PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2013, 124: 61-77

Il problema della molteplicità dei modelli in psicoterapia
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Il 9-10 novembre 2012 si è tenuto alla Facoltà di Psicologia della Sapienza Università di Roma il V Congresso della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP), dal titolo "La psicoterapia nel villaggio globale", organizzato dalla FIAP assieme al Coordinamento Nazionale Scuole Psicoterapia (CNSP), e sono stato invitato a tenere una relazione plenaria. L'ho intitolata "Il problema della molteplicità dei modelli in psicoterapia", e, come faccio di solito, vi ho esposto alcune riflessioni libere su questa complessa problematica. Ho notato che suscitato un certo interesse, ad esempio mi è stato chiesto di pubblicarla su una rivista (Grounding [2013, 1: 37-61], che fa capo a una scuola di analisi bioenergetica, una delle tante scuole i cui esponenti erano presenti al congresso). Ho pensato quindi che la mia relazione potesse interessare anche ai lettori di questa mia rubrica, per cui la riporto qui di seguito.

Sappiamo che in psicoterapia esistono molte teorie e di conseguenza diverse tecniche terapeutiche, e questo costituisce uno dei problemi più interessanti per chi vuole analizzare la disciplina da un punto di vista scientifico. Vi è chi dice che la presenza di diverse tecniche terapeutiche suggerite per gli stessi disturbi sia imbarazzante in quanto può indicare che il movimento psicoterapeutico sia ancora in uno stadio prescientifico, in cui trattamenti possibilmente inutili o dannosi permangono senza che vi sia la possibilità di falsificarli perché non sono ancora disponibili metodologie di ricerca accettate dalla maggioranza dei membri della professione. La psicoterapia si troverebbe quindi nello stesso stadio di sviluppo in cui si è trovata in passato la medicina, quando era una pratica empirica basata sull'esperienza tramandata di generazione in generazione, che prevedeva molti trattamenti che oggi sappiamo essere inutili o dannosi e che però venivano praticati con "soddisfazione" dei diretti interessati (medico, paziente, familiari, ecc.). Solo per fare un esempio tra i tanti, si pensi al salasso. Sappiamo che tanti trattamenti medici inutili o dannosi hanno continuato a essere praticati per secoli grazie ai ben noti meccanismi di autoconferma o negazione difensiva degli insuccessi, cioè ci si ricordava più facilmente dei risultati positivi perché lasciavano una impronta maggiore nella memoria, e servivano da rinforzo, mentre si dimenticavano i casi ben più frequenti di insuccesso o si trovavano delle motivazioni per giustificarli allo scopo di restare fedeli alle proprie credenze. Da questo punto di vista, si può dire che la storia della medicina sia una "storia di errori" (Migone, 2000), e non si può escludere che questo possa essere vero anche per la psicoterapia.

Lo strumento della ricerca sperimentale

Un passo avanti decisivo nella medicina è stato fatto con la introduzione del controllo in doppio cieco (double blind), e sorprende sapere che è stato introdotto non molto tempo fa: il primo "studio controllato randomizzato" (Randomized Controlled Trial [RCT]) pubblicato fu quello del Medical Research Council inglese del 1948 sulla streptomicina per la tubercolosi, quindi in epoca molto recente (per un approfondimento sugli RCT, vedi Migone, 2005). Grazie alla generalizzazione di questa metodologia di ricerca si è fatto un drastico salto di qualità nella individuazione delle terapie più efficaci, portando a un debellamento di molte malattie e a salvare da epidemie intere popola­zioni. Il metodo scientifico, basato sulla indagine statistica e su precise metodologie extra-cliniche (cioè non solo sulle osservazioni, spesso biased, cioè prevenute, del clinico coinvolto), permette di rompere l'autoinganno quotidiano che è sempre in agguato di fronte al clinico.

Se quindi la medicina cerca di risolvere col metodo scientifico l'annoso problema della compresenza di molteplici trattamenti e teorie della malattia, cosa possiamo dire della psicoterapia? Come è noto, un importante settore del movimento psicoterapeutico ritiene che la psicoterapia dovrebbe emulare la medicina (e più in generale le scienze naturali), e aderire a un rigoroso metodo sperimentale per discriminare i trattamenti efficaci dai meno efficaci, e di conseguenza tra le teorie sui cui poggiano. è questo un settore oggi molto in espansione, si può quasi dire che sia di moda, nel senso che tanti gruppi, anche in Italia, si dedicano alla ricerca in psicoterapia come non si sarebbe potuto prevedere solo pochi anni fa, e sarebbe anche interessante riflettere sui motivi di questo boom. Quando nel 1996 assieme ad alcuni colleghi decidemmo di fondare la seziona italiana della Society for Psychotherapy Research (SPR), l'associazione internazionale che raccoglie i ricercatori del settore, fu un po' una scommessa, non sapevamo che avrebbe avuto una tale espansione. Forse uno dei motivi per cui tanti colleghi oggi si dedicano alla ricerca in psicoterapia è dovuto alla speranza di scoprire qualcosa di importante, come è stato per la medicina. Ma sappiamo quanto questo entusiasmo debba essere temperato dalla difficoltà della ricerca scientifica in un campo così complesso e scivoloso come quello della psicoterapia, in cui le variabili sono così tante che è molto facile compiere errori metodologici, vedere il particolare e perdere di vista il quadro complessivo, o scoprire ovvietà già conosciute dal clinico. è noto poi che è problematico applicare il rigoroso metodo sperimentale alla psicoterapia data la impossibilità del doppio cieco: infatti non è ovviamente possibile che lo psicoterapeuta sia tenuto all'oscuro di quello che "somministra", e inoltre, estremizzando, in psicoterapia non è facile isolare il placebo dato che esso stesso è, per così dire, un tipo di psicoterapia basato sulla suggestione, per cui, a rigore, non si può paragonare un trattamento al placebo ma l'unica cosa che si può fare è paragonare due trattamenti tra loro (metodo questo che è debole, perché se un trattamento è migliore di un altro si rischia di dimenticare che ve ne può essere un terzo molto migliore di entrambi; non posso qui approfondire queste problematiche e rimando ad altri lavori: Migone, 1986, 1996, 2000, 2005, 2006b, 2008b). Più in generale, la questione della ricerca in psicoterapia come modalità per dirimere la questione della presenza di molteplici modelli e trattamenti è complessa, perché la ricerca empirica, per dirla con parole semplici, rappresenta un imbuto stretto in cui viene forzata la complessità della psicoterapia, al punto quasi di snaturarla (si pensi solo alla necessità di aderire rigorosamente ai manuali di psicoterapia [Migone, 1986, 1996 p. 189], che irrigidiscono e secondo alcuni snaturano la pratica clinica). Non a caso alcuni dicono che un curioso paradosso della ricerca in psicoterapia è che più uno studio è ben fatto e rigoroso, più è lontano dalla pratica clinica reale, la cui complessità fa fatica a essere "ridotta" all'interno di uno studio sperimentale (per una approfondita discussione critica, vedi Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner, 2004; Migone, 2005).

