PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1987/88, 46/47: 65-69
(una versione anche in: Psicoterapia e Scienze Umane, 1980, XIV, 1: 54-76)

Psicoterapia: arte o tecnica?
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Spesso, parlando della relazione terapeutica, si usano termini quali "arte" della psicoterapia, o "carisma" del terapeuta, o più in generale ci si riferisce a quegli aspetti che sono legati alla "personalità" del terapeuta anziché a una tecnica specifica. E' questo un argomento confuso che necessita di un chiarimento, soprattutto a livello della impostazione dei problemi. Il motivo per cui ritengo che questo argomento meriti una riflessione è il fatto che nei tempi recenti un numero sempre maggiore di autori si sono espressi su posizioni che qui per brevità possiamo chiamare "antiteoriche", o di rifiuto della teoria psicoanalitica tradizionale (esempi possono essere per certi versi le posizioni di Lai, espresse più volte sul Ruolo Terapeutico [ma si veda una critica a Lai nella mia rubrica del n. 72/1996], o anche il dibattito aperto dalla lettera di Napolitani a Galli pubblicata su Psicoterapia e Scienze Umane, 1985, 3: 38-40). Alcuni anche affermano che la teoria tradizionale non è adeguata per certe situazioni cliniche, come per le psicosi; e così via.

Prima di iniziare una discussione su questo tema bisogna dire che il termine "arte" andrebbe specificato tra virgolette, poiché esso appartiene a uno schema di riferimento situato ad un livello diverso da quello del termine "tecnica". In altre parole, l'alternativa "arte o tecnica" ha un significato provocatorio e non sarebbe corretto porla, casomai bisognerebbe porre l'alternativa tra una tecnica e un'altra.

Quello che intendo fare in questa discussione quindi è utilizzare un unico schema di riferimento teorico, e precisamente quello della psicoanalisi, per tentare di inquadrare fenomeni e aspetti della psicoterapia che spesso vengono descritti con termini non psicoanalitici, oppure esistenti precedentemente alla nascita della psicoanalisi. Nel fare ciò parlerò anche di alcuni riaggiustamenti che ha dovuto subire la teoria psicoanalitica in questa difficile ma fertile fase del suo sviluppo.

Per esigenza di maggiore chiarezza, e per mantenermi più aderente al dato clinico, voglio ora elencare una serie di fatti o di osservazioni dai quali si può partire per fare in seguito alcune considerazioni teoriche. Essi sono i seguenti: 1) esistono ormai molte ricerche controllate le quali dimostrano che il fattore che è maggiormente correlato alla buona riuscita di una psicoterapia non è la tecnica impiegata, né la scuola di appartenenza né l'esperienza o l'anzianità dei terapeuti, ma una costellazione di caratteristiche che possiamo sommariamente definire come la "personalità" dei terapeuti. A questo dato di ricerca corrispondono varie esperienze e osservazioni personali di molti di noi. Ad esempio è noto che non vi è una correlazione stretta tra il talento clinico di un terapeuta e la sua cultura teorica, o la sua anzianità, o la capacità a teorizzare quello che fa. In genere è raro trovare un terapeuta che sia contemporaneamente un buon clinico e un buon teorico. C'è chi ipotizza che la preparazione teorica o l'interesse per la teorizzazione sia almeno in parte originato da motivazioni difensive nei confronti dell'ansia per il lavoro clinico coi pazienti. Un'altra esperienza che molti hanno fatto è quella di osservare che quando dobbiamo inviare un paziente a un collega per una terapia, i criteri che regolano la nostra scelta di un terapeuta non sono così facilmente oggettivabili, come appunto la sua formazione o la sua anzianità, ma dipendono direttamente dalla nostra impressione o sensazione di lui come persona, da come lui ci "ispira", ecc. Si può ipotizzare a questo punto che le caratteristiche del terapeuta che stanno dietro alla nostra scelta o preferenza sono preconsce, se non addirittura inconsce, e fanno riferimento a certe caratteristiche o doti prettamente "umane" che forse hanno a che fare con la capacità di gestire determinate situazioni cliniche o a fare fronte a certe difficoltà dei trattamenti in un modo non meglio concettualizzabile dai principi della tecnica psicoterapeutica corrente.

