PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Area Problemi di Psicoterapia (a cura di Paolo Migone)

Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 2: 121-133, 3: 125-131, 4: 107-113; 2003, XXXVII, 1: 127-133, 2: 107-113

Seconda parte

Un caso di vaginismo: il caso Anna
 
Piero Porcelli

Prima parte: Piero Porcelli, "Un caso di vaginismo: il caso Anna". Interventi di: Paolo Moderato & Francesco Rovetto; Paolo Migone; Chiaretta Busconi; Alessandra Mizzi & Marcella Vida; Enrico Landini

Seconda parte: Interventi di: Giovanni Liotti; Furio Lambruschi; Maria Pia Roggero Kluzer; Chiara Simonelli; Davide Déttore; Tullio Carere-Comes; Fabio Vanni; Piero Porcelli; Nella Guidi; Sergio Benvenuto


Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 4: 107-108

Intervento di Giovanni Liotti
Associazione di Psicologia Cognitiva (APC), Viale Castro Pretorio 116, 0185 Roma, Tel. 06-44704193/49380849, E-Mail <Giovanni.Liotti@libero.it>

Scrivo solo un paio impressioni sull'interessante caso di vaginismo trattato da Piero Porcelli (Psicoter. sci. um., 2/2002). La prima impressione è che il caso illustra ottimamente una tesi che mi è cara: la control-mastery theory di Weiss e Sampson costituisce un'ottima base concettuale per l'integrazione delle psicoterapie. Nel modo di concettualizzare il caso, è meno esplicito l'uso di una seconda base concettuale per tale integrazione: la teoria dell'attaccamento. Questa però è compatibile con la formulazione proposta da Porcelli, e forse ne è fondamento implicito: l'autore infatti parla tra le righe dell'inversione dell'attaccamento della paziente (il suo fare da mammina a tutti, e soprattutto ai maschi di casa che pure desidererebbe vedere come fonte di sicurezza, cioè come valide figure di attaccamento).

Il caso, dunque, costituisce un ottimo esempio concreto di quanto ad esempio ho sostenuto a Milano il 16-3-2002 al primo congresso nazionale della SEPI-Italia, cioè della sezione italiana della Society for the Exploration of Psycotherapy Integration (rimando al dibattito precongressuale e postcongressuale tra Giorgio Alberti, Sergio Benvenuto, Tullio Carere-Comes, Giovanni Liotti, Paolo Migone, Diego Napolitani, e Mario Rossi Monti, a cui è possibile accedere dal sito Internet http://www.psychomedia.it/pm-cong/2002/sepi02mi.htm). Il caso di Porcelli poteva essere affrontato con l'uso simultaneo di una tecnica comportamentale e di una formulazione psicodinamica, senza un tale supporto concettuale (control-mastery-theory e teoria dell'attaccamento) che facesse da ponte fra le due scuole di psicoterapia, cognitivo-comportamentale e psicoanalitica, dalle quali il terapeuta ha tratto i suoi strumenti di intervento? Forse sì, ma di certo l'avere avuto in mente la control-mastery theory (e, non è improbabile, anche la teoria dell'attaccamento) sembra aver facilitato grandemente la messa a punto di una strategia terapeutica integrativa.

Penso anche che non sia casuale che control-mastery-theory e teoria dell'attaccamento siano fra loro facilmente accostabili, nella mente e nella pratica di molti terapeuti ben informati come Porcelli. Sono facilmente accostabili perché hanno un'importante marca di origine in comune: entrambe emergono da programmi di ricerca basati sulla confutazione scientifica (classica) di precedenti teorie, entrambe cioè condividono l'idea di fondo sul modo con cui la nostra conoscenza può crescere e divenire allo stesso tempo un poco meno "soggettiva" (ovvero un poco più pubblicamente condivisibile). L'idea è quella di esaminare congetture limitate a punti particolari della vita umana: nel nostro esempio, come le credenze patogene vengono proposte al terapeuta in forma di "test", e come è meglio concettualizzare il bisogno umano di cura e protezione (disposizione innata all'attaccamento). Dopo aver posto attenzione a congetture circoscritte e limitate, l'idea è quella di tenere in gran conto le corrispondenti confutazioni, senza preoccuparsi invece dei grandi paradigmi, dei grandi e totalizzanti modelli teorici tipo meccanica quantistica o psicoanalisi freudiana classica (tutti già confutati, ci ha insegnato Benvenuto al convegno prima citato, al contrario delle congetture più limitate, le migliori delle quali hanno finora superato importanti tentativi di confutazione, e appunto per questo sono "migliori").

