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S.P.R.-It

Society for Psychotherapy Research
Sezione Italiana


RICERCA
in
PSICOTERAPIA


         


Volume 6
Numero 1-2, Gennaio-Agosto 2003


EVIDENZE EMPIRICHE NELLA PSICOTERAPIA DEI DISTURBI DI PERSONALITA'

Paolo Migone


Riassunto
Viene presentato lo stato attuale della ricerca empirica sulla psicoterapia dei disturbi di personalità tramite un breve riassunto di quattro recenti revisioni della letteratura: la meta-analisi di Perry, Banon & Ianni del 1999 sull'American Journal of Psychiatry, il capitolo di Perry & Bond nella Review of Psychiatry annuale del 2000 della American Psychiatric Press, la review di Bateman & Fonagy del 2000 sul British Journal of Psychiatry, e la review di Gabbard del 2000 sul Journal of Psychotherapy Practice and Research. Queste quattro review sono concordi nel ritenere che, contrariamente a una diffusa opinione secondo la quale non vi sarebbero evidenze empiriche nella psicoterapia dei disturbi di personalità, essa invece è efficace, anche se vi sono limitazioni e problemi che impongono cautela nella interpretazione dei dati. In particolare, secondo Perry et al. la psicoterapia in media accelera di sette volte il naturale miglioramento dei disturbi di personalità; Bateman & Fonagy affermano che vi sono dati in favore della efficacia di interventi con determinate caratteristiche, anche se sono cauti sulla possibilità di trarre conclusioni definitive dati i pochi studi controllati e i numerosi problemi aperti; Gabbard, tra le altre cose, sottolinea la cost-effectiveness della psicoterapia dei disturbi di personalità, dimostrata anche da studi su terapie psicodinamiche.
Parole chiave: psicoterapia, disturbi di personalità, evidenze empiriche, ricerca, review.

Summary
The state of the art of psychotherapy research on personality disorders is briefly presented. Four recent reviews are summarized: the 1999 meta-analysis by Perry, Banon & Ianni in the American Journal of Psychiatry, the chapter by Perry & Bond in the 2000 annual Review of Psychiatry published by American Psychiatric Press, the 2000 review by Bateman & Fonagy in the British Journal of Psychiatry, and the 2000 review by Gabbard in the Journal of Psychotherapy Practice and Research. These four reviews all agree that, despite a common contemporary opinion, psychotherapy of personality disorders is a promising treatment, although several methodological problems persist: Perry et al. conclude that psychotherapy of personality disorders may be associated with up to a sevenfold faster rate of recovery in comparison with the natural history of disorders; Bateman & Fonagy state that, despite some limitations, there is reason to feel cautiously optimistic about treating personality pathology, especially if the interventions are well structured and clearly focused; Gabbard, among other things, emphasizes interesting data on cost-effectiveness.
Keywords: psychotherapy, personality disorders, empirical research, evidence, review.

 

Contrariamente ad una opinione abbastanza diffusa secondo la quale non vi sarebbero chiare evidenze empiriche sulla efficacia della psicoterapia dei disturbi di personalità, una attenta revisione della letteratura mette in luce che invece determinati tipi di interventi psicologici possono avere un effetto sul loro decorso, anche se, come vedremo, vi sono limitazioni e problemi che impongono molta cautela nella interpretazione dei dati. Nell'ultimo decennio è stata pubblicata una decina di revisioni della letteratura sulla psicoterapia dei disturbi di personalità: Shea (1993), Reich & Vasile (1993), Roth & Fonagy (1996), Sanislow & McGlashan (1998), Target (1998), Perry et al. (1999), Perry & Bond (2000), Bateman & Fonagy (2000), e Gabbard (2000). Verranno qui prese in rassegna le revisioni più recenti, le due di Perry (sia la review meta-analitica di Perry et al. [1999] che la revisione, un anno dopo, di Perry & Bond [2000]), quella di Bateman & Fonagy (2000), e quella di Gabbard (2000).

