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Dibattito post-congressuale (in quattro parti)
avvenuto dopo il

I Convegno Nazionale SEPI-Italia (Milano, 16 Marzo 2002)
Integrità e integrazione in psicoterapia

Editing a cura di Tullio Carere-Comes e Paolo Migone

Interventi: Giorgio Alberti, Sergio Benvenuto, Tullio Carere-Comes, Giovanni Liotti, Paolo Migone

Seconda di quattro parti (aprile-giugno 2002)

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Giovanni Liotti, 25 Aprile 2002:

Caro Tullio, notare i punti di accordo fra noi è importante, e ti sono grato per averlo fatto. Indubbiamente c'è da faticare un poco nella "traduzione" dei concetti da uno schema di pensiero all'altro, ma lo sforzo è importante, e dunque grazie per averlo fatto rispetto ai temi della cooperazione e dell'attaccamento. Rispondo in reciprocità, raccogliendo qualche tuo spunto.

Tullio Carere ha scritto:
> in precedenza, soprattutto nel tuo libro "La dimensione
> interpersonale della coscienza", mi era parso che tu privilegiassi la
> cooperazione rispetto alla dipendenza, mentre qui mi sembra che tu metta
> alla pari i due tipi di interazione. Se è così, viene meno l'obiezione che
> ti ho fatto in precedenza: non c'è pericolo di adultizzazione se tu tieni
> presenti, senza preferenze aprioristiche, sia il bisogno del paziente di
> un'esperienza di attaccamento sicuro, prolungata per tutto il tempo
> necessario, sia quella di cooperazione paritetica.

Nel mio libro, che citi, intendevo trattare della coscienza più che della psicoterapia. Rispetto all'ampiezza della coscienza/memoria umana rispetto alla generalità delle relazioni possibili, non dubito a tutt'oggi che essa raggiunga il suo apice nelle cooperazione fra pari, e non nella dipendenza o nella competizione (o nella sessualità). Rispetto alla psicoterapia, hai ragione tu, bisogna continuamente fare i conti, assai più che in alcune altre relazioni umane, con situazioni che negano la pariteticità. Bisogna contentarsi a lungo, in psicoterapia, di quel grado discreto, ma non ottimale, di ampiezza della coscienza/memoria che si trova nell'attaccamento sicuro (non nelle forme insicure di attaccamento).

Solo nell'ultimo capitolo del mio libro, dunque, dopo aver trattato di ampiezza della coscienza in funzione della qualità della relazione, mi soffermo sulla psicoterapia. Mi soffermo, cioè, sulla relazione terapeutica, e lì dichiaro che in essa (diversamente dalle relazioni di amicizia) la cooperazione è più una meta ideale che una condizione basilare di esperienza dei due interlocutori, proprio perché il paziente ha altre "esigenze" relazionali (di attaccamento e di competizione per il potere nella relazione) che precludono a lungo l'esperienza della pariteticità. Mi sembra che tradurre questa affermazione, cui ho dedicato l'ultimo capitolo del libro, nella tua idea di una necessaria tensione dialettica, in psicoterapia, fra pariteticità e offerta di cura (in risposta alle esigenze di attaccamento del paziente), o fra pariteticità e momenti di contrapposizione "agonistica", sia del tutto accettabile: ecco un importante punto di accordo fra noi.

Neppure ho disaccordi da esprimere rispetto al vertice "O" del tuo sistema, se con esso ti riferisci alla spontaneità, all'autenticità, al riconoscimento del limite che le proprie teorie hanno rispetto alla comprensione di quanto accade, e alla generazione di nuove ipotesi (accomodamento). Trovo solo che riconoscere che così -- attraverso la dichiarazione sincera del proprio "non sapere" rispetto ad alcuni problemi che il paziente ci presenta, attraverso il periodico dubbio e l'atteggiamento critico sulle proprie teorie -- riconoscere dicevo che così opera la mente dello psicoterapeuta decente (nel senso dell'Inglese "decent"), è semplicemente riconoscere il fondamento della condizione umana. Così, con sospensioni critiche della fede nelle proprie teorie, opera la mente non solo dello psicoterapeuta decente, ma anche dello scienziato decente, del politico decente, dell'artista decente, della persona decente, e persino dell'uomo di fede religiosa decente (che la Fede, per essere tale, debba essere dialetticamente connessa al dubbio mi pare un'affermazione esplicitamente fatta da grandi menti religiose, se ricordo bene persino di alcuni Santi della Chiesa Cattolica). Non mi pare dunque che "O", così inteso, sia uno "specifico" della psicoterapia, e credo che tu sia d'accordo. Se invece, pensando al vertice "O", ti riferisci allo specifico dell'esperienza mistica (il Satori degli Zen, la grande illuminazione, la fusione con il divino, il raggiungimento dell'Essenza o Haqq dei Sufi, e così via), e affermi che DEVE essere presente nella psicoterapia, allora esprimo vivo e deciso disaccordo. Non perché non stimi la possibilità umana di quell'esperienza (che pure io non possiedo, naturalmente), ma perché non credo che il suo perseguimento debba essere prescritto allo psicoterapeuta nell'esercizio della sua professione (né a chiunque altro). E, per inciso, non credo che tollerare l'ambiguità e l'incertezza (capacità che certamente è importante che i pazienti sviluppino in terapia) equivalga a tollerare il "vuoto" del mistico, la "notte oscura dell'anima" di cui parla San Giovanni Della Croce, o ciò che è espresso dal "taglio" di Fontana (di questo, penso che lo psicoterapeuta possa benissimo non occuparsi mai nel corso di pur ottimi processi terapeutici).

Un altro disaccordo, minore, è che "P" debba necessariamente e sempre riferirsi ad interazioni agonistiche: si può aiutare un paziente ad accorgersi delle sue contraddizioni e a rinunciare ai suoi evitamenti anche col metodo socratico di molti terapeuti cognitivisti, che è compatibile con atteggiamenti "accudenti" o materni (non voglio con questo affermare che siano i migliori: mancano ancora ricerche che permettano di sostenerlo o che confutino questa non mia congettura).

D'accordo invece sul valore ed il senso del tuo lavoro di sintesi, comunque lo si voglia chiamare (da fedele popperiano, non considero la ricerca di definizioni terminologiche un fine supremo di chi persegue la crescita della conoscenza). Sono dispostissimo a chiamare il tuo lavoro: 1) ricerca euristica, 2) definizione sistematica di una pratica professionale, 3) riflessione critica su di essa, 4) ammirevole costruzione teorica alla ricerca di una sintesi, o altro ancora. E apprezzo molto che tu possa immaginare come siglare ogni interazione terapeutica nello spazio cartesiano definito dagli assi del tuo sistema. Certamente questa è la premessa per costruire, in base al tuo sistema, delle ipotesi falsificabili di grande interesse. Per fare un esempio, io potrei ipotizzare che sedute con una prevalenza di M e K (ad esempio: M3, P1, K3, O1) siano più probabilmente produttive del tipo di cambiamento "riduzione di rituali", nel paziente ossessivo, di sedute in cui il terapeuta si collochi più spesso in P e O (ad esempio: M1, P2, K1 e O2). E tu potresti confutare questa mia congettura, con una serie di osservazioni controllate e ripetibili. Ed io dovrei conseguentemente cambiare la mia strategia terapeutica con i pazienti ossessivi.

Pazienza se una ricerca del genere noi due non la si faccia per mancanza di fondi, di tempo, o di voglia: l'importante è che qualcuno possa farla. Non l'Io è importante nella crescita della conoscenza, ma la Comunità di chi la ricerca. Quando dunque qualcuno la farà, questa ricerca, il suo lavoro avrà grande valore nell'indicare a tutta la Comunità degli psicoterapeuti, (anche a noi due che, in questa mia fantasia, la ricerca non la abbiamo fatta ma solo col nostro lavoro indicata), un possibile modo, forse migliore di altri, di affrontare il DOC.

Ancora più interessante potrebbe essere vagliare l'ipotesi, di cui tu mi scrivi, che la concordanza di posizioni fra terapeuta e paziente sia la caratteristica della "buona seduta" (definita in termini di maggior benessere o minore sofferenza del paziente). Una tale ricerca si aggiungerebbe alle due o tre che, utilizzando strumenti di valutazione diversi, sono attualmente in corso in Italia. Uno di questi strumenti è l'Indice di Condivisione (nella comunicazione terapeuta-paziente) messo a punto da Bruno Bara, un cognitivista dell'Università di Torino, che ha lavorato a lungo con Johnson-Laird e adesso sta mettendo su un bel gruppo di ricerca, serio e di discrete proporzioni. Con diversi strumenti, un'altra ricerca sulla condivisione di significati fra paziente e terapeuta è progettata dal gruppo di Semerari a Roma, e altre due, se ho capito bene una frettolosa comunicazione, dal gruppo di Lavina Barone di Pavia-Vicenza e da quello di Lenzi, Bercelli e Viaro di Bologna-Padova. Ottimo ed abbondante, per la nostra Italietta.

Insomma, noi non la facciamo, ma io sono assai contento che altri la facciano, la ricerca empirica sulle nostre congetture. Tu, e molti altri psicoterapeuti, non credete che queste ricerche valgano la pena, rispetto alla soggettività dell'esperienza che si fa in psicoterapia. Io, insieme ad alcuni altri psicoterapeuti, penso invece che valgano, eccome, la pena. Se il nostro disaccordo è tutto qui, siamo a posto. Non dovremo più entrare in focose diatribe. Basterà che ci rispettiamo a vicenda, e che perseguiamo ciascuno la nostra strada rispetto all'integrazione (la mia galileiana, e la tua tanto galileiana quanto non-galileiana). I nostri nipoti, ne sono certo, ne vedranno i buoni frutti, e saranno contenti che ci siano state entrambe queste strade (e la terza, anti-galileiana), e che fra i loro nonni ci sia stato chi ha perseguito l'una, o l'altra.

Mi viene in mente una poesia di Montale (si chiama "DIALOGO" e la trovi in "Satura"), che descrive, appunto, un dialogo fra due contendenti. Uno afferma che "..la storia è un marché aux puces, non un sistema" (io penso: anche la psicoterapia, anche l'oggetto della scienza). L'altro replica che "provvidenza e sistema sono un tutt'uno, e il Provvidente è l'uomo" (mi sembra che sia vicino alla tua posizione). Il primo, nell'argomentare, sostiene un metodo binario (non enantiodromico o dialettico, se ho capito il senso di Montale, ma più secondo la diade 1-congetture e 2-confutazioni, più del tipo selezionistico: "dunque è provvidenziale anche la pestilenza?"). Il secondo sostiene invece un metodo ternario, che ricorda da vicino la dialettica hegeliana ("la peste è il negativo del positivo, è l'uomo che trasuda il suo contrario"). Personalmente, sono grato dell'esistenza di entrambi i contendenti della poesia di Montale: è quell'esistenza che ci ha regalato la poesia, e molto altro. Con i nostri disaccordi, noi, mi piace pensare, consegneremo ai nostri nipoti una psicoterapia migliore, più unitaria e più integrata proprio grazie all'inconciliabilità fra selezionismo e dialettica che però (che grande mistero!) non impedisce che ci siano importanti punti di accordo tra chi segue l'una e chi segue l'altra strada. Teniamoci dunque fraternamente d'occhio, e dialoghiamo alla ricerca di altri punti di accordo, durante i nostri rispettivi e divergenti percorsi. Un abbraccio (non psicoterapeutico: perdona la battuta). Gianni

Tullio Carere, 9 Maggio 2002:

Cari amici, ho letto con molto piacere al mio ritorno il messaggio di Gianni che mi sembra il punto d'arrivo di un cammino fin qui non poco accidentato e il punto di partenza di una nuova fase, contrassegnata dal passaggio di consegne dal sistema motivazionale agonistico a quello della cooperazione. Ce ne sono tutte le premesse: c'è ormai un'ampia identità di vedute tra Gianni e me su due vertici del campo (base sicura e laboratorio scientifico) e promettenti aperture sugli altri due; e al prezzo di un confronto a tratti aspro mi sembra abbiamo raggiunto anche un buon grado di comprensione e attenzione per i rispettivi approcci.

Il congresso SEPI di San Francisco è stato molto ricco di stimoli. Personalmente ne ho tratto l'impulso a fare qualcosa per superare la dicotomia tra ricerca euristica e ricerca empirica. Mi hanno colpito in particolare le relazioni di Peter Fonagy e Drew Westen, entrambe molto critiche sul modo in cui è stata condotta la ricerca in psicoterapia fino ad oggi (la ricerca è fatta su manuali che non rispecchiano ciò che avviene nei trattamenti reali; si basa su caselle diagnostiche che non riflettono la complessità delle problematiche che si incontrano in terapia; è effettuata su trattamenti brevi, non rappresentativi dei processi di cambiamento che richiedono tempi per lo più medio-lunghi). Che cosa proponessero come alternativa non sono riuscito a capirlo bene, e non lo ha capito nemmeno nessuno dei colleghi cui lo ho chiesto; non l'ho capito nemmeno quando l'ho chiesto direttamente a Drew che, come saprete se lo conoscete, ha lo stile colloquiale di una mitragliatrice. Comunque entrambi dovrebbero mandarmi i loro interventi, che potremo studiare assieme.

Più incoraggiante è stato Franz Caspar, che tuttavia nel corso di un lungo e affabile colloquio mi ha messo di fronte alla sua convinzione che la ricerca non può prescindere dalla raccolta di un materiale esaminabile da persone diverse da paziente e terapeuta, in pratica dalla videoregistrazione delle sedute. Mi sembra giusto, se si vuole fare della ricerca veramente empirica occorre accettarne fino in fondo le premesse e le regole. Il fatto che a me, come alla maggior parte degli analisti, la registrazione delle sedute sembri difficilmente accettabile perché troppo intrusiva, tale da compromettere o alterare inevitabilmente la spontaneità del processo, suona solo come conferma dell'impressione che la ricerca empirica, effettuata secondo i canoni del modello medico, non può essere la via maestra della ricerca in psicoterapia. D'altra parte la ricerca euristica, pur necessaria, non può rispondere di per sé all'esigenza oggi fortemente e giustamente sentita di produrre anche dati misurabili e valutabili da osservatori esterni. Come uscire da questo dilemma? Il progetto che ho immaginato e iniziato a discutere a San Francisco è uno sviluppo di quello che vi ho già accennato. Eccolo, per sommi capi.

A intervalli regolari paziente e terapeuta fanno una relazione scritta di una seduta in cui, basandosi su manuali predisposti per questo scopo (uno per il paziente e l'altro per il terapeuta: li scriverò nei prossimi mesi, entro l'estate) [1] valutano la qualità dell'esito della seduta (buona, media, insufficiente); [2] motivano la loro valutazione (per quali motivi la seduta è stata buona o meno buona, quali sono stati i passaggi rilevanti della seduta a giudizio dell'uno e dell'altro); [3] valutano i bisogni fondamentali emersi nella seduta (MxPyKzOw); [4] valutano le risposte del terapeuta nella seduta, sempre col metodo MxPyKzOw (per [3] e [4] la valutazione è: alta/media/bassa); [5] nella seduta successiva terapeuta e paziente confrontano le rispettive valutazioni e le commentano: di questo confronto ciascuno dei due scriverà un breve resoconto che sarà aggiunto al materiale precedente. Ipotesi falsificabile: con il procedere della terapia la corrispondenza tra le valutazioni del paziente e del terapeuta (sia per quanto riguarda l'esito della singola seduta, sia per quanto riguarda la concordanza bisogni/risposte) tenderà ad aumentare se la qualità complessiva delle sedute sarà medio/buona.

Vantaggi di questo tipo di ricerca: non è intrusiva, non richiede nessun tipo di registrazione; è metateoretica (è applicabile a qualsiasi tipo di terapia, basata su qualsiasi teoria e qualsiasi tecnica: sarà irrilevante ad esempio se il terapeuta fornirà un'esperienza di base sicura a partire da una teoria kohutiana o da una teoria dell'attaccamento, o magari da una teoria che non prevede affatto la produzione di questo tipo di esperienza, come sarà irrilevante se la produrrà con un approccio verbale o non verbale di qualsiasi tipo - conterà solo il fatto che sia alto il grado di corrispondenza tra le valutazioni del paziente e del terapeuta che è stata creata una base sicura e che il paziente ne ha bisogno); consentirà di confrontare diversi modelli (per esempio il mio amico portoghese Antonio Branco Vasco sta conducendo una ricerca che ha diversi punti di contatto con la mia, ma il suo modello ha sette variabili al posto delle mie quattro [secondo Hilde Rapp, che a sua volta si muove su una linea simile, le mie quattro sono più vicine alla "lingua degli angeli" delle sette di Antonio, e una ricerca come questa permetterebbe di verificare quale dei due modelli metateoretici funziona meglio]); risultati significativi si potrebbero ottenere già con un numero relativamente piccolo di sedute e di coppie paziente/terapeuta: non servono ricercatori a tempo pieno né apparati costosi; è facilmente replicabile; se il modello a quattro vertici (o quello a sette livelli di Antonio, o altri) si rivelasse affidabile, la procedura potrebbe essere adottata sistematicamente da qualsiasi terapeuta di qualsiasi orientamento per una valutazione a tempi regolari dell'andamento della terapia; il terzo pagatore potrebbe basarsi su questa misurazione per finanziare un trattamento o sospendere il finanziamento.

