Paolo Migone
Un anno fa sono stato invitato a intervenire a un Meeting Internazionale Online dal titolo "Lost in Therapy. Logos e Pathos nel processo terapeutico", tenuto dal 29 novembre al 1º dicembre 2024 e con la Direzione Scientifica di Susanna Federici, Gianni Francesetti, Michela Gecele e Gianni Nebbiosi (questi colleghi provengono da due tradizioni diverse, infatti Susanna Federici e Gianni Nebbiosi, di Roma, fanno parte dell'ISIPSé, che è una scuola di Psicologia Psicoanalitica del Sé, mentre Gianni Francesetti e Michela Gecele fanno parte dell'IPsiG, cioè dell'Istituto Internazionale di Psicopatologia e Psicoterapia della Gestalt di Torino). A me era stato chiesto di intervenire nella prima giornata, alla sessione iniziale dal titolo "Logos e Pathos: introduzione filosofica", come discussant della relazione principale che era di Leon Heuts, della Delft University of Technology (Olanda), la cui relazione si intitolava "The openness of language: Ethos as the threshold between Logos and Pathos". Riporto qui quel mio intervento, pensando che possa interessare ai lettori di queste mie rubriche: Questo convegno è dedicato all'analisi del rapporto tra Logos e Pathos, a questa grande, principale polarità che attraversa tutta la psicoterapia, nei vari gli suoi approcci, ma attraversa anche la vita. Viene in mente a questo proposito il famoso romanzo di Jane Austen Ragione e sentimento (titolo originale: Sense and Sensibility) scritto tra la fine del Settecento e i primi dell'Ottocento, più di due secoli fa. E sappiamo bene - come anche penso emergerà da questo convegno - che un compito della terapia, e anche della vita, è saper armonizzare questi due poli, non scinderli. Quello che voglio fare in questo mio breve intervento è esporre delle riflessioni ripercorrendo alcune parti della relazione di Leon Heuts, così stimolanti, sulle quali verrebbe la voglia di parlare più del tempo qui concesso. Innanzitutto Heuts, nella prima parte della sua bella relazione, in cui anche accenna ad aspetti toccanti della sua vita, mostra interessanti riflessioni sul linguaggio, sul Logos, ad esempio sulle emozioni che possiamo provare nel pensare a una parola. Tra l'altro, possiamo dire che vi sia già una differenza tra il pensarla solamente e il pronunciarla a voce alta; e vi è una differenza anche tra il pronunciarla da soli o in presenza di qualcun altro (Rudolph M. Loewenstein nel 1956 scrisse un articolo dal titolo "Alcune note sul ruolo del linguaggio nella tecnica psicoanalitica", tradotto nel n. 1/1991 di Psicoterapia e Scienze Umane, in cui fa proprio queste considerazioni). Mi viene in mente anche che si provano diverse emozioni quando si dicono le stesse cose in un'altra lingua, in particolar modo quando siamo all'interno di una situazione affettiva. Dire "ti amo" e dire "I love you" sono cose molto diverse a seconda di quale è la nostra lingua "madre". A proposito della parola "madre", e del linguaggio che, come dice bene Heuts, non è mai solo Logos, ma anche Pathos (si pensi, tra le altre cose, agli "atti linguistici" [speech acts] di John Austin [1955]), molto bello è il racconto che fa della sua reazione al trauma per aver perso il contatto con la madre per tanti anni, che si è espresso nella difficoltà a parlare, come se avesse "perso il linguaggio", o alla difficoltà di parlare in prima persona e il suo tendere a parlare in seconda persona. Questa reazione in psicoanalisi viene chiamata "difensiva", e il concetto di difesa e la pietra angolare (cornerstone) della psicoanalisi. Heuts dice che non riusciva ad "articolare le sue emozioni", e infatti il compito del terapeuta è quello di far parlare il paziente. Non a caso Freud chiamò la sua terapia talking cure, cura della parola. Per Heuts la parola chiave che "non poteva esprimere senza essere sopraffatto dalle emozioni" era "madre, e specialmente mamma", per questo la