2) Un altro dato di fatto, collegato alle osservazioni precedenti, è che molti pazienti ottengono giovamento, e a volte un grande giovamento, da interventi terapeutici basati su tecniche completamente diverse da quelle da noi seguite. Questo è anche un problema di attualità oggi, nel momento in cui assistiamo al moltiplicarsi di nuove modalità terapeutiche, come ad esempio quelle che si rifanno alla cosiddetta "nuova medicina" o medicina altenativa, oppure alla tradizione orientale, a quelle tecniche importate dalla California, ecc. In un certo senso è paradossale notare come oggi, più riusciamo ad affinare i nostri strumenti teorici e tecnici e ad avanzare nel cammino della scienza ufficiale della psicoterapia, più cresce la competitività di queste altre tecniche cosiddette non ufficiali, e sempre più pazienti ci danno il chiaro messaggio che sentono che altri, meglio di noi, sanno dare delle risposte ai loro problemi. Penso che sarebbe semplicistico e difensivo da parte nostra enfatizzare l'aspetto suggestivo, a volte manipolatorio o "poco serio" di certe pratiche terapeutiche non ufficiali, perché ciò può servire a non voler vedere il vero problema, che è quello della incapacità di quello che possiamo chiamare l'establishment psicoterapeutico e della sua cultura a interpretare e a rispondere ai bisogni espressi da tutti i pazienti. Così com'è successo in molti esempi della storia della medicina (tanto per citare alcuni esempi, il salasso o, per rimanere nella psichiatria, il mesmerismo), certe pratiche hanno lentamente diminuito la loro diffusione mano a mano che progredivano le conoscenze scientifiche, (rimando qui alla mia rubrica del n. 44 de Il Ruolo Terapeutico), per la psicoterapia questo progresso è molto difficile, e il cammino deve necessariamente essere più lento. Penso che molti di noi hanno avuto esperienza di pazienti che non hanno risposto bene alle nostre tecniche, anche le più progressiste e meno ortodosse, e hanno invece tratto un grande giovamento da altre tecniche, ad esempio lo yoga, la meditazione trascendentale, la macrobiotica, l'omeopatia, ecc., cioè da modalità terapeutiche dove noi sappiamo che vi è un uso sistematico dei placebo, o dove la cura avviene attraverso le qualità che potremmo chiamare carismatiche o suggestive della relazione terapeutica. In questi casi dove abbiamo sbagliato? Perché abbiamo perso il paziente? Quale aspetto della nostra teoria della tecnica ci ha impedito di vedere chiaramente il suo vero problema?

3) Sul versante della teoria psicoanalitica succedono nei tempi recenti cose sempre più curiose e che attraggono la nostra attenzione. Ad esempio oggi un noto psicoanalista italiano, e precisamente Giampaolo Lai, formatosi in Svizzera in modo ortodosso, e profondo conoscitore della teoria psicoanalitica, probabilmente giunto alla fase più matura del suo percorso di ricercatore e di terapeuta, esce pubblicamente con affermazioni che sconcertano e forse scandalizzano molti, ma che lo rendono inevitabilmente un punto di riferimento. Lai è diventato un paradigma, un autore spesso citato a proposito della crisi della teoria psicoanalitica, e probabilmente le sue posizioni così estreme ed esposte con la franchezza che gli è congeniale, rappresentano solo la punta di un iceberg ben più diffuso all'interno dei movimento psicoanalitico. Lai dice in poche parole che crede in una "tecnica senza teoria", che quello che è importante in terapia è avere soprattutto una "relazione felice" col paziente, e che è ben difficile capire veramente come mai un paziente sta meglio, anzi, è praticamente impossibile conoscerlo o entrare nella sua testa. Né serve che noi facciamo degli sforzi per renderlo felice, tutto quello che possiamo fare è cercare di essere felici noi sessi, e se il paziente è felice pure lui, tanto meglio.

