luborsky et al. [1993, p.
501]), addirittura ha trovato le terapie dinamiche leggermente inferiori
alle altre terapie (per il significato dei termini "meta-analisi" ed "effect
size", vedi Cap. 11, p. 189, nota 2).
Va inoltre segnalato che vi sono vari studi (Mumford et al., 1984; ecc.)
tesi a dimostrare l'utilità delle terapie brevi sui pazienti ricoverati nei
reparti di medicina (dove si otterrebbe l'effetto di diminuire la durata dei
ricoveri, le richieste di farmaci e di esami di laboratorio), nei pazienti
medici ambulatoriali (Meyer et al., 1981), nella psichiatria militare, nella
popolazione degli studenti universitari, ecc.
Volendo trarre delle conclusioni sulle ricerche dell'efficacia delle
psicoterapie brevi ad orientamento psicoanalitico, bisogna dire che in
effetti esse sono contraddittorie. La diversità dei campioni presi in esame
nei vari studi, le varie metodologie di ricerca, le scale di valutazione
spesso non sufficentemente sensibili alle modificazioni indotte dalle
terapie dinamiche, e così via, si riflettono direttamente sulla
contradditorietà dei risultati (per un elenco delle ragioni per cui è
difficile dimostrare la superiorità di una tecnica rispetto a un'altra, vedi
Miller et al., 1993, pp. 507-511). Come giustamente Parloff (1985, p. 9) ha
osservato, la situazione attuale della ricerca sui risultati della
psicoterapia è paradossale, in quanto è caratterizzata da due sviluppi
apparentemente contraddittori: da una parte si è assistito a un enorme
aumento della sofisticazione concettuale e metodologica, e dall'altra a un
aumentato scetticismo sul significato dei dati raccolti. Vi è insomma una
innegabile crisi di identità in questo campo di ricerca, e la
contradditorietà dei risultati lo sta a testimoniare. La causa di tutto ciò
va ricercata, come si è detto, nella difficoltà ad identificare quello che
potremmo chiamare "l'oscuro oggetto della psicoterapia".
Importanti passi avanti sono stati fatti negli ultimi anni con
l'introduzione di nuovi strumenti per la ricerca. Tra questi vanno ricordati
i progressi avvenuti nel campo della diagnostica (American Psychiatric
Association, 1980, 1987, 1994; vedi Cap. 12), le misurazioni
individualizzate dei risultati delle psicoterapie (Mintz & Kiesler, 1982), e
la formulazione dei "manuali" per le psicoterapie (vedi Cap. 11, pp.
190-191). La novità è che negli ultimi anni vari ricercatori hanno lavorato
anche attorno alla formulazione di manuali per la psicoterapia dinamica
breve (Luborsky, 1984, p. 159-166; Luborsky & Mark, 1991; Strupp & Binder,
1984; Klerman et al., 1984; Sifneos, 1992). Le ricerche sono necessariamente
lente, ma è probabile che tra poco assisteremo a un netto miglioramento
della situazione della ricerca in questo campo."
 
Va detto però che se 
"inizialmente non si riusciva a trovare nessuna
apprezzabile correlazione tra risultati e durata della psicoterapia (Smith,
Glass & Miller, 1980; Shapiro & Shapiro, 1982), col risultato che si poteva
desumere che la semplice durata della terapia probabilmente era meno
importante della "intensità" o qualità del trattamento (Orlinsky & Howard,
1978), negli anni recenti invece è sempre più emersa una correlazione
positiva tra risultati e durata della terapia: più è lunga la terapia,
maggiori sono i risultati e più è la probabilità che essi si consolidino
(Orlinsky & Howard, 1986, p. 361; Orlinsky, Grawe & Parks, 1994, p. 360)."
 
Non sono comunque d'accordo col tono un po' svalutante che usi nei confronti di Davanloo. 
Penso che Davanloo, così come ogni altro collega che fa ricerca in questo campo, 
vada trattato con rispetto, se non altro per gli sforzi che fa
di mostrare quello che fa con chiarezza, usando i videotapes, ecc. Ritengo
che possa essere molto bravo con determinati pazienti, la mia critica
riguarda prevalentemente il suo modo di utilizzare a priori e in modo
generalizzante il setting di terapia breve, come ho spiegato in altre mail.
Entrare nei dettagli del suo modello teorico qui sarebbe complicato, e io
del resto non conosco bene i suoi sviluppi più recenti. Ma io mi sentirei
di condividere le citazioni di Davanloo da te riportate, in quanto
essenzialmente sono corrette: lui cerca di individuare dei criteri precisi,
di insegnarli ecc., e questo e quello che dovrebbe fare ogni clinico e
ricercatore serio.
In questo caso quindi, mentre prima avevo mosso delle critiche a 
Davanloo, ora in un certo senso lo difendo.
 
