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La Comunità Terapeutica: due, tre cose che so di lei......

Marta Vigorelli



Marta Vigorelli: psicologa, psicoterapeuta della SIPP (Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica), docente alla Facoltà di Psicologia dell'Università Statale di Milano, consulente supervisore della Comunità Terapeutica di via Procaccini a Milano, autrice e coautrice di una vasta produzione scientifica fra cui , recentemente, "L'Istituzione tra inerzia e cambiamento" edito da Boringhieri e "La Comunità Terapeutica.Mito e Realtà" edito da Cortina.



Il tema della Comunità Terapeutica mi appassiona da anni e mi ha condotto a promuovere un'esperienza comunitaria, semiresidenziale fino ad ora, ma in procinto di diventare residenziale proprio in questi giorni, in un contesto pubblico metropolitano, quello di un Centro Psico-Sociale di Milano. La Comunità è stata aperta nell'87 e accoglie pazienti psicotici (una decina in media) con potenzialità evolutive: i cosiddetti giovani psicotici adulti. L'habitat è costituito da uno spazio attiguo al C.P.S., un appartamento, e la cultura di riferimento, di tipo psicodinamico, si rifà alle esperienze di Pao, Feinsilver, De Martis, Petrella, Zapparoli, Racamier. L'organizzazione vivente è rappresentata da un piccolo gruppo di operatori che comprende varie figure professionali: educatori, psicologi, psichiatri, con la collaborazione di alcuni infermieri del C.P.S. Lo stile, il metodo utilizzato, cerca di integrare la psicoterapia ad orientamento psicoanalitico in un setting duale, le attività, che noi definiamo transizionali, nel senso che le consideriamo abilitative più che riabilitative, l'intervento con i familiari e, ovviamente, la farmacoterapia.

Per quanto concerne la storia e l'organizzazione specifica di questo piccolo gruppo, rimando al mio capitolo di un libro che ho curato con alcuni colleghi, pubblicato da Boringhieri col titolo "Istituzione fra inerzia e cambiamento". In quel capitolo vengono precisati anche i criteri di idoneità, le metodologie, la funzione dell'esperienza, rispetto al contesto istituzionale più ampio, in modo più specifico. Vorrei partire da queste premesse per una riflessione comune, perché mi sembra importante il fatto di cominciare a delineare, in modo sia pure embrionale, una sorta di prima traccia di scrittura. Insisto su questo aspetto perché ritengo molto importante superare le tradizioni di comunicazione tipiche di tante esperienze, che sono spesso molto legate al potere suggestivo della loro leadership e che quindi non possono diventare un patrimonio estensibile e trasmissibile ad altri nel tempo; la scrittura inoltre ci consente uno sforzo di riflessione che, secondo me, è imprescindibile per chi lavora all'interno di contesti comunitari che, più di tanti altri, innescano e scatenano emozioni potenti e primitive, stati di confusione e di sofferenza spesso diffusa e pervasiva che esigono adeguati dispositivi di elaborazione, rappresentati dai nostri momenti interni di riunione, di supervisione, di formazione esterna e di discussione, come quello odierno.

Al di là degli stili differenti, che rappresentano l'aspetto creativo che ogni storia Comunitaria sembra prediligere, vorrei tentare di riconoscere alcune direttrici comuni, all'interno delle varie esperienze di Comunità, tali da poter costituire una sorta di entroterra, di base culturale comune, da cui partire per ulteriori approfondimenti. Anzitutto sottolinerei alcuni dati di fatto che ci caratterizzano, mi sembra, dal punto di vista politico, istituzionale e culturale: a differenza delle prime ondate del movimento comunitario che si poneva come forza dirompente rispetto alla barriera chiusa del custodialismo manicomiale e quindi si autoproduceva sotto forma di modalità esemplare, con leaders di grande talento carismatico, queste nostre esperienze che sebbene più recenti sono sicuramente già convalidate, si pongono a valle della riforma, o per lo meno si sono sviluppate parallelamente ad essa e mi pare che abbiano tentato, anche in modo sperimentale, di colmarne le lacune, e quindi di realizzarla in senso effettuale. Tutto ciò, in un clima culturale che definirei di crisi evolutiva dei modelli clinici tradizionali (sia della psichiatria classica, che dei modelli psicoterapici, psicoanalitici e sistemici).

