PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2001, 86: 80-86

L'associazione tra psicoterapia e farmaci: 
perché discuterne ancora?

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Rimango sempre molto colpito dal fatto che in convegni e riviste si continua a discutere della cosiddetta "associazione" o "integrazione" tra farmaci e psicoterapia, come se questo rappresentasse un problema. Ritengo che il vero problema interessante non sia se, come o quando associare farmaci e psicoterapia, ma il fatto stesso che esso venga posto, cioè che vi siano ancora colleghi che sentono l'esigenza di porlo, per cui è in un certo senso di interesse sociologico. La mia posizione, che qui cercherò di dimostrare, è che già solo il porre questo problema smaschera la errata cultura psicoterapeutica di chi lo pone, una cultura psicoterapeutica che porta a errori tecnici anche nella psicoterapia senza farmaci.

Le riflessioni che qui esporrò sono state in parte già pubblicate in lavori precedenti (ad esempio in un dibattito su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/farm+psi.htm, e in un editoriale della Rivista Sperimentale di Freniatria, n. 4/1999, pp. 219-232, intitolato "Psicoterapia e servizi di salute mentale"); recentemente le ho presentate anche in una relazione al Convegno internazionale "Il futuro della psicoterapia. Ritorno alla clinica", promosso dalla Associazione per la Ricerca in Psicologia clinica (ARP) a Milano il 20-22 ottobre 2000, dove mi avevano chiesto di organizzare un Workshop su questo tema (gli atti di questo convegno verranno pubblicato in un CD-ROM). Come partecipanti a questo Workshop avevo invitato Tullio Carere (un collega di Bergamo, che è il coordinatore della sezione italiana della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration [SEPI]), Giacomo Contri (di orientamento lacaniano, Presidente di Studium Cartello di Milano), e Salvatore Freni (Professore Associato di Psicoterapia all'Università di Milano, esperto in questo tema e autore di un libro intitolato Psicofarmacopsicoterapia [Milano: La Vita Felice, 1998]). La mia speranza era quella di stimolare un dibattito in cui le mie idee venissero criticate, anche per fare emergere meglio le diverse posizioni. Passo dunque a presentare i motivi per cui ritengo che la questione della associazione tra psicoterapia e farmaci praticamente non esista come problema teorico.

In che senso la psicoterapia e i farmaci sono "cose diverse"?

Il problema della associazione tra psicoterapia e farmaci spesso viene posto nei termini della legittimità o meno di prescrivere farmaci da parte dello psicoterapeuta, in quanto la loro prescrizione si scontrerebbe con la logica della psicoterapia: alcuni terapeuti di ispirazione psicoanalitica, ad esempio, ritengono che se il loro compito è quello di interpretare i significati psicologici dei sintomi o della relazione interpersonale, la somministrazione di farmaci rappresenterebbe un atto incoerente, o un fattore distruttivo della terapia, o un acting out del terapeuta e così via, per cui discutono se farli prescrivere da un altro operatore, o addirittura se non prescriverli affatto. Se questi colleghi sono degli psicoanalisti (e colpisce notare quanti colleghi, anche molto preparati, pongono questo problema), ritengo che essi rivelano una concezione che io definisco squisitamente antipsicoanalitica del fare terapia e del concepire l'analisi dei significati della interazione, e questa errata concezione, come ho detto, non può che ripercuotersi anche sul modo stesso di condurre le stesse terapie senza farmaci, perché riguarda nient'altro che la teoria della tecnica (per la questione della identità della psicoanalisi e della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, che qui è centrale, rimando al mio articolo "Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica?" sul n. 59/1992 del Ruolo Terapeutico, dove parlo delle posizioni di Gill, e alla mia rubrica sul n. 60/1992; vedi anche il cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica [Milano: Franco Angeli, 1995]). Costoro intendono la prescrizione farmacologica come un intervento a parte, come se fosse "somatico" o "biologico", avulso dagli altri interventi che sarebbero puramente "psicologici". Quindi gli interventi farmacologici (o i loro effetti) non andrebbero interpretati, capiti, discussi, ma andrebbero solo presi per il loro valore di facciata, mentre solo gli altri interventi sarebbero quelli legittimamente interpretabili, il cui significato cioè potrebbe essere approfondito.