La seconda impressione che volevo condividere è che il caso illustra un'altra tesi che mi è cara: tutte le tecniche cognitivo-comportamentali si prestano bene ad essere utilizzate per facilitare l'alleanza terapeutica e l'incontro empatico con pazienti che, come quella di Porcelli, pongono con forza l'esigenza di una forte e diretta e immediata attenzione del terapeuta ai loro sintomi, prima di poter prestare attenzione ad altri aspetti, più "profondi", della loro vita mentale. Ho dedicato a questo tema (le tecniche cognitivo-comportamentali come veicoli di empatia) alcune pagine del mio ultimo libro (Le opere della coscienza, Milano: Cortina, 2001 - vedi scheda su Psicoter. sci. um., 1/2002, p. 143), pagine che Vittorio Lingiardi ha commentato criticamente nel suo recentissimo libro L'alleanza terapeutica (Milano: Cortina, 2002). Il caso di Porcelli potrebbe essere un'ottima risposta alle importanti ed interessanti critiche di Lingiardi alle mie idee. Naturalmente, se le stesse tecniche venissero proposte a pazienti che chiedono invece attenzione ad aspetti della loro vita mentale e di relazione diversi dai loro sintomi (come forse alcuni terapeuti cognitivo-comportamentali tendono a fare), allora il loro uso diventerebbe anti-empatico, e corrispettivamente  - congetturerei - la loro efficacia sarebbe grandemente ridotta.


Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 4: 108-112

Intervento di Furio Lambruschi
Psicologo Psicoterapeuta, U.O. di Neuropsichiatria Infantile AUSL di Cesena, Didatta SITCC, Docente di Psicopatologia dell'Età Evolutiva Università di Siena

Il caso clinico di Anna si presenta, a mio parere, assai ricco di spunti di riflessione e di confronto tra sistemi teorici e modelli clinici diversi, da almeno tre punti di vista: le ipotesi formulabili sui possibili itinerari di sviluppo, organizzazione del Sé e relativa percezione del mondo sostenuta da Anna, nonché sulle corrispondenti implicazioni e di carattere corporeo; l'analisi delle possibili linee strategiche di intervento e delle più specifiche opzioni di tipo procedurale (tecniche); l'analisi degli interessanti fenomeni che vanno a determinarsi entro la relazione terapeutica.

Il mio commento verterà dunque principalmente su questi tre aspetti, osservati e interpretati alla luce della prospettiva concettuale offerta dalla psicoterapia cognitiva ad orientamento costruttivista ed evolutivo: mi riferisco, da un lato, al filone di ricerca cognitivo-evoluzionista (Liotti, 1994; Liotti 2001), ancorato all'etologia, all'analisi dei sistemi motivazionali umani, e in particolare alla teoria dell'attaccamento; dall'altro, agli elaborati sviluppi costruttivisti e post-razionalisti  del cognitivismo clinico (Guidano, 1988, 1991).

Le caratteristiche del sistema primario di accudimento-cure di Anna (con particolare riferimento al disturbo bipolare della madre), fa pensare a modelli d'attaccamento primari scarsamente organizzati e orientati e, data la forte imprevedibilità e minacciosità del contesto relazionale, ampiamente impregnati di paura (Teti et al., 1995; De Mulder & Radke-Yarrow, 1991). Essi predispongono a strutturazioni del sé connotate da peculiari e consistenti deficit integrativi e, già a partire dall'età prescolare, al delinearsi di un assetto difensivo interno e di una serie di strategie procedurali (agiti funzionali a gestire e mantenere uno stato minimo di relazione con tale allarmante contesto) di tipo "controlling" (Main & Cassidy, 1988; Wartner et al., 1994) o "coercitivo attivo" ad alto indice (Crittenden, 1994, 1997, 1999). Tutte le energie sono volte ad esercitare un controllo attivo sulle figure d'attaccamento e sull'altro significativo al fine di stabilizzarne la discontinuità e pericolosità percepita.

Anna pare proprio che non possa concedersi un attimo di distensione e debba organizzare la propria esperienza attraverso un costante e ferreo controllo delle proprie relazioni: ciò attraverso strategie coercitive volte ad appesantire la relazione con l'altro e a rendersi sempre drammaticamente visibile. Com'è tipico di queste organizzazioni del Sé, l'attribuzione causale del proprio malessere è tutta esterna con lamentele che oscillano dall'accusa e dalla recriminazione rabbiosa, allo scetticismo e all'impotenza ostentata, funzionale a sollecitare accudimento e soccorso nell'altro (nel marito, nel terapeuta, ecc.). Nonostante il suo costante lamento e pessimistica sfiducia nelle cose e nell'altro, ella conserva livelli apprezzabili di autostima. Non si pongono, in effetti, problemi di amabilità personale, bensì di sicurezza nelle relazioni, nell'esserci dell'altro, nell'essere in grado di conservare uno stato di relazione stabile e duraturo. Ciò che serpeggia è un costante timore di abbandono, di poter perdere lo sguardo, l'attenzione, la considerazione e il supporto dell'altro, qualora si concedesse di allentare la guardia, di rilassarsi, di lasciarsi andare all'altro. La polarità coercitiva ostentata è principalmente quella assertiva, dura, iperattiva, di grande autonomia e competenza; tuttavia, ben sappiamo che chi muove verso questa compulsiva opzione, continua a vivere, seppure in forma meno articolata, anche la polarità sommersa, connotata da ansia, profondi sentimenti di fragilità al distacco, un senso continuo e non confessabile di vulnerabilità personale.