Come vedete, questa ricerca sviluppa le premesse che vi avevo già anticipato, ma che non potevo tradurre in un progetto concreto perché ero ancora legato all'idea della ricerca empirica: registrazione di sedute, sbobinatura, molte ore di lavoro da parte di ricercatori a tempo pieno… tutte condizioni per me inaccettabili o impraticabili. La ricerca di cui vi ho brevemente descritto il progetto invece non è puramente euristica, ma nemmeno empirica. Infatti [a] non è teorica (non si basa su una teoria) ma metateorica (è uno studio sui fattori comuni, trasversale a *tutte* le teorie psicoterapeutiche); [b] non si basa su un materiale da studiare oggettivamente, come in ogni ricerca basata sul modello medico (la registrazione della seduta), ma sul materiale proprio della psicoterapia: le valutazioni soggettive che paziente e terapeuta danno della medesima interazione (lo studio di "procedure specifiche per disturbi specifici", caratteristico del modello medico, è scarsamente rilevante in psicoterapia [come ha mostrato la meta-meta-analisi di Luborsky], dove quello che soprattutto conta non è la procedura [prevista da un manuale] somministrata dal terapeuta, ma il modo in cui l'interazione è vissuta da una parte e dall'altra); [c] restituisce alla coppia terapeutica la competenza della ricerca di cui era stata espropriata dall'ideale medico-scientifico che ispira la ricerca empirica: la ricerca torna a essere una prerogativa interna, non esterna, alla pratica psicoterapeutica (alla coppia terapeutica si dovrebbe riconoscere persino il diritto di modificare il manuale, purché le modifiche siano ben definite, motivate, concordate e consegnate ad apposite relazioni scritte); [d] supera peraltro la concezione "privatistica" di molta psicoanalisi anche contemporanea, accettando il principio di rendere in certa misura pubblico il lavoro della coppia terapeutica, e verificabili i suoi risultati, attraverso la produzione regolare di relazioni "stereoscopiche" (cioè che combinano i due punti di vista) esaminabili da agenzie esterne (in particolare commissioni pubbliche che devono decidere se finanziare o meno un certo trattamento - in prospettiva dovrebbero essere ammessi al rimborso solo i trattamenti in cui è accettata una procedura di controllo di questo tipo [in questa direzione si sta già muovendo il sistema sanitario tedesco, mi ha detto Franz Caspar]). Tullio

Giorgio Gabriele Alberti, 10 Maggio 2002:

Cari amici, molto brevemente, le mie prime osservazioni sulla ricerca proposta da Tullio. Direi che sotto il profilo metodologico, che è quello che più mi preme in questo momento nella prospettiva SEPI-Italia, non posso non approvare la cornice concettuale in cui essa si muove, che mi sembra coincidere con quella di una ricerca insieme euristica ed empirica. Non so se la si possa qualificare come una "terza via" alternativa al "tutto euristica" e al "tutto empiria", in quanto l'accorgimento di evitare la registrazione audio/video delle sedute non ne fa di per sé, almeno a mio parere, una ricerca "non empirica": infatti molta ricerca sulla psicoterapia, specie ai suoi inizi, si è basata su ricordi, opinioni, giudizi, questionari, raccolti dai terapeuti e anche dai pazienti, dopo la fine di ogni seduta, in modo molto simile a quello proposto da Tullio. Giorgio

Paolo Migone, 12 Maggio 2002:

Per quanto riguarda la mail di Tullio sulla sua ricerca, a me non è chiaro qui cosa centri la ricerca cosiddetta euristica. Concordo con Giorgio che si tratta di una ricerca scientifica e basta, con tutti i limiti di ogni ricerca, piccoli o grandi a seconda dei punti di vista. Il registratore non è affatto il garante di una ricerca scientifica, è solo uno strumento tra i tanti, anche lui al limite "mendace" e con tanti limiti (che però io non ritengo siano quelli che vede Tullio, il quale mi sembra gli dia un significato fisso, sempre uguale, mentre per me può essere ben tollerato da entrambi paziente e terapeuta, dipende dal contesto di significati in cui viene presentato e usato, da fattori culturali e da tante altre cose). Purtroppo non ho potuto finora analizzare al ricerca di Tullio con maggiore approfondimento, ho voluto solo dire alcune cose senza farvi aspettare tropo. Paolo

Giovanni Liotti, 13 Maggio 2002:

Cari amici, anzitutto un bentornato a Tullio, un grazie per le notizie sul Congresso, e un apprezzamento per il suo progetto di ricerca che va prendendo forma. Grazie anche a Giorgio: mi è arrivato per posta l'articolo di Ryle e coll., che colma una delle mie infinite lacune conoscitive. Non ho invece ricevuto nulla da Benvenuto negli ultimi due mesi. Mi dispiace che la sua lettera non sia arrivata, a quanto pare, a nessuno di noi: immagino che sgradevole effetto debba aver provocato la mancanza assoluta di riscontro se, come sembra, nessuno la ha ricevuta. Forse, Tullio, puoi inoltrare a Benvenuto questa mia mail, o parte di essa?

Concordo comunque con l'idea di non riaprire polemiche, che avevano forse senso in previsione del Convegno di Milano, ma che oggi sarebbero solo occasione di inutile fatica per tutti. Lo sarebbero, quanto meno, per me. Continuerei infatti ad apprezzare molto il procedere per congetture e confutazioni, anche se nessuno più fosse, oggi, Popperiano. Per me, quel modo di procedere nel valutare le teorie con cui pubblicamente lavoriamo non è una "moda", ma una disciplina onorata per lungo tempo da alcuni risultati tangibili, dei quali mi contento. Mi sembra sensato, quando nel mio lavoro incontro una nuova idea, immaginare se potrà mai esistere un "esperimento", o un altro insieme di osservazioni pubbliche e controllabili, che possa dimostrarla falsa. Poi, se riesco ad immaginarlo e anche se l'esperimento non è stato ancora fatto, l'idea la adotto qualora mi appaia utile o stimolante. Se però non riesco ad immaginare un modo per scartarla, allora non vedo neppure per quale motivo, nell'ambito del mio lavoro (che ripeto, appartiene alla dimensione pubblica della vita), dovrei adottare una teoria, anche qualora mi apparisse stimolante. Se poi una teoria ha superato momentaneamente il vaglio di prove ben condotte, mi sento tenuto a considerala anche se non mi piace. E' questa la ragione per cui considero con serietà le teorie che connettono i disturbi psicopatologici a disfunzioni del sistema serotoninergico cerebrale, anche se non mi piacciono affatto. E' questa la sola ragione per cui non adotto molte teorie e tecniche psicoterapeutiche, e per cui ho discusso tanto con Tullio circa il "lavorare in O" durante la psicoterapia.

Visto che il metodo per congetture e confutazioni è una disciplina di pensiero che alcuni psicoterapeuti adottano ed altri no (al fine di orientarsi nell'enorme congerie di tecniche e teorie che gli psicoterapeuti hanno proposto nell'ultimo secolo), ma certo non è una tecnica psicoterapeutica o una teoria generale della psicopatologia, forse non è così importante perdere ulteriore tempo a riflettere sul suo valore durante discussioni sull'integrazione delle psicoterapie. E' vero che per il momento non ci sono altri temi che io personalmente possa proporre durante tali discussioni, ma questo implica solo che io personalmente non parteciperei più come relatore ad altri incontri sull'integrazione, a causa esclusivamente della mancanza di altri contributi da offrire. Non implica certo che sia desiderabile continuare ad insistere su questo tema, che peraltro mi sono rammaricato di aver sollevato. Gianni

Sergio Benvenuto, 14 Maggio 2002:

Tullio mi fa notare che una mia lettera scritta a tutti voi - e inviata il giorno 23-3-02 - non è mai arrivata a destinazione. Convinto che la avevate ricevuta, ho "interpretato" male il successivo silenzio. Anche se in ritardo, ve la rimando qui, sperando che questa volta Internet non svolga un ruolo dis-integrativo. Grazie per l'attenzione. Sergio Benvenuto. Ecco la mia mail del 23-3-02:

Cari amici e colleghi, anch'io desidero dirvi qualcosa che non è stato possibile dire nel nostro incontro al S. Carlo. Faro' delle note agli interventi di Liotti, Freni e Rossi Monti.

(1) Benché Liotti ci abbia fatto le sue scuse, di fatto tutti - anche quelli lontani mille miglia dal suo credo filosofico-scientifico - abbiamo apprezzato invece la simpatica baldanza e l'entusiasmo con cui ci ha illustrato il suo Discorso del Metodo ispirato a "mamma Popper", come lui stesso l'ha chiamata. Sento perciò un qualche disagio, di fronte a tale giovanile irruenza, nel fare un po' il grillo parlante (anche perché è nota la fine che egli fa, per mano di Pinocchio). Non vorrei peccare di deformazione (o di arroganza?) professionale - mi riferisco alla mia identità di filosofo sui generis cultore, da sempre, di filosofia della scienza - dicendo che per tutti o quasi i filosofi e storici della scienza seri oggi il Metodo Popper è ormai un cimelio di (venerabile) antiquariato. Certo il suo pensiero resta un classico - come quello di Platone - eppure, per chiunque segua il dibattito su questi temi in modo un po' professionale, è evidente che la sua teoria sulle Congetture e Confutazioni è stata ormai definitivamente confutata. Mi pare di aver già fatto cenno su questa ML, in passato, a questa questione - ma il guanto non è stato raccolto. Non a caso la ricostruzione popperiana della scienza è stata confutata proprio dai suoi due allievi migliori: Lakatos e Feyerabend. Per non farla lunga: la teoria di Popper non regge perché E' EVIDENTE CHE TUTTE LE IPOTESI E TEORIE SCIENTIFICHE (anche quelle più affermate e condivise) SONO STATE CONFUTATE. Ad esempio, la meccanica quantistica porta a conseguenze assurde e a dir poco fantastiche, che peraltro furono già rinfacciate da Einstein (che era ostile alla meccanica quantistica per ragioni filosofiche e metafisiche). Morale: non basta che un'ipotesi sia confutata per essere abbandonata dalla comunità scientifica, ci vuole ben altro... Insomma, il modo in cui procede di fatto la scoperta scientifica è MOLTO, ma MOLTO PIU' complicato del modo in cui ce lo propone Popper (e del modo in cui generosamente l'amico Liotti lo propaganda). 

Non a caso, peraltro, Popper è molto poco considerato in America, a cui gli si preferisce Kuhn. I filosofi americani sono convinti che il nocciolo buono del pensiero di Popper era stato già detto dai "loro" James e Dewey. Direi che ogni giorno si accumulano ricostruzioni storiche della scienza che fanno letteralmente a pezzi il modello popperiano (anche il secondo cittadino della nostra Repubblica ha dato un suo contributo a questa demolizione: per esempio in "La scienza come retorica" - ne consiglio la lettura). Ciò non toglie ovviamente nulla alla grandezza di Popper, né alla legittimità dell'entusiasmo missionario di Liotti. E se il metodo di Popper non funziona affatto per le scienze dure od esatte, figuriamoci allora per la scienze cliniche e sociali!

Detto questo, mi pento però già di averlo detto. Dopo tutto, Liotti non è un filosofo della scienza, è un bravo ricercatore clinico. L'importante è CHE SCOPRA QUALCOSA - che poi il suo modello euristico sia Popper, Husserl o Krishnamurti, dopo tutto, conta poco. Che continui pure ad accendere ceri a Popper, anche se la teoria di questi non è più vera di quella di Krishnamurti (personaggio questi che peraltro stimo molto). L'importante è che scopra. Newton, poveretto, non aveva letto Popper. Ormai si sa che la sua teoria della gravitazione era ispirata più dalla sua teologia (oggi ben studiata) e dall'alchimia. L'importante è che abbia scoperto appunto la legge di Newton. Aspetto "la legge di Liotti" - lascio agli storici futuri appurare se fosse ispirata da Popper o da Krishnamurti o da Leopardi.

(2) Freni si è un po' irritato perché avrei ridotto la medicina ad una strategia di "restitutio ad integrum" del malato. Ovviamente non mi riferivo alla medicina come DI FATTO vien fatta - del resto, non c'è solo una medicina terapeutica, ce ne è anche una preventiva, e riabilitativa, ed ecologica, ecc. Mi riferivo semplicemente ad un MODELLO DI INTERVENTO, a cui ovviamente nessuna pratica medica è del tutto riducibile. E' evidente che una guarigione di fatto non significa mai completamente un ritorno allo statu quo ante. Quel che discutevo erano modelli di pratiche, non pratiche in se (peraltro varie e complesse nella medicina stessa).

(3) Ho apprezzato la bella arringa di Rossi Monti sul concetto di empatia, il cui destino giustamente egli lega a quello della psichiatria fenomenologica. Ma Rossi Monti è anche analista, e qui allora le cose si complicano. Ora, forse mi sbaglio, ma credo che l'importanza - e la grandezza - di Freud sia consistita nel parlare non solo dell'empatia, ma direi anche e soprattutto dell'ANTIPATIA - altrimenti detto dell'odio. Empatia ed antipatia sono due facce della stessa medaglia. Questo si applica anche alla tecnica e all'etica analitiche: l'analista solo empatico lo sarà a prezzo di una rimozione. Dove la mettiamo questa antipatia, o disprezzo, o invidia, o odio, che l'analista spesso - per non parlare dell'analizzante! - sente nei confronti del suo analizzando? La mettiamo tutta sul conto del buon vecchio controtransfert di cui ci dovremmo liberare come di un vizietto vergognoso?

Certo l'empatia svolge un suo ruolo nell'analisi, è qualcosa in fondo che l'analista dà, offre all'altro. Ma un analista non è tale proprio perché' non si limita a DARE empatia? E se egli fosse efficace, mutativo, proprio nella misura in cui NON DA'? La riduzione fenomenologica a pura intersoggettività empatizzante non edulcora la dimensione drammatica dell'analisi? Che ne facciamo delle inevitabili pulsioni sadiche - che peraltro il fenomenologo Sartre mise in evidenza nelle relazioni umane più elementari, ad esempio nel gioco dello sguardo - che in parte strutturano il nostro campo interosggettivo? Non c'è del wishful thinking nell'idillio fenomenologico che riporta il sound and fury dell'inevitabile dimensione di odio tra gli esseri umani alla panacea empatica? Non sono domande retoriche - cioè, non ho ad esse una risposta in tasca. Sergio Benvenuto

P.S.: Quanto alla discussione sul darwinismo che sta sorgendo tra noi, essa mi sembra assolutamente fondamentale. Ma non è possibile trattarne qui in poche righe.

Giovanni Liotti, 18 Maggio 2002:

Caro Benvenuto, ti ringrazio del tuo parere "di filosofo sui generis cultore, da sempre, di filosofia della scienza". Io non lo sono, e posso quindi accennare soltanto ai motivi per cui le fanfare suonate dalla recente deriva nichilista della filosofia della scienza, pur avendo assordato anche me come tanti altri negli ultimi vent'anni, non mi hanno convinto. Di fronte alla tua affermazione, da esperto ("cultore da sempre") della materia,

"che per tutti o quasi i filosofi e storici della scienza seri oggi il Metodo Popper è ormai un cimelio di (venerabile) antiquariato",

io, che esperto di queste questioni non sono, non posso che inchinarmi. I pochi libri post-popperiani dei filosofi della scienza "seri" che tu citi, e che ho letto, non mi hanno tuttavia convinto. Certamente, a ulteriore confutazione del fallibilismo popperiano, ci saranno tantisimi filosofi della scienza "seri" che tu non citi ed io non ho letto (magari ho letto qualcosa di filosofi meno seri, ma non essendo un esperto non mi sono accorto che non era seri). Attenderò di incontrare il loro luminoso ed aggiornato (cioè non vetusto) pensiero per vedere se loro sapranno farmi persuaso di ciò di cui finora non mi ha convinto la lettura:

1) di Lakatos (la mia più accurata: con Guidano ci siamo basati su essa per il nostro libro del 1983, "Cognitive processes and emotional disorders", New York, Guilford Press),

2) di Kuhn (mi pare che neppure cerchi di invalidare la procedura per congetture e confutazioni, ma solo esplori il famoso discorso del paradigma, mi pare cioè che si occupi soprattutto di sociologia della scienza), e

3) di Feyerabend (dei suoi "Addio alla Ragione" e "Contro il Metodo" posso solo ammirare la coerenza del testo col titolo: in effetti mi è parso assai poco razionale e mi ha fatto sentire, artisticamente, l'inutilità di tentare un metodico e ragionevole confronto con le sue idee).

Naturalmente, la mia auto-dichiarata inesperienza proclama che questo fallimento di tanti grandi e seri filosofi nel convincermi che dobbiamo considerare inattuale il contributo di Popper è dovuto ai miei limiti, non ai loro. Le analisi di storia della scienza "fanno a pezzi" (tua davvero drammatica espressione) l'idea popperiana che la scienza non procede per induzione, ma sostanzialmente per congetture e confutazioni? Se è così, nei miei poveri limiti, mi chiedo perché considerare "venerabile" (aggettivo da te usato), il pensiero di Popper. Anziché venerato, dovrebbe esser additato al pubblico ludibrio quale clamoroso esempio di pacchiano errore, mi sembra. Ci sono poi le analisi critiche sui limiti della razionalità nella scienza. Di nuovo, qui devo riconoscere dolorosamente i miei limiti. Ma tant'è, non vedo (io non la vedo, ripeto: capisco che altri più avveduti riescano a vederla) ragione per accettare gli argomenti razionali contro la ragione proposti dai post-razionalisti post-moderni. Resto quindi un razionalista (o realista) critico, e mi trovo benissimo nel negozio di antiquariato della filosofia della scienza in cui la maggioranza dei "filosofi seri" ha oggi relegato il venerabile contributo di Popper. In quel negozietto d'antiquariato, si sospetta a volte che almeno alcuni attacchi ad una teoria che ha avuto la sventura di diventare famosa ("Mio Dio, se ciò è la Tua volontà, risparmiami la fama" recita una vecchia saggia preghiera araba) siano in parte ricollegabili a moventi psicologici, più o meno inconsci, della categoria dell'invidia. Se si tiene conto del gran numero di pubblicazioni che escono dalle numerosissime Accademie universitarie dove è ragionevole attendersi che invidia e rivalità alberghino e fioriscano (prevalendo forse a volte sul desiderio di conoscenza), è comprensibile che vi siano sempre tanti, ma proprio tanti attacchi alle teorie più famose. Quando, nel nostro negozietto di antiquariato, pensiamo così, pensiamo anche ad una prossima nemesi: ora che è diventato famoso il pensiero post-moderno, chi sa quanti attacchi gli verranno rivolti nel futuro... o sta già accadendo?

Ma a questo punto mi accorgo che sto parlando di mie emozioni ("mamma" Popper). E allora tanto vale aggiungere un dato autobiografico: Pensa che il mio compianto amico, Vittorio Guidano, con cui vent'anni fa abbiamo scritto il libro "popperiano e lakatosiano" sopra citato, si è invece successivamente convertito al pensiero post-moderno, ha tentato di illustrarmene i meriti, ne abbiamo discusso per ore ed ore nel corso di alcuni anni, ma il risultato è stato solo l'interruzione della nostra collaborazione. Eravamo amici ed avevamo lavorato insieme per dieci anni, quindi l'interruzione della collaborazione è stata abbastanza dolorosa: anche per questo non ho alcuna voglia di tornare a discutere oggi di razionalismo (critico) e di post-razionalismo in filosofia della scienza. Soprattutto non ne ho voglia in relazione al problema dell'integrazione delle psicoterapie. Il nostro libro lakatosiano/ popperiano/ bowlbiano del 1983 era stato salutato da alcuni (fra cui Anthony Ryle e Merton Gill, che ne fece una recensione su una delle prime Newsletter, allora solo cilostilate, della SEPI) come un contributo, appunto, all'integrazione. Sono rimasto ancorato, da allora, all'idea che in effetti Popper (e Bowlby) avessero molto da dire a chi fosse interessato all'integrazione delle psicoterapie. La mia partecipazione al nostro incontro a Milano ed a questa lista mi ha convinto che non è così. Cosicché, con sicuro sollievo degli altri membri della nostra mini-lista, questa è davvero la mia ultima replica sul tema della mia fedeltà al pensiero popperiano e sull'idea che possa essere utile proporre tale fedeltà quando si parla di integrazione delle psicoterapie. Mettiamola così: se si tratterà in futuro di scegliere fra dibattere pro o contro Popper o rinunciare a partecipare a convegni o gruppi di discussione sull'integrazione delle psicoterapie, opterò decisamente e felicemente per la seconda. In poche parole, caro Benvenuto, (e caro Tullio), mi avete convinto, o se preferite avete vinto. Mi arrendo.

Prima di congedarmi, sento però l'obbligo di segnalare che la seguente tua affermazione in "tutte maiuscole" è davvero sorprendente:
> Per non farla lunga: la teoria di Popper non regge perché E' EVIDENTE CHE
> TUTTE LE IPOTESI E TEORIE SCIENTIFICHE (anche quelle più affermate e
> condivise) SONO STATE CONFUTATE.

Davvero???!!! Tutte???!!! EVIDENTE???!!! Perbacco!!! Ti prego di volermi gentilmente segnalare le evidentemente già avvenute confutazioni (intendo, naturalmente, sperimentali) delle seguenti teorie ed ipotesi (ne scelgo a caso cinque fra le tante che potrei elencare):

1) Che il legame fra il piccolo dei mammiferi (e degli uccelli) sia primario rispetto ad altri pure primari bisogni (teoria dell'attaccamento);
2) Che il diabete mellito dipenda da una carenza di insulina;
3) Che il sistema serotoninergico cerebrale sia implicato nella regolazione dell'aggressività impulsiva;
4) Che sia valida l'equazione e = mc2
5) Che, a temperatura costante, il volume di una massa di gas sia inversamente proporzionale alla pressione.