evitava. Riguardo alla assenza di linguaggio, sappiamo che tutto è comunicazione, quindi l'assenza della parola è una comunicazione ugualmente importante, potremmo dire omologa alla parola: una persona che non parla in realtà parla molto, comunica, e questa comunicazione va interpretata, capita. Di fatto Freud iniziò a lavorare proprio su pazienti che non parlavano con le parole ma col corpo, il corpo era il loro linguaggio - questo è il paradigma dell'isteria, dove si dice che un conflitto psicologico viene "convertito" sul corpo, in quella che veniva chiamata "isteria di conversione", si pensi ad esempio in una paralisi o a una amnesia - e si convinse che solo se avessero parlato, raccontato i traumi che avevano subìto, allora scomparivano i sintomi (viene in mente, tra le altre cose, il ben noto disturbo chiamato "mutismo elettivo" - ora si chiama "mutismo selettivo" - che può insorgere in un bambino dopo un trauma). Heuts dice anche che "Kant vedeva la liberazione dall'immaturità (non essere capaci di parlare) come il principale compito dell'illuminismo", e in effetti Freud era un erede dell'illuminismo, ne perseguiva l'ideale. Per questo la psicoanalisi ha sempre sottolineato il linguaggio parlato, ad esempio la interpretazione verbale, mentre la terapia della Gestalt ha notato questo limite e si è caratterizzata per aver sottolineato con forza anche l'aspetto emotivo. Un problema discusso molto bene da Heuts è che le parole non riescono a catturare tutta la esperienza interiore, cioè tutto quello che vorremmo o potremmo dire, anche perché l'esperienza che abbiamo dentro non è stata ancora formulata, o meglio, se viene tradotta in parole non solo diventa una cosa diversa da quella che era prima (è codificata in un diverso codice cognitivo che ne cambia la natura), ma potremmo dire che spesso viene ridotta, impoverita, nel senso che nel linguaggio tante cose che potrebbero essere espresse vengono perse (cfr. Migone, 1995 cap. 5, Migone, 2007b). Heuts descrive questo processo anche nella scrittura, che è sempre una perdita, infatti ha detto che quando scriviamo è come se dovessimo sempre "subire un lutto" (we are also confronted with loss, writing is mourning). Il problema teorico sottostante è che la coscienza, come il parlare e anche lo scrivere, è "seriale", mentre l'inconscio è "parallelo" (cfr. Migone, 2007a). In altre parole, una caratteristica dell'inconscio è che consiste in infiniti processi paralleli che avvengono simultaneamente, mentre la coscienza per definizione è seriale, cioè le informazioni passano una dopo l'altra, per così dire in "fila indiana": questa è una grossa limitazione, perché non possiamo pensare o dire due cose allo stesso tempo ma solo una per volta, mentre nell'inconscio avvengono simultaneamente tanti processi paralleli. Ne consegue che la coscienza deve per forza fare una selezione tra le tante informazioni presenti nell'inconscio, e questo è il motivo per cui la parte che diventa conscia è sempre una parte molto ridotta, limitata, e forse anche distorta, della complessità e del numero estremamente alto di elaborazioni inconsce parallele. Inoltre la coscienza è molto più lenta, funzionando un po' come un "collo di bottiglia": occorre più tempo affinché, per così dire, tutta "l'acqua dell'inconscio" esca e divenga conscia. Quando usiamo il linguaggio parlato, quindi, guadagniamo qualcosa in termini di ordine e razionalità (order and reason, nelle parole di Heuts), ma nello stesso tempo inevitabilmente perdiamo in ricchezza e potenzialità espressiva. Mi viene in mente a questo proposito che i grandi scrittori hanno da sempre capito questo problema. C'è un passaggio in Anna Karenina di Tolstoj che mostra molto bene il divario che ci può essere tra la complessità dei sentimenti che abbiamo dentro e la nostra capacità di esprimerli: sùbito dopo che il conte Vronsky e Anna Karenina riescono per la