PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2011, 117: 71-82

Vanno pagate le sedute di psicoterapia non effettuate?
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Il programma televisivo Forum di Canale 5 del 6 dicembre 2010 ha riguardato la questione del pagamento delle sedute di psicoterapia non effettuate. Un paziente (Salvatore) ha chiamato in giudizio la sua terapeuta (Silvia) perché quest'ultima pretendeva di essere pagata per una seduta che lui aveva dovuto saltare per un improvviso impegno di lavoro. La terapeuta aveva addotto principalmente due giustificazioni per la sua richiesta di pagamento: la prima era che "il denaro è parte integrante della terapia" e "prova tangibile dello scambio emotivo tra terapeuta e paziente", e la seconda era che il paziente si era impegnato nel contratto terapeutico (firmando anche un consenso informato) a pagare le sedute non effettuate se non avvisava almeno 48 ore prima. Il giudice ha dato ragione al paziente, ritenendo infondate entrambe queste motivazioni, adducendo che "non è scientificamente dimostrato" che il denaro è parte della terapia, e che è "vessatorio" un contratto che impone di pagare le sedute non effettuate, soprattutto tenendo conto dello squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto (nel senso che il paziente era tenuto a pagare le sedute saltate, ma la terapeuta aveva il diritto di spostarle senza risarcire in un qualche modo il paziente).

Questa sentenza ha fatto discutere, e nel gennaio 2011 l'Osservatorio Psicologia nei Media (OPM) mi chiese di commentare questa problematica. La mia risposta è stata pubblicata su Internet il 29 gennaio 2011 alla pagina http://www.osservatoriopsicologia.it/2011/01/29/pagamento-sedute-di-psicoterapia-non-effettuate-paolo-migone. La riporto anche in questa mia rubrica perché può interessare ad alcuni colleghi. Le mie riflessioni hanno riguardato soprattutto questioni di teoria della tecnica psicoterapeutica, non tanto gli aspetti legali dei quali sono meno competente.

Inizio con la questione del denaro che - secondo questa terapeuta, ma suppongo anche secondo altri colleghi - sarebbe "parte integrante della terapia". Ritengo che questa affermazione sia scorretta, o meglio, che non sia questo il modo di impostare il problema. Se il denaro fosse indispensabile per la terapia, allora, ad esempio, dovremmo dedurre che tutte le terapie gratuite, come quelle fatte nei Dipartimenti di Salute Mentale, non sarebbero efficaci, per cui a rigore dovremmo chiuderli. Forse si vuole alludere al fatto che il denaro può rappresentare un impegno da parte del paziente, un sentire importante la terapia, un darle un valore, mentre al contrario non pagare potrebbe equivalere a una sua svalutazione. Ma, a parte il fatto che una svalutazione della terapia - pur chiedendo di farla - può essere esso stesso il problema psicologico da curare (per cui sarebbe come dire che noi vogliamo guarire chi è già guarito), sarebbe ingenuo pensare che pagando si dà la prova di non svalutare qualcosa. Si pensi solo ai pazienti molto ricchi, per i quali il pagamento rappresenta un fattore irrilevante: se li facciamo pagare, forse questo serve a farli svalutare meno la terapia? La "svalutazione" della terapia (e del terapeuta) è una difesa ben nota agli psicoterapeuti, e su cui è stato scritto tanto (ad esempio può essere la proiezione di una auto-svalutazione del paziente stesso, un test inconscio, una forma di transfert o di schema cognitivo, ecc.). Alcuni pazienti poi possono fare una terapia solo a condizione di svalutarla (si pensi a certi adolescenti, o a certi borderline), per cui è questa dinamica che va capita, e in certi casi occorre temporaneamente… "essere svalutati" affinché questi pazienti non interrompano il rapporto con noi, mentre nel breve periodo un confronto prematuro su questa tematica comporta il rischio che essi abbandonino la terapia; non è certo facendoli pagare che vengono "curati", anche perché allora, per così dire, potremmo aumentare le tariffe a tutti e in questo modo "curare di più".

