PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2000, 83: 47-53 (I parte), e 84: 82-88 (II parte)

Il concetto di carattere nell'evoluzione del pensiero psicoanalitico
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

In questa rubrica e nella seguente (cioè sui nn. 83/2000 e 84/2000 del Ruolo Terapeutico) intendo pubblicare, in due parti, una riflessione sulla evoluzione del concetto di carattere nel pensiero psicoanalitico. Si tratta di alcuni appunti che scrissi alcuni anni fa per preparare una relazione che mi avevano invitato a leggere al 9° Congresso Interregionale di Psichiatria della Sezione Veneta della Società Italiana di Psichiatria (PSI.VE), intitolato "Temperamento, Carattere, Personalità" e tenuto a Vigodarzere (Padova) l'11-4-97 (una versione di questa relazione è stata pubblicata negli Atti di quel convegno, pubblicati dalla PSI.VE nel 1997, a pp. 42-54). Alcuni mesi dopo approfondii ulterioremente queste riflessioni in occasione di un altro convegno, intitolato "I disturbi di personalità: aspetti culturali, diagnostici e terapeutici", organizzato dalla Sezione Salute Mentale del Distretto Bassa Parmense della AUSL di Parma a S. Polo di Torrile (Parma) il 12-12-97, dove tenni una relazione sullo stesso argomento.

Riprendo dunque quelle riflessioni, ben consapevole che si tratta solo di spunti, di osservazioni libere, poiché questo è un argomento molto complesso. Infatti la questione del carattere in psicoanalisi occupa una posizione centrale nella evoluzione storica della disciplina, con implicazioni che riguardano la identità e la coerenza sia della teoria della malattia che della teoria della cura. Per dare un'idea della rilevanza di questo problema, si può citare una affermazione di Auchincloss & Michels (1983) in una autorevole review sul concetto psicoanalitico di carattere:

"Oggi è generalmente riconosciuto che i disturbi del carattere, non i sintomi nevrotici, sono le indicazioni principali dell'analisi... La psicoanalisi (come tecnica) e l'analisi del carattere sono diventati sinonimi" (p. 2).

Cercherò di guardare dentro a questa problematica per comprendere il percorso che ha portato a questa fase, e per riflettere su alcuni aspetti anche da un punto di vista critico.

Problemi di definizione

Prima di trattare il tema della evoluzione del concetto di carattere nella storia del pensiero psicoanalitico, sarebbe però necessario definire questo termine differenziandolo da altri concetti quali ad esempio quelli di personalità e temperamento. Infatti, come affermò Jaspers (1913),

"l'esigenza prima della psicopatologia è sempre quella di servirsi di determinati concetti in modo univoco. Ma nessun concetto viene impiegato con significati tanto diversi e variabili come quelli di personalità e carattere".

Non vi sono dunque definizioni accettate da tutti, e a volte quelle convenzionali, se esaminate da vicino, non raramente prestano il fianco a critiche.

Se guardiamo a una comune definizione dei termini temperamento, carattere, e personalità, vediamo che il "temperamento" si riferisce alle caratteristiche innate e biologicamente determinate della personalità, che il "carattere" si riferisce alle caratteristiche acquisite socio-culturalmente, e, infine, che la "personalità" costituisce il prodotto della interazione di queste due componenti. A ben vedere, però, e alla luce delle più moderne concezioni del problema mente-corpo (tra i tanti, rimando a Edelman, 1989, 1992), sappiamo che non può esistere alcuna componente indipendente da fattori innati, i quali sono sempre presenti e codeterminano la strutturazione del cervello e quindi della personalità. I termini temperamento e carattere andrebbero intesi allora come astrazioni: più precisamente, il concetto di temperamento alluderebbe a quei fattori innati che possono essere in un qualche modo studiati e che differenziano un individuo dall'altro già nei primi giorni di vita, rappresentando la sua identità biologica, con importanti implicazioni anche filosofiche riguardo alla identità del soggetto e alla autonomia della natura dalla cultura; il carattere invece, come prodotto unicamente di influenze ambientali, potrebbe essere ipoteticamente studiato in gemelli mono-ovulari (oggi potremmo dire, se fosse possibile, in individui clonati) separati immediatamente dopo la nascita, ben consapevoli però che importanti sviluppi dovuti ad influenze ambientali avvengono già in utero. Quello che vediamo nei pazienti è solo la personalità, con la quale intendiamo la interazione delle due componenti temperamento e carattere organizzate in una struttura che conferisce continuità alla esperienza del soggetto, e che rappresenta una sintesi delle diverse componenti psichiche.