Quello che non è chiaro è con quale criterio il farmaco non dovrebbe appartenere alla stessa categoria logica di tutti gli altri interventi o fatti che accadono nella relazione. La concezione sottostante alla pratica di coloro che ritengono che i farmaci in psicoterapia siano un problema (di qualunque tipo) è quella secondo la quale i significati degli eventi che accadono in terapia (compresi il senso e gli effetti della prescrizione farmacologica) non devono essere scoperti o compresi durante la terapia stessa, ma essi sono già aprioristicamente conosciuti, per cui la terapia non sarebbe altro che un applicare etichette precostituite: ad esempio, l'effetto di un antidepressivo è di un certo tipo, se si prescrive un farmaco ciò significa che il paziente lo vive in un determinato modo a me pregiudizialmente conosciuto (ad esempio come una minaccia alla terapia, mentre invece, alla luce dei sui problemi e del suo modo di vedere le cose, cioè del suo transfert, potrebbe essere esattamente il contrario), e così via. A livello teorico, il prescrivere farmaci è una operazione identica al non prescriverli, entrambi sono interventi dotati di significato rispetto ad altre variabili. Un paziente senza farmaci, ma che ne ha bisogno perché si suppone che sia privo di una determinata sostanza, riceve lo stesso input "biologico" (se di questo si tratta) di un paziente che li riceve. Il farmaco è un input nell'organismo che, come ogni altro input, ha ogni tipo di effetti, sia "biologici" che "psicologici" (placebo, non placebo, ecc.). Dovremmo forse rifiutare di analizzare un paziente che ha il brutto vizio di prendere un caffè al mattino? Il caffè è un farmaco con effetti specifici. Dovremmo interpretare la stimolazione psichica da lui ricevuta dal caffè come dovuta al transfert? Solo al transfert? In parte al transfert e in parte al farmaco caffè? Solo al caffè? Ma non sono questi i problemi quotidiani dello psicoanalista? E che dire della donna in tensione premestruale e possibilmente depressa e tesa? E' influenzata (solo) dal transfert? Essendo affetta da una condizione "organica", dovremmo allora interrompere subito l'analisi e inviarla ad un medico specialista? E così via.

La "divisione del lavoro" tra psicoterapeuta e psicofarmacologo

Alcuni obiettano che gli input forniti dall'analista sono diversi da quelli forniti da altri (vedi la questione della "divisione del lavoro" tra analista e psicofarmacologo, caldeggiata da coloro che preferiscono far prescrivere i farmaci da un altro professionista per fare un lavoro "pulito"). Anche questo ragionamento a mio parere rivela sempre la stessa concezione sottostante, che ho definito "antipsicoanalitica": ritenere che l'interpretazione sia già data, già implicita nei dati da interpretare, sia cioè iscritta nel dato comportamentale come in una sorta di psicologia comportamentistica. E' una psicologia di tutto rispetto, ma non è psicoanalitica, rientra in una specie di "teoria delle etichette". Perché mai l'effetto di un farmaco dato da un altro non sarebbe interpretabile, come se avesse un significato dato a priori, o sarebbe necessariamente diverso dall'effetto dello stesso farmaco dato dallo psicoterapeuta (senza considerare che può essere stato lo psicoterapeuta stesso a consigliare al paziente di rivolgersi allo psicofarmacologo)? Sicuramente l'effetto sarà un po' diverso, perché l'effetto placebo può essere diverso a seconda di come il farmaco viene somministrato e dei modi con cui avviene l'invio. Perché uno o più di questi aspetti deve essere eliminato dal campo interpretativo? Perché non potrebbe essere arricchente anche analizzare gli effetti (transferali, ecc.) di un farmaco dato dallo psicoterapeuta? O, se è per questo, analizzare la reazione ai farmaci dati da un altro collega?