Ricordo una collega in supervisione che mi portò il caso di una paziente (peraltro per niente ricca) che non andava quasi mai alle sedute, e che ci teneva a pagare comunque regolarmente. Questo caso presentava notevoli problemi tecnici perché la terapeuta era in scacco (cioè non sapeva come motivare la paziente a venire alle sedute), e per quella paziente era fondamentale pagare perché le permetteva di sentirsi la coscienza a posto per il fatto di non riuscire a superare l'ansia di andare in seduta (in un certo senso potremmo dire che in questo caso la terapia, paradossalmente, avrebbe avuto più impatto se la paziente non avesse dovuto pagare).

Ma la critica principale che si può fare alla posizione secondo cui il denaro sarebbe "parte integrante della terapia" è la seguente: si attribuisce un significato stabilito una volta per tutte a un determinato comportamento letto in termini descrittivi (in questo caso a un aspetto del contratto terapeutico), mentre invece il significato di un comportamento cambia alla luce di molte variabili (il contesto, le motivazioni consce e inconsce del paziente e del terapeuta, ecc.). Si arriverebbe cioè a una sorta di "teoria delle etichette" che neppure un comportamentista forse oggi accetterebbe, per cui si può dire che l'affermazione "il denaro è parte integrante della terapia" sia estranea non solo alla psicodinamica, ma anche alla "psicologia". è una affermazione semplicistica, schematica, fatta senza riflettere a sufficienza, che sembra tirata fuori dal bagaglio dei vecchi cliché anti-psicoterapeutici.

Passo ora a fare alcune riflessioni sulla usanza di far pagare ai pazienti le sedute saltate. Questa usanza si è diffusa soprattutto a metà del Novecento, prevalentemente negli Stati Uniti e a Londra, quando gli psicoanalisti vedevano i pazienti 4 o 5 volte alla settimana. Il reddito del professionista dipendeva allora da pochi pazienti, e se un paziente non si presentava alle sedute il professionista rischiava di perdere anche un quinto o un sesto del suo reddito mensile (non poteva infatti mettere altri pazienti nelle ore che si liberavano, dato che appunto vedeva solo pazienti ad alta frequenza settimanale). Doveva quindi proteggersi da questo rischio chiedendo al paziente l'impegno di pagare le sedute comunque, anche quando non andava, come se prenotasse le ore, o se le "affittasse". è come quando compriamo un biglietto del teatro o di una partita di calcio, e poi all'ultimo minuto non ci possiamo andare perché abbiamo l'influenza e perdiamo i soldi del biglietto. Ho conosciuto analisti che non avevano neppure la regola di stabilire un determinato periodo di tempo prima della seduta (es. un giorno, 48 ore, una settimana, ecc.) entro il quale i pazienti potevano disdire senza pagare, quindi i pazienti dovevano sempre pagare se saltavano una seduta di loro iniziativa. Il periodo delle vacanze estive, ad esempio, doveva coincidere con quello del terapeuta se volevano risparmiare i soldi delle sedute. Tutto questo era considerato normale. E perché era considerata normale questa cosa che oggi molti non accetterebbero? A me sembra che i motivi fossero legati essenzialmente a fattori socio-culturali ed economici.

(Apro qui una parentesi. Senza una precisa analisi dei fattori storico-sociali è impossibile capire pienamente gli sviluppi, anche teorici, di un approccio psicoterapeutico; gli esempi sarebbero molti ma in questa sede parlarne ci porterebbe lontano, mi limito a fare l'esempio della frequenza settimanale. Freud faceva 6 sedute alla settimana perché riteneva importante fare sedute quotidiane. Poi passò a 5, ma non per motivi teorici bensì pratici: lui voleva dedicare solo 30 ore della settimana al lavoro clinico, il resto allo studio, per cui aveva 5 pazienti, ma ne volle prendere un altro che gli interessava molto, per cui, sulla base del fatto che 5x6 e 6x5 fanno sempre 30, aggiunse un paziente e cominciò a lavorare a 5 ore alla settimana anziché a 6. In seguito, dato che era sempre più difficile trovare pazienti così ricchi che potessero pagare 5 sedute settimanali, il movimento psicoanalitico si accordò per la regola minima delle 4 sedute settimanali. Naturalmente, alcuni autori che precedentemente avevano "teorizzato" con fervore l'importanza delle 5 sedute, subito con la stessa supponenza "teorizzarono" le 4 sedute senza rendersi minimamente conto degli aspetti di opportunismo di questa loro operazione. Oggi, a causa della crisi dell'immagine sociale della psicoanalisi, ovviamente vi è chi "teorizza" che si può fare l'analisi anche a 3 o 2 sedute alla settimana, e così via).