L'approccio della psicoanalisi

Questa breve introduzione riguardante questioni definitorie ci serve per entrare nel tema che voglio trattare, la evoluzione del concetto di carattere nella storia del pensiero psicoanalitico. Potremmo dire infatti che la psicoanalisi da sempre si è trovata a dover affrontare il problema del rapporto tra natura e cultura: il temperamento rappresenterebbe la componente biologica dell'uomo (quella a cui ci si riferisce con termini quali "pulsioni" o "Es"), mentre la personalità rappresenta la modalità con cui l'uomo si presenta al mondo, con il suo Io (alcuni autori qui userebbero il concetto di Sé, a cui accennerò dopo). Questo Io per esistere in quanto tale ha già dovuto fare i conti con le "pressioni istintuali", da una parte, e con le esigenze ambientali, dall'altra; infatti, come è noto, Freud (1922) postulò che l'Io si forma per differenziazione dall'Es, come prodotto del conflitto con il mondo esterno. Secondo dunque questa concezione freudiana il problema veniva posto in modo molto semplice in questi termini: l'individuo nasce dotato di un patrimonio istintuale (l'Es, che qui noi potremmo equiparare al temperamento), e in seguito, con il confronto con la realtà, si sviluppa l'Io, che è il prodotto dell'interazione tra le due componenti, quella endogena e quella esogena. Secondo questa prospettiva, l'Io potrebbe essere concepito allora come sinonimo di personalità (o di carattere - io qui userò i due termini come sinonimi), come l'apparato delle funzioni adattive, difensive, di coping styles, ecc., dotate di stabilità nel tempo in modo tale da caratterizzare l'identità di un individuo.

Ma molto presto si sentì l'esigenza di modificare questa originaria concezione freudiana di Io, perché risultò insoddisfacente. Anche dietro la spinta delle acquisizioni delle ricerche sul bambino e sulla psicologia dello sviluppo che in quegli anni incominciavano a prodursi da parte della psicologia accademica, la psicoanalisi subì quello che Eagle (1992) ha definito il primo grande aggiustamento, la prima correzione del suo edificio teorico: nel 1937, quando Freud era ancora in vita, solo 15 anni dopo la pubblicazione di L'Io e l'Es (in cui era stata ufficialmente introdotta la struttura tripartita e quindi il concetto di Io), Hartmann scrisse Psicologia dell'Io e problema dell'adattamento, col quale nasceva ufficialmente la Psicologia dell'Io. Hartmann propose che una parte dell'Io, la cosiddetta "area autonoma libera da conflitti", era primaria, innata, cosicché non tutte le funzioni dell'Io derivavano da un conflitto dell'Es con la realtà, ma alcune erano ereditarie (percezione, memoria, pensiero, ecc.); non solo, ma suggerì anche che alcune funzioni dell'Io che si sono formate nel conflitto con la realtà possono in seguito autonomizzarsi (vedi il concetto di "autonomia secondaria"). Per certi versi, potremmo dire che con la revisione del concetto di Io già allora si ponevano questioni che ancora oggi vengono dibattute, riguardanti quale componente della personalità può considerarsi innata e quale invece è un prodotto delle influenze ambientali.

Con questi brevi cenni siamo entrati direttamente nella complessa storia dei concetti usati dalla psicoanalisi, come quello di Io, concetto che fu introdotto da Freud negli anni '20 (come parte della seconda topica, la struttura tripartita Io, Es, Super-Io), e modificato da Hartmann negli anni '30. Secondo questa prospettiva, potremmo dunque identificare tre fasi nella storia del concetto di Io: una prima fase in cui l'Io come struttura a sé stante non era ancora stata concepita (e in cui Freud usava indifferentemente i termini Io e Sé per indicare la persona), una seconda in cui fu definito come una delle tre istanze della struttura tripartita (parallelamente a una concezione più complessa della psiche), e infine una terza in cui fu riformulato da Hartmann come in parte ereditario e autonomo dal conflitto con la realtà. Possiamo menzionare che oggi si può parlare di una quarta fase, in parte ancora in via di sviluppo davanti ai nostri occhi, in cui ha fatto la sua comparsa il concetto di Sé, che, in una delle sue accezioni (e precisamente quella della Psicologia del Sé di Kohut [1971, 1977, 1984]), indica non tanto la rappresentazione della persona da parte dell'Io (come secondo la nota accezione di Hartmann del 1950) ma - potremmo dire - la persona in quanto tale, una nuova struttura psichica dotata di un proprio funzionamento dove quindi non troverebbe più posto il concetto stesso di Io. Per rendere il quadro ancor più complicato, si può menzionare anche che in tempi recentissimi, e precisamente tre anni fa, da fonte autorevole (Brenner, 1994) è stata avanzata la proposta di abbandonare tout-court la struttura tripartita Io/Es/Super-Io, in favore del termine "individuo", "persona", o "mente della persona" (per brevità, non entrerò qui nel merito delle argomentazioni usate da Brenner per sostenere questa tesi).