1. Le review di Perry et al. (1999) e di Perry & Bond (2000)

Perry et al. (1999), in una meta-analisi pubblicata sull'American Journal of Psychiatry, hanno esaminato 15 studi pubblicati tra il 1974 e il 1998 che rispondevano a criteri minimi di inclusione: tra questi studi vi erano 3 studi randomizzati controllati (Alden, 1989; Linehan et al., 1994; Winston et al., 1994), 3 paragoni randomizzati di terapie diverse (Liberman & Eckman, 1981; Hardy et al., 1995; Monroe-Blum & Marziali, 1995), e 9 studi non controllati (Woody et al., 1985; Karterud et al., 1992; Stevenson & Meares, 1992; Diguer et al., 1993; Fahy et al., 1993; Hoglend, 1993; Monson et al., 1995; Budman et al., 1996; Rosenthal et al., 1999). Erano rappresentate terapie psicodinamiche, cognitivo-comportamentali, miste e supportive, e la diagnosi prevalente era di disturbo borderline (5 studi su 15), ma erano rappresentate anche altre diagnosi (disturbo schizotipico, evitante, antisociale, e tipi misti). I pazienti erano quasi tutti ambulatoriali (13 studi su 15), uno studio era su pazienti in day hospital e uno su pazienti ricoverati.

I risultati emersi mostrano che la psicoterapia dei disturbi di personalità risulta efficace sia con misurazioni di self-report (effect size medio 1.11) che con misurazioni osservazionali (effect size medio 1.29). In 4 studi su 15 il 52% dei pazienti che sono rimasti in terapia è "guarito" (nel senso che non erano più soddisfatti i criteri diagnostici) in media dopo 1.3 anni di trattamento. Sulla base di questo dati, si può calcolare che per ogni anno di terapia il 25.8% dei pazienti con disturbi di personalità guarisce, tasso che è sette volte maggiore di quello della storia naturale di questi disturbi, dove ogni anno guarisce il 3.7% dei pazienti (cioè guarisce il 50% in 10.5 anni di follow-up). In conclusione, questa review meta-analitica di Perry et al. (1999) suggerisce che la psicoterapia accelera, in media, di ben sette volte il normale tasso di miglioramento della storia naturale dei disturbi di personalità. Ovviamente sono necessari ulteriori studi per dimostrare l'efficacia di terapie specifiche per disturbi specifici.

Un anno dopo la pubblicazione di questo lavoro, Perry & Bond (2000) riprendono il discorso in un capitolo della Review of Psychiatry annuale della American Psychiatric Press, esaminando vari studi tra cui anche la propria meta-analisi dell'anno prima, ma senza includere le review di Bateman & Fonagy (2000) e di Gabbard (2000), di cui si parlerà dopo, perché non erano ancora state pubblicate. Riassumendo le conclusioni già raggiunte nel precedente studio, ribadiscono che in media gli effetti della psicoterapia dei disturbi di personalità sono consistenti, da due a quattro volte maggiori di quelli visti nei gruppi di controllo, anche se si può dire che gli studi controllati siano ancora pochi. La gravità del disturbo (ad esempio nel caso si tratti di un disturbo del cluster B piuttosto che C - cioè che si tratti, ad esempio, di una personalità borderline piuttosto che ossessivo-compulsiva) è una variabile che limita molto l'outcome. Il tasso di drop-out varia dal 10% al 20%, a seconda della durata della terapia (cioè del fattore di attrition ["attrito"] dovuto al passaggio del tempo, che fa perdere pazienti) e si sa ancora abbastanza poco delle caratteristiche dei pazienti che si perdono perché spesso gli studi si concentrano su coloro che completano il trattamento. Pare comunque che sia il cluster B quello più soggetto a drop-out. Tra le variabili del processo, viene ribadita l'importanza della alleanza terapeutica e dell'enfasi che i futuri manuali di psicoterapia dovrebbero darle.