Coerentemente, la reciprocità di coppia è basata per Anna sull'assunzione di una illusoria e solo apparente posizione one-up nei confronti del marito, in cui lei, ostentando un Io forte, tenace e competente, emerge come figura sicura, capace sul piano pratico e organizzativo e il marito invece come dipendente e non autonomo. Oltre questa scena manifesta, ne traspare inesorabilmente una latente in cui le parti fragili e vulnerabili di Anna chiedono legittimità di esistenza, voglia di essere riconosciute. Ma i suoi modelli operativi interni, conosciuti e rassicuranti, le impongono un controllo ferreo dell'altro, dei propri stati interni più teneri e ovviamente del proprio corpo. Il suo corpo "racconta" la qualità dei suoi legami, è stato "scolpito" in funzione della regolazione affettiva che ha reso possibile, nella relazione con quelle specifiche figure d'attaccamento: un corpo "tonico", aggressivo, mai tenero e aggraziato. Se consideriamo il corpo come un organo di relazione, diventa evidente che non ci si possa disporre fisicamente in termini di tenerezza, se la percezione che ho  dell'altro è in termini di pericolo e di minaccia: se ti lasci andare in balia dell'altro, l'altro può farti del male, puoi uscirne ferito e danneggiato.

Questo stile interpersonale di Anna sembra proprio segnare ogni passaggio del processo psicoterapeutico, a partire dalla "scoperta" del sintomo e dalla sua presentazione nello scenario terapeutico: è una presentazione molto espressiva, lamentosa e drammatica, tutta in attribuzione esterna, recriminativa verso chi (a 28 anni!) non le ha mai spiegato come devono essere i rapporti sessuali normali e completi, l'ha ingannata, tradita e quindi delusa. La logica è: non posso essere io responsabile delle mie emozioni, della mia conoscenza di me stessa e del mondo, della mia regolazione emotiva; come se Anna dicesse: "qualcuno che mi regoli!".

Ovviamente questi stessi schemi cognitivi interpersonali (Safran & Segal, 1993) sono agiti nella relazione col terapeuta attraverso continue richieste di rassicurazione e immediata lamentazione qualora qualcosa paia non procedere. Anna è capace di rendersi consistente la propria immagine esplicita di forza e di autonomia controllando in maniera evidente e ferrea il rapporto col terapeuta e ogni passaggio del percorso terapeutico, ma sollecitando contemporaneamente soccorso senza aver l'aria di chiederlo. Davvero apprezzabile, a questo riguardo, la capacità del terapeuta di porsi in posizione "ortogonale" rispetto a tali schemi: cioè di sintonizzarsi condividendo in parte questo bisogno di rassicurazione e di supporto, accettando in parte di farsi controllare dalla paziente, senza pienamente colludervi ma contemporaneamente ponendo al momento giusto i giusti limiti.

Altrettanto apprezzabile la flessibilità del terapeuta sul piano delle scelte tecniche: una procedura di desensibilizzazione tratta dall'armamentario comportamentale, basata (secondo il paradigma comportamentista) sui principi del condizionamento classico e dell'inibizione reciproca. Sul piano strategico e della sintonia relazionale, la procedura si presta in modo eccellente ad essere accolta da un'organizzazione del Sè come quella di Anna, che elabora le informazioni in modo concreto, sensoriale, e che ha la necessità di controllare passo a passo ogni dettaglio del processo di cambiamento (millimetro per millimetro sul proprio corpo, gestendo la procedura e vincolando in ciò anche il marito, attimo per attimo, alle proprie reazioni e necessità). Nella psicoterapia cognitiva ad orientamento costruttivista ed evolutivo, le originarie tecniche cognitivo-comportamentali sono utilizzate proprio in questi termini e con queste finalità: inserendole cioè all'interno di una attenta considerazione dell'organizzazione del Sé del paziente e del suo contesto relazionale; e veicolandole non già in termini prescrittivo-direttivi, quanto piuttosto come strumenti esplorativi e conoscitivi capaci di aprire importanti finestre sui significati personali che il paziente stesso attribuisce alla propria esperienza. In questo caso, ad esempio, la tecnica ha consentito uno slittamento significativo del locus of control e dei processi di attribuzione causale riguardo al problema: Anna sposta il focus dall'esterno all'interno e avvia quei processi di internalizzazione, di ridefinizione interna dei sintomi, che rappresentano il prerequisito fondamentale per ogni processo di cambiamento. "Perché non riesco a rilassarmi?", "Cos'è che mi blocca?". "Il problema è il mio". Si aprono nuove discrepanze che la spingono ad esplorare per ricercare nuove risposte.

Ma, le discrepanze hanno a che fare con le sue angosce di abbandono; e prima che la rapida evoluzione di Anna possa innescarsi, sia il marito che il terapeuta (i due fronti significativi su cui Anna gioca spietatamente i propri schemi) devono superare un importante test, una potente messa alla prova: il suo problema è troppo grosso per essere superabile! Il marito è troppo poco implicato, troppo superficiale e immaturo! Il terapeuta prende troppo alla leggera la situazione! Il rilassamento non procede, quel corpo, scolpito in quei legami d'attaccamento non risponde; Anna "stacca": le gambe si paralizzano, la sensibilità è perduta! Tutto, di nuovo, agito in termini sensoriali di intensa drammaticità verso marito e terapeuta. Emergono cioè gli schemi cognitivi interpersonali, o le credenze patogene, di Anna riguardo al mantenimento dello stato di relazione: se ti fidi dell'altro, se allenti il controllo e ti lasci andare, l'altro può ferirti, farti del male.