prima volta ad avvicinarsi fisicamente, ad avere quel contatto tra i loro corpi che avevano tanto desiderato, Anna è sconvolta. Scrive Tolstoj - cito letteralmente - che il conte Vronsky è "pallido, con la mascella inferiore scossa da un fremito, era in piedi di fronte alla donna e l'implorava di calmarsi, senza sapere quel che diceva" (Tolstoj, 1877, pp. 253-254 trad. it. del 1937). Il conte Vronsky parla della propria felicità, cioè cerca di mettere in parole quello che ha provato, ma lei sente le sue parole come una profanazione, e dice (cito): «"Felicità? - l'interruppe Anna con un disgusto e un terrore che si comunicarono involontariamente in lui - Per carità, non una parola, non una parola di più". (…) Ella sentiva in quel momento che non era più in grado di esprimere i propri sentimenti: quello strano misto di vergogna, di gioia e di orrore da cui era stata invasa sulla soglia della sua nuova vita. Non voleva parlarne con parole false o volgari. Ma anche più tardi, all'indomani, e il giorno seguente, non solo non riuscì a trovare parole con cui potesse esprimere il suo complicato stato d'animo, ma neppure seppe riordinare i propri pensieri per poter capire tutto quello che sentiva nell'intimo di se stessa» (Tolstoj, 1877, p. 150 trad. inglese del 2000, pp. 255-256 trad. it. del 1937). Ecco, qui abbiamo uno dei tantissimi esempi che mostrano come spesso la letteratura riesca a sondare le profondità dell'animo umano molto di più di quanto possa riuscire la psicoanalisi, e lo ha fatto anche molto prima che essa nascesse, come è nel caso di Tolstoj ma anche di tanti scrittori precedenti; si può dire peraltro che il romanzo Anna Karenina sia un trattato di psicologia femminile, e c'è anche qualcosa di paradossale in questo, perché Tolstoj è riuscito tradurre in parole, cioè nel linguaggio verbale che prima dicevamo che è sempre limitante, stati d'animo molto complessi e difficilmente esprimibili. Tornando al problema del linguaggio, interessante è a questo proposito la linea di ricerca della ricercatrice e psicoanalista americana Wilma Bucci (1997, 2019, 2021; Migone, 2007), che ha studiato in laboratorio il modo con cui viene usato linguaggio e la sua capacità di esprimere quello che esso dovrebbe rappresentare, cioè il legame tra la parola e la struttura sottostante, profonda, di cui dovrebbe essere il "referente", quella che lei chiama "attività referenziale", referential activity. Vi è un linguaggio ad "alta attività referenziale" e un linguaggio a "bassa attività referenziale": nel primo le parole sono chiare, vivide - viene detta la "parola piena", come dicono i fenomenologi - che riescono a trasmettere con facilità il contenuto e il vissuto di quello che si vuole dire, mentre nel secondo l'interlocutore può rimanere confuso, distaccato, non riesce bene a farsi una idea di quello che gli viene detto, e questo può avvenire, tra l'altro, anche se vi è una apparente ricchezza di linguaggio, ma le parole non sono connesse alla loro immagine sottostante. Anche l'ultimo Daniel N. Stern, nella linea di ricerca iniziata assieme al suo Boston Change Process Study Group a partire dall'articolo sul "someting more than intepretation" pubblicato nel 1998 sull'International Journal of Psychoanalysis (Stern et al., 1998), ha argomentato che il linguaggio verbale, essendosi formato nel bambino non alla nascita ma solo dopo esperienze importanti e formative che lo hanno segnato e costruito, non riesce mai a catturare veramente l'esperienza profonda della persona, è per così dire posticcio, limitato, superficiale (Daniel N. Stern [1985] aveva studiato il bambino, ed era inizialmente noto per le sue ricerche di laboratorio nel campo dell'infant research). è per questo che, secondo Daniel N. Stern, il progetto della psicoanalisi tradizionale di far leva solo sul linguaggio, sul Logos, cioè tramite l'uso privilegiato dell'interpretazione