PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1998, 77: 63-69

Riflessioni sulla situazione terapeutica
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Continuo le riflessioni iniziate nella mia rubrica precedente [Il Ruolo Terapeutico, 76/1997], stimolate dai versi di Queneau di cui mi era stato chiesto un commento. L'altra volta avevo parlato della questione della "autorevolezza" dell'analista. Questa volta accennerò ai seguenti problemi: la questione della suggestione; consapevolezza e/o inconsapevolezza del terapeuta nella relazione; il setting; relazioni terapeutiche "tossiche". Questioni non da poco, si dirà, e non pretendo certo di trattarle in modo organico, ma di esporre solo delle riflessioni libere che spero stimolino l'interesse di qualche collega. Data la vastità degli argomenti, farò vari riferimenti bibliografici, così il lettore può eventualmente andare ad approfondire quelle tematiche che qui saranno date per scontate. In questo modo questo scritto assomiglierà a una specie di "ipertesto", nel senso che determinate parole aprono percorsi ad albero con varie ramificazioni.

La questione della suggestione

Il concetto di suggestione si può criticare allo stesso modo con cui nella rubrica precedente avevo criticato quello di "distorsione": a rigore, non bisognerebbe parlare di suggestione, in quanto il suo opposto non esiste. Siamo sempre suggestionati, volenti o nolenti (rimando alla teorizzazione di Gill che ha chiarito molto bene questo punto [per brevità, vedi pp. 82-87 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995]). Il terapeuta, come il paziente, si trova a vivere uno stato che solo in un momento successivo si accorge che può essersi trattato di una forma di "(auto)suggestione". Nel momento in cui viene vissuta una determinata interazione paziente-terapeuta, si tratta di una "azione" sulla quale non abbiamo ancora rivolto la nostra riflessione (o di unformulated experience, per dirla con Donnel B. Stern [Contemporary Psychoanalysis, 1989, 1: 1-33]). Ma se la nostra condizione esistenziale è quella di essere sempre tutti suggestionati o manipolati, questo non significa che non possa rimanere aperto un arco di tensione dialettica tra gradienti di "maggiore o minore suggestione", o tra tipi di "suggestione" di qualità diversa tra loro [per un dibattito su questo problema, vedi Psicoterapia e Scienze Umane, 1992, 4: 135-136].

Consapevolezza e/o inconsapevolezza del terapeuta nella relazione

La problematica della suggestione è strettamente collegata alla questione della consapevolezza del terapeuta. Bisogna intendersi a proposito della dicotomia consapevolezza/inconsapevolezza, cioè conscio/inconscio. Ritengo che non esista un inconscio che viaggia su un binario sovrapposto o parallelo a quello del conscio, e che sia integralmente traducibile e reso conscio (e qui ha ragione Fossi [La psicoanalisi verso il cambiamento. Roma: NIS, 1994], che da anni in modo molto lucido insiste su questa critica alla reificazione di una realtà duplicata nell'inconscio). Prima di tutto, se è inconscio per definizione non possiamo conoscerlo, e poi se è conscio è un'altro stato conscio diverso dallo stato conscio precedente, e quindi si tratta semplicemente di fare i conti con questa "nuova realtà" (esaminandone con calma le implicazioni, anche in termini di coerenza e di continuità del Sé). Ciò non vuol dire che l'inconscio non esiste, o che non esiste alcuna traccia di verità storica esistendo solo quella narrativa, inventata o "costruita" insieme, sottolineata dagli ermeneuti come Spence [Verità narrativa e verità storica (1982). Firenze: Martinelli, 1987]. Voglio dire che una realtà psichica inconscia, nel momento in cui diventa conscia, è subito in un qualche modo trasformata (non foss'altro che per il nominarla - vedi a questo proposito le acute riflessioni di Lowenstein del 1956 in "Alcune note sul ruolo del linguaggio nella tecnica psicoanalitica" [Psicoterapia e Scienze Umane, 1991, 1: 101-118]). Quando guardiamo al nostro passato, quando recuperiamo dalla memoria (conscia o inconscia) una informazione, essa viene sempre modificata, nel senso che così come il passato influenza il presente, anche il presente influenza il passato.