La storia della psicoanalisi dunque è rappresentata da un avvicendarsi di modelli diversi, i quali furono proposti in successione sia da Freud stesso nel corso delle sua vita, che da autori successivi. Uno dei problemi della psicoanalisi come teoria scientifica è la integrazione di questi modelli, alcuni dei quali non solo non sono stati sufficientemente chiariti e integrati con i modelli successivi, ma, per così dire, hanno continuato a vivere di vita propria, percorrendo strade differenti e sopravvivendo come fraintendimenti o come concetti autonomi in scuole di pensiero diverse. Il quadro che emerge della psicoanalisi contemporanea (Migone, 1995a, cap. 1) è quindi quello di un coacervo di scuole diverse da loro, in cui non solo il termine carattere non è univoco, ma anche quello di psicoanalisi non è univoco, esistendo molte psicoanalisi.

In questo mio tentativo di ripercorrere brevemente la evoluzione del concetto di carattere nella storia del pensiero psicoanalitico, cercherò di fare chiarezza su alcune questioni di fondo, ovviamente secondo il mio parziale punto di vista, e di stimolare la riflessione senza la pretesa di fornire un quadro obiettivo o definitivo. Farò riferimento, in particolar modo, alla analisi storico-critica di David Shapiro (1989), un autore che si è occupato più volte della problematica della personalità nella teoria psicoanalitica.

Il concetto di carattere nell'evoluzione del pensiero psicoanalitico

Va detto che un aspetto importante della storia del concetto di carattere in psicoanalisi è che all'inizio del percorso freudiano questo concetto semplicemente non esisteva, non trovava una sua collocazione. Quando Freud alla fine del secolo scorso mosse i primi passi nella costruzione del suo edificio teorico, voleva distinguersi nettamente dalle concezioni allora prevalenti in termini di eziologia delle nevrosi. Le concezioni del tempo erano prevalentemente organicistiche o, potremmo dire, caratterologiche, in quanto consideravano la nevrosi come derivante da debolezze della personalità, dell'individuo, se non addirittura della sua costituzione biologica o morale (tra i tanti riferimenti storici, si pensi alla "teoria degenerativa" di Morel, e sopratutto alla "predisposizione nevrotica" di Janet). Freud studiava sintomi isolati (una paralisi isterica, un tic, ecc.), e gli premeva a sottolineare che i suoi pazienti, a parte il sintomo, erano sostanzialmente normali, anzi rispettabili, o forse ancor più raffinati e sofisticati degli altri (magari era proprio questa loro raffinatezza che li aveva resi più sensibili alla malattia). Non a caso faceva parte della teoria di allora la concezione di un agente esterno come causa della nevrosi, un trauma accidentale che poteva colpire chiunque, anche le personalità più sane, portandole alla malattia.

La psicologia freudiana di allora, ancora in una fase pre-psicoanalitica, era quindi molto semplice, era una teoria ambientalistica che non contemplava una partecipazione dell'individuo alla genesi della malattia: il trauma subìto nell'infanzia veniva concepito quasi come un agente tossico, un affetto che doveva essere rimosso, dissociato, per poi risvegliarsi alla pubertà e manifestarsi in modo simbolizzato sotto forma di sintomo. Per questo semplice modello (che però, come osserva Friedman [1977], conteneva già i germi di una teoria più complessa) non occorreva ricorrere al concetto di personalità, un concetto legato a qualcosa di preesistente, di stabile nel tempo e possibile concausa della malattia. Allora per Freud la nevrosi, e anche il sintomo, erano isolati dalla personalità, erano una intrusione in essa, un ricordo dissociato e rimosso che, come un ascesso, andava drenato tramite l'abreazione.

Ma durò poco il periodo in cui Freud, con la teoria del trauma (cioè con la teoria della seduzione), accarezzò l'illusione di aver scoperto qualcosa di duraturo, e presto si rese conto che non tutte le sue pazienti avevano subìto i traumi che lui si era fatto raccontare. Dovette dunque abbandonare la teoria della seduzione, ed escogitare un altro modo per rendere conto della sintomatologia. Fece quindi un passo importante, che non solo segnò la nascita della psicoanalisi, ma anche una svolta di grande portata dal punto di vista della teoria psicologica. Propose l'idea che l'origine della nevrosi non era dovuta a cause esterne subìte passivamente dal soggetto, ma a cause interne, o meglio alla interazione tra eventuali fattori esogeni e fattori interni attivamente prodotti dalla persona. Questi fattori interni erano le "fantasie" (concetto che sarà destinato ad avere un ruolo centrale in psicoanalisi, come pure quello di "realtà psichica"), fantasie che venivano prodotte autonomamente dalle pazienti, ad esempio fantasie libidiche o incestuose derivate dalle "pulsioni", le quali entravano in conflitto con la difesa producendo il sintomo. Fu nel lavorare attorno a questo problema delle fantasie che Freud formulò la teoria dello sviluppo psicosessuale della libido, da cui dovevano appunto originare queste fantasie: fase orale, anale, fallica, ecc., concezioni che poi utilizzò per costruire la sua teoria della formazione del carattere (carattere orale, anale, fallico e così via) a seconda dei punti di fissazione o delle regressioni dello sviluppo della libido, anche a seguito di concomitanti fattori ambientali.