La posizione di Lai è stata da più parti criticata e vista come paradossale o intrinsecamente contraddittoria, in quanto ad esempio essa propone e nega contemporaneamente il concetto di terapia, e necessariamente quello della tecnica terapeutica come operazione atta a raggiungere uno scopo. Cioè che senso ha che un terapeuta faccia certe cose per sè stesso negando che servono a qualcun altro quando egli s'incontra con un paziente dichiaratamente per fare una terapia, cioè per operare un cambiamento su di lui dal quale appunto riceve per questo scopo anche denaro? La proposta di Lai sembra quindi una proposta provocatoria, anche se egli nega che lo sia, spingendosi forse verso un uso della provocazione nella provocazione. Ma una delle immagini che la proposta di Lai evoca è quella di un terapeuta profondamente disilluso dalle teorie e dalle tecniche psicoterapeutiche tradizionali, un terapeuta che ha colto il fatto che vi è una lacuna, un anello mancante nella maggior parte delle teorie psicoanalitiche sulla tecnica, un terapeuta che sembra operare polemicamente una rottura con la tradizione psicoanalitica e con quella cosiddetta "scientifica", per fare riferimento a fattori ulteriormente scomponibili quali la personalità del terapeuta, e le qualità affettive (ad esempio la "felicità") o "artistiche"(se non addirittura "istrioniche") del terapeuta. "L'analista stregone" è il titolo di un capitolo dell'ultimo libro di Lai (La conversazione felice, Milano: Il Saggiatore, 1985). Sembra che finalmente, dopo uno sforzo secolare della medicina di allontanarsi dalla magia o dalla religione per comprendere scientificamente il meccanismo d'azione della psicoterapia, con un gran capitombolo siamo veramente arrivati ad afferrarlo: esso è proprio la magia, e il principio del terapeuta nell'aspettarsi il miglioramento del paziente è proprio la fede. Da più parti nella comunità psicoanalitica internazionale serpeggiano accenni a simili posizioni, Lai non è solo. "Tu devi avere fede nel paziente, aspetta e vedrai, il suo inconscio si svelerà a te e ti dirà cosa fare", dice pressappoco Bion al terapeuta. E ancora: "ogni seduta deve essere affrontata senza memoria né desiderio". Kohut (La cura psicoanalitica [1984], Torino: Boringhieri, 1986) parla di empatia, e dice che un atteggiamento empatico verso il paziente può avere di per sé degli effetti terapeutici, cioè è curativo di per sé. Vari terapeuti familiari fanno riferimento allo zen e alla saggezza orientale, al guru o maestro. Waztlavick, che ha dato così validi contributi allo studio della psicoterapia, ora a volte allude anche lui forse provocatoriamente al concetto di magic come spiegazione del cambiamento.

Cosa sta succedendo all'interno della psicoanalisi, che cosa vogliono dire tutte queste posizioni, che tipo di problematica esprimono, qual'é il loro comune denominatore? Innanzi tutto esprimono una insoddisfazione per certe teorie tradizionali. In alcune di loro, come ad esempio in quella di Lai, viene enfatizzato nella tecnica terapeutica non tanto quello che il terapeuta fa o dice, quanto l'atteggiamento che egli ha, ovvero il suo stato emotivo, nel suo riuscire a "star bene" con il paziente. Molte di queste voci provengono dai margini della tradizione psicoanalitica, ma sono ben presenti anche nella letteratura ufficiale e sono rappresentate anche da autori ai vertici dell'International Psychoanalytic Association.

Ad esempio al simposio di Londra dei 1975 riguardo ai cambiamenti della psicoanalisi contemporanea (Int. J. Psychoanal., 1976, 57: 427) una delle cose su cui ci si trovò d'accordo fu il fatto che quello che cerca di fare il terapeuta con il suo paziente è to get along together, cioè di convivere, di tirare avanti insieme, di avere un buon rapporto.