2. La review di Bateman & Fonagy (2000)

Bateman & Fonagy (2000), in un recente articolo sul British Journal of Psychiatry, hanno fatto una revisione della letteratura esaminando 1.814 abstracts e 80 articoli selezionati con Medline e PsychLit tramite precise parole chiave, tra cui hanno selezionato 25 lavori che rispondevano a criteri minimamente accettabili (chiare descrizioni dei trattamenti, specifiche misure di outcome, esclusione di diagnosi in asse I, durata del follow-up, ecc.). Gli studi di outcome sono stati suddivisi, a seconda del contesto terapeutico, in tre categorie: (1) pazienti ricoverati, (2) pazienti in day hospital, e (3) pazienti ambulatoriali. E' stata poi fatta una ulteriore suddivisione tra (1) studi di coorte e (2) studi controllati. Questi ultimi consistono soprattutto in pacchetti di trattamento, e pochi sono i Randomized Clinical Trial (RCT) di trattamenti specifici; dato che vi è una sovrapposizione tra questi due tipi di studi, quelli che studiano principalmente il follow-up a lungo termine dopo un intervento relativamente aspecifico sono stati inclusi tra gli studi di coorte. Vediamo brevemente i risultati di questa review di Bateman & Fonagy (2000).

2.1. Pazienti ricoverati

2.1.1. Studi di coorte. I principali studi in questa categoria sono i seguenti: Tucker et al. (1987), Najavits & Gunderson (1995), Blatt & Ford (1994), Copas et al. (1984), McGlashan (1986), Stone (1993), Rosser et al. (1987). In genere si tratta di ricoveri lunghi, esaminati con studi naturalistici pre-test-post-test, dove nella grande maggioranza dei pazienti si è quasi sempre rilevato un netto miglioramento nei sintomi, nel funzionamento globale, e nei comportamenti autodistruttivi. Tutti questi studi sono difficili da interpretare, dato che il lungo follow-up aumenta la probabilità che altri life events significativi possano aver influito sul risultato, per cui vi è il rischio che questi studi documentino semplicemente il decorso a lungo termine di questo disturbo.

2.1.2. Studi controllati. Vi è uno studio di Barley et al. (1993) sulla efficacia della Dialectical Behavior Therapy (DBT) della Linehan (1993a, 1993b) in pazienti ricoverati, paragonati a pazienti di un altro reparto in terapia standard. I miglioramenti sono stati significativi, ma il campione non era randomizzato e non è stata specificata con esattezza quale era la terapia standard, dato che pare dimostrato che producono benefici anche altre terapie ospedaliere strutturate, tipo "gruppi di benessere e stile di vita" in cui si discutono hobbies (Springer et al., 1996) o terapie di insight (Liberman & Eckman, 1981).

Un altro lavoro (Dolan et al. 1997) ha studiato 137 pazienti (di cui 70 ricoverati e 67 non ricoverati per motivi clinici o economici) dove i pazienti non ricoverati sono stati usati come gruppo di controllo, usando come scala la Borderline Syndrome Index (BSI) di Conte et al. (1980), e ha mostrato un miglioramento dopo un anno di follow-up nel gruppo dei ricoverati dove era stata praticata una terapia specializzata. Ma uno studio inglese che ha usato la Personality Assessment Schedule di Tyrer et al. (1988) ha trovato che la BSI di Conte et al. mancava di validità (Marlowe et al., 1996). Alcuni dati, seppur limitati (Dolan et al., 1996), suggeriscono che il ricovero abbassa in modo significativo i costi, soprattutto per coloro che hanno una storia di problemi con la legge.

In sintesi, non è chiara l'utilità del ricovero a lungo termine per i pazienti con disturbi di personalità, anche se si può dire che i pazienti che traggono maggior beneficio sono quelli che mostrano: (1) abuso di sostanze; (2) alto rischio di suicidio; (3) problemi con la legge; (4) passeggere difficoltà nell'esame di realtà; (5) assenza di risposta a ripetuti ricoveri brevi e terapie ambulatoriali; (6) prove che i comportamenti autodistruttivi e la mancanza di speranza (hopelessness) fanno ormai parte della personalità.

2.2. Pazienti in day hospital

2.2.1. Studi di coorte. Vi sono pochi studi su trattamenti specifici. Si possono citare i seguenti tre: Karterud et al. (1992), con una terapia psicodinamica in day hospital, hanno notato un certo miglioramento in pazienti con disturbi di personalità, soprattutto di tipo ansioso-evitante, e modesti miglioramenti in pazienti con il disturbo borderline; Dick & Woof (1986), sempre con una terapia psicodinamica in day hospital, hanno trovato un aumento di utilizzo dei servizi psichiatrici, il che possibilmente dimostra che questi pazienti necessitano di ulteriore terapia; Krawitz (1997) ha notato notevoli miglioramenti con una terapia psicodinamica orientata in senso femminista e socio-politico.