Superato il test e trovate tacite rassicurazioni rispetto alle sue credenze patogene il sistema conoscitivo-Anna si mette rapidamente in movimento e macina nuova esperienza. Si riappropria della responsabilità dal proprio corpo e quindi anche del cambiamento. Anna comincia a rallentare la sua iperattività quotidiana, a fermarsi, a dedicare qualche giornata a sé e al suo corpo, a confrontarsi con la sua paura di lasciarsi andare: seppure ancora in parte come performance e in termini un po' compulsivi. Del resto, anche l'immagine-ricordo spaventante del capanno, evocata da un momento di rilassamento profondo (al di là di ogni ipotesi sui possibili contenuti rappresentativi), ben si colloca, come clima sensoriale (il caldo torrido di un pomeriggio estivo, il rallentamento, le pennichelle, l'abbandono fisico) in questa fase intermedia del percorso terapeutico, di massimo conflitto tra il desiderio di esplorazione rilassata di se stessa e del mondo e l'assetto difensivo orientato al controllo.

Di grande interesse è infatti il successivo grave ed acuto episodio di crisi (eccitazione maniacale) della madre, che si riflette in una corrispondente crisi e ripresa sintomatologica in Anna. Entro la stessa relazione in cui hanno preso primariamente forma, gli schemi interpersonali di Anna sono ora rimessi alla prova: controllo attivo e costante attivazione emotiva, equivale a garanzia di stabilizzazione e cura del rapporto con la madre; allentare il controllo equivale a possibilità di pericolo, crisi emotiva e imprevedibilità nei legami. La mente e il cuore tornano alle necessità affettive primarie e, in fase di rilassamento, torna lo schermo nero. Ma la relazione terapeutica che ora sostiene l'esplorazione e la validazione di questa nuova parte sembra avere l'intensità e la forza per rimettersi in gioco: "accetto i suoi regali e rinnovo continuamente la fiducia sui progressi fatti". Di nuovo, il terapeuta offre supporto, accetta in parte di farsi controllare, ma le fissa dei limiti e dei tempi terapeutici chiedendole assunzione di responsabilità.

La straordinaria "messa in scena" che Anna realizza di lì a poco, ben lungi dal rappresentare come lei dirà a posteriori "uno scherzo", ha tutto il sapore di un ulteriore fortissimo test sulla significatività della relazione terapeutica, riguardo ai significati personali ad essa sottesi. Come potrebbe gestire un sistema conoscitivo come quello di Anna le profonde angosce d'abbandono che sente attivarsi nella relazione? Non certo attraverso una qualche esplicitazione o metacomunicazione sulle proprie fragilità e sui propri sentimenti di vulnerabilità. Congruentemente con la propria struttura Anna agisce: si cimenta in una rappresentazione scenica tutta procedurale che unisce le competenze drammatiche alla falsa cognitività tipica degli itinerari di sviluppo coercitivi. Il tutto allo scopo di produrre grande sollecitazione emotiva nell'altro e cogliere, non già dalle parole (l'area semantica non è la sua specialità!) ma dalle pieghe del suo viso e da tutta la sua disposizione affettivo-motoria, quanto lui risulti rassicurante rispetto al fantasma dell'abbandono. Chi ha vissuto contesti primari di elevato pericolo non può concedersi il "lusso" della mentalizzazione e di raffinate elaborazioni metacognitive. La corteccia prefrontale e la memoria di lavoro sono troppo lente per questi problemi! Molto meglio far ricorso ai più collaudati ed "efficaci" agiti autoprotettivi.

In realtà la rappresentazione di Anna sembra collocarsi ad un livello intermedio, più evoluto, tra l'agito e la possibilità di chiaro ordinamento semantico dell'esperienza (e quindi di dare un nome definito ai sentimenti di paura e di minaccia d'abbandono avvertiti). Probabilmente in virtù dell'esperienza di relazione già vissuta col terapeuta e delle relative neostrutture cognitive terapeutiche in via di formazione (Semerari, 1991, 2000) vi si avverte la possibilità di giocare su un piano di "finzione", di "gioco" (il piano di sperimentazione delle funzioni metacognitive) e quindi di relativo distanziamento critico dall'esperienza in corso.

Il test, comunque, è di nuovo positivamente superato dal terapeuta e ciò attiva immediatamente nuove competenze metacognitive e autoriflessive rispetto, ad esempio, alla qualità della propria relazione col marito; ambito in cui per la prima volta riesce a riconoscere e a dar voce alle proprie parti sommerse: la propria insicurezza, il non sentirsi sufficientemente protetta nel rapporto con lui, la voglia di coccole e di tenerezza.

Bibliografia

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G. Liotti, La dimensione interpersonale della coscienza, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994.

G. Liotti, Le opere della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001

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D.M. Teti, D.M. Gelfand, D.S. Messinger, R. Isabella, Maternal Depression and the Quality of Early Attachment: An Examination of Infant, Preschooler and their Mothers, Developmental Psychology, 34, 361-376, 1995.

U.G. Wartner, K. Grossmann, E. Fremmer-Bombik, G. Suess, Attachment pattern at age 6 in south Germany, Child Development, 65, 1014-1027, 1994.

Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 4: 112-113

Intervento di Maria Pia Roggero Kluzer
Via De Amicis 48, 20123 Milano

La lettura di questo caso mi ha portata a sottolineare due aspetti che ultimamente ho ritenuto di grande utilità all'interno del mio lavoro analitico: la considerazione degli a-priori impliciti del terapeuta; la funzione del pensiero "interno" ed "esterno". Un pensiero interno inteso come comprensione profonda, determinata dalla complessità del transfert e dell'inconscio. Un pensiero esterno inteso come pensiero condiviso e critico che apre la strada a una messa a punto dello statuto epistemico e della teoria della tecnica. Mi riferisco a un pensiero che guarda all'esperienza materna con lo scopo di rivisitare i sentimenti che il terapeuta prova nel suo lavoro analitico. Il punto di arrivo è una madre reale che si allontana da una visione idealizzata di sé, a cui la letteratura da sempre ci ha abituato e che non corrisponde a una reale soggettività.

Ci si avvicina al prendere in considerazione un grado di tensione cui è sottoposta la capacità di tutte le madri di tollerare l'ambivalenza che costituisce la complessità e il contenuto profondo della relazione e che deve diventare pertanto oggetto di comprensione. E' un accostarsi a un'immagine di madre reale con la sua definita configurazione psichica e lo stesso si può dire per quanto pertiene il terapeuta, al quale non si puo' chiedere di essere perfetto, perché non lo è, ma che possa prendere più atto della sua reale soggettività, fuori da una visione idealizzata. In questa ottica il caso preso in considerazione esprime le aspettative idealizzate del terapeuta-madre nei confronti della paziente, creando una sorta di patto collusivo inconscio come con i genitori che non porta tuttavia a prendere in considerazione gli aspetti più depressivi della paziente.

A-priori epistemici del terapeuta. Il terapeuta all'interno della relazione con questa paziente fa riferimento a una impostazione kleiniana mettendo in atto una scissione schizoparanoidea in cui va infilarsi ponendosi con aspettative idealizzate similari a quelle dei genitori di Anna e negando tutti gli aspetti più oscuri della relazione. Il terapeuta si pone pertanto come madre buona che si adopera alla realizzazione degli aspetti positivi-buoni quasi maniacali della paziente a copertura di una immagine strutturale inconscia che non può essere presa in considerazione come il capanno oppure la grave malattia della madre.

La paziente che si vive come inadeguata, vi risponde secondo una modalità coattivamente appresa che la porta in ogni relazione a porsi come la brava bambina che l'altro vuole che lei sia. Il terapeuta pertanto sollecita, invoglia, richiede una risposta positiva, mentre la paziente attua una modalità di denegazione, schernendosi riguardo a suoi possibili successi all'interno del processo. Anche la performance del travestimento ha il significato profondo della richiesta di un legame speciale col terapeuta, come ultimo baluardo difensivo al permettersi una relazione col marito e col terapeuta stesso. Il terapeuta, dal canto suo, si scusa cercando di riparare in una linea materna idealizzata. Probabilmente, invece, proprio il porsi da parte del t. in una linea precisa, nel formulare un limite alla terapia, induce in Anna un vissuto di rabbia per la delusione subita che si esprime da un lato nella performance del travestimento, come difesa funzionale al mantenimento di un rapporto speciale ed idealizzato e dall'altro in uno una elaborazione dell'idealizzazione come difesa al mettersi in gioco.

Il punto nodale di questo caso è mio avviso l'elaborazione da parte del terapeuta dell'elaborazione di transfert. La relazione si esprime attraverso azioni o comportamenti sia da parte del terapeuta che da parte di Anna. Il terapeuta chiede ad Anna di essere attiva nella risoluzioni del sintomo con la tecnica comportamentale di desensibilizzazione sistematica e: Anna vi risponde con una resistenza agita nel corpo con una paralisi alle gambe; il teraputa è demoralizzato riguardo allo stallo all'interno del processo; Anna risponde con doni dei campi. Il terapeuta mette un limite di tempo alla terapia e Anna, delusa, attua il travestimento a sottolineare la sua rabbia e delusione. Tutte queste modalità comportamentali fanno capire che Anna ma anche il terapeuta non hanno preso coscienza di ciò che succede nella relazione dal momento che agiscono e rispondono sulla stessa lunghezza d'onda. Anzi mi verrebbe da pensare che la paziente all'occasione del pronunciamento del limite del processo da parte del terapeuta si muove su due binari, quello abituale del comportamento o dell'azione nella performance del travestimento, ma anche quello dell'elaborazione della dinamica relazionale che porta alla risoluzione pressoché definitiva dell'aspetto sintomale. Cogliendo la collusione che c'è tra terapeuta e paziente nel qui e ora della seduta la paziente può uscire da una dinamica agita di risposta idealizzata.

A questo riguardo penso che sia utile una risposta per cosi' dire attiva nella linea dell'elaborazione di un pensiero interno anziché reattiva al proprio controtransfert. Attiva in questo caso significa l'autoriflettere sulla risposta reattiva cioè il processo di idealizzazione esistente tra il terapeuta e Anna come dato estremamente utile da essere poi giocato all'interno della relazione clinica. Ritengo, pertanto, che il caso si possa considerare non concluso sia a causa della brevità della terapia, sia per la poca disponibilità da parte del terapeuta ad accedere a un livello più profondo della strutturazione della paziente, ma anche della coppia terapeutica nel complesso che è quello nascosto della depressione, del capanno con le ombre e della patologia della madre.