Finora ho esposto alcuni problemi e ho fatto alcune considerazioni riguardo a dei cambiamenti avvenuti nella psicoanalisi negli ultimi anni. Cercherò ora di inquadrare in modo più sistematico quello che sta accadendo a livello dello sviluppo della psicoanalisi, per meglio comprendere questi fatti. Alcune cose infatti non sono nuove ma sono state già discusse e affrontate tanti anni fa all'interno della tradizione psicoanalitica, altre invece possono essere nuove o comunque possono meritare una discussione. I problemi sul tappeto, che toccano in un modo o nell'altro questa problematica, sono molti. Ne elencherò qui i principali. Innanzi tutto vi è la storica contrapposizione della modalità di cura detta "esperienza emozionale correttiva" proposta per la prima volta all'intemo della psicoanalisi da Alexander nel 1946 [Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, 2: 85-101], e criticata da Eissler nel 1950 [Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, 3: 5-33 e 4: 5-35], e altri i quali invece preferivano rimanere all'interno della tradizione classica. Un altro problema è quello dell'altra contrapposizione storica, quella tra la teoria dei conflitto e la teoria dei deficit come base della psicopatologia e quindi la conseguente contrapposizione tra due diverse modalità terapeutiche, una basata sull'interpretazione del conflitto, cioè psicoanalitica in senso classico, e l'altra sulla riparazione del deficit o riempimento della lacuna dello sviluppo, che può avvenire tramite apprendimento o appunto una nuova nascita o una nuova esperienza riparativa di tipo emotivo con l'analista. I risvolti della differenza tra questi approcci si possono vedere ad esempio nella contrapposizione della Psicologia dei Sé di Kohut con la Psicologia dell'Io. Un altro problema più o meno direttamente collegato ai precedenti è il rapporto tra le problematiche pre-edipiche, e quelle edipiche, altrimenti definibili come relative ai conflitti intersistemici cioè strutturali (Io, Es, Super-Io). In realtà tutti questi problemi si intrecciano e si sovrappongono, e l'unico modo per capirli con chiarezza è quello di vedere lo sviluppo della psicoanalisi secondo una prospettiva storica: è stato semplicemente l'allargamento dell'uso della psicoanalisi al di fuori dei cosiddetti nevrotici cioè il suo uso coi bambini da una parte e con gli psicotici dall'altra (Klein, Sullivan, ecc.), il fattore che ha forzato l'introduzione e la creazione di nuovi modelli. Il risultato è che ora ci troviamo di fronte a una certa confusione, dovuta non solo alla compresenza di modelli diversi, ma anche alle note difficoltà di una diagnosi psicoanalitica.

In sintesi quello che è successo nella storia della psicoanalisi, volendo fare una sistematica carrellata, è che all'inizio si credeva che lo strumento terapeutico proprio, quello che veniva considerato il nucleo del metodo psicoanalitico, fosse l'interpretazione. Questo è incominciato a entrare in crisi mano a mano che è entrato in crisi, come paradigma per così dire universale, il complesso edipico come fonte della psicopatologia: non essendo più chiaro l'oggetto, il bersaglio dell'interpretazione, cioè il complesso edipico, ovvero non essendo più chiaro il "cosa" interpretare, e vacillando la "verità" dell'interpretazione, l'attenzione di molti autori si rivolse verso altri aspetti del processo analitico, forse nel tentativo di individuare un altro nucleo del metodo, un altro punto di riferimento teorico che costituisse la "oggettività" psicoanalitica (vedi gli articoli di Galli nei numeri 38 e 40 de Il Ruolo Terapeutico). Ed ecco che improvvisamente, negli ultimi 15-20 anni, il concetto di "setting" acquista un ruolo di primo piano nella letteratura. Il setting come "contenitore", come metafora del rapporto emotivo arcaico, pre-edipico tra la madre e il bambino. In altre parole quello che è successo è che mentre prima si considerava l'interpretazione come lo strumento psicoanalitico per eccellenza, e quindi questo strumento veniva privilegiato, cercando di minimizzare al massimo tutto quello che non era l'interpretazione (gli altri interventi dei setting, che non a caso venivano ridotti al minimo; quasi per annullare tendenzialmente il setting stesso - si pensi alla neutralità analitica ecc.), cioè l'interpretazione funzionava per così dire "nonostante il setting", da un certo punto in poi s'incominciò ad attribuire al setting stesso e quindi all'atteggiamento dell'analista un valore terapeutico, accanto a quello dell'interpretazione. Non bisogna dimenticare che questo viraggio, questo spostamento di enfasi è avvenuto parallelamente all'allargamento (widening scope) dell'uso della psicoanalisi ai bambini e ai pazienti adulti più gravi.