Si tratta di teorie grazie al Cielo confutabili (= scientifiche) e so che i tentativi di confutarle le arricchiranno e modificheranno se parzialmente riusciti, o ci indurranno ad abbandonarle se totalmente riusciti. Però mi era del tutto sfuggito che queste (ed altre) teorie/ipotesi fossero, e per di più con tutta evidenza, già state confutate. Segnalami dunque per piacere i corrispondenti esperimenti. A meno che tu non voglia affermare che la scienza non ci dà alcuna certezza assoluta, e che tutte le sue affermazioni partecipano dell'umana incertezza, della durata limitata nel tempo, della fallibilità. Ma questo, che è il principio cardine della vera scienza, già lo so, ed è appunto questo che mi spinge ad ammirarla e amarla. Se tutto ciò che è sotto il sole è vanità (Qohelet), se tutto è velo (Maya), trovo ammirevole il nostro sforzo di strappare, attraverso il metodo scientifico, i brandelli più solidi di quell'incerto e tenue velo i brandelli cioè con cui possiamo costruire almeno una tenda per ripararci dal torrido/gelido Nulla del nostro deserto.

Il metodo scientifico reale è più complesso di quello descritto da Popper? Può darsi, è anzi probabile che sia così (permettimi, come di tutto, di non esserne certo). Ciò non toglierebbe che, per quante varianti "di carne che lo ricopre" offra la realtà, l'ossatura, lo "scheletro" invariante, sembri proprio essere la procedura per congetture e disciplinate confutazioni. Giovanni Liotti

Tullio Carere, 18 Maggio 2002:

Caro Gianni, in quest'ultimo anno, nel corso del dibattito pre- e post-congressuale (che, per chi non lo sapesse, è continuato vivacissimo nella cerchia ristretta composta da Alberti, Liotti, Migone e me), ho molto apprezzato tutte le cose che hai scritto, anche se non tutte le ho condivise. L'unica cosa che mi lascia sempre perplesso è il tuo ricorrente bisogno di usare toni ultimativi ("questa è davvero la mia ultima replica..."). Mi sembra una debolezza che contrasta singolarmente con la forza dei tuoi argomenti (come se tu dicessi: "se non vi è simpatica la mia mamma, me ne vado"). Per fortuna hai sempre ignorato le tue stesse chiusure, come spero continuerai a fare: dimostrando la forza d'animo che ti contraddistingue e che ti ha sempre indotto ad anteporre le ragioni del dibattito all'impulso di difendere l'onore della tua genitrice con un ritiro sdegnoso.

La tua permanenza tra di noi mi sembra tanto più necessaria dopo quest'ultimo scambio tra Sergio Benvenuto e te. Permettimi di sintetizzare i termini della questione, per come io la vedo. La scienza, di ogni ordine e tipo, è sempre una pratica *ipotetica*, e in questo si differenzia dalla religione e dal mito. Ma nell'ambito delle pratiche ipotetiche si distinguono due modalità opposte (con tutte le sfumature intermedie, naturalmente): il metodo ipotetico-induttivo e quello ipotetico-deduttivo. Il primo basa le sue ipotesi sull'osservazione dei fatti (ipotesi il cui valore sarà rafforzato o diminuito da ulteriori osservazioni), il secondo formula delle ipotesi generali da cui si deducono conseguenze che l'esperimento potrà corroborare o confutare. In sostanza, il primo procedimento si basa sull'osservazione, il secondo sull'esperimento. Nulla vieta che tra i due si crei una sinergia, anzi è auspicabile che questo accada dove è possibile. Ciò che non è auspicabile è che si affermi perentoriamente la superiorità di un approccio rispetto all'altro, con conseguente denigrazione dell'approccio "inadeguato", o il legame indissolubile tra i due (che significa in pratica la negazione di qualsiasi autonomia all'approccio induttivo).

Il metodo ipotetico-deduttivo (quello che corrisponde alle raccomandazioni di Popper) si è largamente affermato in diversi campi, particolarmente in medicina, dove è alla base della cd "medicina empiricamente validata o supportata" (quindi non ha ragione Sergio di dire che il metodo popperiano è ormai un pezzo di antiquariato). C'è anzi una forte pressione perché anche la ricerca in psicoterapia si adegui a questo metodo. Molta ricerca empirica in effetti è stata fatta in psicoterapia con risultati complessivamente modesti, tanto da indurre molti a pensare che nel nostro campo sia più produttivo l'altro metodo, quello ipotetico-induttivo o "euristico" (l'unico appropriato, secondo Freud, alla psicoanalisi). E' certo che se Freud avesse dovuto adeguarsi alla severità del metodo deduttivo, la psicoanalisi non sarebbe mai nata. Analogamente, come fa (giustamente) osservare Sergio, la maggior parte delle scoperte che hanno beneficato l'umanità non avrebbero mai visto la luce.

Il vicolo cieco in cui troppe volte i dibattiti epistemologici vanno a cacciarsi è prodotto, a mio parere, dalla pretesa di subordinare un approccio all'altro o viceversa. Da una parte si tende infatti a dire che l'unico merito del metodo induttivo è quello di produrre ipotesi, il cui valore dovrà comunque essere accertato dalla verifica sperimentale (in questo modo all'approccio euristico è tolta qualsiasi autonomia, e all'epoché fenomenologica qualsiasi valore). Dall'altra, inversamente, si afferma l'autonomia assoluta dell'osservazione, che rende superfluo qualsiasi esperimento. Il compito che il movimento integrativo ha di fronte è quello di promuovere l'uscita da questo vicolo cieco, riconoscendo in primo luogo l'autonomia relativa di ciascuno dei due approcci, e mostrando in secondo luogo la possibilità di un'articolazione dialettica.

Lo scioglimento di questo nodo appare tanto più necessario in quanto è il presupposto per poter tentare di superare un'altra grave impasse in cui la nostra disciplina si è infilata, cioè il "great divide" tra scienza (euristica *et* sperimentale) ed ermeneutica. E' impensabile, mi pare, che si possa affrontare questo secondo nodo se prima non siamo riusciti a creare un'intesa sufficiente sul rapporto induzione/deduzione. Il paradosso è che a volte mi sembra che siamo a un passo dall'arrivarci. Non credi che potremmo cercare di ritrovare quell'inizio di "entente cordiale" che ho trovato nel messaggio che mi hai scritto durante il mio soggiorno a San Francisco (25 aprile)?Tullio

P.S.: Due piccoli segni dell'incipiente entente: Primo, io che sono sempre stato un ricercatore solo ed esclusivamente euristico, per la prima volta ho formulato un progetto di ricerca che combina elementi induttivi e deduttivi - ho già iniziato a scrivere il primo dei due manuali su cui si baserà questa ricerca (non sarebbe accaduto senza il nostro scambio di quest'ultimo anno); Secondo, tu che anteponevi nella terapia la cooperazione all'attaccamento (almeno nei tuoi scritti che conosco), sei giunto a porre i due modi in una relazione bilanciata, direi quasi dialettica... (sarebbe accaduto senza il nostro scambio?).

Giovanni Liotti, 19 Maggio 2002:

Caro Tullio, ti ringrazio ancora per lo scambio di opinioni che mi hai permesso. Nessun problema da parte mia se, per qualunque ragione, vorrai rendere nota ad altri la corrispondenza che ci siamo scambiati nel periodo intorno al tuo viaggio a san Francisco. Ho voluto far conoscere anche a Benvenuto la mia decisione di non tornare più, in future eventuali discussioni della SEPI-Italia, sull'argomento che prediligo in merito al problema dell'integrazione delle psicoterapie. E' una decisione che ribadisco, anche se la ho contraddetta o meglio per così dire "rinviata" più volte continuando a replicare.

Mi sembra troppo faticoso insistere su temi epistemologici, e ciò indipendentemente dalle frustrazioni del mio affetto per mamma Popper che sono derivate dal nostro scambio. La controprova di quanto sarebbe faticoso, è che dovrei adesso spiegarti come non possa, se accetto (e li accetto) gli argomenti di Popper contro la stessa possibilità dell'induzione, accettare anche il tuo punto di vista sull'esistenza di due metodi, uno induttivo e l'altro deduttivo. Davvero sarebbe troppo faticoso: come ti ho già scritto, preferisco per un poco tacere e "stare alla finestra" per vedere come procedono i lavori sull'integrazione. A proposito di accettazione, accetto comunque la tua opinione che il mio desiderio di "stare alla finestra" riflette una mia debolezza. E sai che anche altri tuoi punti di vista, come dimostrato dai nostri ultimi scambi epistolari, li ho condivisi. Gianni

Sergio Benvenuto, 24 Maggio 2002:

Il 18 maggio 2002 Giovanni Liotti ha scritto:
> Cosicché, con sicuro sollievo degli altri membri della nostra mini-lista, questa è
>davvero la mia ultima replica sul tema della mia fedeltà al pensiero popperiano e
>sull'idea che possa essere utile proporre tale fedeltà quando si parla di integrazione
>delle psicoterapie. Mettiamola così: se si tratterà in futuro di scegliere fra
>dibattere pro o contro Popper o rinunciare a partecipare a convegni o gruppi di discussione
>sull'integrazione delle psicoterapie, opterò decisamente e felicemente per la seconda.

Sono d'accordo con Liotti: continuare a discutere su Popper ci porterebbe ad una corrispondenza interminabile (e scommetto inconcludente) che potrebbe andar avanti per mesi e anni. Meglio tornare al caso specifico della psicoterapia. Del resto, se avessi avuto qualche esitazione su questa decisione, la confidenza che ci ha concesso Liotti è servita a dissiparla: se non è riuscito a fargli cambiare idea su Mamma Popper nemmeno uno della statura di Guidano, figuriamoci se ci riuscirebbe mai un poveretto come me! Immagino difatti che gli argomenti del suo amico e collega Guidano fossero del tutto simili ai miei - in questo campo, lo ammetto, non sono molto originale.

Del resto, come Popper stesso ha riconosciuto, la sua teoria falsificazionista non è falsificabile. Detto altrimenti, la teoria popperiana delle teorie scientifiche non è essa stessa una teoria scientifica (in senso popperiano) - ad essa quindi non possono essere applicati i criteri di "prova ed errore", di corroborazione, ecc., che lui prescrive per la conoscenza scientifica in generale. Ergo, potremmo continuare per mesi e anni a discutere pro o contro Popper senza fare un solo passo in avanti.

Chi volesse perdere il proprio tempo a leggersi quel che ho già enunciato pubblicamente su questi temi, potrebbe dare una scorsa al capitolo - che qui allego - di un mio libro recente ("Un cannibale alla nostra mensa") dove ricostruisco a mio modo certe questioni cruciali dell'epistemologia (qui rispondo indirettamente ad alcune obiezioni di Liotti).(Ma ho una sensazione di dèjà vu: non ve lo avevo già mandato?)

Eppure Liotti "falsifica" ben presto il suo impegno, rilanciando subito la palla contro una mia argomentazione. Per cui, prima di chiudere questo dibattito filosofico, indulgerò io stesso ad una replica:
> Prima di congedarmi, sento però l'obbligo di segnalare che la seguente tua
>affermazione in "tutte maiuscole" è davvero sorprendente:
>> Per non farla lunga: la teoria di Popper non regge perché E' EVIDENTE CHE
>> TUTTE LE IPOTESI E TEORIE SCIENTIFICHE (anche quelle più affermate e
>> condivise) SONO STATE CONFUTATE.
>>Davvero???!!! Tutte???!!! EVIDENTE???!!! Perbacco!!! Ti prego di volermi gentilmente
>segnalare le evidentemente già avvenute confutazioni (intendo, naturalmente,
>sperimentali) delle seguenti teorie ed ipotesi (ne scelgo a caso cinque fra le tante
>che potrei elencare):
>1) Che il legame fra il piccolo dei mammiferi (e degli uccelli) sia primario rispettoad altri pure primari bisogni (teoria dell'attaccamento);
>2) Che il diabete mellito dipenda da una carenza di insulina;
>3) Che il sistema serotoninergico cerebrale sia implicato nella regolazione dell'aggressività impulsiva;
>4) Che sia valida l'equazione e = mc2
>5) Che, a temperatura costante, il volume di una massa di gas sia inversamente proporzionale alla pressione.

Ho l'impressione che qui Liotti faccia un po' di confusione tra enunciati di tipo molto diverso. Gli epistemologi tendono a distinguere vari livelli di ipotesi ed affermazioni: descrizioni empiriche, generalizzazioni, teorie scientifiche e non, paradigmi scientifici, programmi di ricerca, ipotesi e congetture, previsioni controfattuali, ecc. ecc. Ad esempio, spesso erroneamente si porta un enunciato del tipo "tutti i corvi sono neri" come un esempio di teoria scientifica, mentre si tratta semplicemente di una generalizzazione di una regolarità empirica.

Se teniamo conto di queste differenze tra tipi di enunciati, vedremo che certo c'è un "falsificazionismo" molto terra terra, banale, su cui tutti siamo d'accordo. Se la domestica dice "la damigiana d'olio in cucina è piena", si tratta certo di un enunciato falsificabile nel senso che se vado in cucina e la trovo vuota potrò accusare la domestica di aver mentito. Su casi empirici di questo tipo, anzi, il falsificazionismo è fin troppo sofisticato: basta il verificazionismo empirista. Ma le cose si complicano maledettamente quando saliamo man mano ai piani superiori dell'elaborazione scientifica.

E' strano che Liotti non veda le implicazioni anti-popperiane della teoria di Kuhn (oggi più popolare di quella di Popper: se fosse valida la teoria psicologica di Liotti, che la disputa filosofica è mossa dall'invidia, dovrebbe essere confutato molto più Kuhn che Popper). Kuhn dice che la grande maggioranza degli "scienziati normali" è dedita a risolvere puzzles, vale a dire casi che non quadrano con il paradigma comunemente accettato. Questi puzzles sono casi che - se letti fuori del paradigma - appaiono come delle falsificazioni delle teorie del paradigma. Ma il conformismo scientifico non le "legge" come tali. Certo in molti casi gli scienziati normali risolvono il puzzle, ma in altri casi no - questo pero' non implica mai (tranne nei casi di vere e proprie rivoluzioni scientifiche) l'abbandono del paradigma condiviso. Ad esempio, più generazioni di astronomi hanno cercato di risolvere l'anomalia ben nota del perielio di Mercurio, senza mai riuscirci. Solo con la relatività di Einstein questa "anomalia" - per la fisica classica - fu risolta. Ovvero, grazie alla nuova teoria di Einstein quell'anomalia apparve finalmente come una falsificazione della fisica classica - anche se pochi, fino ad Einstein, lo avevano ammesso. Ora, non tanto le singole generalizzazioni empiriche (del tipo "tutti i corvi sono neri") sono falsificate, piuttosto tutte le teorie portanti dei programmi di ricerca principali sono falsificate, ovvero, presentano puzzles tuttora irrisolti. Porterò solo due esempi, che riguardano alcune teorie fondamentali della fisica.

L'interpretazione quantistica di un esperimento importante - detto dell'interferometro a fori - è in disaccordo con un principio fondamentale della logica. Non a caso H. Putnam ha proposto una "logica quantistica" - diversa quindi dalla logica comune - proprio per rendere accettabile la spiegazione del fenomeno in termini quantistici. Ovviamente molti hanno fatto notare che se per fare accettare certe spiegazioni quantistiche occorre addirittura cambiare il nostro senso comune, questo vuol dire piuttosto che c'è qualcosa di marcio nella teoria quantistica... In altre parole, si può sempre non-accettare un fenomeno come falsificante cambiando magari qualche assioma logico.

La teoria dell'evoluzione stellare è oggi una teoria universalmente accettata. Essa implica un assunto fondamentale: che la fusione nucleare sia la sorgente dell'energia di una stella. Ma l'esperimento che avrebbe dovuto corroborare questa teoria - eseguito da R. Davis nel 1967, sul flusso dei neutrini solari - ha dato risultati non conformi alla teoria. Ovvero, la teoria è stata "falsificata" sperimentalmente. Malgrado questo, tutti gli astronomi oggi continuano a credere nell'evoluzione stellare.

In effetti, quelle che si chiamano eufemisticamente "anomalie" non hanno spinto all'abbandono della meccanica quantistica e della teoria dell'evoluzione stellare, che restano teorie di riferimento. Perché? Perché, come hanno ben mostrato i post-popperiani, una teoria falsificata (o comunque che non risolve il mare di anomalie con cui si confronta) non viene mai abbandonata finché non se ne trova una migliore. Tutto qui. Le teorie scientifiche sono insomma come quelle donne che non troncano un rapporto frustrante e insoddisfacente con un uomo finché non trovano un altro uomo con cui avere una relazione più soddisfacente. Insomma, la scienza (contrariamente a quello che pensava Popper) è per lo più conservatrice: ci vuole ben altro che falsificazioni perché una teoria venga liquidata. Questo è un corrollario della famosa ipotesi Duhem-Quiine, che a mio avviso vede molto più lontano del popperismo. Emerge qui la dimensione storica della scienza che sfugge completamente all'impostazione, meramente razionalista, di Popper. Questo del resto si applica anche al nostro campo. Molti si chiedono "come è possibile che una teoria che in fondo fa acqua da tutte le parti, e che lascia irrisolti tanti casi, come quella psicoanalitica, continua malgrado tutto a svolgere un ruolo privilegiato nel mondo psicoterapeutico?" In effetti, gli psicoterapisti migliori preferiscono via via inserire nel paradigma psicoanalitico di base correzioni e contributi eterodossi, piuttosto che mollare tout court l'intero edificio freudiano e ricominciare tutto daccapo. Perché questa inerzia conservativa?

La mia ipotesi è che Freud non muore perché in fondo... la psicologia clinica non ha trovato di meglio finora. Malgrado i suoi enormi limiti, la teoria freudiana (e le teorie da essa derivate) resta per ora quella più verosimile ("verosimile" in un senso molto diverso da quello di Popper). Così come, malgrado tutto, la teoria quantistica rimane la più verosimile in fisica, anche se molti esperimenti danno risultati assurdi dal punto di vista della teoria. Sergio Benvenuto

Tullio Carere, 26 Maggio 2002:

Sergio Benvenuto ha scritto:
>Le teorie scientifiche sono insomma come quelle donne che non troncano un
>rapporto frustrante e insoddisfacente con un uomo finché non trovano un
>altro uomo con cui avere una relazione più soddisfacente. Insomma, la
>scienza (contrariamente a quello che pensava Popper) è per lo più
>conservatrice: ci vuole ben altro che falsificazioni perché una teoria venga liquidata.

Questa osservazione mi sembra descrivere accuratamente lo stato di cose per quanto riguarda in particolare il nostro campo. La grande maggioranza dei terapeuti basa il proprio lavoro su evidenze di tipo osservativo (o induttivo, o euristico), infischiandosene degli ammonimenti provenienti dal campo dei ricercatori, per i quali queste evidenze non sarebbero "scientifiche". Perché non lo sarebbero? Perché, faceva notare Popper, i dati di tipo osservativo sono troppo inquinati dalle convinzioni teoriche dell'osservatore, che quindi osserverà regolarmente quello che è già predisposto a osservare. Per neutralizzare il bias dell'osservatore, argomentava Popper, bisogna abbracciare il metodo ipotetico-deduttivo: in sostanza il metodo sperimentale, l'unico capace di corroborare o confutare le ipotesi.