Questa circolarità è stata improvvisamente riscoperta negli anni 1970 da quegli psicoanalisti americani che poi verranno chiamati ermeneuti (Schafer, Spence, ecc.) sulla scia di Ricoeur [Della interpretazione. Saggio su Freud (1965). Milano: Il Saggiatore, 1967]. A livello neurobiologico, è sostanziata da molte ricerche tra cui ad esempio quelle di Edelman [Il presente ricordato: una teoria biologica della conoscenza (1989). Milano: Rizzoli, 1991]. A mio parere, questi non siano veri progressi, ma semplicemente un ritorno a Freud [Opere di Sigmund Freud, vol. 7, p. 575], che nel 1914 col concetto di Nachträglichkeit disse la stessa cosa. L'importante concetto di Nachträglichkeit è stato tradotto in italiano, e anche in francese da Laplanche & Pontalis [Enciclopedia della psicoanalisi (1967). Bari: Laterza, 1968], con "posteriorità", mentre Strachey nella traduzione inglese della Standard Edition ne travisò il significato chiamandola "deferred action", cioè "azione differita". Essa si riferisce alla "attribuzione retrospettiva" di significato nel senso del guardare indietro a posteriori come momento di riorganizzazione dei significati personali [vedi Thomä H. & Kächele H., Trattato di terapia psicoanalitica. 2: Pratica clinica (1988). Torino: Bollati Boringhieri, 1993, p. 119 nota 1, e pp. 122-124]. La fuorviante traduzione inglese di Nachträglichkeit in deferred action può aver ritardato la comprensione di questo concetto nel mondo anglosassone, e dato fiato alla critica ermeneutica di certi analisti americani. Una maggiore attenzione al concetto di Nachträglichkeit avrebbe forse ridimensionato il carattere di novità che alcuni attribuivano al concetto di "circolo ermeneutico"; non è un caso che il dibattito sull'ermeneutica (per la verità sempre più simile a un "circolo vizioso") è continuato insoluto per anni, con i rispettivi esponenti fermi sulle proprie posizioni [vedi anche il dibattito tra R. Holt, H. Kächele e G. Vattimo al convegno che ho organizzato a Bologna nel 1994, da cui è stato tratto il libro Psicoanalisi ed ermeneutica. Chieti: Métis, 1995]. Certi aspetti della "sfida della complessità" forse furono già intravisti da Freud, che sembrava impaziente di andare oltre il suo zeitgeist positivista. Non solo, ma il concetto di Nachträglichkeit non è in contraddizione col l'insistenza di Freud su quello che Grünbaum ha chiamato Tally Argument o "Argomento della Concordanza" [I fondamenti della psicoanalisi (1984). Milano: Il Saggiatore, 1988; Opere di Sigmund Freud, vol. 8, p. 601]. Il Tally Argument presuppone che l'interpretazione dell'analista debba concordare, o corrispondere, con quello che vi è di "vero" (tally with what is real) nella realtà psichica del paziente [per un approfondimento, vedi il mio libro Terapia psicoanalitica, prima citato, pp. 184-186, e la mia rubrica n. 50/1989 del Ruolo Terapeutico]: se è vero che il passato in quanto tale non è ricuperabile ma viene sempre modificato alla luce del presente, è anche vero che la mente non funziona come tabula rasa, nel senso che gli schemi mnestici del passato hanno una potente influenza nel modificare la percezione attuale (mi viene in mente che già circa mezzo secolo fa il famoso medico Murri a proposito della diagnosi disse che "in clinica non si tratta di conoscere, ma di riconoscere").

Non tutte le (ri)costruzioni del passato quindi sono uguali o solo in funzione della autorevolezza dell'analista, e neppure della loro coerenza interna o del loro valore estetico (bisognerebbe poi chiedersi rispetto a che cosa si misura la coerenza o il valore estetico, nel senso che si rischia di spostare il problema senza risolverlo). Esistono modalità per differenziare quanto una informazione (o interpretazione) sia nuova o invece in un qualche modo già "conosciuta" (si pensi alle improvvise reazioni emotive che seguono ad una certa interpretazione, alla comparsa di nuovi ricordi, o alla soggettiva sensazione di essere toccati dentro, che ci fa dire ad esempio "questa cosa è come se l'avessi sempre saputa").