Ho voluto iniziare accennando alla ricerca empirica in psicoterapia perché viene considerata importante da un vasto settore del movimento psicoterapeutico (vedi Carere-Comes & Migone, 2001-03). Esiste peraltro anche la cosiddetta "ricerca concettuale", cioè lo studio rigoroso delle diverse teorie affinché siano più sobrie e coerenti al loro interno (Dreher, 2000, 2002). Vi è comunque un altro settore del movimento psicoterapeutico che rifiuta di considerare la ricerca empirica come modo per dirimere la questione della molteplicità dei modelli. Secondo questa posizione, che si può dire anche filosofica, la psicoterapia non dovrebbe passare attraverso le forche caudine della ricerca sperimentale perché essa non apparterrebbe alle scienze naturali, ma sarebbe una scienza umana, "idiografica", non scomponibile o comunque non studiabile con i metodi scientifici tradizionali. Questa posizione riprende note dicotomie filosofiche (quali scienze della natura e scienze dello spirito, approccio nomotetico e approccio idiografico, ecc.) che molti oggi considerano superate perché legate a un modo antiquato di concepire la scienza, e che dovrebbero in qualche modo interfacciarsi dopo il rimescolamento di carte cui abbiamo assistito in filosofia della scienza, o considerarsi in un rapporto dialettico nel senso che potrebbero rappresentare due fasi del processo di conoscenza (vedi Holt, 1962). Inoltre questa dicotomizzazione forse apre più problemi di quanto cerchi di risolverne, si pensi solo alla questione di come misurare o valutare il cambiamento per quanto riguarda il rapporto col sistema sanitario, il problema della rimborsabilità, ecc. Si può certo rifiutare la ricerca empirica tradizionale, o un certo tipo di ricerca, ma il problema rischia di spostarsi in avanti e riproporsi nella misura in cui abbiamo comunque bisogno di un metodo di ricerca o conoscenza dei dati, e questo metodo (si pensi solo ai metodi qualitativi, o sul caso singolo) può benissimo essere incluso tra i tanti già esistenti nel variegato movimento di ricerca in psicoterapia, che peraltro include i metodi più svariati, tutti considerati legittimi e non facilmente rapportabili tra loro (per un approfondimento, vedi Luyten, Blatt & Corveleyn, 2006a, 2006b; Dazzi, Lingiardi & Colli, 2006; Migone, 2008a, 2008b; Eagle & Wolitzky, 2011, 2012).

D'altra parte si potrebbe anche argomentare che non può che giovare al movimento psicoterapeutico la compresenza di più modelli e trattamenti, perché mantengono vivo il dibattito, evitano che la psicoterapia si appiattisca su un unico modello come quello "vero" cui tendenzialmente il movimento di ricerca in psicoterapia mira, una sorta di "teoria generale della psicoterapia". La presenza di diversi modelli, in altre parole, è un arricchimento perché aumenta la possibilità che si scopra qualcosa, soprattutto in un campo ancora così giovane. Rimane però il problema di cui si parlava prima, e cioè come conciliare la presenza di trattamenti diversi per lo stesso disturbo, soprattutto nell'ipotesi che tutti funzionino, ipotesi che andrebbe spiegata. Su questo farò alcune riflessioni dopo.

Perché vi sono tante scuole psicoterapeutiche

Vorrei ora proporre alcune possibili spiegazioni del motivo per cui si sono diffusi diversi modelli in psicoterapia. Elenco alcune possibilità:

1. Alcune scuole sono nate come reazione ad altre scuole. Ogni approccio è nato in un determinato periodo storico spesso come reazione a un altro approccio, quindi per riparare a un errore o una debolezza di un'altra scuola, per cui naturalmente ha enfatizzato un determinato aspetto a scapito di altri. Si può fare l'esempio dell'approccio rogersiano, e più in generale del movimento della terza forza in psicoterapia (terapia della gestalt, ecc.), che non si sentiva rappresentato da entrambi i movimenti allora dominanti, quello psicoanalitico e quello comporta­mentistico, per cui la sua attenzione si rivolgeva ad aspetti trascurati da questi altri indirizzi.

2. Una scuola può nascere per esigenze o diagnosi particolari. Ogni approccio è nato per rispondere a esigenze particolari, ad esempio per la terapia di una singola diagnosi (si pensi all'ipnosi, o alla EMDR, che sono tecniche specifiche, non "psicoterapie" nel senso pieno del termine). Però alcuni approcci nati per diagnosi particolari in sèguito sono stati estesi a tutte le diagnosi (si pensi alla IPT [Klerman et al., 1984; per una discussione critica, vedi Migone, 1997b]), ad esempio per sperimentarne l'efficacia, oppure più o meno di soppiatto con un passaggio ben noto allo studioso, in cui un approccio ha tentato di egemonizzare il campo, anche dietro a spinte istituzionali, culturali o ideologiche di vario genere (tra i tanti esempi che si possono fare, questo può esser il caso della Psicologia del Sé di Kohut, che inizialmente è stata proposta solo per la terapia dei disturbi narcisistici e in seguito è diventata una nuova psicologia, alternativa a quella psicoanalitica tradizionale). In questo senso molti (ad esempio Rangell, 2004) auspicano che tutte le scuole possano stare benissimo sotto lo stesso tetto in quanto ciascuna enfatizzerebbe un solo aspetto di una teoria unitaria, senza però sottovalutare altri aspetti o minacciare la unitarietà della teoria. Certi approcci inoltre si sono differenziati non per il fatto che avevano una teoria diversa a monte, ma per averla applicata ad altri campi o setting, si pensi alla psicoanalisi che può essere applicata anche ai gruppi, alle famiglie, alle istituzioni, alla società ecc.; sono nate quindi scuole "diverse", ma che diverse non sono nella misura in cui utilizzano gli stessi concetti (ad esempio quello di transfert, di inconscio, di proiezione, ecc.). Naturalmente vi sono stati tentativi di costruire teorie "nuove" (si pensi a certi settori della gruppoanalisi, o alla socioanalisi), ma in questi casi il dibattito sulla effettiva legittimità di teorie autonome è ancora aperto, e in ogni caso si tratta della complessa questione del rapporto tra teoria e tecnica, e - per restare nel campo della psicoanalisi - del fatto che più volte l'applicazione della teoria a situazioni cliniche eterodosse o "di confine" ha costretto a salutari raggiustamenti della teoria che poi si sono riverberati su tutto il movimento psicoanalitico (per un approfondimento, vedi Migone, 2010, cap. 4).

3. Una scuola, seppur superata, può sopravvivere per la sua "istituzionalizzazione". Le idee di alcune scuole nate molto tempo fa sono state superate o le loro idee assorbite da altri approcci, però sono rimaste vive e fiorenti grazie a varie resistenze, quali dinamiche istituzionali, affettive, di mercato, fedeltà ai padri fondatori, personalismi, semplice ignoranza, bisogno di appartenenza quindi tematiche di debolezza di identità, ecc. In sostanza, questi motivi sarebbero esterni alla teoria, di natura sociologica o psicologica (in certi casi ricordano le appartenenze "religiose", e sappiamo che queste dinamiche difensive hanno caratterizzato le origini del movimento psicoanalitico). Ritengo che la Legge 56/1989 abbia purtroppo favorito questa frammentazione in scuole diverse, perché nei criteri di riconoscimento ministeriale viene esplicitamente richiesta una identità di scuola, eventualmente con la specificazione dei "padri fondatori", mentre non viene facilmente riconosciuta dal Ministero una scuola che si definisca di psicoterapia in senso lato.