Questa convinzione di Popper, peraltro, è stata largamente, se non completamente, falsificata. Al congresso SEPI di San Francisco, cui ho partecipato recentemente, Westen e Fonagy, due accesi sostenitori della ricerca scientifica, si sono dichiarati entrambi molto delusi di come la ricerca in psicoterapia è stata condotta fino a oggi e convinti della necessità di cambiare rotta. Westen in particolare ha basato il suo intervento su un lavoro pubblicato l'anno scorso, che ha avuto molta risonanza [Westen D, Morrison K (2001), A multidimensional meta-analysis of treatments for depression, panic, and generalized anxiety disorder: an empirical examination of the status of empirically supported therapies. J. Consult. Clin. Psychol., 69 (6): 875-899]. In questo lavoro Westen ha mostrato che non solo nel novanta per cento dei casi i risultati delle ricerche confermano le convinzioni teoriche dei ricercatori che le hanno progettate ed eseguite (percentuale del tutto sovrapponibile a quella delle tanto deprecate ricerche induttive), ma che per di più gli assunti su cui si basano le terapie empiricamente validate (o supportate) non sono affatto teoricamente neutri:

"Two things about the assumptions underlying EVTs are striking. First, they are not theory-neutral. In every case they are fundamental assumptions of cognitive-behavioral therapy, or at least the cognitive-behavioral therapy of the late 1970s, when these assumptions began to define what was considered a scientifically valid outcome study and hence to influence publication and funding decisions. In virtually every instance they are the direct opposite of the assumptions of psychodynamic and many other forms of psychotherapy. Second, most of these assumptions are empirically testable, and many of them have either never been adequately tested or have been empirically falsified to one degree or another."

(La citazione che precede, come quella che segue, è tratta da un lavoro inedito di Westen e Morrison, da cui questi autori hanno tratto l'articolo citato sopra. Il titolo del lavoro inedito è: How empirically valid are empirically validated therapies? A critical appraisal). Per uscire da questa impasse, Westen e Morrison propongono un approccio alternativo. Poiché non sappiamo quali interventi terapeutici sarebbe più importante sottoporre a test, sarebbe più opportuno partire dalla osservazione delle strategie terapeutiche usate da clinici esperti nella loro pratica quotidiana, e solo in un secondo tempo studiare sperimentalmente quegli interventi che appaiono associati con esiti positivi. Westen e Morrison si rendono conto che questa proposta rappresenta una rottura con la filosofia popperiana che guida la maggior parte della ricerca in psicoterapia:

"In many respects, this alternative approach represents a break with the Popperian philosophy of science that guides most psychological research—including psychotherapy research—in a way that extends, rather than limits, the scope of scientific method. Popper (1971) endorsed a distinction between two contexts of science: a context of discovery, in which theories are crafted and hypotheses are generated; and a context of justification, in which hypotheses are tested and either corroborated (tentatively accepted) or disconfirmed. According to Popper, the essence of science lies in hypothesis testing (justification). How we come up with our hypotheses, he argued, is our own business.

An alternative view suggests that our choice of hypotheses to test—in this case, therapeutic interventions we believe are worthy of time and resources to study—should be just as systematic as the procedures we use to test them. In this view, the use of scientific method in the context of discovery is likely to lead to the testing of more useful hypotheses in the context of justification than reliance on the idiosyncratic and typically implicit algorithms that guide researchers’ choice of which of the thousands of potential interventions to study.

Thus, we might do well to use clinical practice as a natural laboratory, making use of the wide variation that exists in what clinicians do in practice, to see what intervention strategies appear to work with what kinds of patients (process-outcome correlations, using comorbidity and personality as moderator variables)." (corsivi miei)

Questo non significa che Westen proponga semplicemente di ritornare alla ricerca euristica. La sua proposta è piuttosto quella di privilegiare la ricerca correlazionale, e di utilizzare la ricerca sperimentale solo secondariamente, per studiare isolatamente quei fattori che la ricerca correlazionale avrà dimostrato validi. Nello stesso senso si esprime Fonagy (che, per inciso, dichiara anche lui di amare la ricerca come la mamma: "I'm a firm believer in both: evidence-based practice as well as motherhood"): "I wish to be clear that I do not believe that there is a viable alternative to evidence-based practice. I do think however that the pendulum between research and practice has swung too far, and the balance must be redressed moving towards practice as a source of evidence". (Fonagy, P. Evidence based practice or practice based evidence: The controversies that surround the empirically informed selection of psychological treatments or 'Nobody has won and all their prizes are going to be taken away', http://www.psychotherapy.org.uk/Fonagy.pdf.).

Nessuno nega che la psicoterapia dovrebbe basarsi su evidenze, ci mancherebbe. Il punto è: quali evidenze? Le evidenze prodotte dalla ricerca sperimentale hanno fondamenta così precarie (shaky), che il loro influsso sulla pratica è a tutt'oggi pressoché nullo. I terapeuti si tengono ben strette le loro evidenze euristiche, in mancanza di meglio. Ma la direzione indicata da Westen e Fonagy è quella che, mi sembra, ci permetterà di uscire dalla sterile contrapposizione tra ricerca euristica e ricerca sperimentale: le evidenze di cui abbiamo bisogno dobbiamo cercarle in primo luogo nella pratica, e solo in un secondo momento (forse) in laboratorio (dico forse perché ho molti dubbi sulla possibilità di ottenere dati utili dalla ricerca su variabili isolate in una disciplina come la psicoterapia).

Io concordo pienamente con Westen e Fonagy sulla necessità di tornare alla pratica clinica come sorgente di evidenze, ma andrei oltre. A mio parere sia Westen che Fonagy sono ancora un po' troppo impregnati della metodologia scientifica corrente per cogliere tutte le implicazioni della loro stessa pur dirompente proposta. In particolare Westen e Morrison osservano che le variabili interazionali non possono essere controllate per quanto un trattamento sia standardizzato, perché dipendono "on the patient's interpretations of the therapist's actions". Ma poiché le variabili interazionali sono proprio le più significative (i "fattori comuni", che tutte le meta-analisi dimostrano ben più importanti dei fattori specifici dei diversi metodi) il punto focale di una ricerca psicoterapeutica significativa dovrebbe essere precisamente lo studio comparato delle interpretazioni che il paziente dà delle azioni del terapeuta e delle interpretazioni che il terapeuta dà delle azioni del paziente - e non lo studio di "procedure efficaci" in quanto tali, indipendentemente dalle interpretazioni dell'uno e dell'altro. Ma per ora mi fermo qui. Tullio Carere.

Paolo Migone, 24 Maggio 2002:

Cari colleghi, negli ultimi tempi per vari impegni non sono riuscito a stare al passo col dibattito, cercherò di contribuire (seppur nei limiti delle mie possibilità). In questo momento ho pensato di proporre alla vostra attenzione, anche in alternativa o complemento alle questioni teoriche o filosofiche che dibattiamo, un caso clinico dove emergono questioni di cosiddetta "integrazione" psicoterapeutica: è un breve resoconto di un caso clinico di vaginismo, trattato con successo con una terapia "comportamentale" da un terapeuta "psicoanalitico". Alla fine del caso il terapeuta (Piero Porcelli, un noto psicologo di Bari esperto in psicosomatica) si chiede che terapia ha fatto, se comportamentale o psicoanalitica (naturalmente la sua è una domanda falsamente ingenua, posta allo scopo di provocare il lettore, dato che tutti conosciamo la sofisticazione di questo collega).

Tutto questo per aprire un dibattito, che si spera che si interessante e che coinvolga terapeuti di orientamenti diversi e rompa vecchi steccati. Il caso infatti esce su "Psicoterapia e scienze umane", 2002, XXXVI, 2, pp. 121-129, e i primi due commenti, scritti su invito della redazione, sono di Moderato & Rovetto (due colleghi ad orientamento cognitivo-comportamentale, ad impostazione però forse un po' diversa da Gianni e Giorgio, in quanto appartengono più alla scuola comportamentista vecchio stampo che cognitivista "romana") e me (ad orientamento psicodinamico). Ho pensato di mandarvi il caso clinico e il mio commento, nel caso qualcuno di voi interessasse:

Commento di Paolo Migone a "Un caso di vaginismo: il caso Anna" di Piero Porcelli (Psicoterapia e scienze umane, 2002, XXXVI, 2).

Questo resoconto clinico ci permette di formulare delle ipotesi precise sulle dinamiche psicologiche che con buona probabilità sono responsabili del netto miglioramento avvenuto. Dati i limiti di spazio, commenterò solo alcune delle dinamiche tra quelle che a me sembrano più significative; infine accennerò alla questione che il terapeuta pone nell'ultimo paragrafo riguardo alla identità della terapia qui praticata.

La paziente dice di essere "cresciuta da sola e precocemente", e viene descritta come una persona efficiente, una grande lavoratrice, "molto forte, molto concreta… capace e intelligente… accentra fondamentalmente le decisioni… è in sostanza lei a vedere i problemi, ad affrontarli, ad aggredirli, a risolverli", e così via. Si può insomma ipotizzare il caso di una "parentified child", come si sul dire, cioè una donna "che in casa ha supplito le 'mancanze' funzionali della madre già dall'età di 5 anni" (la madre inoltre ha disturbi psichici), e quindi ad assumere ruoli forti e di controllo perché per determinate esperienze di vita la debolezza e la passività erano associate a situazioni di pericolo. E' questa donna che poi presenta il sintomo del vaginismo, una difficoltà appunto a "lasciarsi andare" con il marito, non a caso un uomo dipendente, immaturo, che lei accudisce come un figlio.

Ebbene, è proprio su questo sfondo che avviene la prima interessante mossa del terapeuta, quella di prescrivere a questa donna una tecnica comportamentistica di desensibilizzazione, basata su esercizi, sforzi e lavoro quotidiano allo scopo di abbattere il sintomo. A una donna "i cui comportamenti sono orientati verso la massimizzazione dell'efficacia" viene prescritta una tecnica basata sulle "prove di efficacia" (corsivi miei), cioè sulla Evidence Based Medicine, una tecnica seria, non le solite chiacchiere dello psicoanalista. A prima vista questa potrebbe sembrare una mossa controterapeutica, in quanto il modello offerto dal terapeuta è simile al pattern transferale, e quindi potrebbe rinforzarlo. Offrire invece subito alla paziente un modello opposto, cioè non prescriverle alcun compito ma invitarla a "lasciarsi andare", mostrale nei fatti come sia possibile vivere una esperienza alternativa a quella a cui è abituata (ad esempio invitandola ad osservare la regola aurea della psicoanalisi, le associazioni libere), potrebbe in se stesso essere un intervento terapeutico che spiazza la paziente. Ma il terapeuta, per farla sentire più a suo agio, ha voluto avvicinare questa paziente appositamente con le armi che lei conosce bene. Non nasconde di aver agito in questo modo ad arte, per avere "più probabilità sia di garantire una buona alleanza di lavoro che di sostenere la sua motivazione". La sua è stata una tecnica seduttiva, si potrebbe dire, nel senso che empaticamente ha risposto nel modo migliore ai suoi bisogni, ben sapendo che al momento era questo che dava maggiori garanzie di agganciarla, e dopo essere entrato nel suo mondo avrebbe potuto dolcemente condurla fuori da esso. Un altro modo di descrivere questa mossa, e volendo usare una metafora a volte usata dai sistemici, il terapeuta ha usato la tecnica del judo, che utilizza la forza dell'altro, la sua spinta, per farlo cadere, per trascinarlo dove vogliamo noi. Ritengo che questa sia stata una tattica intelligente e sofisticata. Ma non si può escludere che sarebbe stato possibile ottenere gli stessi risultati semplicemente rassicurando la paziente (che non a caso diffidava della utilità di una cura basata sulle parole) e invitandola a muoversi in seduta proprio all'opposto di come si muoveva nella vita, cioè eliminando obiettivi da raggiungere, sforzi, e lavoro. Prescriverle in modo per certi versi paradossale questi nuovi obiettivi (tale paradossalità è infatti implicita nella tecnica delle associazioni libere), assegnarle questo nuovo "compito" che doveva eseguire così bene come solo lei sapeva fare, potrebbe essere vista essa stessa come una tecnica "comportamentale". Chi non ha occhi ingenui sa benissimo che una terapia può funzionare anche in questo modo, come peraltro Eysenck sottolineava, a ragione, nella sua lettura behavioristica della psicoanalisi (vedi Psicoter. sci. um., 4/1993, p. 118).

Dopo questo inizio la terapia procede bene, con un paio di crisi regressive (una delle quali caratterizzata anche da un episodio di conversione "isterica"), crisi che sono la norma nelle psicoterapie e che qui dal terapeuta vengono lette alla luce della control-mastery theory del San Francisco Psychotherapy Research Group di Weiss & Sampson (vedi l'articolo di Weiss e il saggio-recensione su Psicoter. sci. um., 2/1993). In una psicoterapia le crisi e i temporanei peggioramenti non sono quasi mai un segno negativo, anzi, sono la prova che il paziente, come si suol dire, si muove. Il pericolo maggiore è che stia fermo nella fissità della sua patologia. E' al processo che si guarda, e gli alti e bassi sono tipici di tanti processi di miglioramento. Tra l'altro, è proprio dopo la prima di queste crisi, quella dopo il superamento di un "test" transferale, che la paziente fa il primo significativo passo avanti. Ma non è possibile qui commentare i tanti passaggi di questo interessante caso clinico (come ad esempio il riaffiorare di un ricordo infantile - altro segno indiretto di un miglioramento del funzionamento globale dell'apparato difensivo), per cui passo a discutere il quesito posto nell'ultimo paragrafo.

La domanda che viene posta è la seguente: dato che è stata usata a tutti gli effetti una tecnica "comportamentale" (quella per il vaginismo), come si fa a dire che questa è una terapia psicoanalitica? Questa domanda viene ritenuta dal terapeuta così importante che è stata quella che lo "ha spinto a pubblicare questo caso". Non si può non rimanere meravigliati e non pensare che sia una domanda provocatoria, considerata la sofisticazione di questo terapeuta che emerge chiaramente dal suo resoconto. Ritengo che la domanda alluda alla sfortunata tradizione di classificare le psicoterapie secondo il loro aspetto descrittivo, come se fosse possibile trattare la psicoterapia così come il DSM-III (e successive edizioni) ha trattato la psichiatria. Se questa operazione è di per sé problematica per la psichiatria, figuriamoci per la psicoterapia. Eppure non cessiamo di stupirci (ed ecco perché secondo me con falsa ingenuità viene posta la domanda) del fatto che spesso l'istituzione psicoanalitica non sia riuscita a fare di meglio che impostare il problema in questo modo, arenandosi in secche concettuali. Tra i tanti esempi, si vedano i vani sforzi di un Wallerstein di differenziare psicoanalisi da psicoterapia (ad esempio ai due congressi di Roma dell'International Psychoanalytic Association [IPA] del 1969 e 1989), o un Sandler (allora anche lui presidente dell'IPA) quando disse che spesso si risolve il problema definendo, tautologicamente, psicoanalisi la terapia praticata dagli psicoanalisti, e, circolarmente, psicoanalisti coloro che praticano la psicoanalisi (e, potremmo aggiungere, comportamentismo quello praticato dai comportamentisti e così via all'infinito in un gioco di specchi - anzi, mi correggo, vi è un punto fermo: la appartenenza istituzionale, poco importa se nessuno si accorge che ciò implica la perdita dello statuto scientifico della disciplina). Ma si pensi anche a un Luborsky, che col suo manuale del 1984 (Princìpi di psicoterapia psicoanalitica. Torino: Bollati Boringhieri, 1989) ha tentato, per così dire, di emulare Spitzer nel costruire una sorta di DSM-III della psicoanalisi arrivando a contraddizioni interne - cosa di cui si è ben reso conto quando ha dovuto ammettere che la stessa suddivisione (che regge tutto l'impianto del manuale) tra tecniche "supportive" ed "espressive" non era possibile sulla base del solo criterio descrittivo (dato che, ad esempio, la interpretazione, intervento espressivo par excellence, rinforza l'Io e quindi è supportiva; vedi Psicoter. sci. um., 2/1990, p. 128). E si pensi ancora alla recente proposta di un Kernberg (Int. J. Psychoanal., 6/1999), quando era anche lui presidente dell'IPA, di "una concezione integrata di tre modalità terapeutiche psicoanalitiche": "psicoanalisi standard", "psicoterapia psicoanalitica", e "psicoterapia supportiva psicoanaliticamente fondata (psychoanalytically based)". Pare che le esigenze istituzionali facciano dimenticare persino le implicazioni della Psicologia dell'Io che assegnava, già ben più mezzo secolo fa, un preciso ruolo al lavoro sulle difese. Ad esempio, se si è supportivi quando un paziente può permettersi un atteggiamento espressivo, si fa una terapia supportiva o una cattiva psicoanalisi? (per brevità, rimando al dibattito su quel lavoro di Kernberg sull'Int. J. Psychoanal., 2/2000, che è anche al sito Internet http://ijpa.org/archives1.htm, e al cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica dove presento la proposta di Gill che a mio parere risolve coerentemente questa annosa questione classificatoria, non a caso utilizzando criteri non descrittivi ma intrinseci, cioè legati alla teoria).

Fatte queste considerazioni che possono servire a inquadrare il problema della identità di una tecnica, rispondo alla domanda sul tipo di terapia qui praticata: ritengo che sia psicoanalitica (o comunque psicodinamica in senso lato), in quanto l'intervento sul vaginismo non mirava banalmente alla dilatazione meccanica di un organo, ma era anche attento all'impatto di quell'intervento sulla relazione. Anzi, l'intervento comportamentale è stato usato intenzionalmente anche per agire ad altri livelli (ad esempio per "garantire una buona alleanza di lavoro"), quindi nell'ipotesi teorica, giusta o sbagliata che sia, che l'eliminazione del sintomo potesse essere raggiunta ugualmente, o forse meglio, intervenendo a monte su determinate variabili di personalità (il "lasciarsi andare"), ipotesi questa di tipo dinamico che non è necessariamente prevista da un approccio comportamentale in senso stretto.

Giovanni Liotti, 27 Maggio 2002:

Caro Paolo, cari amici e colleghi, il caso di vaginismo trattato da Piero Porcelli è così interessante che vorrei anch'io scrivere un breve commento in forma pubblicabile per Psicoterapia e scienze umane. Almeno un paio di impressioni, buttate giù informalmente, voglio mandarvele subito, anche perché mi permettono di continuare a partecipare al dibattito sull'integrazione senza più accentrare il discorso su "Popper sì - Popper no".

La prima impressione è che il caso illustra ottimamente una tesi che mi è cara: la control-mastery theory di Weiss e Sampson costituisce un'ottima base concettuale per l'integrazione delle psicoterapie. Nel modo di concettualizzare il caso, è meno esplicito l'uso di una seconda base concettuale per tale integrazione: la teoria dell'attaccamento. Questa però è compatibile con la formulazione proposta da Porcelli, e forse ne è fondamento implicito: l'autore infatti parla tra le righe dell'inversione dell'attaccamento della paziente (il suo fare da mammina a tutti, e soprattutto ai maschi di casa che pure desidererebbe vedere come fonte di sicurezza, cioè come valide figure di attaccamento).

Il caso, dunque, costituisce un ottimo esempio concreto di quanto ad esempio ho sostenuto a Milano il 16-3-2002 al primo congresso nazionale della SEPI-Italia. Il caso di Porcelli poteva essere affrontato con l'uso simultaneo di una tecnica comportamentale e di una formulazione psicodinamica, senza un tale supporto concettuale (control-mastery-theory e teoria dell'attaccamento) che facesse da ponte fra le due scuole di psicoterapia, cognitivo-comportamentale e psicoanalitica, dalle quali il terapeuta ha tratto i suoi strumenti di intervento? Forse sì, ma di certo l'avere avuto in mente la control-mastery theory (e, non è improbabile, anche la teoria dell'attaccamento) sembra aver facilitato grandemente la messa a punto di una strategia terapeutica integrativa.