Per tornare alla questione consapevolezza/inconsapevolezza, è scontato che gran parte di quello che accade nella relazione terapeutica è al di fuori della consapevolezza di entrambi i partners. Non solo, ma l'analista non è mai consapevole di quello che fa mentre lo fa: come si è espresso Liotti, "essere consapevoli di un dato cosciente significa essere certi che è passato" [La dimensione interpersonale della coscienza. Roma: NIS, 1994, p. 14]. Anche quando l'analista crede di essere consapevole e di pianificare i suoi interventi (quando cioè non è coinvolto in espressioni emotive spontanee o incontrollabili, quali colpi di tosse, starnuti, risate, emozioni improvvise, movimenti automatici del viso e del corpo, ecc. - vedi a questo proposito il divertente tentativo di categorizzazione da parte di Hoffman delle attività "espressive" dell'analista [Contemporary Psychoanalysis, 1992, 1: 1-15]), quando cioè agisce pianificando la sua azione o le sue parole, non ne conosce le piene implicazioni (anzi, dovremmo dire le possibili altre implicazioni, perché non conosceremo mai le "piene" implicazioni di qualcosa). Solo in seguito (dopo alcuni secondi, minuti, sedute, settimane, mesi, anni, o mai) potrà scorgere altri significati che erano implicati in quell'intervento o che potevano essere attributi ad esso (sia nel senso controtransferale in senso stretto, che anche nel senso controtransferale in senso lato, cioè nei termini di quegli agiti che rappresentano la "risonanza di ruolo" di cui ha parlato Sandler [Controtransfert e risonanza di ruolo (1976). In: C. Alberella & M. Donadio, a cura di, Il controtransfert. Napoli: Liguori, 1986, pp. 189-197]). E questo non è un male, anzi è una delle parti più belle e utili della analisi, quella che ci può permettere di conoscere meglio il nostro paziente e di conseguenza noi stessi (o viceversa), e di fare un lavoro cosiddetto analitico (invece di dire che "è una delle parti più belle e utili della analisi", sarebbe più corretto dire che è il normale lavoro analitico, in quanto non è possibile che sia altrimenti: è questa la ricerca o [ri]costruzione dei significati).

Questa problematica è stata affrontata negli ultimi anni, tra gli altri, da Irwin Hoffman [Ritualità e spontaneità nella situazione psicoanalitica (1998). Roma: Astrolabio, 2000], che era lo stretto collaboratore di Merton Gill e che ora, dopo la sua morte, continua la stessa importante ricerca, seppur su linee lievemente diverse. E' stato Hoffman a rendere popolare il termine "socio-costruttivismo" a proposito della situazione analitica, e ora preferisce usare il termine "dialettica", intendendola con un significato tutto particolare - con riferimenti anche alla dialettica della "liminalità" tra rituale e spontaneità mutuata dall'antropologo Victor Turner sul quale sarebbe lungo soffermarmi ora [Il processo rituale. Struttura e antistruttura (1969). Brescia: Morcelliana, 1972].

Per tornare alle questioni poste prima, ovviamente si può dire che la psicoanalisi sia uno dei rituali terapeutici della civiltà occidentale. Ma come si differenzia dai tipici rituali religiosi o sciamanici studiati dagli antropologi? La psicoanalisi (non la psicoterapia in senso stretto) potrebbe consistere in un processo che tende all'annullamento di tutti i rituali possibili alla ricerca costante e infinita (o, se vogliamo, alla co-costruzione) di tutti i possibili significati nascosti dietro a tutti i possibili comportamenti ritualizzati, "agiti" (unformulated experience) in un tempo T1 immediatamente precedente (un esempio di questi comportamenti in un tempo T1 potrebbe essere il cosiddetto transfert, mentre un transfert interpretato sarebbe solo un comportamento in un tempo T2, che è a sua volta un altro transfert e così via all'infinito). Ecco perché, estremizzando questo discorso, la vera terapia sarebbe una "non terapia", la parola detta anche da un amico non autorevole e al di fuori di qualunque rituale terapeutico, la parola che guarisce solo perché più vera (a questo proposito, se il rituale o l'autorevolezza dell'analista fossero indispensabili all'analisi, come funzionerebbe l'autoanalisi? Non ci hanno forse insegnato che l'autoanalisi - fatta non solo dopo la fine dell'analisi, ma anche durante l'analisi stessa - è una parte importante del lavoro analitico?).

Prima ho parlato di "psicoanalisi e non di psicoterapia in senso stretto", e voglio precisare cosa intendo. Per psicoterapia in senso stretto può intendersi propriamente un rituale magico, nel senso che mira a un cambiamento in quanto tale, spesso solo a breve termine, che non prende in considerazione il problema della dipendenza del paziente dal terapeuta (o stregone, sciamano, ecc.) con tutte le implicazioni pratiche e teoriche di questa dipendenza (nel senso che ad esempio il paziente "curato" non si autonomizza ma eventualmente, in caso di bisogno, dovrà sempre tornare dal terapeuta per ricevere quell'aiuto che solo il terapeuta può dargli). Questo tipo di psicoterapia non psicoanalitica utilizza quei rituali basati su rapporti asimmetrici, su una figura che deve rimanere "autorevole" (vedi la mia rubrica precedente), non prevedendo la possibilità di analizzare questa autorevolezza e la connessa dipendenza del paziente da essa - ecco perché la concezione asimmetrica del terapeuta come figura necessariamente autorevole a mio parere appartiene alla psicoterapia in senso stretto (suggestiva) e non alla psicoanalisi.