4. Una scuola può includere aspetti che per un'altra scuola sono esclusivi o prioritari. Alcuni aspetti di un approccio possono essere presenti anche in altre scuole, ma un approccio enfatizza un determinato aspetto, o fa leva solo su quello, su cui incentra tutta la teorizzazione e la teoria della cura, mentre un altro approccio include quell'aspetto affiancandolo ad altri. In altre parole, non rinnega quell'aspetto, lo aggiunge ad altri. Per fare un esempio, se è vero che la teoria dell'apprendimento è alla base della terapia comportamentale, non è corretto affermare, da parte di altri approcci, che la teoria dell'apprendimento "non è vera", se non altro perché è una teoria scientifica la cui importanza è dimostrata in tutte le psicoterapie. Quello che è presente in terapie che non si definiscono esplicitamente comportamentali è il fatto che aggiungono altri aspetti (ad esempio la introspezione, la riflessione, la discussione di credenze, ecc.), per cui si può dire che mirino a cambiamenti di tipo diverso da quelli ottenuti dalle terapie comportamentali, ad esempio anche a un cambiamento della personalità. Questo problema però è complicato, perché l'enfasi su un singolo aspetto spesso fa in modo che tutto il cambiamento venga spiegato dal clinico come dovuto solo a quell'aspetto, quando questo andrebbe dimostrato e non lasciato al giudizio del singolo terapeuta; e non andrebbe lasciato neppure al giudizio di un solo gruppo di ricercatori, dato che esiste la ben nota researcher allegiance (Luborsky et al., 2002; Wampold, 2001), cioè è stato dimostrato che per fedeltà alla propria scuola ogni ricercatore tende, anche inconsapevolmente, a dimostrare la superiorità del proprio approccio. Per fare un esempio, Eysenck, un comportamentista che credeva nella teoria dell'apprendimento e che, come è noto, non credeva nella efficacia di gran parte delle psicoterapie, soprattutto psicodinamiche, diceva che la psicoanalisi funziona non per i motivi addotti dagli psicoanalisti, ma semplicemente perché il paziente viene invitato a rilassarsi sul lettino, come in una terapia di rilassamento, e poi ad associare liberamente, cioè a parlare dei propri pensieri ansiogeni in modo via via più approfondito dai meno ansiogeni ai più ansiogeni, così che si espone ad essi e si "decondiziona". Questa spiegazione del cambiamento è certamente importante, ma non è detto che sia l'unica, perché per certi pazienti potrebbe funzionare un altro meccanismo, ad esempio semplicemente ricostruire un senso della propria vita. E per fare un esempio opposto, si può fare l'ipotesi che la terapia comportamentale, quando funziona, non è per gli specifici rituali o esercizi di decondizionamento (dai comportamentisti considerati il vero fattore curativo), ma per alcuni aspetti silenti della relazione, non sempre esplicitamente teorizzati dai comportamentisti e dei quali possono non essere neppure consapevoli, ad esempio la identificazione col terapeuta o fattori che in senso lato si possono definire transferali (alcune ricerche peraltro hanno dimostrato che gli effetti positivi della psicoterapia non dipendevano dalla teoria dichiarata dal terapeuta, vedi ad esempio Castonguay et al., 1996; Ablon & Jones, 1998; Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner, 2004, p. 28). Allo stesso modo, uno psicoanalista può pensare che il suo paziente sia migliorato per una interpretazione che gli ha fatto, mentre quella interpretazione non era stata neppure ascoltata o capita dal paziente, che è migliorato per fattori suggestivi (sappiamo che Freud [1917, p. 601] era ben consapevole di questa possibilità, e lavorò a lungo attorno a questo problema). Un altro esempio è rappresentato dalle terapie corporee, che utilizzano manipolazioni corporee come punto di partenza per ottenere miglioramenti, ma può essere che l'utilizzo del corpo sia solo una razionalizzazione di altre operazioni cliniche che rimangono implicite, non viste dal terapeuta del corpo, proprio come abbiamo visto negli esempi prima fatti del comportamentismo e della psicoanalisi (non va dimenticato poi che i terapeuti del corpo utilizzano anche la parola, per cui il loro approccio è più complesso e può non essere facile identificare un meccanismo di azione privilegiato).

5. Due scuole possono essere simili ma diverse nel nome o nel linguaggio usato. Alcuni approcci possono non essere molto diversi ma abbastanza simili perché differiscono soprattutto nella terminologia usata per descrivere gli stessi concetti, terminologia che è derivata da teorie nate in contesti storici e culturali differenti. Purtroppo, data la frequente ignoranza di approcci alternativi, quasi sempre le equivalenze concettuali che possono esistere in scuole nominalmente diverse non vengono considerate, anche allo scopo più o meno consapevole di non minacciare la identità del proprio gruppo.

6. Alcune scuole sono nate dalla clinica, altre dall'ambito accademico. Alcuni approcci sono nati direttamente dalla clinica per poi arrivare a costruire una teoria, altri approcci invece sono nati direttamente da una teoria che si è poi cercato di applicare alla clinica. Un esempio del primo caso, cioè di terapie nate dalla clinica, è la psicoanalisi, che fin dall'inizio ha dovuto affrontare determinati problemi e inquadrarli teoricamente (faccio solo alcuni esempi: la relazione, la motivazione del paziente, la gestione delle emozioni del terapeuta, ecc.). Un esempio del secondo caso, cioè di teorie originariamente nate in ambito accademico e che poi si è voluto sperimentare o "applicare" nella clinica, può essere la terapia sistemica che era originata da una teoria interdisciplinare, o certi settori del cognitivismo che erano inizialmente accademici (non alludo qui alla terapia cognitiva classica originata in America, i cui padri fondatori furono Beck e Ellis, perché questa nacque dalla clinica, infatti Beck e Ellis erano psicoanalisti che volevano correggere o migliorare certi aspetti della psicoanalisi). Quando certi approcci nati in ambito accademico si sono poi confrontati con la clinica hanno dovuto fare i conti con problemi che prima non avevano considerato, e in certi casi sono stati costretti ad adottare soluzioni non diverse da quelle già proposte da approcci che erano nati direttamente dalla clinica.

Fattori specifici e aspecifici

Più in generale, spesso è la ignoranza della storia delle idee della psicoterapia, cioè la mancanza di cultura psicoterapeutica, quella responsabile della divisione tra scuole e della esistenza di tante "monoculture" psicoterapeutiche, in cui in ogni scuola viene quasi legittimata la ignoranza delle altre, come in una sorta di "paranoie culturali" (Galli [1986 p. 372, 2000 p. 98] una volta parlò di "tolleranze parallele"), anche perché più si conoscono scuole diverse più si rischia di mettere in dubbio la propria, per cui ci si arrocca nelle proprie credenze mettendo un po', per così dire, la testa sotto la sabbia. Va tenuto presente che il mestiere dello psicoterapeuta è uno dei mestieri più difficili (uno dei tre mestieri più difficili al mondo, diceva Freud [1937], gli altri due erano fare il genitore e guidare una nazione), un mestiere che è stato anche definito "mestiere dell'incertezza" (Galli, 2008), per cui può essere comprensibile il bisogno di avere certezze, di non entrare in crisi soprattutto di fronte a pazienti che sono già in crisi e che ci mettono in crisi (e sappiamo che una delle abilità di un terapeuta, e forse anche un importante fattore curativo, è saper convivere con questa incertezza senza ricorrere a false certezze, anche per essere di esempio al paziente). E Friedman (1988) ci ha parlato della funzione della teoria come un modo per far fronte al "disagio" del terapeuta di fronte al paziente.