Penso anche che non sia casuale che control-mastery-theory e teoria dell'attaccamento siano fra loro facilmente accostabili, nella mente e nella pratica di molti terapeuti ben informati come Porcelli. Sono facilmente accostabili perché hanno un'importante marca di origine in comune: entrambe emergono da programmi di ricerca basati sulla confutazione scientifica (classica) di precedenti teorie, entrambe cioè condividono l'idea di fondo sul modo con cui la nostra conoscenza può crescere e divenire allo stesso tempo un poco meno "soggettiva" (ovvero un poco più pubblicamente condivisibile). L'idea è quella di esaminare congetture limitate a punti particolari della vita umana: nel nostro esempio, come le credenze patogene vengono proposte al terapeuta in forma di "test", e come è meglio concettualizzare il bisogno umano di cura e protezione (disposizione innata all'attaccamento). Dopo aver posto attenzione a congetture circoscritte e limitate, l'idea è quella di tenere in gran conto le corrispondenti confutazioni, senza preoccuparsi invece dei grandi paradigmi, dei grandi e totalizzanti modelli teorici tipo meccanica quantistica o psicoanalisi freudiana classica (tutti già confutati, ci ha insegnato Benvenuto al convegno prima citato, al contrario delle congetture più limitate, le migliori delle quali hanno finora superato importanti tentativi di confutazione, e appunto per questo sono "migliori").

La seconda impressione che volevo condividere è che il caso illustra un'altra tesi che mi è cara: tutte le tecniche cognitivo-comportamentali si prestano bene ad essere utilizzate per facilitare l'alleanza terapeutica e l'incontro empatico con pazienti che, come quella di Porcelli, pongono con forza l'esigenza di una forte e diretta e immediata attenzione del terapeuta ai loro sintomi, prima di poter prestare attenzione ad altri aspetti, più "profondi", della loro vita mentale. Ho dedicato a questo tema (le tecniche cognitivo-comportamentali come veicoli di empatia) alcune pagine del mio ultimo libro (Le opere della coscienza, Milano: Cortina, 2001 - vedi scheda su Psicoter. sci. um., 1/2002, p. 143), pagine che Vittorio Lingiardi ha commentato criticamente nel suo recentissimo libro L'alleanza terapeutica (Milano: Cortina, 2002). Il caso di Porcelli potrebbe essere un'ottima risposta alle importanti ed interessanti critiche di Lingiardi alle mie idee. Naturalmente, se le stesse tecniche venissero proposte a pazienti che chiedono invece attenzione ad aspetti della loro vita mentale e di relazione diversi dai loro sintomi (come forse alcuni terapeuti cognitivo-comportamentali tendono a fare), allora il loro uso diventerebbe anti-empatico, e corrispettivamente - congetturerei - la loro efficacia sarebbe grandemente ridotta. Giovanni Liotti

Paolo Migone, 28 Maggio 2002 (intervento di Davide Dèttore):

Nel caso vi interessasse, vi mando un altro commento al caso clinico di vaginismo che è appena arrvato, scritto da Dèttore, di Genova, che sicuramente conoscete (è un noto comportamentista, Psicologo e psicoterapeuta, Docente di Psicologia e Psicopatologia del Comportamento Sessuale, Università degli Studi di Firenze, esperto nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo e anche nei disturbi sessuali):

Commento di Davide Dèttore (Genova) a "Un caso di vaginismo: il caso Anna" di Piero Porcelli (Psicoterapia e scienze umane, 2002, XXXVI, 2).

Relativamente all'interessante caso proposto dal dottor Porcelli e al quesito finale da lui posto mi sembra di potere fare le seguenti considerazioni come terapeuta cognitivo-comportamentale con particolare specializzazione nel campo della sessuologia. Il dottor Porcelli ha scelto da un punto di vista terapeutico la modalità d'intervento più corretta per affrontare il problema del vaginismo, soprattutto perché tale procedura è quella che nella letteratura scientifica si presenta come caratterizzata dalla massima efficacia (cfr. D. Dèttore, Psicologia e Psicopatologia del Comportamento Sessuale. Milano: McGraw-Hill), ma, in seconda analisi, in quanto l'unica possibile nei tempi relativamente brevi concessi.

Pur in assenza di informazioni specifiche possiamo dare per scontato che l'intervento a carattere di desensibilizzazione sistematica (D.S.) sia stato condotto in modo sufficientemente adeguato soprattutto nel suo aspetto di elaborazione di una gerarchia di adeguata gradualità. Però, a questo proposito occorrono fare due considerazioni. Innanzitutto, va sottolineato che la terapia sessuale, che impiega sempre metodologie a impostazione "comportamentale" (in quanto fanno strettamente parte di questa forma d'intervento specializzata e sono necessarie al di là della strutturazione del complesso dell'intervento, che è conforme alla impostazione psicoterapeutica specifica del singolo professionista), è una "terapia di coppia". Entrambi i membri della diade vanno costantemente coinvolti nell'intervento, altrimenti si possono indurre processi di sabotaggio non indifferenti da parte del partner non portatore del sintomo, se questo non viene informato, tranquillizzato, non si sente parte dell'intervento e non vengono analizzate le dinamiche di coppia. Ciò è necessario qualunque sia l'impostazione teorica del terapeuta. In secondo luogo, una dimensione importante da tenere presente nell'organizzazione della gerarchia della D.S. è il grado di controllo della donna sul processo della penetrazione (che siano dita o il pene). In generale le donne che soffrono di vaginismo non hanno solo paura delle dimensioni di quanto viene inserito in una cavità corporea, che esse percepiscono come troppo piccola per accoglierlo (evidenziando così anche delle distorsioni percettive e una notevole disinformazione di base, aspetti che vanno colmati e affrontati entrambi in terapia). Infatti, spesso è presente anche il timore di perdere il controllo sul processo della penetrazione, in quanto essa dipende dal partner. Tale aspetto deve essere inserito nella gerarchia della D.S., per cui all'inizio è la donna che inserisce le proprie dita in vagina, poi quelle del partner guidandole personalmente e infine lascia l'intero controllo a quest'ultimo che la penetra con le proprie dita. Anche a questo proposito si rileva come sia importante la collaborazione del partner. Questi due importanti elementi non sembra che siano stati presi in adeguata considerazione nel trattamento del caso, che per altri versi è stato pur correttamente condotto. Alcune difficoltà evidenziate nella narrazione del caso si sarebbero forse potute evitare, se questi elementi fossero stati presi in considerazione.

Per quanto riguarda, infine, l'interrogativo finale circa il modo in cui è possibile definire il trattamento condotto, ci sembra di potere affermare unicamente che questo è stato un valido intervento psicoterapeutico a carattere sessuologico: il terapeuta ha scelto la procedura terapeutica in questo campo più specifica ed efficace, l'ha inserita in un contesto terapeutico in cui è stata dedicata grande attenzione al rapporto fra lui e la paziente, ha saputo gestire con abilità un importante "test di sicurezza del terapeuta", ha introdotto le tecniche terapeutiche all'interno di una concettualizzazione del caso. Questa è buona psicoterapia in generale e basta. Non ritengo che badare al rapporto terapeutico, il sapere gestire un test di sicurezza, eccetera, costituiscano una caratteristica solo delle terapie psicoanalitiche o psicodinamiche in generale, mentre quelle comportamentali o cognitivo-comportamentali debbano essere considerate come procedure da tecnocrati, che non si occupano delle importanti componenti terapeutiche sopra elencate.

Questi aspetti, attualmente, vengono considerati con altrettanta attenzione dai terapeuti cognitivo-comportamentali, magari all'interno di una cornice teorica diversa, ma spesso con analoghe sensibilità e procedure terapeutiche tecniche; essi non si limitano semplicemente a usare paradigmi di decondizionamento o freddi interventi cognitivi a carattere informativo ed educativo. Le tecniche di estinzione (D.S. o esposizione graduata) sono molto spesso assolutamente necessarie in quanto eliminano dei legami associativi ormai automatizzati fra determinati stimoli e specifiche reazioni emotive, che non potrebbero essere risolti unicamente agendo a livello cognitivo, sulle rappresentazioni schematiche di sé e del mondo, che operano su vie del tutto diverse. Oltre a questi interventi, naturalmente, vengono elaborate delle ristrutturazioni cognitive (mirate agli elementi schematici, appunto) e a un'attenta gestione della relazione terapeuta-paziente. Ma tutti questi fondamentali elementi non sono appannaggio esclusivo di una forma di psicoterapia o dell'altra, ma sono, come si è già detto, solo psicoterapia buona e seria, fondata sulle evidenze. Questo, a nostro parere, è ciò di cui tutti noi dovremmo preoccuparci.

Tullio Carere, 29 Maggio 2002:

Cari amici, vorrei fare anch'io qualche osservazione sull'interessante caso presentato da Piero Porcelli. Comincio dalla questione che Piero si pone alla fine: che tipo di terapia ha fatto? E' un trattamento psicodinamico o cognitivo-comportamentale? Risponderei che non è né l'uno né l'altro, oppure entrambi, trattandosi in effetti di un bell'esempio di terapia eclettica. Cioè quel tipo di terapia in cui l'orientamento pragmatico prevale su quello teorico, dal momento che il terapeuta usa tutto quello che può servire senza preoccuparsi di coerenza e compatibilità. E' l'approccio che troviamo a un estremo della linea al cui altro estremo si trovano le terapie di scuola, in cui la pratica è completamente subordinata alla teoria. Entrambi gli approcci sono legittimi, ma entrambi hanno degli inconvenienti: eccessiva rigidità per le terapie scolastiche, con rischio di abuso teoretico (cioè imposizione al paziente di cose di cui non ha bisogno, mentre ne ha bisogno il terapeuta per sostenere la propria identità), rischio di confusione e incoerenza per le terapie eclettiche. In entrambi i casi il rimedio è l'integrazione, che ha caratteristiche diverse a seconda che parta dal polo teorico o da quello pragmatico.

L'integrazione che parte da una base teorica ha carattere assimilativo (parti di altre teorie sono assimilate sulla base teorica di partenza, che deve poco o tanto modificarsi per 'accomodare' i corpi estranei), mentre quella che parte da un approccio pragmatico, potendo muoversi liberamente tra molte teorie e tecniche senza vincolarsi ad alcuna, tende naturalmente all'approccio dei fattori comuni. La prima è un'integrazione teorica, come la seconda è metateorica (nel senso che si basa su fattori comuni a ogni terapia, indipendenti dall'approccio teorico prescelto dal terapeuta). Procedendo verso il centro della linea, i due approcci integrativi tendono a convergere verso quella che si può chiamare (che in ogni modo io chiamo) integrazione dialogico-dialettica, in cui la componente teorica e quella metateorica si bilanciano.

Ho trovato molto pertinenti le osservazioni di Gianni, secondo il quale Piero ha potuto applicare simultaneamente una tecnica comportamentale e una formulazione psicodinamica grazie al supporto concettuale fornito da due teorie: la control-mastery e quella dell'attaccamento. Queste osservazioni riecheggiano i punti su cui già eravamo d'accordo, cioè il fatto che ogni terapeuta, di qualsiasi persuasione, deve bilanciare due modalità basilari di relazione: la cooperazione paritetica e l'offerta di una base sicura. C'era intesa anche sul fatto che la cooperazione paritetica sia da intendere come un laboratorio in cui due "local scientists" formulano e passano al vaglio ogni sorta di ipotesi sulla natura dei problemi presentati e sui modi per risolverli. In questo laboratorio gli schemi disadattivi o i modelli operativi interni vengono portati alla luce e modificati grazie all'insight o a nuove esperienze che disconfermano le attese arcaiche.

La creazione dei due ambiti relazionali sopra indicati, il laboratorio scientifico e la base sicura, è l'obiettivo di due delle strategie cardinali di ogni psicoterapia, cioè di due fattori comuni metateorici. Trovo molto interessante il fatto che Gianni si riferisca a questi stessi fattori in una prospettiva teorica piuttosto che metateorica, cioè in riferimento alla control-mastery theory e alla teoria dell'attaccamento. La convergenza dell'approccio teorico e di quello metateorico nella definizione di queste due modalità cruciali di relazione mi sembra una conferma significativa di quanto osservato sopra, cioè della convergenza dei due movimenti integrativi, quello teorico e quello metateorico, in un'area centrale di integrazione dialogico-dialettica.

Ancora un paio di osservazioni. Il fatto che un intervento del terapeuta si collochi nell'una o nell'altra area (o in quali proporzioni nell'una o nell'altra, o in altre ancora) non dipende tanto dalle caratteristiche procedurali dell'intervento stesso, quanto piuttosto, come hanno notato sia Paolo che Gianni nei loro commenti, dalla sua qualità relazionale: un intervento comportamentale può valere ad esempio più come rassicurazione empatica che come proposta cooperativa, specialmente con una paziente come questa. Ma la qualità relazionale dipende sostanzialmente dal significato che il paziente attribuisce all'interazione, più che dalle sue caratteristiche oggettive o procedurali. Per questo motivo se volessi studiare più a fondo questo caso non mi servirebbe molto la videoregistrazione delle sedute (il punto di vista di un osservatore esterno, fondamentale per la ricerca che si propone di evidenziare dei fattori 'oggettivi', come procedure descrivibili e codificabili), ma mi servirebbe molto di più il commento scritto della paziente ad alcune sedute, in cui le chiederei di notare i passaggi per lei più significativi e i suoi vissuti relativi, da confrontare poi con il commento del terapeuta alle stesse sedute (confronto molto più utile per la ricerca sui fattori 'soggettivi', come sono quelli che per lo più contano in psicoterapia). A entrambi chiederei di siglare le interazioni più significative in funzione della loro collocazione nelle due aree in questione, ma non solo in queste.

Dirigerei infatti l'attenzione di entrambi i membri della coppia terapeutica sull'esistenza di altre due aree relazionali, corrispondenti ad altri due fattori comuni transteorici, entrambi presenti, a mio parere, nel resoconto di Piero. La prima di queste - la terza dopo le prime due - è l'area della responsabilizzazione (vertice paterno). Osserverei che la svolta decisiva in questa breve terapia è avvenuta dopo un intervento molto "fermo e risoluto" di Piero ("duro e risoluto" per la paziente: qui ci è noto anche il suo vissuto). Mi pare che questa donna abituata a comandare avesse bisogno di qualcuno che si mostrasse più fermo e risoluto di lei, qualcuno che la mettesse di fronte alla sua responsabilità (il poco tempo rimasto a disposizione) non per abbandonarla (Piero le aveva dato già molte prove di vicinanza empatica), ma per scuoterla dal suo atteggiamento negativo.

Infine, tutto il resoconto di questa terapia mi sembra percorso da interventi di Piero che collocherei nella quarta e ultima area, quella in cui il terapeuta incoraggia la paziente a rinunciare all'autocontrollo per abbandonarsi con fiducia al processo della terapia o della crescita (vertice O). C'è una differenza sostanziale tra l'area in cui il paziente si sente accolto, contenuto, rassicurato e validato (vertice materno), e quella in cui il terapeuta non fa niente di tutto questo, ma esprime o testimonia in vari modi la sua fiducia nella potenzialità autogenerativa e autorisanativa del processo ('vis medicatrix naturae'), incoraggiando implicitamente o esplicitamente la paziente a prendersi anche lei il rischio di affidarsi al 'non sapere'. Complimenti a Piero per questa terapia breve, ma 'a tutto campo'. Tullio Carere

Paolo Migone, 29 Maggio 2002:

Concordo sul fatto che il lavoro di Westen - citato da Tullio - è molto importante (sto peraltro dandomi da fare per pubblicarne una versione in italiano, tratta da un lavoro che mi diede nel febbraio del 2000 e che non pubblicò ma di cui sta preparando un'altra versione, più concettuale, che se tutto andrà bene uscirà su Psychological Bulletin). Ho l'impressione però che Tullio usi in modo strumentale il lavoro di Westen per sostenere le sue tesi sulla questione del rapporto tra ricerca euristica e ricerca "scientifica". Tullio qui infatti (come anche Westen e Fonagy) sfonda una porta aperta. Ma nel nostro dibattito precedente Tullio aveva una posizione che ritegno non sarebbe condivisa assolutamente da Westen o Fonagy. Da quello che io avevo capito, Tullio nella psicoterapia assegnava un ruolo a parte alla mistica (con pari dignità della "scienza occidentale"), mentre altra cosa è dire che ricerca euristica e sperimentale vanno viste in modo complementare, che è la posizione che abbiamo sempre sostenuto ad esempio io, Gianni, e Giorgio. In altre parole, il pregio del lavoro di Westen è di muovere una dura critica a un certo modo di concepire la ricerca sperimentale, soprattutto nel campo degli EST (gli Empirically Supported Treatments, che si basano sulla logica della Evidence Based Medicine - vedi il documento ufficiale della Chambless su Psicoterapia e scienze umane, 3/2001, e anche il documento della Chambless nel sito della SPR http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc.htm) usando però precisamente la stessa logica dei suoi avversari, cioè utilizzando la stessa strumentazione concettuale ed empirica della scienza "occidentale" (e per niente mistica!) di cui Westen peraltro è un fedele osservante e praticante. Attaccare e sconfiggere un nemico con le sue stesse armi ed argomentazioni, ma rivolgendogliele contro, è una vecchia tattica, molto efficace, perché non lascia scampo all'avversario (si veda anche quell'altro lavoro di Westen uscito sul JAPA nel 1999 che ho fatto pubblicare recentemente in italiano: "Lo status scientifico dei processi inconsci: Freud è davvero morto?", Psicoterapia e scienze umane, 2001, 4: 5-58). Se leggete attentamente i lavori di Westen, vedete ad esempio che ad ogni sua argomentazione lui affianca una ricerca empirica che la supporta. Quello che Westen e Fonagy, che sono entrambi attenti ricercatori empirici in psicoterapia, sostengono è che "certe" implicazioni e conclusioni che vengono tratte da "certa" ricerca empirica sono premature, affrettate e pericolose (e, aggiungerei io, servono ad un certo tipo di logica economica ed efficientista che ha il fiato corto), e che bisogna fare ricerca empirica ancora più approfondita e più seria (mai comunque "mistica", sono sicuro che direbbero). Westen alla fin fine dice cose di buon senso che tutti da sempre pensiamo, la differenza è che lui le argomenta con precisione e direi quasi con ossessività, supportando ogni affermazioni con dati empirici alla mano (e mai e poi mai con intuizioni mistiche), e soprattutto pubblicandole su riviste ad alto impact factor.

Il fulcro del discorso di Tullio invece era completamente diverso, e questo era il suo interesse per noi. Invece qui Tullio scivola su un altro piano, fa argomentazioni sui quali tutti concordiamo e abbiamo ben poco da dire, per cui non vorrei che si oscurasse l'importanza dei temi discussi del nostro dibattito precedente e si dimenticasse la nostra profonda divergenza, prima così vigorosamente sostenuta da Tullio. Quello che non ho capito è se questo slittamento del discorso implica che Tullio ora la pensa un po' diversamente oppure no. Paolo

Tullio Carere, 2 Giugno 2002:

At 10:17 +0200 29-05-02, Paolo Migone wrote:
>Ho l'impressione però che Tullio usi in modo strumentale il lavoro di Westen
>per sostenere le sue tesi sulla questione del rapporto tra ricerca euristica
>e ricerca "scientifica". Tullio qui infatti (come anche Westen e Fonagy)
>sfonda una porta aperta. Ma nel nostro dibattito precedente Tullio aveva una
>posizione che ritegno non sarebbe condivisa assolutamente da Westen o
>Fonagy. Da quello che io avevo capito, Tullio nella psicoterapia assegnava
>un ruolo a parte alla mistica (con pari dignità della "scienza
>occidentale"), mentre altra cosa è dire che ricerca euristica e sperimentale
>vanno viste in modo complementare, che è la posizione che abbiamo sempre
>sostenuto ad esempio io, Gianni, e Giorgio.