2.2.1. Studi controllati. Piper et al. (1993) hanno trovato un miglioramento con 18 settimane di day hospital in un gruppo di 79 pazienti con disturbi dell'umore e di personalità, paragonati a un gruppo di controllo costituito da pazienti trattati successivamente; i risultati si sono mantenuti a un follow-up di 8 mesi. Bateman & Fonagy (1999), in uno studio controllato su 38 pazienti con disturbo borderline assegnati a caso per 18 mesi a un day hospital orientato psicoanaliticamente e alla terapia tradizionale (Treatment as Usual [TAU]), hanno riportato un miglioramento consistente nelle aree di parasuicidio, automutilazioni, umore, sintomi e ricoveri; il drop-out era del 12%, e il miglioramento avvenne relativamente tardi; non è ancora disponibile il follow-up né una analisi su quale aspetto dell'intervento possa essere responsabile del miglioramento (la terapia, il milieu, il rapporto con lo staff, ecc.).

Data la limitatezza dei dati disponibili, le conclusioni che si possono trarre dagli studi sui pazienti in day-hospital sono incerte, simile a quella dei pazienti ricoverati.

2.3. Pazienti ambulatoriali

2.31. Studi di coorte. I dati degli studi di coorte sulla terapia cognitivo-comportamentale e psicodinamica provengono soprattutto da casi singoli o da metodi teoricamente orientati, per cui è difficile fare generalizzazioni. Lo studio sul follow-up trentennale di Wallerstein (1986) su 42 pazienti seguiti con terapie dinamiche alla Menninger Foundation suggerisce che alcuni pazienti migliorano mentre altri peggiorano, soprattutto se presentano comorbilità. Stevenson & Meares (1992, 1999) hanno mostrato la utilità di un anno di terapia psicodinamica bisettimanale in 48 pazienti con disturbo borderline, dei quali alla fine della terapia il 30% non soddisfacevano più i criteri diagnostici, e il follow-up era positivo anche dopo 5 anni. Davidson & Tyrer (1996) hanno mostrato l'utilità di una terapia cognitivo-comportamentale di 10 settimane in pazienti antisociali e borderline. Turkat & Maisto (1985) hanno trovato invece che solo 16 pazienti su 35 migliorano con la terapia cognitivo-comportamentale. Tutti questi dati ovviamente vanno presi con cautela, non essendo controllati.

2.3.2. Studi controllati. Il noto studio controllato randomizzato della Linehan et al. (1991) sulla DBT ha mostrato una sua efficacia in 22 donne borderline rispetto alle 22 donne del gruppo di controllo. Le automutilazioni dopo un anno di terapia non solo erano meno severe, ma erano 1.5 in media mentre nel gruppo di controllo erano 9. Inoltre si è abbassato il numero di ricoveri. Il drop-out è stato del 16% (quindi abbastanza basso per questo tipo di pazienti), ma non vi sono state differenze tra i due gruppi, anche a un anno di follow-up, riguardo alla depressione, al senso di mancanza di speranza e di senso nella vita.

Uno studio preliminare del gruppo di Kernberg (Clarkin et al., 2001) su 10 pazienti per un anno ha mostrato certi benefici della Transference-Focused Psychotherapy (TFP: Clarkin et al., 1999), anche se gli antisociali erano quelli che miglioravano meno. Monroe-Blum & Marziali (1995) invece hanno trovato una somiglianza tra gli effetti di una terapia dinamica e di una terapia di gruppo di gestione delle relazioni (la Relationship Management Psychotherapy [RMP] di Dawson, 1988), il che suggerirebbe il bisogno di una analisi costi-benefici.

La personalità evitante pare che tragga beneficio da terapie sia dinamiche che comportamentali (per una review, vedi Roth & Fonagy, 1996). Vi sono dati (Beutler et al. 1991; Alden & Capreol, 1993) che suggeriscono che i pazienti evitanti arrabbiati, sfiduciati o resistenti traggono maggior beneficio da terapie non direttive, mentre quelli non assertivi possono migliorare con entrambe.