Come fa notare Shapiro (1989), lungo tutto questo percorso si può notare che è avvenuto un progressivo radicamento della nevrosi nella persona come agente responsabile della malattia. Va notato che parallelamente è avvenuta la nascita della psicoanalisi come tecnica, con l'abbandono dell'ipnosi (in cui il paziente era in stato di trance, quindi passivo e non responsabile del sintomo) e la introduzione della "regola aurea", cioè le associazioni libere (in cui il paziente è in stato di veglia, posto nelle condizioni di affrontare responsabilmente i contenuti dissociati dalla coscienza affrontandoli emotivamente, superando le difese, e integrandoli nella sua personalità globale).

Questo passaggio da una concezione del sintomo come prodotto di un fattore esterno a una in cui esso veniva visto come prodotto internamente non aveva però modificato in modo sostanziale la concezione della malattia nevrotica come qualcosa di profondamente estraneo all'individuo. Infatti era proprio questo aspetto della nevrosi che più la caratterizzava, quello di essere al di fuori del controllo della volontà, di essere spiegabile con meccanismi inconsci, dove il soggetto era quasi uno spettatore. Il sintomo, secondo la nuova concezione, anche se prodotto dalla persona rimaneva pur sempre estraneo ad essa. Il sintomo obbediva alle leggi del conflitto, di un conflitto nucleare basato su desideri infantili, estranei dunque alla personalità adulta.

Questa concezione produceva il ben noto paradosso dell'uomo che non è "padrone in casa propria" (Freud, 1916, p. 663), che è una marionetta, costretto ad agire comandato da forze oscure dentro di lui - un uomo che può dichiarare una assoluta mancanza di responsabilità dei propri comportamenti. Nonostante dunque la svolta teorica derivata dall'abbandono della teoria della seduzione, nella nuova teoria della psicoanalisi permaneva la stessa concezione del sintomo come estraneo alla personalità del soggetto.

La questione della "scelta del sintomo"

A questo problema se ne aggiungeva un altro, quello della annosa questione della scelta del sintomo. Quello che la teoria non riusciva a spiegare era come mai un determinato paziente sviluppasse una nevrosi caratterizzata da certi sintomi e difese, e non un'altra. Non si conosceva quali fossero i criteri insomma per cui un paziente "scegliesse" una certa difesa (rimozione anziché proiezione, oppure spostamento, e così via); non solo, ma non si sapeva per qual motivo in prima istanza un certo paziente avesse determinate fantasie o derivati pulsionali da cui era necessario difendersi. La risposta di Freud a questo problema faceva ricorso, all'interno delle cosiddette "serie complementari" della eziologia delle nevrosi (Freud, 1895, p. 189), al concetto di ereditarietà, cioè di predisposizione biologica alla malattia, senza peraltro fornire specificazioni ulteriori o più approfondite. E' vero, nella sua concettualizzazione delle "serie complementari" Freud teorizzò con molta attenzione i ruoli complementari del trauma e della vulnerabilità individuale, formulando un modello che anticipa di quasi un secolo quello che oggi, riguardo alla genesi della schizofrenia, è tanto in voga in psichiatria col nome di modello "stress-diatesi" (Zubin & Spring, 1977). Ma possiamo ritenere che quello che mancava a Freud era un quadro chiaro della personalità, cioè degli atteggiamenti, dei temperamenti e del modo di pensare che fanno parte della persona e che esercitano un ruolo importante nella formazione del sintomo. Queste determinanti caratterologiche sono quelle che rendono conto del peculiare modo soggettivo con cui un paziente reagisce al conflitto nevrotico e costruisce il sintomo stesso, informazioni quindi di estrema importanza per il terapeuta.

Per riassumere, limitare la concezione della nevrosi a un conflitto tra pulsione e difesa presenta non solo la limitazione di considerare l'individuo come una marionetta completamente estranea alla sua malattia, ma anche di non conoscere importanti fattori determinanti la sintomatologia specifica e la reazione soggettiva dell'individuo, lasciando quindi irresolvibile la questione della "scelta del sintomo". La concezione classica della nevrosi unicamente come conflitto tra pulsione e difesa trascura l'esperienza soggettiva di sé, sia conscia che inconscia, il funzionamento psichico che dà coerenza e stabilità nel tempo ai propri comportamenti specificamente individuali; in altre parole, trascura il ruolo rilevante della personalità.

Continueremo il discorso nella seconda parte, in cui anche verrà presentato un caso clinico per meglio illustrare questa problematica.