Concludendo, mi vado sempre più convincendo che la psicoanalisi debba uscire dai santuari delle istituzioni e delle varie società di appartenenza per favorire, nel confronto di casi e discussioni, una funzione del pensiero che definisco interno ed esterno. Ritengo che un pensiero condiviso o critico porti non solo alla costruzione di un linguaggio comune, ma a un confronto proficuo, foriero di un statuto epistemico psicoanalitico sempre più chiaro ed esplicito.


Psicoterapia e Scienze Umane, 2003, XXXVII, 1: 127-129

Intervento di Chiara Simonelli
Psicologia dello sviluppo sessuale e affettivo, Università di Roma "La Sapienza", Facoltà di Psicologia, Via dei Marsi 78, 00185 Roma, E-Mail <ist.sessuologia@flashnet.it>

Lavorando da oltre 20 anni nel campo della sessuologia ed avendo affrontato molte volte la problematica del vaginismo, riporto come primo commento gli elementi ricorrenti che accompagnano questo sintomo e che ho potuto riscontrare anche in questo caso clinico:

1) La scelta del partner: nella maggior parte dei casi si tratta proprio di uomini con una sessualità critica (eiaculatio praecox, erezione difficile o incostante, desiderio sessuale scarso) e con poche o nulle esperienze precedenti all'unione… Di solito, nella fase del fidanzamento, hanno accettato la situazione di fobia della penetrazione della futura moglie accogliendo le razionalizzazioni da lei proposte senza battere ciglio. Per questo motivo molti autori preferiscono definire il vaginismo come "matrimonio bianco", intendendo così inserire nella problematica anche il partner il quale collude attivamente per il mantenimento dello status quo e durante l'iter terapeutico, ad ogni successo della partner, accentua i propri sintomi. Ho parlato di fobia della penetrazione poiché anni fa presentai una ricerca in cui al confronto con altre donne portatrici di sintomi sessuali diversi le vaginismiche risultarono con personalità non particolarmente disturbata in presenza di una fobia accentuata e circoscritta.

2) Il desiderio di diventare genitori e soprattutto il desiderio di maternità da parte della vaginismica, sono esplicitati quasi sempre come motivo di consultazione e prevedono, come in questo caso, l'imbarazzo e il senso di inferiorità nel non poter rispondere alle aspettative delle famiglie d'origine e degli altri, in genere. La sessualità e l'intimità raramente compaiono come richiesta allo specialista. L'adattamento sessuale trovato negli anni (tra la scoperta del sintomo e la richiesta d'aiuto di solito ne trascorrono parecchi!) sembra, al di là delle recriminazioni, un equilibrio accettabile per la coppia e viene messo a dura prova primariamente per la mancanza di gravidanze. Ciò che spinge è l'idea di "normalità", il desiderio della coppia di riprodursi per non essere considerati "malati" o infantili. In effetti, molte delle caratrteristiche descritte solitamente da queste coppie relativamente alle famiglie d'origine testimoniano una grossa difficoltà di svincolo.

3) In particolare è ricorrente un rapporto strettissimo con la figura materna che viene trattata però come "figlia". Quest'inversione di ruolo, frequentissima, è sostenuta dall'ansia di controllare una persona che per vari motivi viene definita "fragile". Nel caso presentato i motivi di questa fragilità sono evidenti, ma nella pratica quotidiana vediamo che ogni elemento reale può ben essere utilizzato per giustificare una presenza fisica o telefonica pressante, direttiva e di compartecipazione della figlia vaginismica. La stessa identica cosa avviene regolarmente col partner che viene considerato "piccolo", incapace e dipendente.

4) Sempre i casi di vaginismo da me trattati  mostravano una grave propensione al controllo con conseguente difficoltà/incapacità a lasciarsi andare. Questo problema sessuale si estende spesso ad altre sfere: paura di nuotare (specialmente nell'acqua alta), paura di prendere l'ascensore, paura degli animali e paura delle novità in genere. Pur essendo coppie relativamente giovani, spesso conducono un'esistenza da anziani coniugi, scandita da rituali familiari molto presenti che vengono riportati in terapia come elementi di sofferenza personale (incomprensioni e mancanza di riconoscimento all'interno del gruppo familiare allargato) ma dai quali non si pensa di svincolarsi. Monitorando costantemente l'andamento dell'esistenza dei parenti ogni elemento di crisi riesce a scatenare quote di ansia considerevoli e spesso, episodi di ogni tipo sono riferiti in maniera vittimistica e impotente. Questo apparentemente sembra contraddire i racconti della storia esaminata in cui la paziente, al contrario, si definisce come l'unica a fare e a "poter fare qualcosa".  A mio avviso la contraddizione è solo apparente in quanto riflette semplicemente il desiderio costante di controllare le cose ma non l'efficacia della condotta stessa che risulta fallimentare. Quindi avrei da obiettare sull'alta autostima di questa donna… votata, ad esempio rispetto alla sorella, ad un percorso in tono minore, oltre a riferirmi all'unione da lei scelta con un uomo che ne riflette in pieno l'infantilismo e l'essere perdente!