Caro Paolo, hai perfettamente ragione di ritenere che Westen o Fonagy non sarebbero d'accordo con certe mie posizioni. Io invece concordo con alcune delle cose che dicono loro, e che mi sembrano contribuire utilmente al dibattito in corso. Ma andiamo con ordine. Provo a chiarire alcuni punti.

1. Esistono due tipi di verità con cui lo psicoterapeuta deve confrontarsi nella sua pratica e nella sua ricerca: una è la verità "oggettiva", di competenza della scienza - cioè quella verità sempre parziale e provvisoria che si ricava passando al vaglio ogni sorta di ipotesi; l'altra è la verità "soggettiva", quella costruzione o esperienza del soggetto di cui si occupa l'ermeneutica - è la verità "dei poeti e dei mistici", diceva Gadamer. Il campo della psicoterapia è attualmente spaccato tra coloro che privilegiano un tipo di verità (i terapeuti scientifici) e coloro che privilegiano l'altra (gli ermeneutici). Io sostengo che questa spaccatura è superabile solo rinunciando a privilegiare l'oggetto a scapito del soggetto (o viceversa), o la scienza a scapito dell'ermeneutica (o viceversa), ma stabilendo una corretta relazione dialettica tra i due poli dell'asse della scoperta.

2. Sul fatto che entrambe le dimensioni della verità siano in gioco nella relazione terapeutica, non credo ci siano obiezioni. Come ha scritto Giorgio (10 marzo): "Chi non concorderebbe sul fatto che nel rapporto col paziente prevalgono processi che, personalmente, direi artistici, ma anche, perchè no, mistici, nel senso che ogni prassi è molto più complessa, circolare, multisemica, di ogni modello scientifico, che persegue, come è noto, la semplificazione?". Però, aggiungeva Giorgio, se vogliamo comunicare e intenderci tra di noi dobbiamo stare sul terreno scientifico. E che fine fanno, su questo terreno, i "processi artistici e mistici"? Nessun problema: servono a generare ipotesi, la cui validazione dovrà comunque sottomettersi alle procedure del metodo scientifico. Per l'ortodossia popperiana tuttora vigente nella ricerca empirica in psicoterapia, non ha nessuna importanza il modo in cui uno formula le ipotesi: può anche sognarsele di notte, come Kekulé. L'unica cosa che conta è che da queste ipotesi si traggano conseguenze verificabili o falsificabili tramite sperimentazione pubblica e ripetibile (metodo ipotetico-deduttivo).

3. Sergio Benvenuto ha osservato (24 maggio) che la teoria popperiana è stata falsificata, perché "ci vuole ben altro che falsificazioni perché una teoria venga liquidata": ciò che nella realtà del mondo scientifico accade è che una teoria, per quanto debole e mal corroborata, non viene abbandonata finché non si trova di meglio. Westen e Fonagy (mio intervento del 26 maggio) criticano severamente il modo in cui è stata condotta fino ad oggi la ricerca sperimentale in psicoterapia: una ricerca basata su una serie di assunti non adeguatamente testati, derivati dalla terapia cognitivo-comportamentale degli anni Settanta, e che quasi sempre conferma le convinzioni di chi progetta ed esegue le sperimentazioni. Entrambi propongono, per uscire dal vicolo cieco in cui la ricerca empirica si è cacciata, una rottura con la filosofia popperiana che ancora oggi guida la maggior parte della ricerca in psicoterapia. La pratica clinica non deve essere più semplicemente una sorgente di ipotesi da testare sperimentalmente: deve invece essere concepita come un "laboratorio naturale" da cui trarre non solo ipotesi ma vere e proprie evidenze. Le evidenze da ricercare sono dunque di ordine *correlazionale*, prima che sperimentale: quali tipi di strategie si correlano con quali tipi di pazienti nella terapia reale, prima che nella sperimentazione.

4. L'indicazione di Westen e Fonagy è certamente nella direzione giusta: nulla da obiettare, osserva Paolo. Direi che questa indicazione è necessaria, ma non ancora sufficiente. Non lo è perché se è vero che questi autori cercano di emancipare la ricerca in psicoterapia dall'eccesso di sperimentalismo che tuttora l'affligge, riportandola al suo luogo naturale - la clinica - è anche vero che restano entrambi ben ancorati alla "stessa strumentazione concettuale ed empirica della scienza 'occidentale'", come osserva giustamente Paolo. Ma perché anche questo ancoraggio deve essere superato? In primo luogo perché la scienza 'occidentale' lo ha già superato, ed è ora che anche la ricerca in psicoterapia ne prenda atto. Come ha fatto notare D. Stern (nel suo recente convegno milanese, vedi l'eccellente resoconto di Paolo del 21 aprile): "noi ora non aderiamo più a questo tipo di scienza, la nostra scienza è quella del XX (o XXI) secolo, dove non a caso si parla di fuzzy logic, di fuzzy physics, di chaos theory, di causalità circolare invece che lineare, e così via" - e non a caso Stern si riconosce di più in Husserl e Heidegger che in Bacone e Galileo. Soprattutto la scienza psicoterapeutica, direi, deve darsi una "strumentazione concettuale ed empirica" aggiornata e adeguata al suo oggetto, trattandosi di una scienza che studia processi di natura essenzialmente interattiva, difficilmente e impropriamente oggettivabili (oggettivabili solo a prezzo di riduzioni che rischiano di snaturarli).

5. L'equivoco di fondo, di cui nemmeno Westen e Fonagy mostrano di essere veramente consapevoli, è l'idea che gli "ingredienti attivi" della psicoterapia possano essere studiati isolatamente ('dismantled') e oggettivamente, secondo il modello della ricerca medica. Di qui la sfortunata insistenza sia sulla standardizzazione dei protocolli terapeutici, sia sulla videoregistrazione delle sedute, fattori entrambi di distorsione della naturalità del processo terapeutico. Proprio a questa occorre invece ritornare, superando quell'equivoco, dirigendo l'attenzione precisamente su quei fattori - i 'fattori comuni' - che emergono indipendentemente da e *nonostante* l'approccio specifico che il terapeuta dichiara di applicare, e che tutte le meta-analisi sull'esito delle psicoterapie indicano come ben più efficaci dei fattori specifici.

6. Ma i fattori comuni sono fattori relazionali, quei fattori che, come Westen lucidamente riconosce, sfuggono a qualsiasi standardizzazione perché non consistono in procedure attive in quanto tali, bensì nell'intreccio inestricabile tra ciò che il terapeuta crede di fare e il modo in cui il paziente interpreta ciò che il terapeuta fa. E come non può essere fissato in procedure standardizzate, questo intreccio non può nemmeno essere adeguatamente studiato da ricercatori esterni, che osservano la seduta da dietro uno specchio o su una videoregistrazione. Infatti, stabilito che il fattore cruciale non è il contenuto formale dell'interazione, ma il significato che le è attribuito dal paziente (oltre che dal terapeuta), è ben vero che anche un osservatore esterno può cercare di cogliere questo significato, ma ciò che riuscirà a cogliere sarà sempre e soltanto un dato di seconda mano, cioè l'interpretazione (dell'osservatore) di un'interpretazione (del paziente o del terapeuta). Recuperiamo i dati di prima mano di cui abbiamo bisogno se riportiamo la ricerca al suo ambito naturale, la clinica, e in particolare se dopo il primo passo compiuto da Westen e Fonagy (riconoscere nella situazione clinica una sorgente di evidenze, e non solo di ipotesi da testare sperimentalmente), compiamo il secondo e decisivo di restituire a terapeuta e paziente la competenza primaria della ricerca in psicoterapia, che la ricerca sperimentale pensata e condotta secondo il modello medico ha cercato di sottrargli.

7. Al tempo di Freud, e tuttora per la maggioranza degli psicoterapeuti, l'unica ricerca che contava e conta è quella euristica, basata sull'osservazione di ciò che accade nella relazione terapeutica, quindi di tipo essenzialmente ipotetico-induttivo. La ricerca sperimentale infatti (ipotetico-deduttiva) ha prodotto finora risultati così modesti, e di così bassa validità esterna, che la maggior parte dei terapeuti (esclusi quelli del campo cognitivo-comportamentale) sostanzialmente li ignora, continuando quindi a basarsi, oggi come al tempo di Freud, sulle evidenze di ordine euristico. Io stesso continuo a considerare la ricerca euristica ancor oggi più affidabile per la psicoterapia di quella sperimentale, pur riconoscendo che qualcosa deve essere fatto per superare la dicotomia tra i due tipi di ricerca. Rifiuto la sottomissione dell'euristica alla sperimentale implicita nella filosofia popperiana che considera la ricerca euristica come null'altro che una sorgente di ipotesi da sottoporre al vaglio sperimentale, senza per questo affermare che si debba semplicemente ritornare a fare della "buona ricerca euristica". Mi sembra che la via d'uscita da questa contrapposizione sterile sia in direzione della ricerca correlazionale, che studia la psicoterapia reale sul campo e non in laboratorio, bilanciando modalità induttive e deduttive e rinunciando a strumenti invasivi e causa di distorsione come la standardizzazione manualistica e la registrazione delle sedute. In questo modo, per concludere riprendendo il tema del primo punto, anche la componente ermeneutica della terapia può essere studiata non solo come fonte di ipotesi, ma anche come fattore terapeutico a sé stante: quella modalità di interazione terapeutica che si sviluppa in un vertice particolare della relazione (che io chiamo 'vertice O').

>Quello che non ho capito è se questo slittamento del discorso
>implica che Tullio ora la pensa un po' diversamente oppure no.

Sì, la penso un po' diversamente, anche se non mi pare di aver compiuto "viraggi". All'inizio delle nostre discussioni io mi contrapponevo all'egemonia della ricerca sperimentale in nome della ricerca euristica, non senza un po' di disagio che mi veniva dalla sensazione di condurre una battaglia un po' retrò. Ora mi sono convertito alla ricerca correlazionale, senza per questo negare valore alle altre due modalità di ricerca, e mi sento decisamente meglio. Spero che questo faccia bene anche ai nostri rapporti, ma per il momento non ne sono troppo sicuro. Tullio

Giovanni Liotti, 03 Giugno 2002:

Caro Tullio, anche stando alla finestra rispetto alla discussione in corso nell'agorà della SEPI, e avendo deciso di non scendere per un poco (o per molto) in piazza, colgo l'occasione offerta dal tuo ultimo scambio con Paolo per fare altre quattro chiacchiere (si può chiacchierare anche dalla finestra, no?).

Molte tue riflessioni sulla ricerca in psicoterapia sono condivisibili: così come è stata praticata finora negli outcome studies, è piena di limiti e di difetti. Agli studi di efficacia prodotti fino ad oggi, si può riconoscere il merito di aver sollevato un problema, dimostrando che è necessario sottoporre a vaglio empirico pubblico l'efficacia delle nostre procedure cliniche, non certo il merito di averlo risolto. Il sentiero, non praticato per decenni dagli psicoterapeuti, ora grazie alla prospettiva cognitivo-comportamentale è stato aperto, e ben vengano allora critiche e studi come quelli tuoi, di Fonagy e di Westen (concordo però con Paolo nel trovare un poco forzato, forse addirittura distorto, il tuo modo di presentare il senso del pensiero di Fonagy e di Westen). E va benissimo cercare alternative, nel tuo progetto di ricerca, alle videoregistrazioni delle sedute (molti possono lavorare con appositi questionari).

Però il tuo ribadire che esistono tipi diversi di ricerca sulla psicoterapia sembra sempre limitarsi alle tue riflessioni, che in parte comprendo e condivido e in parte no, appunto sugli outcome studies. Trovo difficile capire come mai non ti soffermi mai sugli studi di processo (io conosco solo quelli che hanno condotto alla Control-Mastery Theory ma so che ce ne sono altri), o sull'importanza dei risultati di altri paradigmi di ricerca sperimentale per la psicoterapia. Penso ovviamente alla teoria ed alla ricerca sull'attaccamento, che conosco bene, ma anche ad altri ambiti: alla ricerca sui processi cognitivo-emotivi impliciti rispetto alla conoscenza esplicita (semantica ed episodica), alla ricerca sulla memoria, ai contributi delle neuroscienze sulla regolazione delle emozioni e sulla cocienza, alla psicologia evoluzionista che si occupa di evoluzione delle interazioni sociali nei mammiferi e nei primati, e così via.

Ho provato più volte, nel corso del nostro dibattito pre-congressuale, a dichiarare che l'ambito degli outcome studies, pur importante, NON è il più interessante per chi si occupa di rapporti fra psicoterapia e ricerca scientifica di base. Enormemente più interessanti sono gli studi di processo, la developmental psychopathology ed i rapporti con la psicologia sperimentale e le neuroscienze.

Non so se sarebbe per te possibile argomentare come continui a fare, se considerassi questo aspetto del problema dei rapporti fra psicoterapia e ricerca empirica controllata. Potresti parlare di ricerca "euristica" o "correlazionale" se contemplassi il vasto panorama di studi controllati che ancora con questa mail mi ostino a riproporre alla tua attenzione? Potresti citare un esempio di ricerca euristica o correlazionale, che so, nell'ambito della ricerca di base sui rapporti fra conoscenza esplicita ed implicita, o sulla working memory, o sul recupero di ricordi, o sul sogno, o sulle condizioni relazionali che precedono l'insight in psicoterapia, o sulle relazioni di attaccamento, o sulla Teoria della Mente, etc. etc.?

Naturalmente, è legittimo sostenere esplicitamente che tutti questi ambiti di ricerca sono irrilevanti per lo psicoterapeuta, o che si occupano in maniera infondata e semplicistica di problemi ipercomplessi, o che la psicoterapia deve salvaguardare la fede nell'indicibile e dunque sdegnare ogni tentativo di definizione operativa dei problemi, o che l'ermeneutica, intesa come dottrina irriducibile al vaglio della sperimentazione, è infinitamente più importante per lo psicoterapeuta della biologia e della comprensione di come lavora il cervello nell'elaborare l'informazione affettiva e relazionale. Io sostengo il contrario, e dopo aver riconosciuto che tutti procediamo nella conoscenza con una "gamba" olista ed una "gamba" riduzionista per comprendere noi stessi ed il mondo, affermo che preferisco fra le due la seconda (dovendo, se proprio fosse necessario, saltellare su una gamba sola, preferirei quella riduzionista). Però di fronte a chi preferisse la gamba olista, o addirittura volesse usare solo quella pur avendo a disposizione la seconda (ricordo bene che hai dichiarato di non essere fra questi), non potrei che dire "ognuno della sua opinione, e amici come prima".

Se però non si fa una esplicita dichiarazione di rifiuto, per quanto riguarda il lavoro psicoterapeutico, degli apporti della ricerca scientifica di base nei settori che ho elencato, allora dovrebbe essre importante commisurare le proprie teorie psicoterapeutiche con i risultati di quella ricerca. Se, non avendo dichiarato un tale rifiuto, si parla da psicoterapeuti di relazione umana, o di attività mentale inconscia, o di distorsione del ricordo (per fare alcuni esempi), è importante confrontare le proprie teorie psicoterapeutiche, nate nell'esercizio della clinica, con i risultati attualmente acquisiti della ricerca di base. Se le nostre teorie appaiono incompatibili con i risultati della ricerca, dovremmo quanto meno dubitare del loro valore. Invece mi pare che da parte di molti psicoterapeuti si mantenga la tradizionale tendenza a dubitare del valore della ricerca, suggerendo ad esempio (mi pare di avere colto questa suggestione qua e là nelle discussioni di questa minilista) che i fondamenti della ricerca empirica sono filosoficamente dubbi, che è essenzialmente tutta una questione di moda, che la più raffinata epistemologia dimostra inequivocabilmente come la maggioranza degli scienziati si tenga care teorie che fanno acqua dato che non trovano di meglio, che quelle che non fanno acqua non sono teorie o congetture ma altri oggetti del magazzino dell'epistemologia, e che tanto vale allora tenersi le teorie che la ricerca ingenuamente crede di aver confutato (e sostituito con congetture migliori): in fondo tutto è stato autorevolmente confutato, anche il principio stesso della confutazione scientifica delle umane congetture in quanto si tratta di un principio inconfutabile, no? Ma qui mi fermo, perché altrimenti tornerei a parlare di quel famoso tema che ho dichiarato di non voler più trattare. Fine delle quattro chiacchiere dalla finestra, che non richiedono risposta. A presto. Gianni

Tullio Carere, 7 Giugno 2002:

At 1:36 +0200 3-06-02, Giovanni Liotti wrote:
>Caro Tullio, anche stando alla finestra rispetto alla discussione in corso nell'agorà della
>SEPI, e avendo deciso di non scendere per un poco (o per molto) in piazza,
>colgo l'occasione offerta dal tuo ultimo scambio con Paolo per fare altre
>quattro chiacchiere (si può chiacchierare anche dalla finestra, no?).
Caro Gianni, ci contavo proprio, che ti affacciassi alla finestra.
>Molte tue riflessioni sulla ricerca in psicoterapia sono condivisibili: così
>come è stata praticata finora negli outcome studies, è piena di limiti e di
>difetti. Agli studi di efficacia prodotti fino ad oggi, si può riconoscere il
>merito di aver sollevato un problema, dimostrando che è necessario sottoporre a
>vaglio empirico pubblico l'efficacia delle nostre procedure cliniche, non certo
>il merito di averlo risolto. Il sentiero, non praticato per decenni dagli
>psicoterapeuti, ora grazie alla prospettiva cognitivo-comportamentale è stato
>aperto, e ben vengano allora critiche e studi come quelli tuoi, di Fonagy e di
>Westen (concordo però con Paolo nel trovare un poco forzato, forse addirittura
>distorto, il tuo modo di presentare il senso del pensiero di Fonagy e di Westen).

Se avessi voluto presentare "il senso (complessivo) del pensiero di Fonagy e di Westen", certamente l'immagine che ne ho dato sarebbe parziale, forzata, magari anche distorta. La mia intenzione non era però questa, bensì quella di estrarre, dal pensiero di questi autori, un filone che mi sembra rilevante per il superamento dell'enfasi sulla ricerca sperimentale a favore di quella correlazionale. L'ho fatto con l'avvertenza che il "senso generale" del loro pensiero è ancora ben ancorato alla "strumentazione concettuale ed empirica del pensiero 'occidentale'" (cioè alla scienza galileiana), come ha giustamente rilevato Paolo. Fatta salva questa cornice, non mi sembra una forzatura sottolineare un aspetto del loro lavoro che promuove il passaggio a un tipo di ricerca a mio avviso più appropriato alla nostra materia.