Chiusa questa parentesi, i motivi socio-culturali ed economici per cui un tempo molti consideravano normale un contratto in cui il paziente paga sempre le sedute saltate a mio parere sono essenzialmente due. Innanzitutto un tempo i pazienti che chiedevano una terapia psicoanalitica (che praticamente era una delle poche terapie sul mercato - le "psicoterapie" si diffonderanno dopo, in Italia ad esempio tardissimo, solo negli anni 1970) erano soprattutto i ricchi, per i quali faceva ben poca differenza pagare o non pagare una seduta saltata. Ai tempi di Freud, poi, erano soprattutto i ricchissimi, a volte i nobili, gente che veniva dalle capitali europee o addirittura dall'America, per i quali fare l'analisi voleva dire trasferirsi a Vienna per un periodo ad esempio di sei mesi, alloggiando in un bell'albergo del centro (un ricercatore in psicoterapia avrebbe tante cose da dire sui "fattori curativi" di queste analisi, perché di fatto erano vacanze, il paziente passava il tempo nei caffè viennesi, intrecciava amicizie, storie d'amore e così via, tornando a casa "guarito"; ma tralascio queste considerazioni perché sono scontate, mi limito a dire che è la stessa cosa che, in piccolo, avviene oggi con le cure termali, dove molti ricercatori affermano che il fattore curativo è solo in piccola - o nulla - misura dovuto ai fanghi o alle acque saline o calde, ma al "fattore vacanza", solo che queste cose non possono essere dette apertamente per i grossi interessi economici in termini, ad esempio, di posti di lavoro nelle località termali).

Il secondo motivo per cui oggi molti non considerano normale un contratto in cui il paziente paga sempre le sedute saltate dipende dal fatto che non siamo più in un tempo di "vacche grasse": i terapeuti sul mercato sono tanti, alcuni fanno fatica a sbarcare il lunario, molti giovani che si sono formati in psicoterapia sono praticamente disoccupati, per cui è cambiato il rapporto tra la domanda e l'offerta. In tempi di "vacche magre" come oggi, un terapeuta non può più permettersi il lusso di proporre (o imporre) un contratto come quello che era in voga nel pieno boom della psicoanalisi degli anni 1950 negli Stati Uniti. Molti terapeuti sono alla ricerca di pazienti, i quali quindi hanno maggiore potere contrattuale, e nella contrattazione iniziale di una terapia possono pretendere regole che a prima vista sembrano a loro più "vantaggiose". Naturalmente un terapeuta è liberissimo di proporre un contratto che in scienza e coscienza ritiene il più adatto allo svolgimento di una terapia, e responsabilmente è disposto a perdere un paziente che - per motivi transferali o non, questo è un altro discorso - non accetta il contratto che il terapeuta gli propone. E sta al terapeuta capire se l'aver "perso un paziente" in termini concreti può voler dire una sconfitta (poiché il paziente non farà una psicoterapia, non verrà aiutato), oppure può voler dire il contrario, cioè avergli dato un messaggio di verità, di rispetto per se stessi, ecc.; a volte infatti non transigere sul contratto che noi proponiamo può essere l'aiuto maggiore che possiamo dare a certi pazienti, i quali magari dopo due settimane tornano, accettando il contratto e capendo che possono fidarsi del terapeuta perché è una persona che si fa rispettare e mantiene fede ai propri princìpi (esiste un'abbondante letteratura anche su questa problematica). Naturalmente tutti questi aspetti, come ogni evento di ogni psicoterapia, sono filtrati dalle dinamiche transferali e controtransferali (es.: il terapeuta si è arroccato su una posizione narcisistica? Il paziente che torna e accetta un contratto che prima aveva rifiutato lo fa perché veramente si fida di più del terapeuta oppure perché si sottomette masochisticamente a lui così come ha fatto con altre figure di autorità in passato? E così via, le possibilità sono infinite, e la terapia - come vedremo meglio dopo - consiste appunto nell'analisi di queste possibilità, non banalmente nel rispettare o non rispettare un determinato contratto).