Naturalmente vi sono diversi modelli psicoterapeutici che esistono perché sono oggettivamente diversi nella teoria e nella tecnica, però in questo caso si ripresenta il problema cui accennavo prima: se approcci diversi vengono usati per lo stesso disturbo, funzionano in modo uguale? Se uno è più efficace, in teoria l'altro dovrebbe essere scartato. Se invece funzionano in modo uguale si può pensare che uno o entrambi non funzionino per i motivi dichiarati dai loro esponenti ma per altri aspetti, quindi occorre fare ricerca per gettare luce su questa problematica. Come è noto, molte ricerche indicano che terapie diverse ottengono gli stessi effetti, e questo "paradosso della equivalenza" è conosciuto come "verdetto di Dodo", l'uccello che in Alice nel paese delle meraviglie indisse una gara di corsa e alla fine dichiarò "Tutti hanno vinto e ciascuno merita un premio" (Luborsky, Singer & Luborsky, 1975; Luborsky et al., 2002).

E' stato dimostrato inoltre che gran parte del risultato terapeutico non dipende dai fattori cosiddetti "specifici", ma da fattori "aspecifici" o "comuni" a tutte le terapie, ad esempio dalla personalità del terapeuta (Luborsky et al., 2002; Wampold, 2001; Norcross, 2011). Se è così, bisognerebbe approfondire quali sono le caratteristiche del terapeuta maggiormente correlate a un risultato positivo (va comunque detto che questo dato è emerso come risultato medio tra tanti studi che riguardavano terapie e diagnosi diverse, ed esaminando singole tecniche per singoli disturbi l'impatto della personalità del terapeuta diminuisce).

A proposito dell'importanza della personalità del terapeuta o dei fattori cosiddetti aspecifici o comuni, uno degli approcci che ha maggiormente studiato le variabili legate al terapeuta è quello rogersiano (si pensi ai fattori curativi dell'empatia, dell'accettazione incondizionata e della congruenza, che si riferiscono tutti al terapeuta e che sono i tre fattori centrali della "terapia centrata sul cliente" - o "sulla persona", come si dice oggi - di Rogers [Migone, 2006c]). A questo proposito si può far notare, un po' provocatoriamente, che se diverse psicoterapie sono ugualmente efficaci per cui si può legittimamente concludere che i fattori comuni sono più importanti di quelli specifici, i rogersiani sembrano capovolgere il problema, come se per loro i fattori "specifici" siano quelli che altri chiamano aspecifici, e che quelli "aspecifici" siano specifici. Questa osservazione rende bene l'idea di quanto sia difficile classificare i fattori curativi, come hanno fatto alcuni, in specifici e aspecifici, perché vi può non essere un accordo unanime su quali siano gli uni e quali sono gli altri (per una storia del dibattito sui fattori curativi in psicoanalisi, vedi Migone, 1989, 2008c, 2010 cap. 6).

La questione della integrazione in psicoterapia

Un capitolo a parte merita la questione della cosiddetta integrazione tra le varie scuole psicoterapeutiche, su cui ormai esiste una abbondante letteratura e una lunga tradizione. Ho partecipato al movimento per la integrazione in psicoterapia e ho contribuito alla nascita del gruppo italiano della SEPI (la Society for the Exploration of Psychotherapy Integration), contribuendo ai primi congressi nazionali (Carere-Comes & Migone, 2001-03; Alberti & Carere-Comes, 2002; Carere-Comes, Adami Rook & Panseri, 2006; Carere-Comes, 2008; Migone, 1997a, 2002, 2006a, 2008a). Questo argomento mi ha sempre interessato, ma non tanto perché io creda nel concetto di integrazione (lo ritengo foriero di equivoci), quanto perché mi interessa confrontarmi con colleghi di diversi orientamenti per vedere come lavorano e poter riflettere ed eventualmente imparare da loro. Non sono frequenti infatti le occasioni di confronto tra scuole, dato che, come dicevo, molte scuole purtroppo hanno la tendenza a evitare il confronto. Oltre alla SEPI, una occasione è la SPR, prima citata, che però riguarda la ricerca empirica, ad ogni modo andavo ai congressi dell'SPR anche per vedere come terapeuti di diverso orientamento si confrontavano sullo stesso materiale clinico, che metodi usavano, quali aspetti prendevano in considerazione e perché, e così via. Da pochi anni una importante occasione di confronto tra scuole in Italia è la FIAP (Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia), che organizza dei congressi che a mio modo di vedere sono opportunità rare per conoscersi tra scuole diverse e poter riflettere anche criticamente sulle proprie posizioni. Anche il Coordinamento Nazionale Scuole Psicoterapia (CNSP) e la Società Italiana di Psicoterapia (SIPSIC) rappresentano importanti momenti di confronto.

Sulla integrazione, e anche sull'eclettismo, dirò solo poche battute per far conoscere come la penso. Come è noto, in genere l'eclettismo si riferisce alla clinica e l'integrazione alla teoria. L'eclettismo allude a una mescolanza di interventi derivati da più approcci e non affronta il problema di quale sia la teoria che sorregge questa diversificazione clinica. Dato che una teoria esiste sempre, e per certi versi fa sentire ancor di più la sua influenza se non la conosciamo o se diciamo che non c'è, non possiamo prescindere da essa, anche perché il rischio è quello di spezzare il legame tra teoria e tecnica e quindi di uscire dal campo della scienza. Come abbiamo visto prima, interventi clinici diversi possono essere letti in modi differenti da teorie diverse, e vengono vissuti dal paziente in modi diversi a seconda del contesto di significati in cui sono immersi. Non ci dice granché sapere che un terapeuta ha fatto determinate cose se non le inquadriamo all'interno di una teoria che ci permetta di dare loro un senso. In sostanza quindi la parola eclettismo si riduce a essere una tautologia, cioè a descrivere quello che fa concretamente un terapeuta. Non a caso il termine eclettismo è sempre meno usato e ha acquisito un significato negativo, e spesso allude genericamente al concetto di integrazione. Il problema non è quello di essere eclettici, ma di riuscire a spiegare la teoria che sta dietro alle tante cose che facciamo, cioè all'eclettismo che, potremmo dire, di fatto esiste già in ogni psicoterapia.

Abbiamo detto che la integrazione si riferisce al livello teorico, e per dare una idea di cosa voglia dire riflettere sulla integrazione in psicoterapia voglio fare un esempio, quello che ci viene offerto da Paul Wachtel, uno psicoanalista di New York che è tra i fondatori della SEPI di cui è tuttora uno dei maggiori esponenti. In un articolo pubblicato nel 1980, che ho voluto pubblicare in italiano sulla rivista Psicoterapia e Scienze Umane, ha provato a vedere se il concetto freudiano di transfert potesse esser meglio compreso alla luce della teoria degli schemi correggibili di Piaget, e ha concluso che in effetti i concetti di accomodamento e assimilazione sono più funzionali per la comprensione teorica e clinica del transfert.

