PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2003, 94: 58-61

"Cherubino è innamorato": un racconto di Mario Tobino (sulla riabilitazione in psichiatria)
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Sappiamo bene che a volte un'opera letteraria dice di più di qualunque articolo scientifico. Per motivi a prima vista non facilmente comprensibili, ci tocca dentro molto di più, riesce a raggiungere con esemplare chiarezza il nucleo di un problema o di un aspetto della vita, in tutte le sue sfaccettature. E' per questo motivo che questa volta voglio utilizzare lo spazio della mia rubrica non con le solite riflessioni teoriche, ma pubblicando un breve racconto che mi è capitato di leggere e che mi ha colpito: si tratta di "Cherubino è innamorato", tratto dal libro di Mario Tobino Per le antiche scale. Una storia [Milano: Mondadori, 1972, pp. 73-78].
Chi è Mario Tobino? Accenno ad alcuni aspetti della sua vita per chi non lo conoscesse. Tobino era uno psichiatra, e il libro da cui è tratto questo capitolo narra storie di vita quotidiana in un manicomio di cui era direttore. Tobino (1910-1991) nacque a Viareggio, fece il liceo a Massa Carrara, e passò le sue estati tra Viareggio e Vezzano Ligure, paese di origine della madre. Anche il padre veniva da un paese vicino a La Spezia, Tellaro (uno stupendo paese sul mare, dove tra l'altro abitava Mario Soldati, che frequentò). Nel 1931 si iscrisse a Medicina a Pisa, e nel 1933 si trasferì a Bologna dove si laureò nel 1936. Sia a Pisa che a Bologna intrecciò le prime importanti amicizie letterarie e collaborò a varie riviste. Dopo il servizio militare in Alto Adige, tornò a Bologna, città divenuta per lui molto importante. Nel 1940 partì militare per la Libia dove restò due anni, e nel 1943 passò alla Resistenza. Tra le sue opere si possono ricordare Amicizia (del 1939, la sua seconda raccolta di poesie), Veleno e amore (del 1942), Il figlio del farmacista (del 1942), La gelosia del marinaio (del 1942), Il deserto della Libia (del 1952, sulla esperienza di guerra), Le libere donne di Magliano (del 1953, forse il suo libro più bello), Il clandestino (del 1962, un lungo romanzo sulla Resistenza con cui vinse il Premio Strega), Il perduto amore (del 1979), Gli ultimi giorni di Magliano (del 1982, in cui parla del suo manicomio di Maggiano - la letteraria "Magliano" - vicino a Lucca, dopo la legge 180 che ne imponeva la chiusura), Il manicomio di Pechino (del 1990), ecc. Vinse il Premio Campiello nel 1972 (con Per le antiche scale), il Premio Viareggio nel 1976, e così via.
Ma vediamo questo racconto di Mario Tobino. Penso che raramente si possano leggere pagine così lucide sulla dinamica delle riabilitazione in psichiatria, in cui viene descritta l'importanza del legame affettivo e della stabilità della relazione interpersonale per riattivare potenzialità motivazionali, persino in pazienti cronicizzati o con gravi deficit cognitivi (ringrazio la Arnoldo Mondadori Editore s.p.a. per il permesso di pubblicazione, e l'amico Marzio Dazzi per avermi fatto conoscere questo libro).