Ritengo che inviare il proprio paziente a uno psicofarmacologo per i farmaci sarebbe giustificato solo dal fatto che il terapeuta non può dare farmaci (nel caso ad esempio sia uno psicologo) o non si ritiene abbastanza aggiornato. Vi è chi argomenta che fare tutte e due le cose insieme è più difficile: questo a prima vista sembrerebbe un ragionamento convincente, ma in realtà rivela solo la illusione che la "psicoterapia normale" sia facile, "pulita", che tratti dati "psicologici puri" (questa idea ricorda il mito della "analisi classica", dove si rispetterebbe sempre il setting - come è noto, un certo tipo di tecnica classica, mai praticata da Freud ma solo dai "freudiani", è esistita solo sulla carta, cioè nella letteratura delle riviste "classiche"). Anche dietro a questa posizione vi è una concezione antipsicoanalitica: il dato psicologico (o, se è per questo, somatico) non viene così scoperto o interpretato, ma è conosciuto a priori tramite un pregiudizio, e l'analisi è solo una razionalizzazione delle idee preconcette dell'analista, come se fosse portatore di una malcelata cultura behavioristica (in realtà, dietro vi è una precisa concezione del rapporto mente-corpo, secondo la quale solo i dati "psicologici" sono interpretabili, mentre quelli somatici sarebbero leggibili in quanto tali, secondo una sorta di realismo ingenuo).

Come ho detto, quello che non si riesce a capire è come mai il farmaco dovrebbe appartenere ad una categoria logica diversa da quella di qualunque altro intervento o evento (stringere la mano al paziente, tossire, ridere, essere depressi o felici, non dare un farmaco invece di darlo, avere una poltrona comoda o scomoda, avere il mal di testa per il fumo del sigaro dell'analista, o invece amare quel fumo, ecc.).

Alcuni di coloro che prediligono non dare farmaci quando fanno psicoterapia pur avendo una preparazione psicofarmacologica, e ritengono più indicato farli prescrivere da un collega, affermano però che anche qui vi sono dei rischi, perché due terapeuti possono non essere sintonizzati e dare messaggi diversi al paziente. Anche questo modo di ragionare ritengo che nasconda una errata concezione sottostante. Non siamo mai "terapeuti unici": la moglie del paziente, gelosa, può dirgli che sbagliamo in questo o in quello, il paziente parla con un amico che va anche lui dall'analista e gli fa dire che il suo analista si sarebbe comportato in un modo diverso da noi, e così via. Certo, un'altra figura professionale è più autorevole di una figura non professionale (come la moglie o un amico), ma sappiamo che l'autorevolezza è proprio quella che andrebbe analizzata e smitizzata, cioè non è la logica della autorità sociale quella che vogliamo trasmettere, anzi, l'analisi funziona esattamente al contrario (e magari la moglie del nostro paziente vede le cose molto meglio di noi, e non si capisce perché dovremmo rifiutarci di conoscere opinioni diverse e trarne vantaggio). Intendo dire questo: se il nostro paziente va a farsi dare i farmaci da un altro medico, e se questo medico ha una linea diversa dalla nostra, o se addirittura ci si mette contro (magari colludendo con una tendenza scissionale inconscia del paziente), quale è il problema? Questo sarebbe un problema come un altro, da affrontare tranquillamente in terapia, all'ordine del giorno. Cosa c'è di più bello che due opinioni diverse? Vediamo quale può esser la migliore, discutiamone. Magari ha ragione il farmacologo, e avremmo un arricchimento. Il terapeuta analizza dal suo punto di vista, e tutti i dati rientrano nel processo interpretativo, compresi i comportamenti dell'altro collega (che sono comunque anche oggetti interni del paziente): questi comportamenti potrebbero essere "usati" dal paziente, oppure potrebbero rappresentare una possibile interpretazione diversa dei dati, che noi vaglieremmo, e, come facciamo sempre, cercheremmo di capire cosa è meglio fare. Vi sono qui ottime occasioni per mostrare al paziente come lavoriamo (ad esempio rispettando la opinione degli altri e non mettendoci in competizione con l'altro collega - cosa che rivelerebbe solo una nostra insicurezza, e il paziente potrebbe coglierla subito, anche inconsciamente). Insomma anche qui vi sono infiniti test potenzialmente terapeutici se sappiamo superarli, al punto che addirittura potrebbe considerarsi una felice opportunità questo "problema", che peraltro è un modello di problema come tanti il paziente ne deve affrontare nella vita, e non c'è niente di meglio per lui che vedere come noi lo affrontiamo (sul concetto di "test" transferale, che si rifà alla control-mastery theory di Weiss e Sampson, vedi le mie rubriche sui numeri 62/1993 e 68/1995 del Ruolo Terapeutico).