Perché parlo di crisi evolutiva? Perché questi tipi di modelli, caratterizzati da una strumentazione estremamente sofisticata, legata allo sviluppo di teorie nate in un setting privato, nell'impatto con la cosiddetta patologia grave, in particolare con quei casi che definiamo casi-test, casi istituzionali, casi "speciali", che hanno la caratteristica di una pervasività che invade a macchia d'olio, come un'onda, tutto il gruppo di operatori e dei servizi in generale, nell'incontro con questa patologia che, partendo da un microcosmo familiare disturbato e da un contesto sociale altrettanto disturbato e conflittuale, coinvolge gran parte delle risorse dei servizi, questi modelli si sono trovati sicuramente a mal partito, hanno dovuto in qualche modo rimettersi in discussione ed aprirsi a nuove possibilità di mediazione e, direi, di declinazione della propria impostazione. In questo quadro possiamo notare che le C.T. vengono a costituirsi non tanto come eventi esemplari, ma come momenti possibili fra tante altre esperienze possibili, quindi come spazi, modalità organizzative e tecnico-operative che si pongono all'interno di una sequenza articolata di strutture differenziate con caratteristiche funzionali diverse. Questo mi pare sia stato anche frutto di una lezione storica di grande rilievo rispetto al patrimonio delle prime grandi esperienze comunitarie che testimoniano di numerosi tentativi, destinati ad esaurirsi, proprio perché i progetti non consideravano sufficientemente l'interazione sistemica con altri livelli, sia di tipo socio ambientale, che legislativi, che organizzativi. Sappiamo come leaders fondatori, che tutti conosciamo per il grande talento clinico, come Jones, Bion o Racamier, in diverse situazioni istituzionali, siano stati costretti ad abbandonare il campo delle loro esperienze pionieristiche per una sorta di diaspora scaturita tra l'esperienza comunitaria isolata, e orientata in senso trasformativo e il contesto tradizionale totalmente estraneo. Ora, questa preoccupazione direi di collegamento tra un prima e un dopo la Comunità, l'esperienza gruppale, (che può avere vari tipi di definizioni), tra l'inviante che può essere la famiglia o l'istituzione pubblica e il successivo inserimento, questa preoccupazione accomuna e caratterizza in genere il clima culturale delle Comunità attuali e ci impegna in un continuo feed-back di comunicazioni per evitare il prodursi di aree di isolamento e di conflitto.

Un altro aspetto riguarda la cornice epistemologica ed il paradigma culturale in cui ci si può muovere. Cornice che è sufficientemente elastica da far intravedere la possibile confluenza fra modelli teorici e operativi: non esiste solo un modello psicoanalitico-psicodinamico, ma anche quello relazionale-sistemico e cognitivo-comportamentale. Ora, chiederci il perché dell'esperienza comunitaria, rimanda a ciò che può dar senso alla sua specificità rispetto ad altre pratiche che sono possibili e anche rispetto al proprio oggetto. L'oggetto che ci impegna quotidianamente sul campo possiede i caratteri di massima complessità e quanto più complesso è l'oggetto di una scienza, quanto più complessa dovrà essere l'epistemologia di riferimento, al di là delle rassicuranti sicurezze di quello che è il principio di causalità lineare o l'aspirazione ad una determinazione esaustiva del comportamento. Quindi un'epistemologia complessa che nella Comunità può avere una sorta di lente di ingrandimento del complesso fenomeno psicosi, di potente rilievo. Da questo punto di vista, vorrei ricordare come un laboratorio come quello di Chestnut Lodge, negli Stati Uniti, proprio per la sua continuità storica (circa 50 anni di vita pur con tutte le crisi e ripetute trasformazioni), abbia costituito un particolare osservatorio, sia per gli aspetti della modellizzazione terapeutica, sia per quelli della modellizzazione diagnostico-prognostica ed anche la possibilità di follow-up (in particolare quello di Mc Glashan, che ha dato risultati molto avvicinabili a quelli di Ciompi o a quelli di altri indirizzi).

Comunque un laboratorio comunitario può essere visto come potente osservatorio di tutta la complessità delle manifestazioni e della fenomenologia psicotica: quindi gli aspetti longitudinali, trasversali, strutturali, le dinamiche individuo-famiglia-gruppo, gli aspetti reali, fantasmatici, etc.. Inoltre mi pare che oggi prevalga una visione multifattoriale relativa alla genesi e al trattamento della psicosi: la psicosi intesa come fenomeno plurideterminato, emergente in un sé vulnerabile a partire da un intreccio complesso di componenti biogenetiche, fantasmatiche, relazionali, ambientali (intendo non solo ciò che avviene nella diade madre-bambino, ma tutto ciò che interviene nella costellazione ambientale-familiare, quindi anche la figura del padre, le dinamiche della coppia, il contesto in cui la famiglia è inserita).