Dicevo prima però che ho delle perplessità nei confronti del concetto di integrazione perché per integrare due cose occorre che queste due cose esistano e che siano separate tra loro. Io penso che spesso non vi sia chiarezza sugli statuti teorici di molte scuole di psicoterapia, nel senso che ho la impressione che siano spesso delle congerie di idee tenute assieme più da collanti istituzionali che scientifici. A scanso di equivoci, e per non fare nomi, mi riferisco anche alla psicoanalisi: esiste ben poco di unitario ormai nella psicoanalisi, essa non esiste più da tempo, esistono molte psicoanalisi. Quello che si sa per certo è che esistono varie associazioni professionali, come ad esempio la International Psychoanalytic Association (IPA), che peraltro ha i suoi problemi interni anche a livello istituzionale, ma cosa essa rappresenti a livello scientifico non è affatto chiaro (in certi casi vi sono meno differenze tra una scuola psicoanalitica e una scuola dichiaratamente non psicoanalitica che tra due scuole definite entrambe psicoanalitiche).

Dicevo che per integrare due scuole psicoterapeutiche occorre che esse abbiano uno statuto teorico ben definito e che siano diverse l'una dall'altra, ma anche ammettendo che lo siano, come si fa a integrarle? Se le si integra, mi sembra sensato dire che si formi una terza scuola, una nuova scuola che non è la somma delle due. E inoltre le altre due devono essere abbandonate? Come potete ben capire, non è facile andare a fondo a questi problemi, per cui anche il progetto della integrazione rimane una idea approssimativa, generica, che serve, come è servito a me, essenzialmente a far incontrare colleghi di diversa estrazione affinché dialoghino tra loro e riflettano sullo statuto dei rispettivi approcci.

Vorrei fare un'ultima riflessione. A rigore, non avrebbe senso una associazione particolare (come la SEPI) in cui discutere di integrazione, perché ogni scuola e ogni terapeuta dovrebbero già fare questo lavoro di riflessione e di confronto tra approcci, ciascuno di noi dovrebbe cioè porsi continuamente queste domande perché riguardano la nostra identità. Ogni approccio si caratterizza anche per quello che non è, cioè dal modo con cui si differenzia da altri approcci, per cui è impossibile non riflettere su questi temi. è per questo motivo che, come ho detto altrove (Migone, 2006a), ritengo che al limite l'esistenza della SEPI dimostri che purtroppo queste riflessioni sul confronto tra approcci non vengono fatte frequentemente, per cui si sente il bisogno di un'apposita sede per farle.

Due esempi paradigmatici: le proposte di Fred Pine e di John Gedo

All'interno del movimento psicoanalitico, come si diceva, esistono diversi modelli, e il dibattito su come gestirli è stato molto vivo (vedi ad esempio Wallerstein, 1988, 1990, 1992). Vorrei accennare in questa sede a due proposte avanzate in questo dibattito, quelle di Fred Pine e di John Gedo, perché possono suscitare un certo interesse anche per tutte le scuole di psicoterapia in quanto rappresentano esempi paradigmatici del modo con cui si può affrontare la questione della pluralità dei modelli.

Fred Pine (che è conosciuto anche perché fu coautore assieme a Margaret Mahler e Anni Bergman del libro del 1975 La nascita psicologica del bambino) in vari suoi lavori degli anni 1980 propose di utilizzare simultaneamente le "quattro psicologie della psicoanalisi", perché tutte avrebbero il "loro posto nel lavoro clinico" (Pine, 1985, 1988, 1990; Grand & Hill, 1994, pp. 152-234; Panseri & Migone, 2001-02; Migone, 2004). Queste quattro psicologie sarebbero la teoria delle pulsioni, la Psicologia dell'Io, la teoria delle relazioni oggettuali, e la Psicologia del Sé. Esse non sono altro che alcune tra le principali teorie che hanno caratterizzato il dibattito psicoanalitico nella seconda metà del Novecento, e il problema, come è facilmente intuibile, è il rapporto che devono avere tra di loro. Le domande che il clinico può porsi sono le seguenti: Sono incompatibili l'una con l'altra? Sono in qualche modo integrabili? Sono facce di un'unica teoria generale, magari definibile "psicoanalisi" senza aggettivi? Una di esse, eventualmente la più recente e se ben articolata e ampliata, può sostituire tutte le altre e porsi come l'unica "vera" teoria o la "migliore", quella che dovremmo entusiasticamente sposare e utilizzare sempre coi nostri pazienti?

Fred Pine suggerisce di utilizzarle tutte, in momenti diversi, anche con lo stesso paziente, a seconda della loro utilità clinica. Partendo anche dalla sua esperienza di psicologo dello sviluppo, Pine dice che ognuna di queste quattro psicologie è già evidenziabile nell'infanzia, ha una propria "linea di sviluppo" che continua lungo tutto il ciclo vitale, e implica uno specifico sistema motivazionale. Per certi versi, queste quattro psicologie sembrano a volte diversi "punti di vista" con cui guardare il materiale clinico, e per questo ricordano il principio della "funzione multipla" di Waelder (1930), a cui peraltro Pine fa esplicito riferimento (Waelder sosteneva che ogni aspetto della vita mentale può assolvere simultaneamente a funzioni diverse), e a cui aggiunge un altro principio, da lui proposto, quello dei "momenti", secondo il quale in un determinato momento una delle quattro psicologie è in primo piano rispetto alle altre, mentre un in altro momento essa recede e un'altra psicologia organizza l'esperienza del soggetto (in questo ricorda il funzionamento dei sistemi motivazionali così come ne parla Lichtenberg [1989], con la loro "polifonia" nel "pentagramma" motivazionale; vedi anche Cortina & Liotti, 2014).

Il dibattito sulla proposta di Pine è stato molto acceso (vedi ad esempio Grand & Hill, 1994, pp. 152-234), e mentre da alcuni autori è stata guardata con un certo interesse, altri (ad esempio Modell, 1994) hanno sollevato critiche, facendo notare tra le altre cose che, essendo queste quattro psicologie non del tutto integrabili sul piano teorico, ed essendovi addirittura concezioni divergenti all'interno di alcune di esse, di fatto la proposta di Pine rischia di ridursi a una integrazione che si ferma sul piano clinico, quindi a un eclettismo. E dato che non può esservi uno scollamento tra clinica e teoria, ovviamente è problematica.