Seconda parte (Il Ruolo Terapeutico, 2000, 84: 82-88)

Continuo le riflessioni sulla evoluzione storica del concetto di carattere nel pensiero psicoanalitico, iniziate nella rubrica scorsa (Il Ruolo Terapeutico, 83/2000). In questa seconda parte, dopo aver discusso le implicazioni teoriche e cliniche della Psicologia dell'Io per quanto riguarda il carattere, presenterò anche un caso clinico, tratto da un libro di David Shapiro del 1989, per meglio illustrare i rapporti tra "nevrosi sintomatica" e "carattere", cioè - volendo usare la terminologia psichiatrica del DSM-IV - tra disturbi in asse I e disturbi in asse II.

Dalla "Psicologia dell'Es" alla Psicologia dell'Io

Come si è detto, la psicoanalisi affrontò la questione delle difese molto presto, ai primi decenni del secolo, con quella che è una delle più importanti revisioni teoriche, la Psicologia dell'Io: fu l'introduzione del concetto di Io e gli studi sulle sue funzioni e sulle difese che permisero l'inquadramento teorico secondo il quale l'attenzione venne nettamente spostata da quello che era rimosso a l'agente della rimozione. La psicoanalisi precedente, che, per differenziarla dalla Psicologia dell'Io fu rinominata "Psicologia dell'Es", prevedeva che la terapia passasse essenzialmente attraverso la interpretazione del rimosso, il disvelamento del conflitto, la comunicazione dei contenuti inconsci. L'inconscio andava svelato in quanto tale, e questa operazione veniva considerata di per sé terapeutica (questa concezione non fu mai abbandonata del tutto, si pensi al concetto freudiano di Junktim [Freud, 1927, p. 422; Migone, 1995b], il "legame inscindibile" tra terapia e ricerca; si pensi anche a certe correnti "ortodosse" da una parte, e kleiniane dall'altra - o ovviamente anche lacaniane - che tutt'ora danno importanza alla interpretazione "vera", e che non prevedono una modificazione della tecnica in pazienti gravi).

Ben diversa è la prospettiva della Psicologia dell'Io: non interessa disvelare i contenuti inconsci in quanto tali (anzi, ciò può portare a reazioni terapeutiche negative), ma la "analisi delle difese", cioè capire come e perché un paziente si difende (è per questo che, a partire dalla Psicologia dell'Io, ci si è avvicinati a una sempre maggiore sovrapposizione teorica tra psicoanalisi e psicoterapia: vedi Migone, 1995a, cap. 4). Per analisi delle difese non si intende demolire le difese (come vorrebbe la Psicologia dell'Es), ma conoscerle, rispettarle o addirittura valorizzarle, eventualmente modificarle ma agendo con molta delicatezza ben sapendo che le difese rappresentano l'identità del soggetto, tutto quello di cui il paziente dispone, l'unico modo con cui può funzionare. Non esiste un individuo senza difese, esse sono come l'aria che respira. Erikson (uno dei padri della Psicologia dell'Io) coniò un termine molto bello, la "resistenza di identità" (identity resistance), che descrive un tipo di resistenza al cambiamento dovuta alla paura che il paziente ha di cambiare a causa del fatto che le sue difese rappresentano la sua identità, l'unica che ha a disposizione.

Per sintetizzare, mentre una volta ci si chiedeva come mai un paziente stesse così male a causa di una certa patologia, con la Psicologia dell'Io, al contrario, si imparò a chiedersi come mai stesse così bene nonostante quella patologia, come mai ad esempio riuscisse a funzionare e a venire alle sedute, si incominciò cioè a valorizzare i suoi punti di forza, i suoi meccanismi di coping, assumendo quindi il suo apparato difensivo, o la sua personalità, come principale focus dell'attenzione clinica.

L'autore che in anticipo rispetto ai tempi contribuì a sottolineare l'importanza del carattere nel suo complesso fu Wilhelm Reich (1933). Nonostante il suo schema di riferimento teorico fosse ancora antecedente a quello della Psicologia dell'Io e quindi legato alla importanza del disvelamento dell'Es e della liberazione del rimosso (si pensi al ruolo della sessualità e della liberazione dalle costrizioni della società, soprattutto nelle sue tesi sociologiche che furono seguite in parte anche da autori della Scuola di Francoforte come Marcuse [1955] e altri) egli decisamente spostò l'accento, nella terapia, dalla interpretazione del desiderio infantile rimosso alla difesa contro quel desiderio. Con queste importanti acquisizioni Reich anticipò di alcuni anni gli studi sui meccanismi di difesa approfonditi da Anna Freud nel 1936. Non solo, ma Reich concepì la nevrosi non come conflitto nucleare ma come alterazione dell'intera personalità. Nel nevrotico, secondo Reich, operavano dei "modi di essere" restrittivi e "induriti", che si generalizzavano in "modi automatici e cronici di reazione": la ben nota "corazza caratteriale". Si può dire quindi che per Reich la nevrosi non agiva sulla persona estraniandola, ma era la persona. Il paradosso della marionetta, secondo questa prospettiva, pareva finalmente risolto.