"Cherubino è innamorato", di Mario Tobino

«In dipendenza della scoperta degli psicofarmaci, per via delle numerose dimissioni, per l'aria di nuovo che c'è nei manicomi, Cherubino fu messo in portineria. Ci voleva uno per le piccole pulizie.
Fu preso dai cronici: "Proviamolo; vediamo quel che ci si ricava. Di meglio non ce n'è".
Il portiere pendolò la faccia: "Che acquisto!".
Un medico che per caso aveva ascoltato, sbottò: "Faccia, signor portiere, da sé, come è il suo dovere. Siamo qui per servire i malati, non viceversa".
Nei primi giorni Cherubino stette in un angolo della portineria, su una sedia, uguale a un pacco, un oggetto. Aveva però due occhi straordinari, neri, lucenti; e le ciglia lunghe, vellutate.
Per anni era stato ai "Cronici", come un automa. La mattina si destava. Scendeva nel refettorio. Rimaneva ore seduto a un tavolo, intorno tanti altri simili a lui; muti oppure qualche smorfia. Arrivava il pranzo, poi la cena. Si accendevano le lampade elettriche. Si risalivano le scale verso i dormitori, in fila. Nessun commento se nei cameroni c'era puzzo.
Sequela di anni.
Cherubino era di media statura. Anche la faccia era regolare, ed anzi con la singolarità di quegli occhi.
Era dietro, nel capo, nella scatola cranica, che mancava. Subito dopo la fronte c'era non più di un pugnetto di bambino; insomma era un microcefalo.

Prese conoscenza della granata, imparò a spazzare. Quando il portiere gli faceva cenno, si alzava felice dalla sedia, quasi uggiolando, e si accingeva a compiere quel servizio, teso nella massima attenzione.
Imparò a spolverare, a correre in cucina per il vitto del cappuccino, riporre in ordine le panche che servivano per i parlatori.
Le sue parole erano pochissime; non erano neppure parole, frammenti, articolate con spasimo; si udiva un confuso suono gutturale. Nessuno gli aveva insegnato.
Passarono dei mesi e fu bello quel giorno che inaspettatamente dette risposta.
Un medico gli aveva fatto per caso una domanda. Lui alzò il braccio per avvertire che attendesse e divenne paonazzo, uno sforzo inaudito, come cercasse aria, ossigeno. Aveva capito e rispose una parola intera, logica, logica. Era riuscito a creare un'idea e a esprimerla. Da sé, da sé solo in quei mesi, granuzzo più granuzzo, come una formica aveva accumulato, coltivato la parte di sé ancora viva. Che quegli occhi fossero lo specchio di un'anima?
Corse tra i medici e gli infermieri più avveduti la notizia; e che non si deve mai perdere la speranza, mai, con nessuno.
Intanto Cherubino di per sé - da nessuno stimolato - aveva provveduto a spostarsi sempre più di frequente nella cucinetta del reparto-medici.
Era attratto dalla infermiera Celoni.
Nel nostro manicomio le infermiere sono quasi tutte di estrazione contadina, e sanno sì la pratica infermieristica, ma non si sono scordate l'acutezza che ci vuole in ogni coltivazione, che sapienza, e il profondo buon senso, quell'umanità che non si dimostra a parole ma si fa viva con i fatti, in ogni ora della giornata. In più, esse non si stancano facilmente, abituate come sono al secolare travaglio dei campi.
La Celoni era un frullo, un frullino, una trottola, lavorava danzando, toccava in ogni luogo, ogni faccenda, e tutto rendeva pulito, ordinato. Sempre con letizia, senza apparente fatica. Per lei il servizio all'ospedale era un gioco, un passatempo, per dedicarsi poi al vero lavoro, quello dei campi, col marito contadino che aveva un podere proprio contiguo al manicomio.
Come un figliolino cresciuto debole fu dalla Celoni adottato Cherubino. Lo cominciò a proteggere. Non solo gli costruì giorno-giorno un corredo, come dovesse accasarsi, giacche, pantaloni, scarpe, non solo trovò modo di dedicargli tutto uno scomparto dell'armadio che c'era giù, nella cantinetta, sotto il reparto medici, ma gli insegnava a parlare, lo trattava come un normale, gli faceva ripetere, con ruvida sbrigatività lo costringeva ad apprendere.
Cherubino - oltre quella fondamentale di aggiungere ogni giorno una piccola nozione, delle sillabe, dei verbi - ebbe delle gioie traboccanti.
Un grande falò fu l'orologio, il regalo dell'orologio. Andava in portineria e lo faceva vedere a tutti, al polso, che luceva. I numeri non li sapeva distinguere ma la Celoni gli aveva insegnato che quando le lancette erano diritte una dietro l'altra, unica linea, allora erano le sei, l'ora di andare in cucina; e dunque l'avvertisse. Cherubino quando si avvicinava quel momento batteva le palpebre attente sulla posizione delle lancette.
Altra esplosione furono le due camicie di seta. Un medico gliel'aveva regalate, nuove; la sua camiciaia gli aveva sbagliato la misura. Forse il color avorio, la inusitata levigatezza, il senso di prezioso, avevano abbagliato Cherubino, che le teneva nell'armadio come sacre. La Celoni, che gliel'aveva aggiustate alla sua misura, a stento lo costringeva a indossarle.
Fu con queste camicie che Cherubino ebbe il primo contatto con fuori, con il mondo dei sani, dei liberi.