verbale, è fallimentare, e occorre qualcos'altro o di più, someting more, di tipo esperienziale. Solo la poesia, forse, riesce a usare il linguaggio toccando la nostra parte profonda, e anche l'arte. Ho trovato molto interessante la parte della relazione di Heuts in cui parla della concezione tripartita di Aristotele di Logos, Pathos ed Ethos, e quella di Platone di rational (Logos), spirited (Thymos), e appetitive (Epithymia), e mi sono divertito a pensare che la seconda topica di Freud, cioè la struttura tripartita Io/Es/Super-Io (ego, id, superego), era, per così dire, un plagio: il Logos è l'Io, cioè la parte razionale; il Pathos, o anche la Epithymia di Platone, l'Es, cioè gli istinti che dovremmo tenere a bada; ed Ethos, o il Thymos di cui ha parlato Platone, il Super-Io, cioè un insieme di valori che dovrebbero guidarci. Heuts qui dice, forse con ironia, che "queste cose potrebbero servire come fonte di ispirazione per la relazione terapeutica" (that could be inspiring for therapeutic relationships). Quando Freud capì che la mente era spesso in conflitto tra istanze o motivazioni diverse, tra differenti spinte che motivavano il comportamento, volle dare loro un nome a queste parti, e pensò di chiamarle Ich, Es, e Über-Ich: come sappiamo, Ich divenne Io in italiano ed ego in inglese (cioè Strachey preferì usare una parola latina, lontana dall'esperienza soggettiva, cosa che suscitò controversie), Es (esso) rimase Es in italiano e divenne Id in inglese (un'altra parola latina), e Über-Ich divenne Super-Io e superego. Heuts sottolinea la importanza dell'etica, che in psicoanalisi si può dire sia traducibile nel concetto di Super-Io, che è un po', come disse Freud, una "provincia dell'Io", che serve da guida per il comportamento. Va detto però che dobbiamo distinguere etica da morale, come anche accenna Heuts. La concezione dell'etica secondo la psicoanalisi prevede che i valori possono essere interni (cioè interiorizzati) oppure esterni; nel secondo caso, cioè se non sono interiorizzati, la persona si comporta bene perché vi sono determinate regole o leggi esterne, e possono esservi punizioni nel caso non vengano seguite; nel primo caso si parla di Super-Io strutturato, nel secondo di un Super-Io deficitario o mancante. Certe persone ad esempio possano comportarsi correttamente, in modo "etico", non perché sono guidate da un'etica personale, interiorizzata, ma perché temono una punizione esterna, ad esempio perché devono seguire la legge o la deontologia professionale. Queste persone sono prive di etica, mentre le persone che hanno un Super-Io strutturato non presentano conflitti, si comportano correttamente senza sforzo perché hanno piacere a farlo, e se tradiscono i loro valori si sentono in colpa, cioè la legge non è esterna ma interna (è il Super-Io). In psicoanalisi si parla in questo caso di maggiore o minore "interiorizzazione delle strutture psichiche", nel senso che quando manca questa interiorizzazione l'individuo per poter funzionare dipende dall'ambiente, non ha una guida interiore. Molto bella è la metafora di Platone dell’auriga che cerca di guidare i due cavalli opposti, quello bianco e quello nero, rappresentanti motivazioni diverse. Usando le parole freudiane, potremmo dire che l’auriga è l'Io che cerca di destreggiarsi nel guidare i due cavalli del Super-Io e dell'Es. Anche qui vediamo che Platone anticipò Freud di più di due millenni, formulando il concetto di conflitto psichico che è al centro della teoria psicoanalitica. Va detto che anche Freud, come Platone, usò la metafora del cavallo (un animale che ha bisogno di essere domato) per illustrare la forza dell’Es, degli istinti appunto "animali", ma Freud preferì usare la metafora del centauro, cioè del cavallo che in realtà è anche un uomo, che rappresenta molto bene la capacità dell'Io di dominare gli istinti, anzi non deve più sforzarsi per