Ecco quindi che il fenomeno a cui stiamo assistendo in psicoanalisi è il seguente: l'enfasi posta sul setting, derivata dall'allargamento dell'uso della psicoanalisi ai pazienti più gravi, ha comportato una precisa modificazione nella teoria della terapia, la quale si è riverberata anche sulla teoria della terapia dei pazienti cosiddetti classici. Saremmo di fronte cioè a un altro movimento dello sviluppo ciclico della psicoanalisi. Come è noto il progresso in psicoanalisi ha sempre avuto un andamento ciclico: quando venivano accettate delle revisioni a livello teorico, queste provocavano un cambiamento delle procedure tecniche; queste modificazioni tecniche hanno in seguito modificato i nostri dati di osservazione, facendo mettere a fuoco fenomeni che hanno sempre fatto parte della situazione psicoanalitica ma che venivano in genere liquidati come epifenomeni o in vari altri modi; l'accumulazione di nuovi dati a sua volta metteva in moto il processo provocando una modificazione della teoria, e via di questo passo. Come si diceva, un esempio tipico di questo è il concetto di setting: esso è sempre esistito in psicoanalisi e ha ovviamente sempre avuto un ruolo specifico, ma la sua importanza veniva minimizzata, o al massimo si arrivava ad alcune teorizzazioni come quella, di Gitelson [I fattori terapeutici nella prima fase dell'analisi (1962). In: Psicoanalisi, scienza e professione. Torino: Boringhieri, 1980] secondo cui il contesto della terapia aveva funzione "diatrofica" per il paziente, soprattutto nella prima fase dell'analisi, prima che il paziente potesse tollerare il lavoro interpretativo vero e proprio sui suoi conflitti inconsci. Dovettero però passare ancora molti anni prima che vari autori riconoscessero fino in fondo la funzione specifica del setting in psicoanalisi ovvero dell'atteggiamento dell'analista e delle sue specifiche funzioni psicologiche quali quella del contenitore, e così via.

E veniamo dunque al problema posto all'inizio, per spiegare anche perché ho fatto questa lunga digressione. All'inizio, ponendo l'interrogativo "arte o tecnica- volevo esprimere in questo modo il disagio che molti oggi sentono all'interno del movimento psicoanalitico nei confronti di gran parte del bagaglio teorico tradizionale, e il tentativo che alcuni fanno di rispondere a questo disagio uscendo direttamente dallo schema di riferimento psicoanalitico e richiamandosi ad altri modelli, come quello fenomenologico, o addirittura prendendo una posizione antiteorica o pragmatica. Come giustamente osserva Gedo (Al di là dell'interpretazione [1979], Astrolabio, 1986), un atteggiamento pragmatico è pericoloso ed è inaccettabile per due motivi:

1) è destinato progressivamente ad impoverire ed in definitiva a distruggere l'integrazione della psicoanalisi col resto della scienza del comportamento, integrazione che si può basare solo su livelli elevati di astrazione;