Torno ora all'esame delle possibilità che avevo iniziato a discutere all'inizio, e precisamente a una possibilità che non ho ancora preso in considerazione: che sia il terapeuta a dover cancellare una seduta. Il paziente non paga (è ovvio, ci mancherebbe), ma è previsto anche un risarcimento per danni "emotivi" o per "rottura del contratto"? Nel caso del teatro o della partita di calcio, se il programma viene cambiato in teoria è prevista una forma di rimborso (se questo è specificato nel contratto, scritto ad esempio sul biglietto che abbiamo comprato in anticipo). Nel caso della psicoterapia non mi risulta che sia diffusa una regola del genere, cioè un rimborso di qualche tipo da parte del terapeuta. Che io sappia, molti terapeuti hanno la regola, ovviamente esplicitata chiaramente all'inizio della terapia, di far pagare le sedute saltate dal paziente, ma non vi è un risarcimento se è il terapeuta a cancellare. Il paziente può solo non accettare questo contratto e scegliersi un altro professionista, ammesso che ne trovi uno che è disposto a risarcirlo in questi casi. In realtà, penso che nessun terapeuta paghi un paziente se lui stesso deve cancellare una seduta, casomai è molto più frequente che vi sia la regola che né il paziente né il terapeuta devono pagare se la seduta non avviene.

Le cose però non sono così semplici, perché ad esempio un terapeuta può cancellare una seduta all'ultimo minuto, e un paziente ne rimane danneggiato se viene da molto lontano, ha impiegato mezza giornata di viaggio, non solo sostenendo spese (taxi, treno, auto, ecc.) ma anche cancellando suoi remunerativi impegni di lavoro. Se il terapeuta in questi casi rimane indifferente e non offre un risarcimento, non ci vuole molto a capire che è una grave scorrettezza che mina la fiducia che ha il paziente di lui. Quando io per una improvvisa emergenza cancello una seduta all'ultimo momento e il paziente viene da lontano, cioè quando mi rendo conto che sono responsabile di un danno nei suoi confronti, non solo motivo il mio comportamento e ovviamente chiedo scusa, ma posso anche risarcirlo, ad esempio non faccio pagare la seduta successiva. In pratica è come se lo pagassi, cioè gli dessi i soldi di una seduta.

Ma questo non è specificato nel contratto iniziale. Infatti nel contratto iniziale è impossibile specificare tutti i problemi che si potrebbero incontrare, che sono veramente infiniti. Per fare un esempio estremo, ricordo una paziente, molto intelligente ma affetta da un grave disturbo di personalità, la quale si era messa a suonare ogni giorno per ore il campanello di casa mia, dicendomi che lo poteva fare perché io nel contratto non avevo specificato che questo comportamento non era permesso. Un altro esempio estremo può essere un terapeuta che nel corso di una terapia si ammala molto gravemente (al limite di una terapia terminale), per cui deve cancellare delle sedute o addirittura interrompere la terapia: dovrebbe essere denunciato dal paziente per rottura di contratto, dato che lui non aveva specificato che se si ammalava poteva saltare le sedute? Specificare troppe cose nel contratto è controproducente perché disorientiamo il paziente, gli prospettiamo la possibilità che possano accadere certe cose cui lui non aveva minimamente pensato, lo condizioniamo, influenziamo l'atteggiamento con cui era venuto da noi. In psicoanalisi si può dire che rivelando subito al paziente troppe cose di noi, buttandogliele per così dire addosso, "distorciamo il suo transfert" perché diminuiamo la possibilità di conoscere come si sarebbe presentato spontaneamente senza che noi lo avessimo condizionato così tanto; sarebbe come sottoporre un test proiettivo a un paziente dopo avergli parlato per due ore in dettaglio di quel test, lui risponderebbe in modo diverso, non più secondo la propria personalità ma secondo la nostra. Una sfida che rimane aperta per tutti gli approcci psicoterapeutici, non solo per la psicoanalisi, è come fare a conoscere il paziente veramente per quello che è senza influenzarlo troppo, dato che noi lo influenziamo sempre in un qualche modo, qualunque cosa noi facciamo incluso il nostro tentativo di non influenzarlo (questo tentativo, come è noto, è stato incarnato dalla tradizione psicoanalitica classica che prevedeva anonimità, neutralità, l'analista come specchio o blank screen che parla il meno possibile, che si nasconde dietro al lettino, che veste sempre uguale e cose del genere, modello questo che si è rivelato ingenuo e che ormai è criticato da tutti ma che non ha certo eliminato il problema: questo problema, ripeto, è come fare per trovare un equilibrio ottimale tra i nostri inevitabili input che condizionano il paziente e la possibilità di conoscerlo per quello che è, senza un eccessivo condizionamento da parte nostra; una delle soluzioni di questo problema, ad esempio quella proposta da Gill [1982, 1983, 1984a, 1984b, 1993, 1994; vedi Migone, 1991, 2010 cap. 4], e con cui mi trovo d'accordo, è quella di partire sempre dall'analisi dell'effetto di questi input sul paziente prima di cercare di capirlo o conoscerlo). Immaginiamo che effetto avrebbe su un paziente un terapeuta che in prima seduta gli prospettasse un contratto scritto con una cinquantina di regole dettagliate, ad esempio su cosa fare nelle vacanze di Natale, di Pasqua, nella festa del Santo Patrono della città, nel caso in cui uno si ammala, quanto tempo prima deve avvisare se salta una seduta (e non in termini di giorni ma di ore e minuti, perché anche questo aspetto può essere materia di discussione), se le sedute si possono saltare per qualunque motivo o solo per "causa di forza maggiore" (gli scioperi dei treni? E i terremoti? E perché non includere i maremoti?), e via di questo passo. Un contratto del genere, oltre ovviamente a fallire alla prima occasione poiché non è umanamente possibile coprire tutte le possibilità esistenti, darebbe una pessima impressione al malcapitato paziente, che potrebbe pensare che il terapeuta sia privo di buon senso, o sia un ossessivo se non addirittura un paranoico, e la sua fiducia in lui verrebbe minata (senza contare che molti pazienti vengono in terapia in stato di sofferenza emotiva, hanno poca capacità di capire i ragionamenti complicati o di mentalizzare, tendono a vivere le cose come riferite a se stessi, ecc., e hanno bisogno essenzialmente di essere subito accolti, ascoltati, compresi). Nel contratto insomma si specificano solo gli aspetti principali (la tariffa, gli orari, come gestire le sedute saltate dal paziente, quando avviene il pagamento e la fatturazione, e poche altre cose).