dominarli perché non sono più esterni all'Io, fanno parte della persona e si armonizzano perfettamente (il cavallo e l'uomo sono un tutt'uno). Quindi, non esistendo più il conflitto, scompaiono le tre istanze psichiche, oggi potremmo dire che esiste solo il Sé. Riguardo al conflitto tra queste diverse istanze psichiche, che nella tradizione filosofica sono state chiamate Logos e Pathos, e che diverse tradizioni psicoterapeutiche hanno chiamato in modi differenti (abbiamo visto che la psicoanalisi usa i termini Io ed Es), vorrei terminare con alcune riflessioni sulla teoria della motivazione. Heuts parla della importanza che l'individuo sappia "incanalare la rabbia in una azione produttiva" (channeling anger into a productive action), e ha detto anche che noi "dovremmo" desiderare il meglio l'un per l'altro e per i nostri pazienti, "ma vi è bisogno di un training" (we should primarily desire the best for one another and our clients. People want to do good, but they do need a framework and training), cioè è necessario un certo lavoro per farci governare dall'Ethos. Anche Freud vedeva le cose in questo modo, ad esempio aveva proposto il concetto di "sublimazione" affinché l'individuo potesse trasformare (o "spostare") certi istinti egoistici in azioni altruistiche. Infatti la sublimazione era una delle difese dell'Io. Per fare un esempio, secondo Freud l'uomo non era altruista per natura, ma poteva diventarlo se sublimava certi istinti egoistici. In altre parole, e come è ben noto, Freud aveva una visione che potremmo chiamare pessimista, vedeva la natura umana sempre in conflitto con sé stessa, cioè gli istinti dovevano essere sempre domati. Come espresso nel titolo del noto libro di Marcuse del 1955, vi era un perenne conflitto da Eros e civiltà (Eros and Civilization). Una delle acquisizioni più importanti della ricerca nel campo dell'evoluzionismo, che ha avuto ampie ripercussioni anche per la teoria e la pratica della psicoterapia, è che è stato dimostrato che l'uomo non ha solo istinti o motivazioni "animali", contrari alla convivenza sociale, ma presenta fin dalla nascita anche istinti altruistici. Vi sarebbero cioè motivazioni plurime, indipendenti le une dalle altre anche perché nel corso dell'evoluzione alcune si sono aggiunte rendendo più complesso il funzionamento umano (non è questa la sede per parlare con maggiore dettaglio di queste motivazioni separate, ad esempio Lichtenberg [1989], nella sua revisione della teoria psicoanalitica della motivazione, e anche Liotti [1992] nella sua concezione cognitivo-evoluzionista, ne avevano proposte cinque, e più recentemente Panksepp ne ha descritte sette [Panksepp & Biven, 2012]). Quello che è importante è che tra le varie motivazioni vi è l'istinto cooperativo, presente già più di un milione di anni fa ma le cui manifestazioni più avanzate apparvero in Europa circa 45.000 anni fa; esso si rivelò molto utile per la sopravvivenza nei gruppi dei cacciatori-raccoglitori e permise l'emergere di norme prosociali condivise caratterizzate da un Ethos egualitario. Questo istinto cooperativo e altruistico, che come si è detto è osservabile anche nei bambini molto piccoli, è autonomo, cioè non è derivato da motivazioni egoistiche che verrebbero "sublimate", come erroneamente pensava Freud il quale concepiva la libido come motivazione superordinata; l'istinto cooperativo esiste quindi in modo indipendente e parallelo ad altre motivazioni non altruistiche, perché anch'esse possono servire alla sopravvivenza. Queste considerazioni gettano una luce di ottimismo sulla natura umana, e fanno maggiormente sperare che Logos e Pathos possano armonizzarsi, al punto quasi da non rendere più necessaria la presenza di Ethos come funzione esterna. Però sappiamo bene, purtroppo, che recenti vicende geo-politiche stemperano molto questo ottimismo.
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