2) l'assenza di teoria in un approccio pragmatistico è più apparente che reale, perché si basa sul crollo della distinzione tra teoria e dati empirici. Una parziale spiegazione di questo disagio che oggi molti provano nei confronti della teoria psicoanalitica, disagio che è particolarmente sentito nella terapia della psicosi e dei casi gravi in generale, risiede nel fatto che effettivamente a causa di grossi cambiamenti avvenuti nella teoria della tecnica, si ha l'impressione che tutto sia cambiato, che scivoli il terreno stesso su cui poggiamo i piedi, i fondamenti che contraddistinguono quella che conoscevamo col nome di psicoanalisi. In altre parole l'interrogativo che viene posto, più o meno esplicitamente da autori quali ad esempio Lai, o almeno quello che si può percepire dal suo messaggio, è se sia legittimo o meno parlare ancora di psicoanalisi, e se non sia invece il caso di abbandonare completamente quel bagaglio di ipotesi e di ricerche costruite con fatica in quest'ultimo secolo. A mio parere questa è un'impostazione sbagliata del problema, non tanto perché non sia legittimo uscire dalla psicoanalisi, quanto perché prima di fare questo bisogna confrontarsi su cosa s'intende in questo caso per psicoanalisi, cioè quale aspetto della teoria si prende in considerazione. E' indubbio che la psicoanalisi sia molto cambiata, e che oggi esiste una nuova psicoanalisi. Ma questo cosa significa, al di là di questa generica affermazione? Potrebbe significare che oggi per esempio si ha molta maggiore consapevolezza di prima. Che, anche nei pazienti "nevrotici", cioè non solo nei gravi, i conflitti cosiddetti "pre-edipici" hanno avuto un ruolo importante nella genesi del disturbo psichico, e che l'importanza dei complesso edipico è stata molto ridimensionata.

Si è maggiormente capito, grazie soprattutto alle scoperte di Kohut, ma anche grazie a vari precursori tra cui Ferenczi, le cui scoperte sono state per decenni minimizzate, che il lavoro analitico rivolto specificamente sull'elaborazione di quello che viene chiamato "transfert narcisistico" è una parte estremamente importante, e se esso viene trascurato ne risente l'analisi nel suo complesso. Quello che Lai chiama lo stare bene col paziente, l'essere felice da parte del terapeuta, il privilegiare la convivenza rispetto alla conoscenza ecc., sono tutti aspetti che possono essere riconducibili all'elaborazione del "transfert narcisistico", posto che vogliamo tentare di inquadrare questo problema in una prospettiva psicoanalitica. Ugualmente, il senso di profondo benessere provato da molti pazienti dopo una seduta di yoga, di training autogeno, di certe sedute in una psicoterapia espressiva ecc., può essere dovuto alla riattivazione del transfert primitivo, a una sensazione di pace interiore e di vigore a cui per esempio Kohut ha alluso usando il termine di "coesione del Sé". Ma è solo attraverso la elaborazione sistematica di questi movimenti transferali cosiddetti arcaici o pre-edipici e non semplicemente con la loro riattivazione come avviene in quasi tutte le psicoterapie, che si può permettere al paziente la graduale interiorizzazione delle strutture mancanti, come è stato ormai largamente documentato da una ampia letteratura psicoanalitica negli anni recenti [vedi tra gli altri Goldberg, The Psychology of the Self. A Casebook. Int. Univ. Press, 1978].

Riassumendo, in questo scritto ho cercato di mostrare come gli sviluppi della psicoanalisi di questi ultimi decenni, stimolati dalla sua applicazione clinica alla patologia più severa, permettono di riformulare nel suo complesso anche la teoria della tecnica per la patologia meno severa; inoltre ho presentato e discusso l'ipotesi di alcuni autori contemporanei (ad esempio Gedo) secondo i quali livelli diversi di funzionamento psichico, e precisamente quello arcaico e quello "nevrotico", potrebbero agire entrambi parallelamente e in modo silente durante la terapia, la cui consapevolezza da parte del terapeuta avrebbe dirette implicazioni sulla sua tecnica.

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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