5) E' però vero che se ci atteniamo al modo ufficiale di trattare le persone tipico di questi casi, rileviamo un arrogarsi il diritto di giudicare ogni cosa anche attraverso la provocazione. I test ai terapeuti sono un'altra costante… ma appunto non si tratta che di un tic espresso in ogni relazione! La chiarezza di idee, il senso pratico e l'efficacia di queste persone sembrano evidentissime e in certi casi tentano di metterti in condizione totalmente one-down. Una dinamica di potere, a mio avviso, è sempre presente e, in genere, durante l'iter terapeutico viene ricondotta ad un accudimento che per qualche motivo ha "costretto" la paziente a crescere molto precocemente. Una reale autostima non c'è, anzi, la paziente sente di poter essere accettata solo se si comporta "bene", se accudisce gli altri e via discorrendo. Spesso vengono verbalizzati sentimenti di solitudine acuta riconosciuta come una vecchia conoscenza: nessuno è mai stato in grado di accudire la paziente in maniera calda, accogliente e a ragion veduta come lei sa fare con gli altri (madre e marito in primis).

6) Per ultimo vorrei sottolineare una caratteristica che rende il lavoro gratificante per il terapeuta. La donna portatrice di questo sintomo, di solito, lotta contro una fobia specifica che però non lede le altre sfere sessuali. Si tratta per lo più di donne con un'intelligenza vivace, disposte al dialogo e all'approfondimento psicologico, dotate di carica sessuale e di femminilità. Molti casi si risolvono… ma viene messa in discussione la scelta del partner (come nella fantasia provocatoria: la paziente dice di aver lasciato il marito per un anziano ricco… essendo sposata ad un "povero bambino"!!!), in quanto alcune caratteristiche collusive non vengono ritenute più utili e viene scelto un partner con una virilità più espressa.

In definitiva, mi pare un caso interessante di terapia sessuale breve, piuttosto "fortunata" per l'esito favorevole in un periodo di tempo così ristretto. In genere, utilizzando il modello integrato, nella mia esperienza clinica servono, oltre alla raccolta della storia di vita e della relazione di coppia, alcune sedute in vivo per insegnare alla paziente le tecniche di rilassamento in cui, per gradi, si procede alla verifica dell'acquisizione delle stesse e al trasferimento dei successi individuali nella coppia. Lavorare, come ha fatto il terapeuta, con un programma di desensibilizzazione sistematica permette, di solito un buon accesso a comportamenti precedentemente evitati e l'integrazione delle nuove acquisizioni richiede una competenza sia psicodinamica che relazionale per non trascurare il partner nel cambiamento in corso.

Molto altro potrei aggiungere sul versante dell'utilizzo delle fantasie guidate e sulla relazione terapeutica ma, dato lo spazio a disposizione, credo convenga salutarci qui e complimentarci per il buon esito dell'intervento clinico citato e anche per il desiderio di continuare la psicoterapia in tempi e modi da definire. Anche questo è frequente e, personalmente, lo ritengo apprezzabile!


Psicoterapia e Scienze Umane, 2003, XXXVII, 1: 130-131

Intervento di Davide Dèttore 
Psicologo e psicoterapeuta, Docente di Psicologia e Psicopatologia del Comportamento Sessuale, Università degli Studi di Firenze; Istituto Miller, Corso Torino 17/10, 16129 Genova, E-Mail <dettore@ge.itline.it>

Relativamente all'interessante caso proposto dal dottor Porcelli e al quesito finale da lui posto mi sembra di potere fare le seguenti considerazioni come terapeuta cognitivo-comportamentale con particolare specializzazione nel campo della sessuologia.

Il dottor Porcelli ha scelto da un punto di vista terapeutico la modalità d'intervento più corretta per affrontare il problema del vaginismo, soprattutto perché tale procedura è quella che nella letteratura scientifica si presenta come caratterizzata dalla massima efficacia (cfr. D. Dèttore, Psicologia e Psicopatologia del Comportamento Sessuale. Milano: McGraw-Hill), ma, in seconda analisi, in quanto l'unica possibile nei tempi relativamente brevi concessi.

Pur in assenza di informazioni specifiche possiamo dare per scontato che l'intervento a carattere di desensibilizzazione sistematica (D.S.) sia stato condotto in modo sufficientemente adeguato soprattutto nel suo aspetto di elaborazione di una gerarchia di adeguata gradualità. Però, a questo proposito occorrono fare due considerazioni.

 Innanzitutto, va sottolineato che la terapia sessuale, che impiega sempre metodologie a impostazione "comportamentale" (in quanto fanno strettamente parte di questa forma d'intervento specializzata e sono necessarie al di là della strutturazione del complesso dell'intervento, che è conforme alla impostazione psicoterapeutica specifica del singolo professionista), è una "terapia di coppia". Entrambi i membri della diade vanno costantemente coinvolti nell'intervento, altrimenti si possono indurre processi di sabotaggio non indifferenti da parte del partner non portatore del sintomo, se questo non viene informato, tranquillizzato, non si sente parte dell'intervento e non vengono analizzate le dinamiche di coppia. Ciò è necessario qualunque sia l'impostazione teorica del terapeuta.