In conclusione, non vi sono ancora dati decisivi sulla utilità di terapie ambulatoriali per il disturbo borderline, soprattutto se i pazienti sono a basso funzionamento. Il più citato studio di efficacia, quello della Linehan et al. (1991) sulla DBT, che le ha fatto meritare l'ingresso ufficiale in alcuni elenchi degli Empirically Supported Treatments (EST) (vedi ad esempio DeRubeis & Crits-Cristoph, 1998, e Chambless & Ollendick, 2001), è deludente per la limitata efficacia al follow-up. Si sa solo che certi pazienti evitanti possono migliorare con tecniche dinamiche o comportamentali.

3. La review di Gabbard (2000)

Gabbard, in una review sul Journal of Psychotherapy Practice and Research del 2000, descrive in dettaglio i risultati di vari studi sulla efficacia della psicoterapia dei disturbi di personalità, esaminati anche dalle review precedenti, e, in sintesi, conclude che si può avere un cauto ottimismo sulla trattabilità dei disturbi di personalità, che invece in genere vengono considerati intrattabili dalle agenzie assicuratrici. Naturalmente siamo ancora in un periodo pionieristico in questo campo, afflitto da vari problemi che confondono i risultati, come la frequente mancanza di randomizzazione e controllo, concomitanti ospedalizzazioni e farmacoterapie, comorbilità in asse I, possibilità che il miglioramento sia dovuto a life events accaduti durante il periodo del trattamento, ecc. Inoltre i pazienti con disturbi del cluster A (paranoide, schizoide e schizotipico) raramente vengono studiati perché quasi mai richiedono una terapia: ad esempio, in uno studio su 100 pazienti che avevano fatto domanda di trattamento al Columbia Psychoanalytic Center (Oldham & Skodol, 1994), al Personality Disorder Examination (PDE) solo 4 risultarono paranoidi, 1 schizoide e nessuno schizotipico.

Tra le conclusioni tratte da Gabbard (2000), si possono citare le seguenti: alcuni dei principali sintomi della personalità evitante possono migliorare con social skills training e tecniche cognitivo-comportamentali (Alden, 1989; Cappe & Alden, 1986; Marzillier et al., 1976; Stravynski et al., 1982; Hofmann et al., 1995; Mersch et al., 1995; Feske et al., 1996); i pazienti antisociali depressi e dipendenti da oppioidi, contrariamente a quanto si credeva prima, possono migliorare con tecniche psicodinamiche (Woody et al., 1985); i pazienti borderline possono diminuire notevolmente i tentativi di suicidio con sedute monosettimanali di DBT, sia individuali che di gruppo, anche se migliorano poco nel loro vissuto soggettivo di hopelessness (Linehan et al., 1991); i sentimenti di depressione e scoraggiamento dei borderline possono invece migliorare con una terapia psicodimanica (Stevenson & Meares, 1992), soprattutto se associata a day-hospital (Bateman & Fonagy, 1999).

Molta enfasi viene posta da Gabbard (1997, 2000) alle implicazioni di questi studi riguardo alla bilancia costi-benefici: nello studio della Linehan et al. (1991) i giorni di ricovero dei pazienti trattati erano stati in media 8.46 all'anno, paragonati ai 38.86 giorni di ricovero all'anno per i pazienti del gruppo di controllo; inoltre nel gruppo trattato si era abbassato notevolmente il numero di automutilazioni, per cui è stato calcolato che la psicoterapia può far risparmiare circa 10.000 dollari all'anno per paziente. Simili risultati sono stati trovati anche dallo studio australiano di Stevenson & Meares (1992) sulla efficacia della terapia psicoanalitica, dove è stato dimostrato che la terapia ha ridotto di metà le spese di ospedalizzazione: nell'anno precedente alla psicoterapia i costi di ospedalizzazione del campione di 30 pazienti erano stati di 684.346 dollari australiani, con un range che andava da 0 a 143.756 dollari per paziente, mentre nell'anno successivo alla psicoterapia i costi di ospedalizzazione erano stati di 41.424 dollari australiani, con un range che andava da 0 a 12.333 dollari per paziente, quindi con un risparmio medio di 21.431 dollari all'anno per paziente. Se si calcola che la psicoterapia costa 13.000 dollari all'anno per paziente, il risparmio sarebbe di 8.431 dollari all'anno per paziente. Altri studi (ad esempio quello di Bateman & Fonagy, 1999) non hanno fatto questi calcoli, ma è probabile che la bilancia costi-benefici sia simile.

