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RIVISTA SEMESTRALE

Numero 2, Luglio 2008


MALATTIE ONCOLOGICHE E MASS MEDIA INTERVISTA CON LUCIANO ONDER (TG2)

A cura di Valentina Nesci


Roma, Febbraio 2008.

PM ha intervistato Luciano Onder, grazie alla partecipazione del noto giornalista televisivo al Convegno “I tumori ematologici nell’adolescente e nel giovane adulto: aspetti epidemiologici, clinici, psicologici ed etico-sociali” che si è svolto nell’auditorium della Facoltà di Medicina e Chirurgia “A.Gemelli” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Roma, il 21 Febbraio 2008, per iniziativa del Prof. Giuseppe Leone, Direttore dell’Istituto di Ematologia. Il Vice-Direttore del TG2 ha partecipato ai lavori del Congresso come Moderatore della Tavola Rotonda in cui si discuteva sul reinserimento dei malati nella società attiva. Con l’occasione PM ha pensato di rivolgere al giornalista alcune domande su come i mass media oggi propongano all’opinione pubblica le malattie oncologiche e sullo stato dell’informazione medico-scientifica.

D: Da anni, dottor Onder, lei si occupa di rubriche giornalistiche di carattere medico-scientifico, come TG2 Salute e Medicina 33, oltre ad essere coinvolto nella realizzazione e nella conduzione di Explora, il nuovo canale scientifico satellitare di Rai Educational. Come valuta, al momento attuale, il modo in cui i mass media presentano al pubblico la medicina?

R: L’informazione medico-scientifica non è soltanto una specializzazione del giornalismo, ma molto di più: è un settore vero e proprio della medicina, perché da lei dipendono i comportamenti, lo stile di vita, le scelte di ciascuno di noi. Da lei dipendono la prevenzione, il nostro benessere, spesso anche il modo di curare. Le ricadute sono enormi e riguardano aspetti sociali ed etici.
Buona informazione contribuisce a fare buona medicina ed è utile al cittadino; cattiva informazione aggrava i problemi e danneggia il cittadino. Possiamo in sintesi dire che l’informazione medico-scientifica può servire alla salute, oppure danneggiarla.
Tutto questo i medici e i giornalisti che si occupano di medicina lo sanno bene.
Nel 1984 a Washington in uno dei primi incontri mondiali sull’Aids, lo scienziato Robert Gallo alla domanda su come sarebbe stato possibile frenare la diffusione dell’epidemia, rispose che il controllo della nuova malattia sarebbe avvenuto attraverso metodi non strettamente medici e clinici, ma attraverso le informazioni date dai media: “Tutto dipenderà da voi giornalisti e il risultato ci sarà se farete un’informazione corretta, utile al cittadino e non scandalistica”.
Robert Gallo aveva ragione: in tutti i paesi occidentali l’epidemia è stata frenata grazie ad un’informazione corretta, ben orientata, che ha svolto anche un ruolo educativo e di prevenzione. “Se lo conosci lo eviti”, “Non morire per ignoranza” sono stati i messaggi delle campagne di prevenzione alle quali i media occidentali hanno dato un grande contributo.

D: Quindi lei ritiene che l’informazione abbia una grande importanza per il cittadino e anche per il medico, in pratica interviene proprio a difendere la salute e modificare i comportamenti. Ma i giornalisti sono preparati?

R: In sostanza più il cittadino è informato, più è in grado di controllare ciò che influenza la sua salute. “Se siete informatori responsabili, siete anche educatori”, aveva detto Carl Popper dei giornalisti, sottolineando che l’informazione deve sempre diventare strumento di educazione e produrre effetti pedagogici.
E che l’informazione medico-scientifica debba avere un ruolo pedagogico ed una dimensione etica è chiaro in tutto il mondo.
In Francia il comitato di Bioetica 1996 ha emanato una “Raccomandazione” ai giornalisti. E’ un documento molto importante che in tredici punti dà linee di guida precise e concrete. “In Francia, dice all’inizio, ci sono 26.000 giornalisti: di questi più di 3.000 sono sportivi e solo 180 scientifici. Queste cifre già spiegano la superficialità e la confusione delle notizie biomediche”.
Il punto 5 del documento sottolinea “la competenza e il ruolo pedagogico del giornalista scientifico”. Il punto 11 “la dimensione etica della formazione professionale”. L’ultimo punto, il 13, conclude dicendo: “è importante considerare che il pubblico destinatario dell’informazione scientifica non è una massa indistinta e amorfa. Si tratta dei malati, delle loro famiglie, delle loro associazioni, dei loro medici curanti… ed è a tutti costoro che deve pensare chi crea e diffonde l’informazione”.

D: Ma il giornalismo medico-scientifico italiano ha questi caratteri, riesce a svolgere questa azione costruttiva e positiva?