Ben diversa invece è la proposta di Gedo (1979, 1994; Gedo & Goldberg, 1973; Silver, 1981; Migone, 1985; Grand & Hill, 1994, pp. 235-312), cui sono particolarmente affezionato e che personalmente prediligo (ricordo che tanti anni fa, il 7 marzo 1994, lo invitai anche al Ruolo Terapeutico a tenere una relazione, che fu pubblicata sul n. 67/1994). Gedo, ungherese di origine (si vanta di essere nato non lontano dal luogo in cui nacque Ferenczi) emigrò poi a Chicago (attratto dal prestigio che allora aveva Alexander, un altro ungherese) dove divenne il più stretto collaboratore di Kohut col quale gettò le fondamenta della Psicologia del Sé (fu Gedo, ad esempio, che diede a Kohut l'idea di usare la parola "Sé" come chiave del suo edificio teorico). In seguito Gedo si separò da Kohut per percorrere una linea di ricerca propria, che nelle sue intenzioni voleva essere ancor più ambiziosa perché cercava di arrivare a una revisione della teoria psicoanalitica e nel contempo a una sistematizzazione generale della tecnica per certi versi paragonabile alla sistematizzazione che aveva fatto Rapaport (1959) riguardo alla teoria. La proposta di Gedo è quella di uno schema gerarchico in cui nell'asse orizzontale da sinistra a destra vi è il tempo, e nell'asse verticale dal basso all'alto il livello di maturazione psicologica, e che mostra cinque "modi" di funzionamento psichico, dal I al V, secondo il grado di maturazione. Ogni modo prevede la descrizione di cinque variabili: modello di funzionamento; principio di regolazione; tipica difesa; tipico problema o pericolo; intervento terapeutico. Ad esempio, dal I al V, i modelli di funzionamento sono i seguenti: arco riflesso, modello dei nuclei del Sé e degli oggetti, modello del Sé e degli oggetti, modello strutturale o tripartito (Es versus Io), modello topografico (Preconscio versus Inconscio). Semplificando, il modo V, il più alto, corrisponde la funzionamento "normale" o "sano" (queste parole hanno le dovute virgolette), il modo IV alle nevrosi classiche, e i modi III, II e I corrispondono a quegli stati cosiddetti arcaici, per i quali ad esempio Winnicott (1957-63) ha usato il termine holding environment (ambiente di contenimento), in seguito elaborato da Modell (1976). Gedo ha particolarmente approfondito la teoria e la clinica di questi stati che, nelle parole del titolo del suo libro del 1979, si trovano "al di là dell'interpretazione" e per i quali in passato venivano usati i parametri che Eissler (1953) concepiva come transitori. Gedo ha proposto come modalità terapeutiche dei modi arcaici, rispettivamente dal I al III, la pacificazione (pacification) o sedazione per la iperstimolazione traumatica e la regolazione emotiva del Sé (affective self-regulation), la unificazione dei nuclei del Sé (per lo splitting, cioè la scissione, come ad esempio nei borderline), e la disillusione ottimale (per le illusioni non realistiche, cioè per le tematiche narcisistiche). L'intervento terapeutico nel modo IV è la interpretazione (qui la difesa tipica è la rimozione, e il principio regolatore è il principio di realtà), e nel modo V è la introspezione (in questo modo, che caratterizza le persone "sane" o "normali", vi è la rinuncia come difesa tipica, i tipici problemi incontrati sono la frustrazione, i pericoli esterni, ecc., e l'analista può limitarsi ad assistere il paziente in un lavoro di introspezione e risoluzione dei problemi). Il principio epigenetico è la chiave di volta di questo schema gerarchico, nel senso che ogni fase dello sviluppo dipende dalla buona riuscita delle fasi precedenti, le quali, se vi sono stati degli arresti, continueranno a presentarsi in tutte le fasi successive finché non saranno risolti.

Lo schema gerarchico di Gedo quindi permette di avere un quadro unitario in cui vi è un'unica teoria generale che viene declinata in diversi interventi tecnici a seconda dei problemi del singolo paziente, proprio come peraltro era nel programma della Psicologia dell'Io iniziato negli anni 1930-40 che sottolineava i concetti di difesa, adattamento, ecc. (Hartmann, 1937, 1964; Hartmann, Kris & Loewenstein, 1964; Blanck & Blanck, 1974). Per un approfondimento su Gedo, rimando a una mia monografia (Migone, 1985)

L'importanza di conoscere più modelli psicoterapeutici

Vorrei ora fare una riflessione sulla utilità per lo psicoterapeuta di conoscere diverse teorie e approcci terapeutici. Ciascuno di noi tende a vedere meglio nel paziente le cose che conosce già, cioè ad applicare il modello che gli hanno insegnato alla sua scuola di psicoterapia. Viene in mente quello che diceva il medico Augusto Murri già circa un secolo fa - "in clinica non si tratta di conoscere, ma di riconoscere" - cioè noi riusciamo a vedere solo quello che è già dentro di noi (de Girolamo & Migone, 1995, p. 59), e questa affermazione, che richiama la dicotomia idiografico-nomotetico cui abbiamo accennato prima, ha implicazioni filosofiche. Se conosciamo un solo modello psicoterapeutico, rischiamo di vedere sempre quello nei nostri pazienti, inquadrando tutti i dati alla luce di quel modello (vi è una abbondante letteratura al riguardo, si pensi a quei pazienti che ci raccontano che cambiando analista "cambiano anche i loro sogni", nel senso che da un analista freudiano fanno "sogni freudiani", da uno junghiano scoprono di fare "sogni junghiani", da un adleriano "sogni adleriani" e così via, cioè ogni terapeuta convince i suoi pazienti che nei loro sogni c'è quello che vede lui). Se invece conosciamo più modelli, possiamo chiederci quale può "calzare di più" per il paziente che abbiamo di fronte (viene in mente la proposta di Fred Pine, anche se è diversa), abbiamo insomma una gamma più ricca di possibilità che il paziente si senta capito, "visto" nella sua specificità, ben sapendo che mai potremo conoscere "veramente" un'altra persona. Più in generale, questo vale non solo per le teorie della psicoterapia, ma anche per le esperienze di vita che abbiamo fatto: più un terapeuta ha fatto esperienze, più pazienti ha visto e più è ricco interiormente, più ha possibilità di fare da specchio al paziente, di "riflettere" quello che veramente lui ha dentro (sarebbe interessante accennare ai neuroni specchio, che ad esempio si attivano solo se l'osservatore ha fatto una diretta esperienza del comportamento osservato - ad esempio se vediamo dei danzatori di capoeira i nostri neuroni specchio non si attivano se non siamo anche noi danzatori di capoeira o se non abbiamo preso lezioni di capoeira, e si può ben immaginare cosa ciò implichi per le esperienze emotive in psicoterapia - ma questo ci porterebbe lontano, e riamando ad altri lavori: Gallese, Migone & Eagle, 2006; Gallese, Eagle & Migone, 2007). Non solo, sappiamo anche - e non a caso, anche per le cose appena dette - che spesso sono più bravi i terapeuti che hanno sofferto personalmente, che hanno avuto qualche esperienza diretta con problemi psicologici, perché sono questi i terapeuti dai quali meglio si sentono capiti i pazienti. Ed è noto che i terapeuti cosiddetti "sani" o "normali" possono non solo essere poco motivati a fare il mestiere dello psicoterapeuta, ma anche avere difficoltà a capire i pazienti, e vi è una ricca letteratura sulla difficoltà a formare questi terapeuti "normali", per così dire "ammalati di normalità", che non a caso sono stati definiti "normopatici", "normotici" e così via (mi riferisco ad esempio alla letteratura sulle difficoltà della selezione per il training psicoanalitico di cui ci si accorse negli Stati Uniti già negli anni 1950; vedi ad esempio Gitelson, 1954). Qui il problema è quello della motivazione inconscia per la scelta professionale, la cui interessante psicodinamica non è possibile affrontare in questa sede. Mi limito solo a citare, come esempio divulgativo, il libro autobiografico Risvegli di Oliver Sacks (1973), da cui è stato tratto l'omonimo film di Penny Marshall del 1990 con Robin Williams che interpreta il medico Sacks e Robert De Niro nelle vesti di un paziente (vi fu anche un'opera teatrale, A Kind of Alaska di Harold Pinter, messa in scena nel 1982). Nel film Williams, persona timida che rifuggiva dai contatti umani, è motivato più degli altri medici - che sono "sani" e "normali" e non vedono l'ora che finisca il turno di lavoro - a capire e aiutare i pazienti affetti da encefalite letargica, cioè che si sono ritirati dal mondo, che "dormono", al punto che è proprio lui che riesce a trovare una cura e, almeno temporaneamente, a farli risvegliare. Bella è la parte in cui De Niro, un paziente che si è risvegliato, sembra quasi invertire i ruoli col suo medico, Williams, che ancora "dorme" (emotivamente) e glielo fa anche notare. Alla fine, grazie a quella che si può chiamare una cura di transfert, mentre De Niro ritorna nella letargia è Williams che "si sveglia", cioè vince la sua timidezza e chiusura emotiva e accetta finalmente di uscire a prendere un caffè con una infermiera.