20 Aprile 1999, Gaetano Dell'Anna:
Paolo Migone ha chiesto cosa intendevo dire quando scrivevo:
>Se il paziente ha le idee molto chiare e vuole stare bene subito e non
>importa quanto costerà, purché sia solo denaro e si faccia in fretta, non
>si potrebbe prendere il suo denaro e dargli quello che chiede?
 
Sinceramente mi dispiace, uno dei miei difetti, e non il peggiore, è 
la presunzione assertiva; cioè mi basta se mi capisco da me. 
Daccordo è narcisismo, e allora? ;-)
Comunque era solo retorica ironia nei riguardi dello stile assortamente
messianico che informa le discussioni, i convegni, le pubblicazioni in
ambito clinico dalle quali parrebbe che ci si adoperi sempre per l'altrui
bene e mai per il proprio tornaconto.
Io credo che una più aperta sincerità consentirebbe di lavorare meglio sia
per il tornaconto che per il bene altrui.
Siccome anche Sandro Rosseti era nel mirino del mio tenue sarcasmo (ma 
Non ti ho fatto male, vero?), ci ho ficcato Davanloo; però non volevo essere
svalutante e fai bene a difenderlo dal mio incauto ironizzare, anzi dirò che
apprezzo più chi, come lui, espone alla discussione enunciati discutibili
che quelli che si riparano sotto l'ombrello rassicurante di scolastici e mal
digeriti teoremi.
Avevo citato i seguenti enunciati di Rosseti:
>L'inconscio è un sistema psicobiologico il cui
>funzionamento è organizzato in modo molto preciso tanto da fornire
>risposte specifiche a stimoli specifici. (...)
>Chiunque utilizzi questa tecnica verifica la possibilità, pur nella
>varietà delle organizzazioni inconsce, di riprodurre, riconoscere ed
>utilizzare clinicamente i segnali del funzionamento dinamico dell'inconscio. (...)
>I parametri che il terapeuta deve seguire per arrivare all'apertura dell'inconscio... (...)
>L'ansia inconscia è il parametro che meglio
>orienta il clinico, fornendo preziose e continue informazioni... ecc.
 
Discutibili mi sembrano questi enunciati, non la Ricerca che, in quanto tale, non
ha fine e Davanloo ha certamente il diritto di portarla avanti come crede.
Quello che non mi convince è l'esplicito meccanicismo che traspare dalla
spiegazione, forse assai sintetica, è vero, di Sandro Rosseti.
Se dico che il software di un computer è un sistema psicoelettronico il cui
funzionamento è organizzato in modo molto preciso tanto da fornire risposte
specifiche a segnali specifici, potrò affermare che esiste una tecnica
grazie alla quale chiunque potrà verificare la possibilità, pur nella
varietà dei software oggi generati, di riprodurre, riconoscere ed
utilizzare clinicamente (in senso tecnico) i segnali del funzionamento
dinamico dello stesso software e generalizzare tale esperienza ad altri 
programmi. Naturalmente seguirò le istruzioni per l'uso al fine di arrivare
all'apertura di quel software seguendo proprio le tracce dei sistemi di
protezione che il pogrammatore ha lasciato.
Mi sembra un modo di parlare dell'inconscio troppo simile a quello di un
hacker che dimostra come forzare un programma.
Grazie della esauriente e approfondita lezione, ne farò tesoro e in futuro
cercherò di essere meno ermetico. :-)
 
27 Aprile 1999, Sandro Rosseti:
Mi scuso anzitutto per il ritardo con cui rispondo, dovuto alla mia assenza
nella settimana passata. Il 20/04/99 Gaetano Dell'Anna ha scritto:
>Siccome anche Sandro Rosseti era nel mirino del mio tenue sarcasmo (ma 
>non ti ho fatto male, vero?), 
 
Vedi Dell'Anna, credo che questo modo sarcastico faccia del male più a te
che a me... ;-) Poi dici:
>Quello che non mi convince è l'esplicito meccanicismo che traspare 
>dalla spiegazione, forse assai sintetica, è vero, di Sandro Rosseti.
 