Quando poi si ampliò e si diffuse la Psicologia dell'Io, acquisirono ancor più importanza la persona e gli aspetti consci dell'individuo, e inoltre i concetti di adattamento e di sviluppo. Inoltre vi è un altro problema che non va sottovalutato. Nel corso di questo secolo abbiamo assistito a un apparente cambiamento della sintomatologia che ha contribuito a spingere in questa direzione: i quadri nevrotici monosintomatici ("isterici") di una volta sono sempre più rari, messi in dubbio o quasi scomparsi, e si tende a vedere i sintomi come meno misteriosi o estranei all'individuo, anzi, come facenti parte della sua struttura caratterologica e dei suoi modi di relazionarsi con gli altri. Ma a questo riguardo non si è sempre sviluppata una teorizzazione coerente, e sembra che permanga molto viva la teoria del conflitto nucleare dissociato, magari questa volta ampliata per farvi rientrare i sintomi che sembrano appartenere più al carattere. Un esempio eclatante è la stessa Psicologia del Sé di Kohut (1971, 1977, 1984), che mentre da una parte teorizza una patologia caratteriale basata sul deficit e non sul conflitto, dall'altra nello stesso tempo postula che i sintomi del carattere narcisistico originino da un "trauma infantile" consistente ad esempio in un rapporto non empatico coi genitori, trauma che genererebbe una "struttura arcaica", non integrata col resto della personalità, che farebbe irruzione nella psiche adulta producendo i sintomi (vedi ad esempio il concetto di "grandiosità arcaica"). Rispunta quindi l'idea della persona come marionetta. E non è un caso, perché questa immagine della marionetta cattura molto bene il vissuto soggettivo e il tormento di alcuni sintomi del carattere, il fatto per esempio che il paziente non riesce a interrompere determinati comportamenti da lui razionalmente disapprovati. Ma forse la revisione teorica di cui c'è bisogno dovrebbe andare nella direzione di approfondire le implicazioni cliniche del passo avanti fatto da Hartmann nel 1937 per estendere la concezione di un'area autonoma e innata dell'Io, o dotata di autonomia relativa, alle varie modalità difensive e agli atteggiamenti che nel loro complesso costituiscono il carattere, a determinate funzioni dell'Io che, come abbiamo visto, giocano un ruolo importante nella formazione del sintomo.

Ad un esame più attento, vediamo infatti - come osserva Shapiro (1989) - che la personalità consapevole non è poi così innocua rispetto alla formazione dei sintomi, cioè essi non sono delle intromissioni in una modalità regolare della esperienza soggettiva, ma piuttosto potrebbero addirittura esserne il prodotto. I sintomi molto spesso rivelano tutte le caratteristiche dei modi di relazionarsi, di esperire soggettivamente la realtà, in modo tale da poter essere definiti "caratterologici".

Ma non vi è modo migliore di illustrare questa tesi che con la vividezza di un esempio clinico che ci racconta Shapiro (1989), e che io qui riassumo, che mi sembra esemplifichi molto bene il ruolo della personalità nella produzione della sintomatologia nevrotica.

Caso clinico

Un professore universitario di Giurisprudenza soffre della idea ossessiva, che lo perseguita da circa 6 anni e che è iniziata poco dopo il matrimonio, di aver commesso il grave errore di non aver sposato un'altra donna che aveva conosciuto brevemente molti anni prima. Con questo pensiero, che lui definisce "folle" e che si intromette costantemente nei suoi pensieri, pensa di essersi rovinato la vita e giocato la possibilità di essere veramente felice. Quella donna e l'idea del suo errore gli tornano costantemente alla memoria, quando ad esempio ascolta una canzone romantica, quando vede una automobile dello steso tipo che aveva lei, quando conosce una persona che ha un nome simile al suo, e così via: si scatenano allora ore di doloroso ripensamento per il suo errore e le presunte conseguenze. Si rende conto della irrazionalità di questa ossessione perché conosceva appena quella donna, e comunque nessun errore può giustificare questa ossessione (è evidente che è l'ossessione quella che a questo punto gli rovina la vita). Eppure dice che non può smetterla, non può "eliminare" questa ossessione, non riesce a non pensarci e a non ricadere in attacchi dolorosi di ricordo e di ripensamenti.

Siamo dunque di fronte a un paziente con un'idea ossessiva, un sintomo compulsivo egodistonico, irrazionale e doloroso, apparentemente estraneo alla sua vita. Come facciamo a comprenderlo? Se ricorriamo alla teoria psicoanalitica del conflitto tra pulsione e difesa, possiamo supporre che qui sono in gioco dei desideri inconsci e la difesa contro di essi, col risultato della produzione di un sintomo estraneo alla vita conscia e soggettiva del paziente. Potremmo fare delle ipotesi e pronunciare delle interpretazioni, e osservare se il paziente ne trae giovamento.