Il setting

Analista e paziente quindi, alla pari, interagiscono in una stanza per un po' di tempo, e questa è l'analisi. E' come un qualunque rapporto umano, solo che è più strutturato essenzialmente per motivi di praticità e di economia da parte dell'analista (e a volte anche del paziente, a cui pure può far comodo avere degli orari fissi per meglio organizzare la settimana). Spesso ci si scorda che le regole del setting, e la loro relativa comodità o utilità, vengono decise da quello dei due partners che ha maggiore forza contrattuale, forza che dipende dal prestigio sociale di cui gode la psicoanalisi in quella determinata area geografica e in quel periodo storico. Si pensi ad esempio le teorizzazioni tese a razionalizzare il numero ottimale di sedute settimanali - prima sei, poi cinque, quattro, e presto tre o magari una - rincorrendo il mutato clima sociale, cioè giustificando pateticamente a posteriori quello che di fatto già avveniva forzatamente nella professione [vedi il mio libro Terapia psicoanalitica, citato prima, p. 81].

Per tornare all'aspetto "strutturato" o "ritualizzato" della terapia, il fatto che la differenza tra una terapia e una non terapia sia che la prima è più strutturata non la rende qualitativamente diversa da qualunque rapporto umano, perché anche tanti rapporti umani sono strutturati (si pensi a quello tra marito e moglie); casomai, la terapia è "professionalizzata", mentre gli altri rapporti non lo sono. Dicendo che la psicoterapia è una professione, mi rendo conto di spostare il problema senza risolverlo (infatti, stabilito che la psicoterapia è una professione, come si fa questa professione? Se la si può svolgere in modi diversi, qual è il modo "migliore"? Qual è il training ottimale? Ci ritroviamo di fronte al problema di partenza). Mi va bene comunque per il momento definire la psicoterapia solo in negativo e dire che essa non è quello che tanti dicono che essa sia (sapere "cosa è la psicoanalisi" significherebbe, per così dire, chiudere il discorso e interrompere il processo analitico - sarebbe ragionare in modo non dialettico, direbbe Hoffman).

Ho dunque toccato un altro tema, quello del setting: quanto è importante la stabilità, la ritualizzazione, di questo setting? E' solo una questione di praticità o anche di un suo ruolo preciso all'interno della teoria della tecnica? Vi è una enorme letteratura che va nella direzione di considerare il setting come parte della tecnica, quasi innalzandolo a nuovo fattore curativo, soprattutto dopo la crisi del concetto di interpretazione [per un approfondimento, rimando a vari contributi di Galli, ad esempio nei numeri 38/1984 e 40/1985 del Ruolo Terapeutico, o il suo libro La persona e la tecnica pubblicato dal Ruolo Terapeutico nel 1996; vedi anche "Le ragioni della clinica", Psicoterapia e Scienze Umane, 1988, 3: 3-8]. Inoltre una maggiore enfasi al concetto di setting dipende dalla rivalutazione della teoria delle relazioni oggettuali nella psicoanalisi contemporanea, che è andata di pari passo con l'allargamento della psicoanalisi ai pazienti più gravi (non bisogna dimenticare che il concetto di "setting" ha fatto la sua comparsa nel dibattito psicoanalitico solo a partire dagli anni '50, prima era pressoché inesistente). Questo è proprio uno dei punti caldi del dibattito psicoanalitico contemporaneo: quanto la ritualizzazione del setting viene caricata simbolicamente, come viene elaborata, l'uso che ne viene fatto, ecc. (Langs è uno dei tanti autori che hanno seguito questa linea di pensiero [vedi la rubrica n. 45/1987]). Senza entrare approfonditamente in questa problematica, accennerò solo al fatto che sempre più voci si levano a dire che la struttura del rapporto analitico è importante non tanto nel senso della sua ritualità (o della sua non ritualità - vedi il filone delle terapie umanistico-esperienziali che si muovono proprio in modo opposto), quanto del modo con cui sia la regola che la sua inevitabile e continua infrazione vengono gestite ed elaborate (è questa anche la direzione delle ricerche che sta tentando di fare Hoffman). Vi è anche molto più accordo sul fatto che il "contenuto" di questa ritualità (lettino o sedia, numero di sedute alla settimana, ecc., cioè i criteri estrinseci così come li definì Gill) è meno importante del fatto stesso che esista una struttura, di qualunque tipo essa sia (la struttura insomma del rapporto tra i due partners), che necessariamente viene investita simbolicamente e utilizzata come veicolo per il cambiamento, da una parte, e per l'interpretazione, dall'altra (a questo proposito, vedi anche le argomentazioni di Codignola riguardo alla demarcazione tra "vero" e "falso" - ovvero tra ciò che è e non è interpretabile - nella struttura logica dell'interpretazione psicoanalitica [Il vero e il falso. Torino: Boringhieri, 1977]).