Intorno ai giorni di Natale arrivarono due suoi parenti, contadini negli interni monti. Forse più che a visitarlo, avevano curiosità del manicomio, per la morbosità che ispira.
Si stupirono di come Cherubino era vestito, dell'orologio, e che in certo modo parlava, riusciva a farsi capire, rispondeva. Di più stettero attenti quando con esasperazione fece loro segno di attendere.
Cherubino corse al reparto medici, scese nella cantinetta, tolse dall'armadio le camicie di seta e le portò su.
I due contadini si intesero senza guardarsi.
"Te le riporteremo stirate sul serio. Vedrai quanto diventeranno più belle".
"Lei è brava. Non sai quanto è brava" aggiunse l'uomo.
"Ritorneremo presto".
Le camicie furono avvolte in un giornale, infilate nella borsa. Ci furono frettolosi saluti.
La Celoni subito si accorse del furto. "Non verranno mai più. Non sai cosa sono i parenti!"
Cherubino in un canto della cucinetta, stupefatto di dolore, umiliato. Sentiva più che capiva di aver avuto un turpe contatto; il primo contatto con fuori.
Le camicie presto furono dimenticate. Continuavano le cure della Celoni, gli insegnamenti. Questa infermiera non aveva figli.

Il tempo passa, la anzianità batte con le nocche. Sono ormai tanti gli anni di servizio. La Celoní deve andare in pensione.
Per diversi giorni nella cucinetta del reparto medici Cherubino ascolta questa parola pensione. Non sa che sia; continua tranquillo.
Una sera la Celoni gli fa una carezza: "Addio, Cherubino. Ti ho messo tutto a posto nell'armadio. Per un po' non avrai bisogno di nessuno".
Cherubino è estasiato di quella carezza, non gliel'aveva mai fatta.
Nei giorni seguenti Cherubino non vedendo la Celoni comincia a essere in ansia. Gli rispondono che è in pensione, pensione, andata via, non torna più. Allora capisce la dannata parola, l'ineluttabile.
Cherubino sa che la Celoni abita alla Canabbia, il suo terreno confina con quello del manicomio.
Dopo alcuni giorni di meditazione, Cherubino a una certa ora del dopopranzo si va a mettere dietro l'ultimo fabbricato dell'ospedale. Al di là c'è la campagna.
E' un luogo solitario, sopra un leggero colle. Di fronte, sull'altra piccola collina, c'è la casa della Celoni. E' come essere testa testa, alla stessa altezza, in linea d'aria centocinquanta metri. In mezzo a loro un'onda d'erba che scende e risale squillante di verde. A destra e a sinistra, a rendere il luogo più intimo, ci sono due boschi, due quinte, dense di foglie.
Il sentiero in fondo alla valletta non è mai percorso da nessuno.
Cherubino sta lì fino all'imbrunire. A volte la vede, quando va al pollaio, alla stalla. Sono pochi minuti, perché l'infermiera ha i campi al di là della collina, distanti.
Quando il marito della Celoni si ammalò e fu ricoverato all'ospedale passarono molti giorni senza che lei apparisse.
Delle volte Cherubino ritorna luminoso, raggiante. Ripetutamente l'ha seguita nelle faccende.
Quando torna in ansia, quasi disperato, inconsolabile, è perché da più giorni non la vede».
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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