Si può obiettare che questo approccio funziona meglio con pazienti più maturi che sanno tollerare aree di conflitto e riflettere su di esse, mentre altri pazienti riceverebbero uno squilibrio da una situazione da loro percepita come confusiva, in cui più figure di riferimento (un altro professionista, oppure la moglie o un amico) "dicono al paziente quello che deve fare". Questo è scontato, ma la mia argomentazione era solo volta a criticare un modo di ragionare che passa sopra ai possibili significati della relazione terapeutica, assegnando ad essi un significato a priori. Se si valuta che un determinato paziente (a causa di un suo deficit cognitivo o di un atteggiamento di forte dipendenza per cui riesce a funzionare solo se si appoggia acriticamente ad una figura che lui vive come autorevole, senza riuscire minimamente ad analizzare questo tipo di transfert) tollera solo pochi messaggi chiari, dati da un solo terapeuta, ed entra in confusione con due figure di riferimento, allora, fintanto che non si riesce ad analizzare questa problematica, è indicato un terapeuta unico (che, se il paziente ha bisogno di farmaci, deve per forza essere un medico), ma vi può essere un altro paziente che verrebbe arricchito da un altro tipo di esperienza, o che per lo meno non verrebbe arricchito da un terapeuta che non tollera il conflitto tra punti di vista diversi.

La questione a monte: il rapporto mente-corpo

Per finire, vorrei fare alcuni commenti sul retroterra filosofico, più o meno consapevole, di chi vede come problematica la associazione tra farmaci e psicoterapia. In effetti ritengo che la questione centrale sia la definizione che diamo a interventi "psicologici" e interventi "biologici", e più in generale cosa intendiamo per "psicoterapia". In genere col termine "psicoterapia" si intende tutta una serie di pratiche terapeutiche in cui viene privilegiato l'uso della parola e non l'uso dei farmaci. Ma dato che il "solo uso dei farmaci" praticamente non esiste, essendo sempre inserito all'interno di una relazione psicoterapeutica in senso lato, potremmo allora dire che per psicoterapia in senso stretto si intende quella pratica in cui non si utilizzano anche farmaci. Ma volendo andare oltre a questa definizione, e provare a definire la psicoterapia in modo positivo e più preciso, ci troviamo in compagnia degli innumerevoli autori che si sono cimentati a definirla nel corso di tutto questo secolo, quindi il primo pericolo è quello di scivolare una serie di affermazioni che lasciano il tempo che trovano. Ricordo di essermi imbattuto in un testo che addirittura definiva il termine "psicoterapia" in senso letterale, come "cura della psiche", includendovi quindi anche le terapie somatiche, e differenziandovi al suo interno i vari metodi, quelli con i farmaci, con le parole, ecc. Questa definizione apparentemente bizzarra ha però il vantaggio di farci riflettere ulteriormente sullo statuto epistemologico (parola oggi di moda) delle professioni di aiuto.