Un altro importante fattore terapeutico discusso da Gabbard (2000) è la durata della terapia: non ci si può fare illusioni sul fatto che nei pazienti con disturbi di personalità la terapia deve essere necessariamente molto più lunga che per i disturbi in asse I. Vari studi hanno approfondito il rapporto dose-effetto delle psicoterapia (Howard et al., 1986; Kopta et al., 1994; Hoglend, 1993; Waldinger & Gunderson, 1987; ecc.), e tutti hanno concluso che, se sono presenti sintomi del carattere, un rapporto terapeutico stabile nel tempo e impegnato a tenere il paziente nonostante le molte difficoltà e gli alti e bassi che si possono incontrare, è molto più efficace di un rapporto breve o intermittente.

4. Problemi aperti

Tra i tanti problemi che rimangono aperti, vediamo quelli presi in rassegna da Bateman & Fonagy (2000): (1) identificazione dei casi, (2) comorbilità, (3) randomizzazione e controllo, (4) specificità delle psicoterapie, (5) misurazioni usate e follow-up (per una discussione critica sui problemi della ricerca empirica in psicoterapia, vedi anche Westen, 2001, e Migone, 1989, 1996, 2001, 2002).

4.1. Identificazione dei casi. Vi sono grossi problemi nel modo con cui vengono identificati i casi studiati, perché spesso le categorie diagnostiche individuate non hanno valore predittivo. In genere vi sono i metodi descrittivi (come il DSM-IV o l'ICD-10), e quelli guidati dalle teorie che hanno il difetto di essere meno descrittivi ma che permettono di perfezionare la classificazioni puramente descrittive. Gli approcci dimensionali sono poco utilizzabili per gli studi di outcome. Forse può essere promettente il metodo SWAP-II recentemente suggerito da Westen & Shedler (1999a, 1999b; Shedler, 2002; Shedler & Westen, 1998), basato sull'uso del Q-set, che è significativo in senso sia psicometrico che clinico (Lingiardi & Gazzillo, 2002; Lingiardi & Abbate, 2003)

4.2. Comorbilità. Quasi sempre i pazienti presentano più disturbi in asse II simultaneamente, e spesso anche disturbi in asse I. Questo crea problemi perché ad esempio un miglioramento del disturbo in asse I può essere confuso, nelle misurazioni, con un miglioramento del disturbo in asse II e viceversa.

4.3. Randomizzazione e controllo. Anche qui vi sono grossi problemi. Ad esempio è molto costoso e logisticamente difficile continuare uno studio controllato randomizzato per lungo tempo. Il fattore di attrito (attrition), cioè il numero di pazienti che vengono persi mano a mano che si allunga lo studio, è molto alto, anche se può essere abbassato con tecniche specifiche che innalzano la compliance (ad esempio prestando attenzione al contratto e alla alleanza terapeutica). Inoltre in questi pazienti è frequente il trattamento intermittente, e questo confonde le misurazioni di follow-up. Anche la randomizzazione è difficile a causa delle aspettative dei pazienti che a volte sono alte e hanno un importante ruolo nella terapia stessa. Le liste d'attesa, per ovvi motivi, non possono essere usate per studi di lunga durata.

4.4. Specificità delle psicoterapie. Vi è una tale variabilità all'interno di ogni singolo approccio, e un tale overlapping tra approcci, che gli effetti differenziali spesso sono mascherati. Per innalzare la specificità, come è noto, sono stati costruiti i manuali, che però hanno i loro problemi (poca flessibilità, maggiore distanza dalla pratica clinica reale, innalzamento della efficacia e abbassamento della efficienza, ecc.; vedi Migone, 1996, 2001, 2002). I principali manuali sono quelli psicodinamico della TFP (Clarkin et al., 1999), cognitivo-comportamentale della DBT (Linehan, 1993a, 1993b), e quello non direttivo di gestione delle relazioni interpersonali in gruppo della RMP (Dawson, 1988), mentre quello della Cognitive Analytic Therapy (CAT) di Ryle (1997) non è stato ancora testato. Attualmente a Stoccolma si sta facendo un importante studio comparativo tra due anni di TFP e due anni di DBT, ma non si conoscono ancora i risultati.