Mi rendo conto che questo mio commento sta già diventando abbastanza lungo - e ancora devo dire le cose per me più importanti che mi proponevo di dire riguardo alla questione del rispetto del contratto terapeutico - ma vorrei aprire un'altra parentesi per accennare al contributo di Robert Langs, un autore a cui fui vicino negli anni 1980, e di cui fui anche molto amico (gli feci pubblicare vari libri in italiano, lo invitai in Italia parecchie volte, ecc.). Ebbene, tutto l'approccio di Bob Langs ruota attorno alla importanza del rispetto del contratto terapeutico e del setting, sia per il paziente che per il terapeuta, perché la cornice del trattamento è anche una metafora della correttezza del rapporto, dell'accettazione dei limiti, della capacità di ascoltare se stessi e l'altro, insomma del "contenitore" (fu soprattutto Langs, assieme a Kernberg, a far conoscere le idee kleiniane e bioniane negli anni 1970 negli Stati Uniti, dove allora erano quasi sconosciute). Non è possibile qui discutere le implicazioni e la coerenza interna di questo approccio, a quei tempi peraltro considerato una delle 10 o 15 principali scuole psicoanalitiche esistenti (vedi Reppen, 1985), né raccontare i motivi del mio successivo disaccordo da lui, soprattutto alla luce del confronto teorico che avvenne tra Langs e Gill (un altro autore a cui fui molto legato), per cui sono costretto a rimandare ad altri lavori (Langs, 1973-74, 1976, 1978, 1980a, 1980b, 1981, 1983, 1985, 1986, 1987, 1988a, 1988b, ecc.; Migone, 1987, 2010 p. 76; Trombi, 1987; Iervolino, 1988). A proposito di Langs qui voglio solo ricordare un aneddoto che mi è venuto in mente riguardo alla questione del pagamento delle sedute saltate. Una volta, in un seminario clinico, il terapeuta raccontò che il suo paziente aveva saltato la seduta poiché era dovuto andare al funerale di un suo familiare che era improvvisamente deceduto. Il terapeuta, empatizzando col dolore del paziente, non si era sentito di fargli rispettare la regola del pagamento, e gli aveva detto che in questo caso poteva non pagare la seduta. Anche i partecipanti del seminario si sentivano simpatetici con quel terapeuta. Ebbene, Langs invece disse, con la massima tranquillità, che la seduta doveva essere pagata, e che quindi quel terapeuta aveva fatto un errore. Il motivo? Ricordo ancora la lapidaria espressione di Langs: "Denial of death" ("negazione della morte"). Secondo Langs, in altre parole, la morte non va negata, fa parte della vita, va guardata, accettata. Ogni tentativo di nostra "riparazione", ogni nostro gesto "missionaristico" per soccorrere il paziente, è falso, illusorio, e trasmette inconsciamente il messaggio che la morte non esiste, perché noi in modo salvifico la annulliamo. Non fargli pagare la seduta poteva voler dire, secondo Langs, che abbiamo ansia di fronte alla morte e che la trasmettiamo al paziente, quindi invece di confortarlo paradossalmente gli diamo insicurezza, perché non sappiamo restare nel claustrum (che per Langs rappresenta l'analisi, la seduta, le regole di base del setting, insomma una metafora della vita). Non a caso molti pazienti - e soprattutto molti terapeuti, perché secondo Langs sono loro i veri responsabili - non reggono alle regole analitiche (ad esempio alcuni fanno fatica anche a tollerare il silenzio, a essere veramente se stessi, ad ascoltare il loro inconscio dicendo quello che passa loro per la testa, e devono ad esempio parlare incessantemente appunto per non dire niente, come una sorta di barrage), e con vari tipi di acting cercano di modificare le regole del setting nel tentativo di fuggire dall'ansia di ascoltarsi ed entrare in contatto col proprio mondo interiore, soprattutto con le parti dolorose o disturbanti. Ovviamente tanti terapeuti vanno a nozze con questi pazienti, e instaurano inconsciamente quelle misalliances, quelle collusioni difensive che Langs e altri autori hanno tanto studiato (si vedano ad esempio le intuizioni cliniche di Langs [1980b] sulla "terapia della verità" e sulla "terapia della bugia" [Migone, 1987] - ovviamente qui verità e bugia si riferiscono all'inconscio, non certo alla consapevolezza o alla sfera morale).