>E va benissimo cercare alternative, nel tuo progetto di ricerca, alle
>videoregistrazioni delle sedute (molti possono lavorare con appositi questionari).
>Però il tuo ribadire che esistono tipi diversi di ricerca sulla psicoterapia
>sembra sempre limitarsi alle tue riflessioni, che in parte comprendo e condivido
>e in parte no, appunto sugli outcome studies. Trovo difficile capire come mai
>non ti soffermi mai sugli studi di processo (io conosco solo quelli che hanno
>condotto alla Control-Mastery Theory ma so che ce ne sono altri), o
>sull'importanza dei risultati di altri paradigmi di ricerca sperimentale per la
>psicoterapia. Penso ovviamente alla teoria ed alla ricerca sull'attaccamento,
>che conosco bene, ma anche ad altri ambiti

Nel commento al caso di vaginismo che abbiamo discusso recentemente in questa sede riprendevo precisamente queste due teorie che tu spesso citi, e che anch'io trovo di grande interesse perché illuminano da un punto di vista teorico quelle stesse aree che, come 'fattori comuni', sono state studiate in una prospettiva metateorica. Uso l'aggettivo 'metateorico' in un'accezione sostanzialmente equivalente a 'precategoriale' in Husserl. Come sai, per Husserl il declino della civiltà europea (cioè occidentale) era legato a, e manifestato da, il trionfo della scienza galileiana, oggettivistica e oggettivante, che (a suo parere) trasforma l'uomo in cosa. Una delle espressioni di questa scienza più combattute da Husserl era la psicologia sperimentale, cui contrapponeva un progetto di psicologia fenomenologica: una psicologia 'basata sull'evidenza' come l'altra, ma su un altro genere di evidenza. Mentre per la psicologia sperimentale, come per tutte le scienze di ispirazione galileiana, le evidenze sono quelle cui si perviene sottoponendo ogni sorta di ipotesi al vaglio dell'esperimento, per la psicologia fenomenologica le evidenze sono quelle che si presentano nell'esperienza vissuta (Erlebnis) che si sottopone alla disciplina dell'epoché, cioè alla sospensione di ogni giudizio e teoria (per questo motivo le evidenze così ottenute sono dette precategoriali o metateoriche). In altre parole, il reale si dà a conoscere nella psicologia sperimentale per la via dell'oggetto, e nella psicologia fenomenologica per la via del soggetto. Nella prospettiva dell'integrazione psicoterapeutica le due vie corrispondono rispettivamente all'integrazione teorica e all'approccio dei fattori comuni.

Tra le due, non c'è dubbio, la mia preferenza va alla psicologia fenomenologica, come altrettanto indubbiamente la tua va a quella sperimentale. Però, mentre tra i due campi c'è generalmente incomprensione e denigrazione reciproca (per Husserl la scienza galileiana è oggettivante e alienante, mentre per gli scienziati galileiani la fenomenologia semplicemente non è scienza, e le sue cosiddette evidenze sono tutt'al più ipotesi da sottoporre a esperimento), per me entrambe le psicologie sono necessarie e hanno bisogno l'una dell'altra, mentre nessuno ha bisogno delle pretese di egemonia dell'una sull'altra (il fatto che io sia più attratto dalle donne che dagli uomini non mi porta a teorizzare la superiorità delle une sugli altri). Quando mi rimproveri (bonariamente) che "il tuo ribadire che esistono tipi diversi di ricerca sulla psicoterapia sembra sempre limitarsi alle tue riflessioni", tu stesso ribadisci la tua ferma convinzione che esista un solo tipo di scienza (quella galileiana), come hai spesso affermato, e non consideri che proprio la riflessione è lo strumento basilare della psicologia fenomenologica: è nella riflessione che la ricerca fenomenologica prende a oggetto le datità originarie, cioè il senso essenziale delle cose come si manifesta alla coscienza che "ha occhi per vedere", nella misura in cui supera il condizionamento dei giudizi e delle teorie.

Dal campo galileiano naturalmente si obietta che tale superamento è illusorio, che dalla rete di giudizi e teorie non si può uscire se non, sia pure parzialmente, trasformando gli uni e le altre in ipotesi che l'esperimento potrà corroborare o confutare. Ma la stessa idea che la ricerca empirica abbia il potere di liberare il ricercatore dai suoi pregiudizi sembra piuttosto illusoria, come ha mostrato Westen nel lavoro che ho citato (i pregiudizi teorici del ricercatore empirico sono confermati nel 90% dei casi), e come hanno mostrato, per la ricerca di base, Rosenthal e coll. in centinaia di studi: lo sperimentatore trova di regola quello che si aspetta di trovare. La validità epistemologica delle evidenze empiriche non sembra dunque discostarsi in modo significativo da quella delle evidenze semplicemente euristiche (se intendiamo "euristico" come genericamente osservazionale). Ma all'interno del campo euristico la ricerca fenomenologica ha una posizione privilegiata, perché il fenomenologo non si limita a osservare, bensì dedica il massimo dell'attenzione e dell'impegno alla neutralizzazione delle aspettative teoriche che condizionano e inquinano allo stesso modo tanto la ricerca semplicemente osservazionale (ma non fenomenologica) quanto la ricerca empirica.

La ricerca empirica andrebbe dunque ampiamente smitizzata, ma certo non abolita. Come ti ho detto, considero molto utile e foriera di un'integrazione matura (cioè dialogico-dialettica) la convergenza di ricerche teoriche e metateoriche (fenomenologiche). Prendi il caso della teoria dell'attaccamento, che ti è molto cara. E' cara anche a me a motivo della convergenza di cui sopra, e non perché ne abbia mai sentito il bisogno per sostenere la mia ricerca sui fattori comuni, che sta in piedi benissimo da sola. Che in qualsiasi psicoterapia, di qualsiasi orientamento, sia necessario creare un ambito di relazione sicura, in cui il paziente si senta accolto, rassicurato, protetto, capito, validato, è precisamente una delle 'datità originarie', una delle strutture essenziali dell'esperienza che sono oggetto della ricerca fenomenologica. E' stato chiamato base sicura, relazione empatica, alleanza terapeutica, e in altri modi ancora, che alludono tutti allo stesso fenomeno di base.

La teoria dell'attaccamento non aggiunge né toglie nulla a quanto mi è già chiaro per via metateorica, così come probabilmente il mio "vertice materno" non aggiunge né toglie nulla alla tua teoria dell'attaccamento. Ma entrambi siamo messi di fronte al fatto che ci occupiamo della stessa cosa, cui siamo giunti per vie diverse e che osserviamo da angolature differenti. Se ora rinunciamo a far valere la supremazia dei rispettivi approcci e riconosciamo che il costrutto teorico/metateorico "relazione di attaccamento sicuro/vertice materno" è un fattore cruciale in ogni psicoterapia, possiamo procedere identificando in primo luogo gli altri costrutti teorico/metateorici che costituiscono i fattori chiave di ogni psicoterapia, e in secondo luogo progettando delle ricerche correlazionali (teorico/metateoriche, induttivo/deduttive) per studiare il modo in cui questi diversi fattori si correlano nei vissuti del paziente e del terapeuta e rispetto all'outcome nella pratica psicoterapeutica reale.

In questo modo potremmo gettare un ponte tra i due schieramenti che si dividono il campo della scienza (ricerca empirica/ricerca euristica), e successivamente persino un ponte tra gli altri due schieramenti, ancora più fieramente contrapposti - scienza/ermeneutica - nel momento in cui saremo in grado di identificare, tra i diversi fattori teorici/metateorici, quello corrispondente all'attività ermeneutica (artistica o mistica) del terapeuta. La mia domanda a questo punto è: perché insistere nel voler affermare il primato della teoria sulla metateoria, o viceversa (cosa che non fa che allargare il fossato tra gli schieramenti) quando è possibile collaborare a un'impresa comune? Un caro saluto dall'agorà, che spero vorrai continuare a frequentare, anche dalla finestra. Tullio

P.S.: Spero anche che avrai trovato in quanto precede una risposta implicita alle questioni che poni. Nel dubbio, la rendo più esplicita:
>Ho provato più volte, nel corso del nostro dibattito pre-congressuale, a
>dichiarare che l'ambito degli outcome studies, pur importante, NON è il più
>interessante per chi si occupa di rapporti fra psicoterapia e ricerca scientifica di base.

Certo, una volta stabilito che la psicoterapia deve avere un legame privilegiato con la ricerca scientifica di base, occuparsi di questo legame in via prioritaria è una tautologia. Il fatto è che nessuno nega l'importanza di questo legame, ma non tutti (anzi, nemmeno la maggioranza degli psicoterapeuti) lo considerano "il più interessante". Sull'ultimo numero del JAPA c'è un doppio articolo di Westen & Gabbard, intitolato "Cognitive neuroscience & conflict", e "Cognitive neuroscience & transference". Nonostante il tema non sia al centro dei miei interessi, ti assicuro che appena ho un momento lo divoro (dandogli la precedenza su "Mysticism & psychoanalysis: The case of Marion Milner", nell'ultimo numero dell'Int. Journal of Psychoanal. che non sono ancora riuscito a leggere).

>Potresti citare un esempio di ricerca euristica o correlazionale,
>che so, nell'ambito della ricerca di base sui rapporti fra conoscenza esplicita ed implicita,
>o sulla working memory, o sul recupero di ricordi, o sul sogno, o sulle condizioni relazionali che
>precedono l'insight in psicoterapia, o sulle relazioni di attaccamento, o sulla Teoria della Mente, etc.?

Tutta la ricerca psicoanalitica, per come è stata condotta tradizionalmente, è un esempio di ricerca euristica sui temi da te elencati. Per esempio il rapporto tra conoscenza esplicita ed implicita è studiato in psicoanalisi come rapporto tra coscienza e inconscio (o preconscio), e così via. Per quanto riguarda la ricerca correlazionale (come la intendo e come l'ho descritta sopra), così su due piedi posso tracciarti un progetto su uno dei temi da te elencati. La teoria psicoanalitica classica afferma che l'insight consegue al "superamento delle resistenze ottenuto per gli interventi (prevalentemente interpretazioni) dello psicoanalista", come ricordi nel tuo intervento al congresso SEPI-Italia. La ricerca euristica (per esempio quella di Wachtel) ha stabilito che l'insight può essere conseguenza di diversi comportamenti del terapeuta diversi dall'interpretazione. Una ricerca correlazionale potrebbe rilevare l'esistenza di un legame significativo tra insight e vissuti precedenti del paziente di diverso tipo, dall'essersi sentiti compresi, all'essere stati confrontati con una resistenza, all'aver eseguito un compito o all'aver ricevuto una interpretazione. A differenza della ricerca empirica, sottolineo che il dato decisivo non è il rapporto tra insight ed eventi relazionali precedenti (che includono le procedure applicate), come rilevabili da un ricercatore esterno sulla registrazione della seduta (metodo applicato ad esempio dal San Francisco Psychotherapy Research Group), ma il rapporto tra insight e *vissuti* precedenti, dipendenti dall'interpretazione che il paziente dà degli eventi interazionali, e non valutabili da un ricercatore esterno sulla base dell'osservazione di quegli eventi: come è, se non erro, l'ideale della ricerca empirica comunemente intesa (la videoregistrazione, mi diceva Franz Caspar a San Francisco, è ormai un must della ricerca - ovviamente empirica).

Giovanni Liotti, 10 Giugno 2002:

Caro Tullio, grazie per le quattro chiacchiere "tra la finestra e la piazza". Rispondo solo ad un punto, che mi pare offrire occasione di altre chiacchiere interessanti (almeno per noi due, e finché il tempo ce lo permette). Interessanti, ma non troppo coerenti né sintetiche come sarebbe opportuno, anzi proprio lunghe chiacchiere in libertà. Lo dico subito, così potete saltare la lettura di tutto quel che segue, e cancellare subito questa mail. Dunque, tu scrivi:
> Ma la stessa idea che la
> ricerca empirica abbia il potere di liberare il ricercatore dai suoi
> pregiudizi sembra piuttosto illusoria, come ha mostrato Westen nel lavoro
> che ho citato (i pregiudizi teorici del ricercatore empirico sono
> confermati nel 90% dei casi), e come hanno mostrato, per la ricerca di base, Rosenthal
> e coll. in centinaia di studi: lo sperimentatore trova di regola quello che si aspetta di trovare.

Concordo a gran voce, ovviamente. E voglio, in riconoscimento dell'importanza del trovarci d'accordo, su questo tema offrirti qualche vetusta citazione. Oltre mezzo secolo fa -- ben prima dunque che venisse corroborata dalle ricerche empiriche che citi (Westen, Rosenthal e altri) -- la dottrina che la ricerca empirica non possa liberare il ricercatore dai suoi pregiudizi era stata enunciata ed elaborata ampiamente.

"Il punto di vista che l'obiettività scientifica dipenda dall'atteggiamento mentale e psicologico di singoli scienziati, dalla loro preparazione, dalla loro precisione e dalla loro imparzialità scientifica" -- scriveva negli anni Quaranta del trascorso secolo un noto Pensatore -- va decisamente qualificato come ingenuo: " ... l'ingenuo punto di vista che l'obiettività dipende dalla psicologia dei singoli scienziati". Il Nostro aggiungeva: "un argomento di scienze naturali, per quanto arido e remoto, non impedisce allo spirito di parte e a considerazioni egoiste di influire sulle opinioni dei singoli scienziati... (per cui)... se dovessimo contare sulla loro imparzialità, la scienza, perfino quella naturale, sarebbe del tutto impossibile".

Figuriamoci quando si tratta di scienza psicologica, se questo è il destino inevitabile delle scienze naturali, che cioè i pregiudizi del singolo scienziato DI REGOLA influiscono sulle sue ricerche e sul loro esito (in genere favorevole ai suddetti pregiudizi). E' davvero notevole che le ricerche empiriche da te citate suffraghino, a distanza di tanti anni, questa venerabile dottrina, che cioè il ricercatore empirico (e di certo anche quello euristico) tende inevitabilmente a trovare conferme a ciò che crede vero: come tu scrivi "trova di regola ciò che si aspettava di trovare". E' bello per me trovare delle regole così ampiamente corroborate dalla ricerca empirica: nel 90% dei casi, come giustamente rilevi citando Westen. Un risultato empirico davvero solido a suffragare la congettura che noi umani ci troviamo a confermare continuamente ciò che soggettivamente (emotivamente e razionalmente) crediamo vero, e che l'esercitare la professione di ricercatore empirico non può guarire nessuno da questa tendenza.

Una tale convalida (al 90%!) della congettura in questione ("la ricerca empirica non libera il ricercatore dalla sua soggettività colma di pregiudizi") può giustificare l'ulteriore esame del pensiero del suddetto Autore, che sosteneva questa idea negli anni Quaranta del trascorso secolo. Eccone un altro stralcio, dunque: per il Nostro, la scienza ha un carattere non solo individuale, ma anche sociale (quello su cui poi Kuhn si è tanto soffermato, facendo notare che esistono mode sui tipi di problemi che di volta in volta, negli anni, vengono posti al centro dell'attenzione dei ricercatori, come Benvenuto ci ha poi efficacemente ricordato). Questo carattere sociale della scienza porta alla produzione di ricerche che, mentre (col 90% delle probabilità, come tu noti) confermano le aspettative dello scienziato A che le ha prodotte, possono a volte confutare i risultati delle ricerche dello scienziato B (i quali altrettanto ovviamente confermavano le aspettative di B stesso). Così, nella comunità degli scienziati, si confrontano le ricerche empiriche di A (che confermano la sua amata congettura X) e di B (che confermano la sua altrettanto amata ed opposta teoria Y). A questo punto, cosa succede?

Secondo alcuni, una delle due teorie rivali vince perché si accumulano le prove a suo favore, ottenute da ricercatori terzi rispetto ad A e B (i Dottori C, D, E, etc.) mentre nessuno riesce più a corroborare la teoria del rivale. Così, pian piano, nei secoli, in medicina, le teoria del flogisto è stata abbandonata, e da secoli sembra che nessuno la rimpianga. Così da un secolo è stata abbandonata in Fisica, pare per ora con beneficio di tutti, la teoria dell'Etere (a partire dal famoso esperimento di Michelson e Morley, esperimento ormai ultracentenario, se non ricordo male da dove partì Einstein). Così pare che sia destinata a scomparire, in psicologia, la congettura della censura onirica, o quella che l'attaccamento alla madre esprima un bisogno secondario e non una tendenza primaria ed innata, o quella che l'insight segue all'angoscia legata al "ritorno del rimosso" . La posizione del Nostro Autore, che nel 1944-1945 (la traduzione italiana è del 1952, mi pare) scriveva quel che ho sopra riportato, è appunto questa, che nel tempo il carattere pubblico della Scienza.

Secondo altri invece, che col Nostro Autore discordano, una delle teorie vince solo perché i sostenitori delle teorie rivali muoiono (di vecchiaia e malattia: non è che vengano impriginati messi a tacere o peggio uccisi dai loro antagonisti, questo di solito gli scienziati non lo fanno). Per questo, nonostante le ripetute falsificazioni di moltissimi suoi aspetti (censura onirica, rapporto fra insight ed angoscia da "ritorno del rimosso", fondamenti del complesso edipico nella tendenza "naturale" all'incesto che invece non solo non è naturale, ma esiste un evidente e dimostrabile ostacolo INNATO ad esso, etc. etc.) la megateoria di Sigmund Freud resiste stabile. Come (mi sembra di capire) argomenta Benvenuto, la megateoria di Freud è falsificata, sì, ma che vuol dire, tanto sono falsificate TUTTE le altre teorie/ipotesi/congetture scientifiche, dunque la magateoria di Freud non è abbandonata perché non c'è niente di meglio, anzi è stata sviluppata vitalmente dai modesti aggiustamenti resisi necessari via via per cui fiorisce più vigorosa che mai, e insomma nessuno la abbandona, è ancora Kuhnianamente di "moda" come sono ancora di moda tante megateorie scientifiche falsificate. Certo non è chiaro come mai gli scienziati più giovani non continuino a sostenere la teoria perdente dopo la morte dei suoi vecchi sostenitori, se non attribuendo il successo di quella vincente ad influenze della Società che, mutando, plasma la mente dei giovani in accordo con i suoi mutamenti (abbiamo tutti attraversato il '68, abbiamo tutti sentito parlare di rapporti di produzione rispetto alle teorie mediche, per cui -- mi pare che si possa dedurre da questa dottrina -- se un giorno una società ne traesse beneficio economico o politico, spingerebbe i giovani ricercatori persino a confutare la teoria microbica nelle trasmissione delle malattie che oggi chiamiamo infettive). Il motivo per cui oggi non abbiamo più fra noi la teoria del flogisto in Medicina o quella dell'etere in Fisica, secondo la dottrina dei rivali del Nostro innominato, non è che sono state efficacemente (e FORSE per sempre) confutate empiricamente, ma solo la morte dei sostenitori di quelle teorie, seguita da un contesto sociale che ha spinto i ricercatori delle generazioni successive a non trovarle attraenti. Cosa poi induca la società a favorire prima una teoria scientifica, e in un'epoca successiva un'altra, cosa faccia cambiare così le mode sociali: questo, dopo la crisi del comunismo che ha trascinato con sé la crisi del marxismo, è un bel problema da risolvere (ma ammetto, io ignorante di epistemologia, che sia stato brillantemente risolto specie nelle Università americane che adorano il pensiero di Kuhn e giustamente guardano con benevolo disprezzo alle venerabili anticaglie europee).

Vediamo adesso insieme quello che tu scrivi più avanti:
> La validità epistemologica delle
> evidenze empiriche non sembra dunque discostarsi in modo significativo da
> quella delle evidenze semplicemente euristiche (se intendiamo "euristico"
> come genericamente osservazionale). Ma all'interno del campo euristico la
> ricerca fenomenologica ha una posizione privilegiata, perché il
> fenomenologo non si limita a osservare, bensì dedica il massimo
> dell'attenzione e dell'impegno alla neutralizzazione delle aspettative
> teoriche che condizionano e inquinano allo stesso modo tanto la ricerca
> semplicemente osservazionale (ma non fenomenologica) quanto la ricerca empirica.

Dunque, la soluzione del problema secondo te sta nella fenomenologia. E' qui che ti discosti dal Pensatore dello scorso secolo, del quale ho sopra citato alcune frasi, per il quale invece nemmeno, ahimè, la fenomenologia ci salva da condizionamenti ed inquinamenti legati ai pregiudizi ed alle aspettative teoriche dei SINGOLI, ma solo l'effetto congiunto di:

(1) SECOLI, se occorre, di lotte a suon di confutazioni empiriche (non di altre prove di potenza);
(2) CARATTERE PUBBLICO di queste confutazioni.