Per tornare alla importanza di essere ricchi umanamente - si pensi al fattore della "congruenza" sottolineato dall'approccio rogersiano, o alla importanza che molte scuole danno alla terapia personale - è molto utile anche conoscere altri approcci psicoterapeutici, non solo quello della propria scuola.

Una riflessione filosofica sulla molteplicità dei modelli in psicoterapia

Per terminare, vorrei fare alcune riflessioni per così dire filosofiche sulla esistenza di più modelli, diversi tra loro, per comprendere gli stessi pazienti, perché questo mi sembra uno dei problemi più interessanti che abbiamo di fronte. Ho già parlato di questa problematica in un'altra rubrica, quella del n. 109/20088, per cui qui riporto quella argomentazione. Prima si è detto che se esistono due trattamenti diversi tra loro per uno stesso disturbo, questo potrebbe indicare che la disciplina è ancora in uno stato prescientifico, perché potrebbe significare che non vi sono ancora metodologie condivise che permettano di falsificare ipotesi alternative, ad esempio non si riesce a differenziare i disturbi (cioè si può supporre che si tratti solo apparentemente dello stesso disturbo, e che in realtà siano disturbi diversi) o le tecniche terapeutiche (nel senso che potrebbero essere diverse di nome ma non di fatto).

Al di là di questi problemi, non piccoli, a me sembra che la questione a monte è che ogni approccio psicoterapeutico derivi, o dovrebbe derivare, da una teoria psicologica, una teoria che ha un suo modo di concepire l'essere umano, la teoria della mente, la teoria dello sviluppo, la teoria della malattia (cioè il modo con cui ci si ammala) e ovviamente anche la teoria della terapia. Il problema quindi è che a monte vi sono diverse teorie le quali tutte si occupano della stessa cosa, cioè dell'essere umano.

Queste diverse teorie psicologiche hanno linguaggi e metodologie proprie che, ad esempio, rompono il programma positivistico della "unità della scienza". Per "scienza" infatti non deve intendersi, in modo riduttivo, solo un metodo di conoscenza che si applica a determinati oggetti che si prestano a essere indagati con quel metodo, cioè la scienza non deve dipendere dal tipo di oggetti che tratta, ma dal "modo" con cui li tratta. Questo modo può dirsi scientifico nella misura in cui soddisfa determinati criteri, quali quelli di "rigore" (dare ragione di quanto si afferma, non necessariamente tramite quantificazione, misurazione, ecc., e utilizzando un determinato linguaggio e una logica), "controllabilità" (testability), "oggettività", "protocollarità", ecc. Ho trovato a questo proposito interessanti le argomentazioni del filosofo Agazzi (1974, 2006), il quale sostiene che ogni approccio alla conoscenza "produce" un proprio "oggetto scientifico", un oggetto ideale che è diverso dagli "oggetti scientifici" prodotti da altri approcci. In altri termini, ogni approccio o modello psicoterapeutico, che ha un linguaggio suo proprio, una sua metodologia di osservazione e interpretazione del paziente, ecc., "costruirebbe" un proprio paziente come "oggetto scientifico" ideale che è diverso dai pazienti o "oggetti scientifici" prodotti da altri approcci psicoterapeutici. Sempre secondo Agazzi, questo oggetto scientifico non va confuso con una "cosa", nel senso che una stessa cosa può essere "oggetto" di teorie diverse, quindi una cosa si trasforma in un "fascio" di oggetti potenzialmente infiniti: ad esempio, il fatto che nascono nuovi modelli psicoterapeutici non significa certo che sono stati inventati nuovi pazienti, ma che sono stati individuati nuovi "punti di vista" sugli stessi pazienti (un paziente può essere osservato e trattato dal punto di vista comportamentale, misurando aspetti del suo comportamento; un altro paziente può essere osservato e trattato confrontandoci col suo mondo interiore, o con le emozioni che prova il terapeuta come possibili indicatori di stati mentali del paziente stesso; un altro paziente ancora può essere osservato e trattato all'interno della sua famiglia, o di un gruppo, analizzando le relazioni tra i membri del gruppo; con un altro paziente possiamo usare tecniche corporee, osservando attentamente la sua postura o il suo modo di respirare, e così via). Quindi ogni modello psicoterapeutico, inteso come "punto di vista", ritaglia o riduce la realtà secondo i propri metodi, costruendo un oggetto diverso. Da questo discende il fatto che, concretamente, ogni modello psicoterapeutico, cioè ogni punto di vista, si traduce nella individuazione e nell'utilizzo dei propri metodi di indagine. Questo è importante perché - come argomenta Agazzi (2006, pp. 64-65) - ci aiuta a capire che non ha senso la diatriba tra diverse scuole di psicoterapia con l'accusa reciproca di non-scientificità. Questa diatriba avrebbe senso se metodi opposti si occupassero dello stesso oggetto, mentre non è così: secondo Agazzi ogni metodo si occupa di "oggetti scientifici" diversi, ogni metodo ritaglia il proprio oggetto, per cui "aderire all'una piuttosto che all'altra scelta metodologica significa semplicemente decidere di occuparsi di qualcosa di più o meno diverso o, se si vuole, fare un'altra psicologia" (Agazzi, 2006, p. 65). Per fare un esempio, non ha senso che il comportamentista accusi di scorrettezza metodologica o di ascientificità chi fa uso dell'introspezione, infatti il conflitto tra metodi diversi è "soltanto apparente, quando si sia capito che si traduce in un differenziamento di oggetti e non è una rissa circa il modo di impadronirsi di un unico e medesimo oggetto" (ibid.). Del resto, questo problema non è nuovo né appartiene solo alla psicologia (o alla psicoterapia, che è una delle sue applicazioni), ma anche alle scienze "dure": si pensi alla fisica, dove una volta si riteneva che vi fosse una sola teoria (la meccanica newtoniana), ma poi ci si è accorti che c'è anche l'elettromagnetismo, la fisica quantistica, ecc., tutte discipline che si occupano delle stesse cose ma di oggetti scientifici diversi, sono "tante fisiche", anche se convivono all'interno della fisica come disciplina unitaria.

Secondo questo punto di vista, la psicologia, dal punto di vista epistemologico, si troverebbe quindi nella stessa condizione in cui si trova la fisica (la qual cosa tra l'altro andrebbe contro alla divisione tra scienze dure [hard sciences] e scienze molli [soft sciences], o tra scienze naturali e scienze umane), e la stessa cosa può valere anche per la psicoterapia, che è una applicazione della psicologia: i problemi che l'epistemologo si trova a dover affrontare quando riflette sul modo con cui si rapportano tra loro le diverse scuole psicoterapeutiche sono gli stessi che si trova a dover affrontare quando riflette sul modo con cui si rapportano tra loro le diverse "fisiche" che coesistono nella fisica. Per quanto riguarda il rapporto che hanno tra loro i diversi "oggetti scientifici" della psicoterapia, ritengo che non sia un problema di facile soluzione, e soprattutto che non vada dimenticato che ciascuno di questi oggetti (che, come abbiamo visto, è legato a metodologie diverse) comunque non illumina completamente la realtà, non rivela la "verità", essendo tutti portatori di conoscenze parziali e riduttive (vedi comunque Fornaro [2011, 2013], per una critica ad Agazzi).