Non mi interessa qui assolutamente commentare la correttezza o meno di questo tipo di ragionamenti (per un dibattito, vedi comunque Gill, 1984b, pp. 504-507), ci porterebbe lontano e sarebbe riduttivo rispetto al loro valore euristico, che merita più attenzione. Quello che qui mi interessa è solo dare una idea del modo con cui certi autori che appartengono alla tradizione psicoanalitica hanno guardato a queste dinamiche psicologiche. L'esempio che ho fatto vuole servire solo da prototipo, da paradigma, per mostrare il possibile significato di un elemento del contratto. Si può prendere un qualunque altro aspetto del contratto e fare esempi simili.

Chiudo quindi questa ennesima parentesi e torno a quello che volevo dire prima quando dicevo che nel contratto non si può specificare tutto, per introdurre la cosa più importante che voglio dire in questo mio commento: il contratto non serve tanto per essere seguito o non seguito (è umanamente impossibile seguirlo fedelmente, per chiunque), serve soprattutto per vedere come si gestiscono le infrazioni del contratto, i cosiddetti "errori" che sono inevitabili in ogni terapia, sia da parte del paziente sia da parte del terapeuta. E questi "errori", in un certo senso, sono benvenuti perché permettono di capire delle cose importanti, a livello sia transferale che controtransferale (in teoria, tra l'altro, gli "errori" in psicoterapia non esistono perché - secondo il principio del "determinismo psichico" - sono comportamenti causati da dinamiche che vanno capite in termini scientifici). Come ha argomentato, tra gli altri, Enzo Codignola (1977) nel libro Il vero e il falso. Saggio sulla struttura logica dell'interpretazione psicoanalitica, le regole di base del contratto forniscono una importante struttura logica che sta alla base dei nostri interventi. Se cioè il paziente devia da una regola di base a cui aveva liberamente scelto di aderire, il terapeuta è legittimato a chiedersi il perché, e magari scopre che con quel comportamento, con quell'"agito" (acting-in), il paziente comunica qualcosa di importante.