Altro elemento comune a gran parte delle esperienze, mi pare sia anche il metodo utilizzato, metodo adeguato all'oggetto, cioè multidimensionale e integrato, dove l'integrazione scaturisce proprio dalla necessità di rispondere a diversi bisogni della condizione psicotica, ad un'esigenza di differenziazione-integrazione che è stata danneggiata nella condizione psicotica, con vari livelli di deficit e che esige quindi una progettualità che tenga conto dei diversi livelli del danno subito dal paziente. Per usare un'espressione calzante, si tratta proprio di mettere in atto un approccio globale che prenda in carico interno ed esterno, contenitore e contenuto: direi che la C.T. si offre come luogo elettivo a questa globalità, in cui l'integrazione non sia una sorta di dibattito ideologico, ma una pratica quotidiana realizzata giorno per giorno, nel fare con il paziente. Nella nostra esperienza, l'aspetto della realizzabilità dell'integrazione è documentato ed ha un momento pregnante di sintesi, come credo in molte altre esperienze, rappresentato dalle riunioni settimanali (una con il supervisore e l'altra con gli operatori) in cui, partendo dai risultati che vengono dalla terapia, dalle attività, dai colloqui coi familiari, si cerca di ricomporre un'immagine unitaria che altrimenti sarebbe dispersa in frammenti nei vari momenti; l'interiorizzazione di questa immagine, di questa rappresentazione unitaria, che prima di tutto dev'essere all'interno del mondo e della ricchezza mentale dell'operatore, viene poi trasmessa gradualmente al paziente per avviare processi di integrazione successiva.

Altro aspetto, sottolineato da molte esperienze, è inoltre la necessità che vi siano vari tipi di Comunità che rispettino le diverse fasi del decorso psicotico e, come accennavo prima, le caratteristiche del deficit e della gravità del paziente, prevedendo tutt'un percorso con spazi che accolgono il paziente da momenti più destrutturati a momenti più evolutivi e rivolti all'autonomia e all'inserimento esterno. Mentre mi pare ancora del tutto aperta la discussione degli indicatori di idoneità delle strutture comunitarie, che di per sé richiederebbe molto più spazio, concludo le mie riflessioni con la sottolineatura di due aspetti che, nella nostra esperienza risultano comunque portanti l'esperienza di comunità.

Il primo aspetto riguarda la costruzione del gruppo di lavoro, non tanto come coordinamento di attività da gestire, ma come organismo da far vivere (l'immagine dell'orchestra di Racamier mi pare molto significativa) con talenti individuali da valorizzare, risorse emotive frammentate da integrare e anche una storia, un patrimonio culturale ed emotivo che va sviluppato nel tempo. Questo ci rimanda al problema della formazione ed anche a quello degli indicatori, rispetto alle qualità specifiche che l'operatore comunitario deve avere rispetto ad altri tipi di competenza professionale da svolgere all'interno dell'istituzione pubblica o del lavoro clinico più in generale. Indicatori quindi non solo per i pazienti ma direi anche per gli operatori, aspetto che rimanda anche, al grosso problema della leadership comunitaria che è un aspetto poco trattato (nelle relazioni) e che necessita di far leva su qualità analitiche peculiari: le capacità di farsi carico di stati mentali primitivi, destrutturanti e devitalizzanti, di transfert totalizzanti che il lavoro comunitario con lo psicotico in qualche modo innesca e scatena.

Sulla leadership e sui suoi nodi problematici è intervenuto Racamier indicando due gravi rischi nella seduzione e nella perversione narcisistica del leader che possono far degenerare il lavoro comunitario. L'altro elemento portante, e concludo, è la creazione del cosiddetto clima o atmosfera, lo sfondo specifico, umano, che è la caratteristica peculiare della terapeuticità dei nostri interventi e che si tende a dar per scontato, ma che potrebbe essere studiato e promosso in modo più puntuale. Si tratta di quell'insieme di caratteristiche relative all'ambientazione architettonica, all'estetica, alle qualità sensoriali dell'ambiente, oltre che alla qualità delle relazioni che i pazienti instaurano con gli operatori, insomma a quello sfondo percettivo, emotivo affettivo che può consentire al paziente psicotico ed anche all'operatore, di lavorare, non tanto con piacere, ma con un senso di motivazione costantemente rafforzata e che offre ai nostri pazienti il senso della continuità di esistere.


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