Dunque solo il carattere pubblico (cioè COLLETTIVO) e lo sforzo SECOLARE di generazioni di ricercatori -- ciascuno preso da solo incapace di obiettività, cioè ciascuno individualmente capace di produrre soltanto risultati "biased" dai propri pregiudizi -- può offrirci almeno una parvenza di oggettivo progresso, di oggettiva crescita di una parte delle nostre conoscenze (l'altra parte, importantissima, quella artistica-mistica religiosa, non cresce né diminuisce, secondo il Nostro: è lì, per così dire eternamente stabile, come il Primo Motore Immobile di Aristotele).

Ovviamente, il Pensatore da antiquariato venerabile di cui sto parlando senza farne il nome, (e non lo faccio perché devo pure tentare almeno in parte di tenere fede ad una promessa fatta, anche se come si vede mi è quasi impossibile), aveva i suoi motivi per non concordare con la tua tesi, che la fenomenologia ci rende obiettivi (così come non concordava con la tesi storicista che le teorie vincenti sono in ultima analisi frutto di pressioni sociali e della morte dei sostenitori delle teorie che scompaiono dalla scena).

Personalmente, mi sembra che i suoi motivi fossero più convincenti di quelli di Husserl, o di quelli di Kuhn (si vede che non frequento abbastanza la cultura epistemologica statunitense, né l'opera filosofica insigne a cui la Presidenza del Senato ha momentaneamente sottratto il Secondo Cittadino della nostra Repubblica). Ma questo lo sai e non importa, come non importa che tu tenga per buono il contrario. Si tratta di nostre preferenze, e valle a dimostrare come preferibili l'una all'altra o ad eventuali alternative. Quello che importa mi sembra altro, e tanto vale, visto che qui stiamo facendo quattro chiacchiere in libertà, che lo dica esplicitamente, senza quasi "consecutio" con quanto finora discusso: quello che importa è che non possiamo evitare di confrontarci con un problema davvero molto serio, quando si parla di integrazione delle psicoterapie. E' il problema posto dal destino futuro del sistema di pensiero creato da Sigmund Freud. Questo sistema teorico prodotto da una sola mente (non la psicoanalisi come insieme composito di teorie più limitate, in contrasto spesso fra loro, ma ovviamente connesse all'acquisizione di una enorme ricchezza di conoscenze cliniche), il SISTEMA teorico di Freud, dicevo, non la psicoanalisi intesa come complessa istituzione sociale e clinica, è stato ripetutamente confutato dalle ricerche empiriche, e non ha ancora dato prova né euristica né empirica di superiore efficienza come metodo di cura. Un modo di salvare il sistema teorico di Freud, cui tanti sono comprensibilmente tanto legati, è evidentemente confutare il metodo di confutazione, che altrimenti renderebbe il suddetto sistema decisamente obsoleto.

Credo che fino a che non sputiamo questo tipo di rospi, creeremo solo occasioni inutili per parlare d'altro, di cui magari non siamo competenti (ad esempio, di sottigliezze epistemologiche). Così, oggi io il mio rospo lo sputo. E ti dico esplicitamente: (1) da un lato, vedo la conoscenza clinica accumulata dagli psicoanalisti come un tesoro inestimabile; (2) dall'altro, vedo il pensiero teorico di Freud come un insieme di geniali congetture la maggior parte delle quali sono però state efficacemente confutate. Non dimentico mai che a confutarle, anche empiricamente oltre che clinicamente, sono stati psicoanalisti come Bowlby, Kohut e Weiss (oltre che un notevole numero di ricercatori in ambito neuropsicologico, di psicologia evoluzionista e di psicologia dello sviluppo). Nella storia della Medicina abbondano esempi di situazioni simili. Medici che seguivano teorie (o comunque le voglia chiamare Benvenuto sulla scorta della sua competenza epistemologica) oggi giudicate assurde, sulle cause ed il mantenimento di molte malattie, hanno accumulato comunque notevoli conoscenze cliniche, che hanno contribuito alla confutazione delle stesse teorie erronee su cui basavano il loro agire. Grazie a questo processo, le cure mediche sono oggi decisamente migliori che un secolo o due o tre fa. Possiamo seguire con vantaggio lo stesso procedimento di confutazione delle congetture in psicoterapia? Se sì, allora bisogna dire esplicitamente che il pensiero di Freud va abbandonato in quasi tutti i suoi aspetti più qualificanti. Ma dire questo significa urtare evidenti suscettibilità. Ogni volta che mi è capitato di dirlo, ho dovuto a affermare che stavo parlando "male" di Freud, non di quel composito e ricchissimo mondo conoscitivo che è la psicoanalisi contemporanea, dove convivono (il Cielo sa come) Kleiniani e seguaci della Control-Mastery Theory, Bioniani e Kohutiani, e chi più ne ha più ne metta. Ed ho dovuto anche ribadire esplicitamente che NON stavo affermando la superiorità della terapia cognitiva sulla psicoanalisi, né di qualunque tipo di psicoterapia su qualunque altro, ma solo che abbiamo bisogno di un metodo per orientarci nella selva delle congetture che guidano l'agire di noi psicoterapeuti contemporanei.

A me sembra importante dire con chiarezza perché molte delle congetture proposte da Freud, e che hanno guidato l'agire di tanti psicoterapeuti per tanti decenni, vanno abbandonate. Se non lo si fa, è difficile porre a confronto, nel lavoro di integrazione, la meritata potenza culturale della psicoanalisi con i successivi, ben più modesti tentativi di proporre altri metodi di psicoterapia. Di fatto, quando mi sono trovato a parlare con psicoanalisti non portati a valutare positivamente il metodo per congetture e confutazioni, non è stato raro scontrarmi con atteggiamenti del tipo "Ma questo contraddice il tale o talaltro aspetto del pensiero di Freud, e per ciò stesso è inammissibile!" Ovvero: "Dici questo perché non sei stato analizzato bene!" Oppure: " Quello che dici contraddice il pensiero di Freud fino al 1915, ma nel 1921 Freud scriveva... etc. etc. e quindi quello che dici va bene, ma solo perché lo aveva già detto Lui". In altre parole, l'integrazione va bene se tutti concordiamo che è stato Freud il padre fondatore di ogni psicoterapia degna di questo nome (solo la psicoanalisi è d'oro, afferma i suo famoso motto). Senza accettare il valore delle confutazioni empiriche, è dunque difficile procedere nello scartare elementi, che pure meritano di essere scartati, del più grande fra i sistemi di pensiero psicoterapeutico. Ancor più difficile, senza il procedere per congetture e confutazioni, potrebbe rivelarsi la critica di altre teorie, meno influenti e meno note, espresse in linguaggi oscuri e a volte volutamente ambigui (sai che esistono). O, se miriamo all'integrazione, dovremmo secondo te considerarle sempre tutte, le teorie psicoterapeutiche, e salvarle tutte (il che è ovviamente impossibile)? Come si può concordare cosa tenere e cosa scartare, nell'universo di terapie che si vorrebbero integrare se si obietta che il metodo della confutazione empirica delle congetture è debole, insensato, ingenuo, inapplicabile alla psicologia, e via dicendo? Se è importante disporre di un metodo per identificare e scartare le sciocchezze e le saccenterie, espresse però in maniera assai seducente e convincente, che tutti noi umani, mi sembra (Papà Bowlby e Mamma Popper inclusi, e con in testa il sottoscritto), tendiamo a sostenere, quale metodo può essere se non quello della ricerca empirica? Come sperare, senza un tale metodo PUBBLICO E COLLETTIVO, di superare l'istinto agonistico o il narcisismo che inducono tutti noi umani (su base emozionale e non di logica) a non ammettere, in un confronto a due, le possibili ragioni del rivale, a non piegare il capo di fronte al rivale, ma anzi a contrattaccare? Un metodo di confutazione molteplice, collettivo, che segua regole comunemente accettate, applicato per anni nei più vari contesti umani e nel maggior numero possibile di Paesi, mi sembra l'unica possibilità. Se si scarta questo metodo, temo che in ultima analisi si resti intrappolati in situazioni che oscillano fra la rissa (e per me non è la polarità peggiore) e la sostanzialmente ipocrita indifferenza per quello che l'altro sta dicendo, magari mascherata da "Come è originale il tuo pensiero, caro Collega" (e questo mi sembra peggio). Ma posso sbagliarmi, può darsi che vi siano altri metodi, come quello dialettico-dialogico-fenomenologico che tu proponi, e allora resto alla finestra per vedere come vanno le ipotesi alternative.

In questa attesa, vorrei chiederti di considerare questo mio dubbio: A rigore di logica, dialettica e fenomenologia, si può confutare con metodi empirici la confutazione del metodo empirico? Se no, allora il semplice fatto che tu citi i lavori "empirici" di Westen o di Rosenthal et al. lo prendo come segno del tuo accettare che, IN ULTIMA ANALISI, dopo ogni dialogo fra idee rivali, dopo ogni ricerca fenomenologica, è il metodo empirico (congetture e confutazioni) a farci scegliere una teoria come migliore di un'altra. Nel caso in questione, è il metodo empirico a farci scegliere la congettura: "la pratica della ricerca empirica non libera il ricercatore dai suoi particolari pregiudizi" (sostenuta con chiarezza dall'innominato Autore citato sopra) come migliore della congettura rivale: "la pratica della ricerca empirica rende il ricercatore obiettivo e capace di cercare attivamente la confutazione, non solo la conferma, delle proprie teorie" (idea che, come te, me, Westen, Rosenthal, etc., anche il Nostro trovava illusoria). Gianni

Giorgio Gabriele Alberti, 10 Giugno 2002:

Caro Tullio, negli ultimi tempi ho poco tempo e tendo ad astenermi dal pur interessante dibattito. Per di più ci si è aggiunto il problema informatico, che in parte ancora persiste. Ma mi è ricaduto l’occhio sulla stampata del Tuo mail del 2 giugno, diretto a Paolo Migone, che tocca aspetti metodologici per me molto importanti, e sufficientemente concreti da non diluirsi nel grande e, per me, troppo preliminare discorso su, pro e contro Popper. Esso contiene cose a mio avviso incondivisibili, che non posso passar sotto silenzio, nonostante la simpatia che mi lega a Te e la sintonia sul comune obiettivo di una qualche forma di integrazione tra le diverse psicoterapie. Credo anzi che il rispetto che Ti porto mi imponga di dirTi chiaro il mio dissenso.

Ma veniamo a questi punti di dissenso.

1. Tu scrivi (punto 5): "L’equivoco di fondo, di cui nemmeno Western e Fonagy mostrano di essere veramente consapevoli, è l’idea che gli "ingredienti attivi" della psicoterapia possano essere studiati isolatamente…e oggettivamente, secondo il modello della ricerca medica." Ora, esistono evidenze relative agli effetti di certe procedure. Ad esempio, che l’interpretazione di transfert funzioni solo con pazienti sufficientemente sani e solidi è stato detto non da me, ma da uno psicoanalista (Gabbard), sulla base di ricerche che evidentemente lui ritiene non mistificatorie, e che in buona parte sono ricerche empiriche nel campo della psicoterapia a orientamento analitico. Ciò dimostra che, per quanto certamente l’interazione paziente-terapeuta sia intricata e altamente complessa, è possibile isolare l’effetto di un certo tipo di procedura sulla base di studi empirici. Ma ciò contraddice ciò che Tu affermi.

2. Tu scrivi (punto 6): "Ma i fattori comuni sono fattori relazionali, quei fattori che, come Western lucidamente riconosce, sfuggono a qualsiasi standardizzazione perché non consistono in procedure attive in quanto tali, bensì nell’intreccio inestricabile tra ciò che il terapeuta crede di fare e il modo in cui il paziente interpreta ciò che il terapeuta fa. E come non può essere fissato in procedure standardizzate, questo intreccio non può nemmeno essere adeguatamente studiato da ricercatori esterni." Ora, certamente la relazione non è una procedura, cioè un qualcosa che il terapeuta fa, ma è un prodotto, dell’interazione tra caratteristiche di paziente e terapeuta, tra procedure messe in atto dal terapeuta e atti del paziente, con probabilmente anche l’azione di fattori casuali e circostanziali. Ciò che tuttavia è importante è che questo prodotto, la relazione, può – e deve – essere influenzata dal terapeuta, attraverso procedure svolte nei confronti del paziente, di se stesso, o anche si altri. In altre parole, il terapeuta deve cercare di influire positivamente – cioè in modo da aiutare il paziente – sulla relazione che con lui si stabilisce. Con una metafora, forse impropria ma che a me piace, il terapeuta deve introdurre nel caos dell’interazione col suo paziente, un attrattore, una spinta verso un ordine. Quindi la relazione, che tende a strutturarsi secondo una certa logica o caotica o comunque a tratti antiterapeutica, per esempio quando si esplica un ciclo interpersonale, un enactment, può e deve essere influenzata. E come, se non con delle procedure, cioè con delle azioni mirate (per cui si possa dire che se non sono fatte in un certo modo e nel momento giusto non arrivano a influire sul paziente), sufficientemente consapevoli e finalizzate, del terapeuta, che siano volte alla comprensione di sé e dell’altro, alla comunicazione di cose significative al paziente, alla espressione di sentimenti?

3. Secondo me è ovvio che ogni psicoterapia debba presupporre che la relazione possa essere influenzata, considerando la sua ormai acquisita importanza per l’outcome. Infatti molte terapie prevedono procedure attraverso le quali il terapeuta influisce (o ha probabilità di influire) sulla propria relazione col paziente: per esempio le procedure che Luborsky, nella sua terapia supportivo-espressiva, definisce di supporto (v. il manuale Princìpi di psicoterapia psicoanalitica. Manuale per il trattamento supportivo-espressivo, 1984) e che promuovendo la helping alliance codeterminano, attraverso di essa, l’esito della terapia, come ha appunto dimostrato già anni fa il gruppo di Luborsky (Alexander e Luborsky, 1986). Esempi analoghi sono quello della risoluzione delle impasses (alliance ruptures) attraverso la sequenziale messa in atto di metacomunicazioni adattate al tipo di impasse, proposta da Safran (Safran e Muran, 2000; Safran e Segal, 1990), oppure anche la più tradizionale analisi del controtransfert, come anche gli atteggiamenti raccomandati da C. Rogers, accettazione positiva incondizionata, empatia, autenticità etc.

4. Nella Tua prospettiva si può dire che queste procedure concorrono tutte a creare il "fattore comune" della buona relazione, fattore che è quindi tutt’altro che estraneo allo ambito delle procedure, anzi è una conseguenza di certe particolari procedure, senza le quali sarebbe meno facile di instaurare e meno frequente, con la conseguenza che le terapie avrebbero minor successo. Naturalmente, io sto semplificando, e le cose non sono meccaniche come appaiono: ad esempio le diverse procedure pro-relazione non vanno certo recitate o finte (Luborsky si pone esplicitamente questo problema nel suo manuale), ma devono essere autentiche, devono corrispondere a un autentico interesse del terapeuta. Ma se l’autentico interesse c’è, esso non si trasmette telepaticamente, va veicolato in certi modi, che sono appunto questi, ed altri simili. Negare l’influenzabilità procedurale della relazione, come fai Tu, equivale a teorizzare una sorta di principio d’indeterminazione psicoterapeutico, quindi a negare la possibilità di prevedere e facilitare un outcome positivo, se non confidando nel caso (sub specie ad esempio della suggestiva ma incerta metafora dell’incontro esistenziale), o al più assortendo terapeuti e pazienti in base a qualche loro caratteristica a priori (personalità, credo religioso, Weltanschauung, origine etnica, preferenze estetiche, sesso etc.), ovvero significherebbe attribuire tutta la vis terapeutica alle sole procedure extra-relazionali, come la modificazione dei sintomi o la risoluzione dei problemi interpersonali, che sono certo importanti ma non totalmente decisive.

5. Tu scrivi (punto 6, ancora): "Infatti stabilito che il fattore cruciale non è il contenuto formale dell’interazione, ma il significato che le è attribuito dal paziente (oltre che dal terapeuta), è ben vero che anche un osservatore esterno può cercare di cogliere questo significato, ma ciò che riuscirà a cogliere sarà sempre e soltanto un dato di seconda mano, cioè l’interpretazione (dell’osservatore) di un’interpretazione (del paziente o del terapeuta)." Devo ricordarTi che ogni nostra percezione si basa su segni, o su segni di segni, e a maggior ragione ogni osservazione scientifica. E che nessuno – nemmeno il tanto idealizzato ricercatore euristico – vede il noumeno. Ciononostante la scienza ha dato risultati, e anche la scienza dell’anima, la psicologia.

6. Tu scrivi (punto 7): "Mi sembra che la via d’uscita da questa contrapposizione sterile sia in direzione della ricerca correlazionale, che studia la psicoterapia reale sul campo e non in laboratorio, bilanciando modalità induttive e deduttive e rinunciando a strumenti invasivi e causa di distorsione come la standardizzazione manualistica e la registrazione delle sedute." Ora, devo precisare che non ho nulla contro quella che Tu chiami ricerca correlazionale ma, di nuovo, avverto una sfumatura di eccessiva unilateralità in espressioni come "studiare la psicoterapia reale sul campo e non in laboratorio", quasi che la ricerca sulla psicoterapia venisse fatta in un laboratorio di chimica o di ingegneria genetica. Con l’eccezione degli studi cosiddetti analogue, cioè con non-pazienti, o con non-terapie, le ricerche della psychotherapy research sono fatte su terapie vere e spesso anche senza l’"interferenza" della registrazione. Credo, a proposito, che la questione delle registrazioni non meriti la liquidazione un po’ troppo categorica che Tu ne fai. Dal punto di vista metodologico, mi sembrerebbe più giusto proporre il problema in termini dubitativi, per esempio, con la domanda "la terapia con registrazione appropriata – esplicitata, autorizzata, garantita, consegnata al paziente, utilizzata e spiegata come strumento aggiuntivo - correla con risultati terapeutici peggiori, uguali o migliori di quelli delle terapie senza registrazione?" Ovviamente la risposta non sarebbe difficile da trovare con una ricerca empirica. Ti invito anche a considerare che in molti ambienti non certo "cognitivo-comportamentali" si usano le registrazioni. Ad esempio, i seminari tenutisi recentemente al Pini per iniziativa dell’Università si intitolavano "seminari clinici audiovisivi" e presentavano bellissime registrazioni (portate da Osimo, Giannopoulos, Fosha), da cui non si traeva affatto la sensazione di una qualche difficoltà dei pazienti dovuta alla registrazione stessa. I relatori peraltro sostenevano, credibilmente, che a certe condizioni la registrazione non solo non disturba ma è di aiuto, in quanto permette di studiare meglio l’interazione tra paziente e terapeuta, e accelera così la comprensione del problema del paziente. Ora, come è possibile che tutti questi colleghi si sbaglino su quelli che Tu definisci come "strumenti invasivi e causa di distorsione"? Nonostante abbia anch’io alcune perplessità su un uso indiscriminato delle registrazioni, non posso condividere una tanto categorica sicurezza nella condanna. Ma torniamo alla ricerche sulla psicoterapia. Si tratta per lo più di terapie vere, seppur spesso brevi (ma non è raro trovare terapie studiate di cinquanta o più sedute). E’ vero. quindi quello che è stato detto, se ricordo bene, da Western e Fonagy a San Francisco. Ma significa ciò forse che questa ricerca non serve a nulla e va liquidata come qualcosa di assolutamente inutilizzabile per capire i processi psicoterapeutici in generale ? Io non credo, credo che comunque a qualcosa serva, e che dai suoi risultati si possano trarre suggerimenti utili.

7. Tu scrivi (ancora punto 7): "Rifiuto la sottomissione dell’euristica alla sperimentale implicita nella filosofia popperiana che considera la ricerca euristica come null’altro che una sorgente di ipotesi da sottoporre al vaglio sperimenta


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