Se invece riusciamo a distaccarci da questa teoria, e guardiamo alla personalità del paziente, e se non postuliamo supposti conflitti inconsci ma siamo capaci di osservare attentamente la sua soggettività, il suo modo di ragionare e di condurre la sua vita, i suoi comportamenti così come ce li racconta, potremmo fare delle interessanti scoperte.

Guardiamo ad esempio quali sono i principali interessi nella vita di questo paziente, anche in termini di tempo. Questo paziente ha molto successo nel suo lavoro, lavoro che occupa gran parte dei sui interessi. Egli si preoccupa costantemente di non perdere qualche occasione di lavoro o di aggiornamento importante che gli permetta di imparare qualcosa di utile o di fare un avanzamento di carriera. Conserva una grande quantità di riviste, articoli, e fotocopie che non riesce mai a buttare via nel timore di perdere qualcosa di importante o insostituibile. A una osservazione attenta, si nota che queste preoccupazioni occupano buona parte della sua attività, nonostante egli non sia consapevole della loro esistenza o del loro significato. Quello che lui sa a livello conscio è che sono importanti i contenuti di queste preoccupazioni, ad esempio la importanza di una riunione o di un convegno che non può perdere, e non è consapevole della ossessività e della coscienziosità che stanno alla base e che sono la vera motivazione di questi comportamenti. Ma si autoinganna, come si può notare dalla espressione del suo viso quando cerca di mostrare entusiasmo per l'importanza delle grandi opportunità che riesce a non perdere: in realtà non appare affatto contento, appare solo preoccupato di non perdere una riunione e di passare da un convegno all'altro, indipendentemente dal valore intrinseco di questi impegni. Infatti, se una riunione viene cancellata appare sollevato, anziché deluso, a riprova che non era la riunione in sé che gli interessava, ma il fatto stesso di andarci rispettando la sua scrupolosità ossessiva. Se una volta non riesce ad andare ad un convegno e deve cancellare l'impegno, appare triste e frustrato; ma il suo dolore, senza che lui se ne renda conto, non è rivolto alla perdita oggettiva di quella opportunità, ma al rimorso per non aver saputo mantenere fede alla sua scrupolosità ossessiva. A riprova di ciò, se riesce a convincersi che il motivo per cui ha dovuto rinunciare al suo impegno era dovuto a cause indipendenti dalla sua volontà, subito viene risollevato dal sentimento di rimorso e di tristezza, ed è pronto a ricominciare a dare la caccia a una nuova opportunità. Le ragioni obiettive legate al valore intrinseco di quella opportunità vengono dimenticate, messe da parte, perché appunto non hanno valore in quanto tali nella sua dinamica psichica.

Abbiamo visto quindi che una caratteristica importante del disturbo creato da fattori legati alla personalità, inteso cioè non come uno o più sintomi ma che, per usare la terminologia del DSM-IV, "risulta inflessibile e pervasivo in una varietà di situazioni personali e sociali" interessando aree quali "cognitività, affettività, e funzionamento interpersonale" (American Psychiatric Association, 1994, p. 633), è quella di indurre una significativa alterazione della consapevolezza di sé, quasi una distorsione del significato dei propri sentimenti. Quel paziente, ad esempio, era convinto di essere interessato a una conferenza a cui voleva andare, ma in realtà gli interessava solo esserci stato, aver soddisfatto il suo senso del dovere. Come fa notare Shapiro (1989), non è sufficiente il meccanismo di difesa della razionalizzazione per spiegare questo autoinganno, questa distorsione ed estraniamento dalla realtà dei propri sentimenti e motivazioni: l'autoinganno viene favorito dagli stessi atteggiamenti scrupolosi e coscienziosi, che arrivano a persuaderlo che quello che gli richiede il suo inflessibile e opprimente senso del dovere corrisponde ai suoi veri desideri.

Secondo questa prospettiva, dunque, diventa problematico distinguere il sintomo ossessivo dalla struttura della personalità. E' una questione di intensità, una misura oltre la quale il paziente non può più non vedere, razionalizzare, o negare l'aspetto patologico del suo comportamento. Come abbiamo visto, il paziente considera "folle" solo la sua ossessione per l'occasione perduta con quella donna di tanto tempo fa, ma non la sua ossessione per non perdere i convegni inerenti alla sua professione, che lui ritiene perfettamente normale, anzi un segno della sua alta motivazione ad aggiornarsi. In realtà, si tratta solo di una questione di gradualità di una patologia del carattere, che quando è tale da non essere più facilmente razionalizzabile diventa egodistonica e viene chiamata sintomo.