Non solo, ma anche un'adesione pedissequa al contratto può essere essa stessa un sintomo, per così dire un "agito". Si pensi a quei pazienti che rispettano sempre le regole, che non sgarrano mai: cosa può voler dire? Forse i primi miglioramenti con questi pazienti si vedono quando, paradossalmente, iniziano a non rispettarle, ad esempio arrivano tardi a una seduta, o ne saltano una, o magari hanno il coraggio di arrabbiarsi col terapeuta che chiede di essere pagato per una seduta saltata; la loro protesta può anche essere "non corretta", ma può segnare l'inizio di un miglioramento, del cambiamento di un patternacting out, come anche passaggio intermedio necessario per il cambiamento, vedi, tra gli altri, Thomä & Kächele, 1985, cap. 8.6, pp. 386-396). Finalmente questi pazienti sono meno rigidi, mostrano una maggiore tolleranza e flessibilità (e questo può essere notato parallelamente, ad esempio, anche verso altri aspetti di se stessi, nei loro sensi di colpa, nella modalità compulsiva di lavorare, o di tenere in ordine la casa e così via). è ben noto che per certi pazienti ossessivo-compulsivi (soprattutto quando anche il terapeuta è un ossessivo, molto ligio al setting, e soprattutto poco esperto e forse insicuro) l'analisi può essere il "colpo di grazia", un "abbraccio mortale", cementando la loro "nevrosi del carattere" con la monotona routine del setting, per loro (e per il loro analista) molto rassicurante perché permette di non cambiare. Tanto è stato scritto anche su questo (tra gli altri, mi viene in mente un Cremerius), ed è stato teorizzato che in questi casi la terapia può passare anche attraverso la capacità del terapeuta di "rompere" le regole di base del setting, cioè di fare errori e di saperseli perdonare. Insomma, queste sono cose risapute e a lungo discusse dalla tradizione non solo psicoanalitica ma anche psicoterapeutica in generale, così come è ben nota la "sindrome del paziente perfetto", o della "terapia perfetta", in cui entrambi paziente e terapeuta sono soddisfatti l'uno dell'altro e seguono tutte le regole, ma che in realtà è basata su una collusione difensiva di una misalliance in cui entrambi si sono inconsciamente alleati per non modificare la patologia.

Per tornare al pagamento delle sedute saltate, si pensi ad esempio a quei tanti pazienti che non accetterebbero mai di non pagare una seduta mancata: per loro sarebbe un segno di scorrettezza, non vorrebbero mai fare questa cosa al terapeuta così come non vorrebbero che fosse fatta a loro. Questi pazienti sono semplicemente persone "corrette", "educate"? Sono persone capaci di mettersi nei panni degli altri? E' possibile, ma cosa vuol dire essere corretti? Come si traduce questo comportamento in termini psicologici? Significa empatizzare con l'altro, essere capaci di rispetto nel senso di saper avere una relazione oggettuale (e quindi di rispettare un contratto)? E' tutto possibile, però occorre fare attenzione in psicologia a non parlare semplicisticamente di "normalità" o di "correttezza", perché si rischia di scordare il concetto freudiano di "sovradeterminazione del sintomo" (e anche di "funzione multipla" [Waelder, 1930]). Come si diceva prima, se noi crediamo che il mondo non sia regolato da una sorta di "teoria delle etichette", sappiamo che un determinato comportamento, anche corretto e "giusto", può servire simultaneamente ad altri scopi, ad esempio un paziente che non accetterebbe mai di non pagare al terapeuta una seduta mancata può essere a disagio nell'accettare un regalo, o nel sentirsi in debito, nel dipendere da qualcuno, e così via (e questo problema andrebbe approfondito, come si sul dire "analizzato", mentre compiacersi solo del fatto che le regole vengono rispettate può significare semplicemente "non fare terapia".