A mio modo di vedere, se è vero che col termine psicoterapia si può intendere tutta una serie di pratiche terapeutiche in cui viene privilegiato l'uso della parola, ritengo che vada sottolineato (oltre alle osservazioni fatte prima sulla "inevitabilità della psicoterapia" anche quando si danno farmaci) che l'obiettivo dell'intervento è sempre lo stesso. Nella pratica sia della psichiatria che della psicoterapia, lo scopo del nostro intervento è quello di modificare un individuo, il suo mondo interiore, la sua rete di significati soggettivi, le sue emozioni (ad esempio trasformare idee e/o vissuti depressivi in idee e/o vissuti da noi ritenuti più "realistici" o adattivi - in sostanza, operare dei cambiamenti). A meno che non si voglia prendere una posizione dualista nella annosa questione del rapporto mente-corpo, posizione che quasi tutti oggi considerano superata, tutti gli interventi tesi a modificare un individuo producono effetti sia "psicologici" che "biologici", gli uni essendo collegati agli altri. L'intervento farmacologico o "somatico" provoca alterazioni biologiche che, nella speranza del medico, inducono modificazioni psicologiche, cioè del vissuto soggettivo del paziente. Viceversa, l'intervento psicoterapeutico provoca cambiamenti psicologici che vanno di pari passo con precise modificazioni biologiche, più o meno evidenziabili a seconda delle tecniche attualmente a disposizione, altrimenti essi semplicemente non esisterebbero (ormai sono tanti i lavori che documentano le modificazioni anatomo-strutturali e di espressione genica indotte da interventi psicologici: tra i tanti si vedano i recenti articoli autorevoli di Eric Kandel, a cui è stato recentemente assegnato il premio Nobel per la Medicina, sull'American Journal of Psychiatry, rispettivamente su "una nuova cornice intellettuale per la psichiatria" [n. 155/1998, pp. 457-469] e sulla "biologia e il futuro della psicoanalisi" [n. 156/1999, pp. 505-524]).

Ritengo quindi che, a questo livello, la psicoterapia non si collochi su un piano diverso dalla psicofarmacologia o da altri interventi "psichiatrici" o "biologici". Certamente ogni intervento ha una sua specificità in termini di meccanismo di azione, "organo bersaglio", tipo e stabilità di cambiamenti ottenibili e misurabili con diversi strumenti di valutazione. Due farmaci che hanno meccanismi di azione totalmente diversi provocano modificazioni soggettive diverse. Ad esempio, un farmaco antidepressivo triciclico produce dei cambiamenti sensibilmente diversi da un MAOI o da un SSRI (e questo al di là degli effetti collaterali), così come la Clozapina, come ben sappiamo, produce uno stato psicologico diverso da quello prodotto dagli altri neurolettici, e allo psicoterapeuta dovrebbe essere stato insegnato a tenerne conto. E se due farmaci, anche della stessa classe (ad esempio due antidepressivi) possono avere meccanismi di azione diversi e effetti diversi, è verosimile che a maggior ragione un intervento psicoterapeutico produca cambiamenti, sia biologici che psicologici, molto diversi da qualunque farmaco, in termini di qualità del cambiamento, sua stabilità, e così via. Del resto sappiamo che la ricerca sul processo terapeutico è volta proprio a misurare gli effetti comparati dei vari interventi, con rating scales sempre più sofisticate (a questo proposito, ad esempio, è un dato sempre più consolidato dalla ricerca sul trattamento della depressione maggiore che se i farmaci e la psicoterapia hanno entrambi una certa efficacia, gli effetti della psicoterapia sono più duraturi mentre i farmaci spesso presentano ricadute, per cui si può dire che nel trattamento della depressione maggiore la psicoterapia sia superiore ai farmaci, come molte ricerche hanno dimostrato [Wexler B. & Nelson J., Il trattamento dei disturbi depressivi maggiori (1993), Rivista Sperimentale di Freniatria, n. 1/1994, pp. 7-50; vedi anche il n. 2/1996, p. 198; si veda inoltre il mio articolo "Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: efficacia reale", sul n. 3/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane, e anche la rubrica del n. 112/2009 e due miei commenti ad articoli usciti, rispettivamente, sull'Espresso e su Psychotherapy and Psychosomatics].

Quello però che voglio sottolineare è che, alla luce delle considerazioni fatte prima, non è corretto contrapporre interventi "psicologici" ad interventi "biologici", come se ad essi veramente corrispondessero operazioni separate: gli interventi "biologici" concettualmente non esistono allo stato puro, ma sono sempre "associati", "combinati", "integrati", con gli interventi psicologici che fanno parte del rapporto terapeutico, con quella che possiamo chiamare psicoterapia in senso lato. A voler essere precisi, dunque, l'alternativa non è tra interventi psicologici e interventi biologici, ma tra "interventi psicologici" e "interventi psicologici associati a sostanze ritenute psicoattive".

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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