Quindi, portando alle estreme conseguenze questo punto di vista, non solo potrebbe essere un bene la pluralità di modelli psicoterapeutici, perché ciascuno di loro esplora legittimamente un aspetto della realtà del paziente (sempre che, come si è detto, rispetti i criteri di "rigore", "controllabilità", "oggettività", "protocollarità", ecc. che caratterizzano il metodo scientifico), ma, si potrebbe dire, sarebbe un bene anche non arrivare mai a un unico modello psicoterapeutico, più "vero" o "migliore" degli altri, perché ciò potrebbe significare che siamo arrivati a conoscere la realtà ultima del paziente, quando sappiamo che la realtà per definizione è inconoscibile (questa era anche la posizione di Freud). In altre parole, appiattire il nostro campo con un unico modello potrebbe inibire il processo di conoscenza, che è interminabile essendo la realtà per definizione non conoscibile in quanto tale.

 

Riassunto. Viene discusso il problema della molteplicità di modelli in psicoterapia, esaminando sette aspetti: 1) il controverso ruolo della ricerca sperimentale per dirimere la questione della competizione tra modelli; 2) i possibili motivi per cui si sono formate molte scuole diverse di psicoterapia; 3) la questione dei fattori specifici e aspecifici (o comuni) in psicoterapia; 4) il problema della integrazione e dell'eclettismo; 5) due proposte fatte all'interno del movimento psicoanalitico, che sono paradigmatiche e che possono suscitare interesse per tutte le scuole di psicoterapia, quella di Fred Pine sulle "quattro psicologie" della psicoanalisi e quella di John Gedo su uno schema gerarchico di cinque principali modelli della mente e livelli di sviluppo rapportati ad altrettanti interventi terapeutici; 6) la utilità per il clinico di conoscere più modelli psicoterapeutici, e anche di avere fatto diverse esperienze di vita, allo scopo di "vedere" e "riflettere" meglio il paziente; 7) una riflessione filosofica, facendo riferimento alla posizione del filosofo Evandro Agazzi, secondo cui più punti di vista sullo stesso paziente possono coesistere e anzi arricchire il percorso di conoscenza, per sua natura interminabile. [PAROLE CHIAVE: pluralità dei modelli in psicoterapia, integrazione in psicoterapia, Fred Pine, John Gedo, Evandro Agazzi]

Abstract. The problem of multiplicity of psychotherapy models. Seven aspects of the problem of multiplicity of psychotherapy models are discussed: 1) the controversial role that psychotherapy research might have in discriminating among competing models and treatments; 2) possible reasons why different psychotherapy schools continue to exist; 3) the problem of specific versus aspecific (or common) therapeutic factors; 4) the issue of psychotherapy integration and eclecticism; 5) two proposals, suggested within the psychoanalytic movement but with paradigmatic value because they may be of interest for all psychotherapy schools, namely the proposals by Fred Pine of the "four psychologies" of psychoanalysis and by John Gedo of a hierarchical schema of five models of the mind and developmental levels linked to five therapeutic interventions; 6) the usefulness for the clinician of knowing different psychotherapy models, and also of rich and diversified life experiences, in order to better understand, "see" and "mirror" the patient's experience; 7) a philosophical reflexion, based on the Italian philosopher Evandro Agazzi's position, on the inevitable coexistence of multiple models, each with its own method, that investigate the patient as a scientific "object", i.e., from different points of view, so that there will be many "objects" while the patient remains the same "thing", whose truth will never be reached by definition because is unknowable and the process of knowledge is endless. [KEY WORDS: multiplicity of psychotherapy models, psychotherapy integration, Fred Pine, John Gedo, Evandro Agazzi]

Riassunto ampliato. Vengono discussi i vantaggi e gli svantaggi della presenza di una molteplicità di modelli in psicoterapia. Riguardo agli aspetti negativi, alcuni argomentano che una molteplicità di modelli collocherebbe la psicoterapia tra le discipline non scientifiche poiché, diversamente dalle maggior parte delle specialità mediche, per gli stessi disturbi possono essere proposti trattamenti diversi, a volte anche opposti; dietro a questa problematica vi sono varie questioni, quali il modo con cui viene concettualizzato il disturbo, la possibilità di differenziare effettivamente terapie diverse, la coerenza del rapporto tra teoria e tecnica (o tra modello e applicazione del modello), e così via. Riguardo agli aspetti positivi, viene argomentato che la molteplicità dei modelli in psicoterapia può costituire invece una ricchezza per il movimento psicoterapeutico, perché mostra la presenza di diverse linee di ricerca che non dovrebbero essere inibite in quanto possono condurre a scoperte impreviste, soprattutto in un campo così complesso come quello della psicoterapia; viene discussa quest'ultima posizione, argomentando che per il progresso delle conoscenze può essere un bene la compresenza di modelli e metodi di ricerca anche molto diversi tra loro, in quanto tutti possono illuminare un aspetto del funzionamento mentale, ciascuno dal proprio angolo visuale che può non essere riconducibile a quello di altri metodi di ricerca. Più in dettaglio, la relazione si divide in sette paragrafi: nel primo viene discussa la possibilità che la ricerca scientifica in psicoterapia possa servire per dirimere la questione della selezione tra modelli e trattamenti in psicoterapia, esaminando i pro e i contro di questa possibilità; nel secondo paragrafo vengono elencati alcuni motivi per cui si sono formate molte scuole in psicoterapia, osservandoli da un punto di vista storico (ad esempio, certe scuole sono sorte in reazione ad altre, alcune scuole includono aspetti che in altre scuole sono esclusivi, e così via); nel terzo paragrafo viene discussa criticamente l'annosa questione dei fattori specifici e aspecifici (o comuni) in psicoterapia, mostrando che può essere già problematica questa suddivisione; nel quarto paragrafo viene fatta una discussione del problema della integrazione e dell'eclettismo in psicoterapia, mostrandone gli aspetti critici e anche quelli positivi; nel quinto paragrafo vengono presentate alcune proposte teoriche, che possono avere valore paradigmatico per tutte le scuole di psicoterapia, fatte all'interno del movimento psicoanalitico per affrontare la questione della molteplicità di modelli in psicoterapia, e precisamente quella di Fred Pine sulle "quattro psicologie" della psicoanalisi e il loro posto nel lavoro clinico, e quella di John Gedo su uno schema gerarchico di cinque principali livelli di sviluppo o modelli della mente rapportati ad altrettante tecniche terapeutiche; nel sesto paragrafo viene sottolineata la utilità per il clinico di conoscere più modelli psicoterapeutici allo scopo di capire o "calzare", "vedere", "rispecchiare" meglio il paziente, e anche l'importanza di essere "ricchi" interioremente e di avere fatto diverse esperienze di vita; nel settimo e ultimo paragrafo vengono fatte riflessioni filosofiche sulla molteplicità dei modelli in psicoterapia, facendo riferimento alla posizione del filosofo Evandro Agazzi, argomentando che più punti di vista sullo stesso paziente possono coesistere e anzi arricchire il nostro percorso di conoscenza, per sua natura interminabile.

 

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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Via Palestro 14, 43123 Parma, tel. 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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