4.5. Le misurazioni usate e il follow-up. In genere le misurazioni sono su sintomi, comportamenti e funzionamento sociale, ma non sulle sindromi. Spesso (come ad esempio nei pazienti che hanno compiuto atti criminali) si guarda al numero di arresti, ma non è affatto detto che sia una misura appropriata. Alcuni guardano alla riduzione del numero dei criteri diagnostici. Occorrerebbe sempre avere una prospettiva sia del paziente che dell'osservatore, e occorrono anche nuovi e migliori strumenti (ad esempio è possibile che in futuro si usi l'Adult Attachment Interview [AAI] della Main et al., 1985 [George et al., 1985]). Infine è importante un lungo follow-up, perché non sempre l'effetto della terapia è già visibile alle dimissioni.

5. Conclusioni

Si può dire che, alla luce dei problemi elencati finora (definizioni, specificazione del tipo di trattamento, controlli, dimostrazione della efficacia sulla struttura della personalità e non solo sui sintomi, ecc.), occorre molta cautela prima di affermare con certezza che la psicoterapia dei disturbi di personalità è efficace, anche se disponiamo di dati promettenti (si pensi solo a quelli, molto interessanti, che suggeriscono che i benefici sono altamente cost-effective [Gabbard, 1997, 2000]).

Bateman & Fonagy (2000), alla fine della loro review, affermano che i trattamenti efficaci hanno questi ingredienti: (a) sono ben strutturati; (b) si sforzano di innalzare la compliance; (c) hanno un chiaro focus (ad esempio i comportamenti autolesivi o certi pattern comportamentali); (d) sono teoricamente coerenti; (e) sono a lungo termine; (f) incoraggiano una forte alleanza terapeutica tra paziente e terapeuta dove il terapeuta gioca un ruolo abbastanza attivo; (g) sono ben integrati con gli altri servizi nella comunità. Anche Perry (1993; Perry et al., 1999; Perry & Bond, 2000) sottolinea l'importanza della alleanza terapeutica. Bateman & Fonagy (2000) aggiungono che un elemento centrale della efficacia di una terapia è il fatto che il paziente si coinvolga in un rapporto attento, ben strutturato, coerente e duraturo con il terapeuta (e con un équipe di professionisti nella comunità) in un processo che poi può permettere la interiorizzazione di determinate funzioni cognitive prima deficitarie (come la funzione riflessiva o metacognitiva [Fonagy, 1991; Fonagy & Target, 1993-2000; Fonagy et al., 2000], il cui mancato sviluppo rappresenterebbe un fattore di rischio per lo sviluppo di varie psicopatologie adulte, soprattutto di tipo borderline). Questo tipo di esperienza interpersonale può essere presente in tutti gli approcci psicoterapeutici, e si può argomentare su base empirica che è proprio questa esperienza che è mancata a molti pazienti nel corso del loro sviluppo psico-affettivo.

Per quanto riguarda le implicazioni cliniche che si possono trarre in generale dalle evidenze empiriche nella psicoterapia dei disturbi di personalità, vi sono prove sulla efficacia di terapie per il disturbo borderline, in genere di tipo cognitivo-comportamentale e psicodinamico. I trattamenti ospedalieri, rispetto a quelli in day hospital e ambulatoriali, sono più indicati per i pazienti che fanno uso di sostanze, presentano un alto rischio di suicidio, e che non fanno progressi con ripetuti ricoveri o in terapia ambulatoriale. I limiti consistono nel fatto che gran parte delle prove che abbiamo sono descrittive o qualitative, basate più su studi di coorte che su studi controllati. Secondo Bateman & Fonagy (2000), dovranno passare vari anni e essere completati molti altri studi prima di raggiungere vere e proprie evidenze empiriche sulla efficacia della psicoterapia dei disturbi di personalità, per cui i tempi non sarebbero ancora maturi per fare review quantitative più sistematiche, incluse le meta-analisi.

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- Relazione letta a un Workshop dal titolo "Evidenze empiriche nel trattamento dei Disturbi di Personalità" al VIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI), Roma, 25 febbraio-1 marzo 2003
- Paolo Migone, Via Palestro 14, 43100 Parma, Tel./Fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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