R: Non sempre il quadro dell’informazione biomedica è quello descritto, cioè non sempre il giornalismo tiene conto della dimensione etica della professione. Spesso la scienza fa notizia nel modo peggiore e finiscono in prima pagina soltanto il bizzarro e il curioso. Le informazioni vengono distorte e strillate con titoli assurdi ed usati per creare paure, illusioni o false speranze: tutto in pratica viene messo sullo stesso piano, sia ciò che realmente documentatp. Sia ciò che è nella fantasia di chi scrive.
“ Nel giornalismo italiano accade un fenomeno particolare – ha scritto Umberto Eco – per cui non sono i fatti che diventano parole, ma molto spesso sono le parole che si trasformano in fatti. E’ un’informazione virtuale, per cui spesso tutti discutono di una cosa che in realtà non esiste…. È un’informazione – disinformazione, in cui solo lo spettacolo fa notizia”.
Ed è stato proprio il settore del giornalismo medico-scientifico che ha prodotto negli ultimi anni gli esempi di un’informazione – disinformazione.
Solo nel 1995 l’UK 101 (la cosiddetta proteina anticancro di Bartorelli), nel 1996 il metodo UROD (per disintossicare in modo rapido i tossicodipendenti), e nel1997 – 1998 l’MDB (il Metodo Di Bella per la cura dei tumori).
Sono tre casi in cui l’informazione è arrivata a creare addirittura un’emergenza sanitaria.
Il 17 agosto 1997 nei primi mesi del caso Di Bella l’ematologo dell’Università Cattolica di Roma, Prof. Giuseppe Leone, scrive al quotidiano “Il Tempo” una lettera drammatica che però non riesce a trovare alcun eco.
“Per affidarsi alle terapie del Prof. Di Bella ho visto pazienti rinunciare a terapie sicuramente valide. Malati che potevano essere curati e guariti sono morti o stanno per morire perché influenzati da cattivi consiglieri, cattivi medici, cattiva stampa.
A queste persone vorrei che lei e i suoi giornalisti pensassero quando scrivono del Prof. Di Bella. Della sorte di queste persone vorrei che il Prof. Di Bella e i colleghi che gli danno una mano fossero chiamati a rispondere.”

D: Come giudica il modo in cui i giornalisti parlano di malattie tumorali e dei malati e delle persone colpite?

R: Avere un tumore comporta la paura di perdere il proprio ruolo sociale ed economico. Comporta la paura di perdere la capacità contrattuale nella società, nel proprio posto di lavoro ed è per questo che i malati di tumore spesso nascondono la diagnosi ai parenti e agli amici.
E’ per questo che molti evitano di rendere pubblico il loro effettivo stato di salute.
E’ una vera ghettizzazione socio-economica. Ed è così anche se il malato è destinato a guarire o è guarito.
La paura insomma è di essere discriminato sul posto di lavoro dai superiori o dai colleghi.
E non solo sul posto di lavoro: sfido a trovare una banca non solo in Italia che conceda un prestito ad un malato ad esempio, di linfoma.
E’ la nostra cultura occidentale, non solo italiana che considera il paziente malato di tumore morto o per lo meno non affidabile dal punto di vista socio-economico e contrattuale. E questo avviene anche da parte delle Assicurazioni che rapidamente disdicono i contratti quando vengono a conoscenza della malattia.
Cosa può fare la società? La risposta o meglio le risposte sono ovvie. Deve tener presente che più della metà dei malati di tumore guarisce ed è in grado di lavorare durante la malattia. Nei tumori ematologici le guarigioni superano il 60-70%.
Cosa può fare la società per i giovani che sono stati malati nel periodo più attivo, più creativo della loro vita? Certo la risposta è ovvia: ridare ruolo sociale perchè, sono persone deboli, ma con grande forza morale ed etica.
Dal punto di vista legislativo i malati di tumore in Italia sono garantiti sul lavoro: il nostro sistema socio-sanitario è all’avanguardia. Dà una grande protezione sociale e sanitaria che nessun altro sistema dà.
Le leggi sono tutte a favore del malato e della famiglia: basta pensare alla legge 104/20 e inesistenti in altri Paesi…..
Negli ultimi anni, la cultura sta cambiando: da quando il tumore veniva definito “brutto male” o “male incurabile” grande è stata l’evoluzione.
Oggi si parla, si discute. Il malato e la sua famiglia selezionano il centro migliore, il medico più aggiornato; chiedono ad alta voce di essere curati al meglio. Insomma sono più informati ed hanno un atteggiamento costruttivo, attivo.
Importantissimo è il ruolo delle Associazioni. Il singolo paziente che testimonia la sua malattia e la sua guarigione può sembrare un miracolato. L’Associazione al contrario ha una forza diversa, rappresenta centinaia di malati guariti.
L’Associazione accompagna per mano nella cura, testimonia, aiuta, rassicura.
I malati lungo-viventi o guariti poi sono un fenomeno nuovo nella nostra sanità, perché presentano nuovi problemi sanitari, dovuti ai farmaci e ai trattamenti, inoltre presentano problemi psicologici: è un obbligo assisterli e aiutarli da ogni punto di vista, anche quando sono dichiarati guariti.

D: E’ possibile per il malato di tumore trovare aiuto nel raccontarsi cioè nel descrivere la sua malattia, le sue sofferenze?

R: Sto proprio leggendo in questi giorni il libro “Quello che i medici non sanno” di Germano Calvi, editore Fondazione Giancarlo Quarta con il sottotitolo “La vita parallela alla malattia – 10 storie di pazienti”. Sono storie di vita quotidiana di persone che stanno soffrendo, in pratica è un ascolto delle loro esperienze e delle difficoltà soprattutto dei più giovani. L’intenzione è spingere i malati a prendersi cura di sé e contemporaneamente di far capire i problemi sociali che questi hanno.
Quando una malattia grave sconvolge la vita di una persona non è solo il fisico ad essere sconvolto ma l’intera vita quotidiana è in crisi. Ci si domanda qual è il senso della vita ferita, quale futuro ci aspetta. Certo la medicina cura la malattia, ma il paziente è solo nel fare i conti con i problemi che ne derivano: è solo e in silenzio. Per il malato potersi raccontare è un aiuto, perché è un modo per prendersi cura di sé. Il dolore, la sofferenza, la speranza fanno parte di una storia di vita. E’ un modo anche per dare valore alla propria sofferenza.


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