Prima di concludere la discussione di questo caso clinico, vorrei fare però una breve parentesi in cui faccio riferimento ad una possibile contraddizione emersa nella ricerca psichiatrica recente sul disturbo ossessivo. Il caso clinico presentato mostra bene l'idea, che peraltro corrisponde anche al buon senso, che il sintomo ossessivo vero e proprio (cioè - usando i termini del DSM-IV - il "Disturbo Ossessivo-Compulsivo" [DOC] in asse I) si colloca lungo un continuum di gravità con la personalità ossessiva sottostate (cioè con il "Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità" in asse II - usando sempre i termini del DSM-IV). In altre parole, si può concepire il disturbo di personalità come una forma lieve, o forma frusta, che in determinate circostanze sfavorevoli può predisporre all'instaurarsi del disturbo vero e proprio in Asse I, il quale ad un certo punto irrompe, con tutto il suo correlato di sofferenza e disadattamento. Ebbene, contrariamente ad ogni aspettativa, ricerche psichiatriche accurate, condotte utilizzando i precisi criteri diagnostici del DSM-IV, avrebbero dimostrato che, per i disturbi ossessivi, l'asse I non si colloca in un continuum di gravità con l'asse II, cioè non è vero che chi soffre di un "Disturbo Ossessivo-Compulsivo" presenta sempre anche un "Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità", anzi, è più facile che non lo presenti, così pure come è più facile che chi soffre di un "Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità" non presenti un "Disturbo Ossessivo-Compulsivo". Ho voluto menzionare questo interessante dato emerso dalle ricerche per mostrare quanto questa materia sia complessa: possiamo ipotizzare che vi sia qualcosa da rivedere nei criteri diagnostici del DSM-IV o nella metodologia di indagine, oppure che effettivamente in questo caso si tratti di disturbi relativamente indipendenti. Sarà il perfezionamento delle ricerche che forse chiarirà queste domande.

Conclusioni

La psicoanalisi contemporanea ha acquisito grande esperienza nel lavoro sul carattere, grazie anche al cambiamento della psicopatologia di cui si accennava prima, per la quale i sintomi eclatanti si presentano sempre meno alla nostra attenzione. E nei rari casi in cui si presentano, sarebbe ingenuo credere che la loro eliminazione rappresenti la cura, anzi, spesso la cura inizia dopo che essi sono stati ridimensionati, quando si affrontano i problemi del carattere, quei problemi che il paziente magari prima non vedeva perché erano egosintonici. Una volta esaminati i sintomi eclatanti, ci si accorge che essi non possono essere affrontati se prima, o parallelamente, non si lavora alle loro radici, cioè non si rende il paziente progressivamente consapevole della sua "nevrosi del carattere", delle sue strutture cognitive che permettono che questi sintomi traggano la loro linfa vitale (si noti che, a rigore, il termine "nevrosi del carattere" è un ossimoro, cioè una autocontraddizione, in quanto, secondo la concezione tradizionale, la "nevrosi" viene sempre concepita come egodistonica, mentre il "disturbo di personalità" viene concepito come egosintonico: nel termine quindi "nevrosi del carattere" - proposto da Shapiro - i due termini vengono uniti volutamente, a mo' di provocazione, per alludere a una problematica nevrotica che rimane in buona parte egosintonica, cioè non riconosciuta, non vista dall'Io). Il lavoro sulla personalità è un lavoro quindi più lento e faticoso, anche perché il paziente non è inizialmente consapevole dei suoi tratti nevrotici caratteriali, per cui occorre un lungo lavoro di analisi delle sue razionalizzazioni, per fargli prendere sempre più coscienza del suo problema, facendo attenzione a non ferire la sua autostima, la sua sicurezza di base (è qui che ad esempio i kohutiani hanno acquisito una enorme esperienza e hanno trasmesso un patrimonio clinico straordinario a tanti analisti anche di altri orientamenti). Non si può modificare qualcosa se essa non è conosciuta, cioè se essa non viene identificata, separata per così dire dalla identità del soggetto, resa egodistonica, verbalizzata, messa di fronte ai suoi occhi, posta nel suo campo visivo. Il paziente deve a poco a poco passare da una posizione in cui era affezionato al suo carattere, o in cui non era assolutamente consapevole di certe sue dinamiche caratteriali, a una posizione in cui arriva a non amarlo più, o a odiarlo, a voler cambiare, a desiderare una immagine diversa di sé. E' procedendo verso questa strada che avviene il cambiamento, una strada caratterizzata dall'azione simultanea di una varietà di fattori curativi sia emotivi che cognitivi (identificazione col terapeuta, acquisizione di nuovi valori, maggiore conoscenza di sé e allargamento della propria soggettività, ecc.). E' durante questo lungo percorso che avviene la lenta ma graduale e costante trasformazione degli schemi cognitivi del paziente.


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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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