E' vero, la spiegazione è sintetica (peraltro, se interessa, non ho
difficoltà ad essere più esplicito, salvo rimandare direttamente ai testi
di Davanloo già citati in un precedente messaggio e che qui riporto:
H.Davanloo Il Terapeuta instancabile, edito per FrancoAngeli, 1998.
Lavori di Davanloo più recenti sono reperibili sull'International Journal of 
Short-Term Dynamic Psychotherapy, di Wiley (Vol. 10, 121-230, 1995; 
Vol. 11, 129-152, 1996) ma credo che emerga un punto di fondo: l'inconscio 
non è qualcosa di astratto nel suo funzionamento, ma segue leggi e meccanismi
propri dei sistemi biologici. Se questo è il "meccanicismo", allora ben
venga: la mia formazione è quella di medico, prima che di psichiatra e
psicoterapeuta, e questo modo di ragionare in termini di funzionamento dei
sistemi biologici mi è familiare sin dai primi studi universitari; questo
non vuol dire comunque che poi la tecnica sia "meccanica" (nel senso di
rigida, "one size fits all"), perché si adatta alla situazione
transferale presente al momento, e quindi alla patologia inconscia che la
sottende: in medicina, come esiste la fisiologia, esiste la fisiopatologia,
e le terapie farmacologiche (ad esempio cardiologiche) che somministriamo
si basano(almeno)su entrambe: uno scompenso cardiaco congestizio non è 
una fibrillazione atriale (mi si perdoni il divagare in altri campi), e la
terapia, in misura maggiore o minore, cambia. Dici inoltre:
>Se dico che il software di un computer è un sistema psicoelettronico il cui
>funzionamento è organizzato in modo molto preciso tanto da fornire 
>risposte specifiche a segnali specifici (...)
>Naturalmente seguirò le istruzioni per l'uso al fine di arrivare
>all'apertura di quel software seguendo proprio le tracce dei sistemi di
>protezione che il programmatore ha lasciato. (...)
>Mi sembra un modo di parlare dell'inconscio troppo simile a quello di un
>hacker che dimostra come forzare un programma.
 
Per certi versi hai ragione (salvo che Davanloo parla di "unlocking" e non
di "hacking"): d'altronde, se vuoi accedere all'organizzazione inconscia
dei pazienti devi pur avere un metodo di trattare con la Resistenza, e
questo è una parte di quello che Davanloo ha messo (e continua a mettere) a 
punto. In questo senso la ricerca di Davanloo mira anzitutto a capire quali 
sono le "istruzioni", per poi utilizzarle per accedere all'inconscio.
Spero di essermi fatto capire meglio :-) Buon lavoro 
 
27 Aprile 1999, Sandro Rosseti:
Una rapidisssima chiosa (esplicativa) di quanto dicevo nella mail di risposta
a Dell'Anna ("Mi sembra un modo di parlare dell'inconscio troppo simile a
quello di un hacker che dimostra come forzare un programma"). 
Avevo scritto:
>Per certi versi hai ragione (salvo che Davanloo parla di "unlocking
>e non di "hacking").
 
C'è una differenza sostanziale fra hacking e unlocking, che ritengo
implicita, ma che forse è bene sottolineare, non si sa mai: l'hacking
avviene "contro" il programma, senza una sua "partecipazione", per la sola
bravura dell'hacker, e la corrispondente poca avvedutezza dell'estensore
del programma stesso, di fatto un furto ai suoi danni. L'unlocking
dell'inconscio avviene solo con la collaborazione del paziente, attraverso
la mobilizzazione delle forze dell'alleanza terapeutica conscia e
inconscia, contro la Resistenza. In altri termini, puoi "hackerare" quanto
vuoi un inconscio, anche se non ne vedo il senso, ma non necessariamente a
questo segue un unlocking (cioè un accesso pieno alle forze dinamiche 
in gioco).
PM - HOME PAGE ITALIANA NOVITÁ MAILING LISTS DIBATTITI