Uguali e contrari a quei pazienti che sono tutti contenti quando pagano le sedute saltate sono quei pazienti che si sentono feriti o traditi se devono pagare una seduta saltata. Hanno "ragione" o "torto"? E da che punto di vista avrebbero ragione o torto? Dal punto di vista legale, abbiamo visto che quel magistrato interpellato nel programma televisivo Forum del 6 dicembre 2010 ha stabilito che ha ragione il paziente a non pagare quella seduta saltata. Ma dal punto di vista psicologico non possiamo essere così ingenui da pensare che il processo (anche nel senso di "processo psicoterapeutico") si chiuda qui. Per capire chi ha "ragione" o "torto", o dove sta "il vero e il falso" (Codignola, 1977; Langs, 1988b), occorrerebbe analizzare in dettaglio tutte le stratificazioni di significati e le sovradeterminazioni che stanno dietro ai comportanti di entrambi paziente e terapeuta, ben consapevoli che questo processo di analisi è per definizione infinito, ogni conclusione può essere difensiva ed essere rivista (e ben consapevoli anche che "la via è lo scopo", cioè quello che è importante non è affatto raggiungere una conclusione, ma il modo con cui si riflette su di essa, il riuscire a porsi dei problemi e a non chiuderli prematuramente, tutte funzioni che il paziente dovrebbe interiorizzare se una terapia funziona). Ovviamente anche la gestione di questa disputa andrebbe analizzata, incluso il programma Forum a cui paziente e terapeuta hanno accettato di partecipare (ammesso e non concesso che i due non fossero attori, ovviamente; io ho avuto la netta impressione che fossero attori, ma questo è irrilevante perché il nostro è solo un esercizio teorico). Infatti, come ho cercato di dimostrare in questo mio commento, non è meramente il rispetto o il non rispetto di una regola che è in gioco, e quindi la decisione del magistrato che quel paziente non doveva pagare quella seduta, ma i ragionamenti e i significati che erano dietro alle mosse di ciascuno. Ad esempio: la terapeuta come ha accolto la protesta del paziente e il suo chiamarla in giudizio? Ha cercato di capire questa protesta, di "interpretarla" (senza peraltro svalutare l'aspetto legale, cioè senza dimenticare che nello stesso tempo era una richiesta concreta e "corretta")? In altre parole, come mai quel paziente non ha accettato quello che tanti altri pazienti accettano? Era coraggioso mentre tanti altri pazienti sono deboli e sottomessi ai terapeuti? è possibilissimo. Rimane il fatto che, dal punto di vista psicologico, sarebbe un grave torto al paziente - punibile da un ipotetico "tribunale della psicoterapia" collocato nell'Empireo - privarlo della possibilità di conoscere meglio se stesso, di valutare ad esempio se era arrabbiato con la terapeuta anche per altri motivi, se da tempo non si sentiva capito da lei anche su altri problemi, cioè se dietro a questo suo comportamento "assertivo", di uno che lotta giustamente per i propri diritti, vi fosse anche una problematica psicologica di cui lui non è consapevole e che, conoscendola, potrebbe arricchirlo.

Riassunto: Viene discusso in dettaglio, anche con esempi clinici, il problema del pagamento delle sedute saltate da parte del paziente. Vengono analizzati sia gli aspetti teorici che clinici, anche dal punto di vista della storia della psicoanalisi, e viene discusso il ruolo del contratto in psicoterapia, la cui adesione o non adesione ha implicazioni anche inconsce sia per il paziente che per il terapeuta. Viene argomentato che in psicoterapia non è tanto, o solo, importante il fatto che un contratto venga rispettato o non rispettato, perché questo sarebbe riduttivo e al limite non terapeutico. Quella che è importante la investigazione dei motivi che stanno dietro ai vissuti e al comportamento nei confronti del contratto, cioè, in sostanza, quella che in psicoanalisi viene chiamata analisi del transfert e del controtransfert. Il contratto è uno strumento per fare terapia, cioè in psicoterapia "la via è lo scopo". [Parole chiave: contratto psicoterapeutico, pagamento, denaro, sedute saltate, transfert, controtransfert]

Abstract: SHOULD THE PATIENT IN PSYCHOTHERAPY PAY MISSED SESSIONS?] The problem of the payment of missed sessions on the part of the patient in psychotherapy is discussed, also with clinical examples. Both theoretical and clinical aspects are analyzed, also from the point of view of the history of psychoanalysis. The psychotherapeutic contract has important implications, both consciously and unconsciously, and both for the patient and the therapist. It is argued that in psychotherapy what is important is not whether the contract is or is not followed, because this would be reductive and potentially anti-therapeutic. What is important is the investigation of the feelings and behaviors regarding the contract, i.e., what in psychoanalysis is called analysis of transference and countertransference. The contract is only a tool in order to do therapy, because in psychotherapy "the road to reach the goal is itself the goal". [KEY WORDS: psychotherapeutic contract, payment of psychotherapy fees, missed sessions, transference, countertransference]

 

Bibliografia

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Paolo Migonee
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43123 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

 

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