Relazioni terapeutiche "tossiche"

Dicevo che i due partners sono alla pari, e si influenzano a vicenda, cercando di capire qualcosa di questo loro rapporto: vinca il migliore, potremmo dire. Cioè si spera che l'analista influenzi il paziente, ma sappiamo che inevitabilmente anche il paziente influenza l'analista (nella mia rubrica precedente avevo accennato a quegli autori che parlano del paziente come "terapeuta" del suo analista). E qui tocchiamo la questione delle relazioni terapeutiche "tossiche". Il concetto di iatrogenicità è culturalmente determinato: quello che è un danno per una cultura storicamente e geograficamente determinata può essere visto come un effetto positivo per un'altra. Ecco perché la psicoterapia non può prescindere dall'etica, cioè dal problema dei valori (sia del terapeuta che del paziente, s'intende). Va ricordato, a questo proposito, che per Freud la "ricerca della verità" e la "terapia" procedevano sempre insieme. Oggi questo "legame inscindibile" (Junktim) [Opere di Sigmund Freud, vol. 10, p. 422] o "legame molto stretto fra terapia e ricerca" viene messo in discussione (vedi ad esempio il secondo volume del Trattato di Thomä & Kächele, citato prima, p. 9) influenzati anche dalle pressanti domande poste in tempi recenti dalla bioetica [per una discussione del rapporto tra "ricerca di verità" e "terapia" in analisi, vedi la mia rubrica sul n. 69/1995 del Ruolo Terapeutico, intitolata "Terapia o ricerca della verità? Ancora sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia"].

Non solo, ma, come hanno osservato da tempo tanti psicoanalisti (ben prima dei sistemici), un paziente che migliora può rappresentare un "danno" per l'equilibrio della sua famiglia o di chi gli sta vicino, che va incontro a sofferenze, crisi e ristrutturazioni di vita. Un altro familiare magari assume gli stessi sintomi allo scopo di perpetuare il modello relazionale interiorizzato. Come hanno sottolineato Erikson e soprattutto i teorici delle relazioni ogettuali, non si interiorizza mai un oggetto, ma sempre una relazione oggettuale, la quale nel transfert può essere tranquillamente invertita senza che ciò provochi uno squilibrio del sistema (vedi i vecchi concetti di rivolgimento da attivo a passivo [passive into active], di identificazione con l'aggressore [descritta da Anna Freud in L'io e i meccanismi di difesa (1936)], ecc.).

Ecco dunque un modo di affrontare il tema della iatrogenicità in psicoterapia: la psicoanalisi, così come ogni terapia, è sempre "iatrogena", ma per fortuna, in quanto significa che essa può operare dei cambiamenti (meno male che la terapia fa male! - potremmo dire con un gioco di parole). Se non fosse iatrogena non sarebbe neanche terapeutica (ed è pacifico, come si diceva prima, che la "tossicità" della psicoterapia può andare anche in direzione opposta, cioè dal paziente al terapeuta). Non è un caso che i critici della psicoterapia (come ad esempio Eysenck) hanno sempre cercato di dimostrare che essa è inutile, non dannosa, ben consapevoli che una eventuale iatrogenicità della psicoterapia li avrebbe costretti ad ammettere anche una sua efficacia [rimando al mio lavoro "La ricerca in psicoterapia: storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo". Rivista Sperimentale di Freniatria, 1996, 2, p. 201].

Concludo qui queste riflessioni libere, che hanno iniziato discorsi che poi sono andati molto lontano. La sensazione è quella di aver aperto una scatola di serpenti, difficile ora da richiudere. Spero almeno di aver stimolato l'interesse di qualche lettore.

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

PM --> HOME PAGE --> NOVITA' --> SEZIONI ED AREE --> PROBLEMI DI PSICOTERAPIA --> INDICE RUBRICHE