In secondo luogo, una dimensione importante da tenere presente nell'organizzazione della gerarchia della D.S. è il grado di controllo della donna sul processo della penetrazione (che siano dita o il pene). In generale le donne che soffrono di vaginismo non hanno solo paura delle dimensioni di quanto viene inserito in una cavità corporea, che esse percepiscono come troppo piccola per accoglierlo (evidenziando così anche delle distorsioni percettive e una notevole disinformazione di base, aspetti che vanno colmati e affrontati entrambi in terapia). Infatti, spesso è presente anche il timore di perdere il controllo sul processo della penetrazione,  in quanto essa dipende dal partner. Tale aspetto deve essere inserito nella gerarchia della D.S., per cui all'inizio è la donna che inserisce le proprie dita in vagina, poi quelle del partner guidandole personalmente e infine lascia l'intero controllo a quest'ultimo che la penetra con le proprie dita. Anche a questo proposito si rileva come sia importante la collaborazione del partner.

Questi due importanti elementi non sembra che siano stati presi in adeguata considerazione nel trattamento del caso, che per altri versi è stato pur correttamente condotto. Alcune difficoltà evidenziate nella narrazione del caso si sarebbero forse potute evitare, se questi elementi fossero stati presi in considerazione.

Per quanto riguarda, infine, l'interrogativo finale circa il modo in cui è possibile definire il trattamento condotto, ci sembra di potere affermare unicamente che questo è stato un valido intervento psicoterapeutico a carattere sessuologico: il terapeuta ha scelto la procedura terapeutica in questo campo più specifica ed efficace, l'ha inserita in un contesto terapeutico in cui è stata dedicata grande attenzione al rapporto fra lui e la paziente, ha saputo gestire con abilità un importante "test di sicurezza del terapeuta", ha introdotto le tecniche terapeutiche all'interno di una concettualizzazione del caso. Questa è buona psicoterapia in generale e basta.

Non ritengo che badare al rapporto terapeutico, il sapere gestire un test di sicurezza, eccetera, costituiscano una caratteristica solo delle terapie psicoanalitiche o psicodinamiche in generale, mentre quelle comportamentali o cognitivo-comportamentali debbano essere considerate come procedure da tecnocrati, che non si occupano delle importanti componenti terapeutiche sopra elencate.

Questi aspetti, attualmente, vengono considerati con altrettanta attenzione dai terapeuti cognitivo-comportamentali, magari all'interno di una cornice teorica diversa, ma spesso con analoghe sensibilità e procedure terapeutiche tecniche; essi non si limitano semplicemente a usare paradigmi di decondizionamento o freddi interventi cognitivi a carattere informativo ed educativo. Le tecniche di estinzione (D.S. o esposizione graduata) sono molto spesso assolutamente necessarie in quanto eliminano dei legami associativi ormai automatizzati fra determinati stimoli e specifiche reazioni emotive, che non potrebbero essere risolti unicamente agendo a livello cognitivo, sulle rappresentazioni schematiche di sé e del mondo, che operano su vie del tutto diverse. Oltre a questi interventi, naturalmente, vengono elaborate delle ristrutturazioni cognitive (mirate agli elementi schematici, appunto) e a un'attenta gestione della relazione terapeuta-paziente.

Ma tutti questi fondamentali elementi non sono appannaggio esclusivo di una forma di psicoterapia o dell'altra, ma sono, come si è già detto, solo psicoterapia buona e seria, fondata sulle evidenze. Questo, a nostro parere, è ciò di cui tutti noi dovremmo preoccuparci.


Psicoterapia e Scienze Umane, 2003, XXXVII, 1: 131-133

Intervento di Tullio Carere-Comes
Viale Vittorio Emanuele, 90, 24121 Bergamo. Tel 035-259450, E-Mail <tucarere@tin.it>

Vorrei fare qualche osservazione sull'interessante caso presentato da Piero Porcelli. Comincio dalla questione che Porcelli si pone alla fine: che tipo di terapia ha fatto? E' un trattamento psicodinamico o cognitivo-comportamentale? Risponderei che non è né l'uno né l'altro, oppure entrambi, trattandosi in effetti di un bell'esempio di terapia eclettica. Cioè quel tipo di terapia in cui l'orientamento pragmatico prevale su quello teorico, dal momento che il terapeuta usa tutto quello che può servire senza preoccuparsi di coerenza e compatibilità. E' l'approccio che troviamo a un estremo della linea al cui altro estremo si trovano le terapie di scuola, in cui la pratica è completamente subordinata alla teoria. Entrambi gli approcci sono legittimi, ma entrambi hanno degli inconvenienti: eccessiva rigidità per le terapie scolastiche, con rischio di abuso teoretico (cioè imposizione al paziente di cose di cui non ha bisogno, mentre ne ha bisogno il terapeuta per sostenere la propria identità), rischio di confusione e incoerenza per le terapie eclettiche. In entrambi i casi il rimedio è l'integrazione, che ha caratteristiche diverse a seconda che parta dal polo teorico o da quello pragmatico.

L'integrazione che parte da una base teorica ha carattere assimilativo (parti di altre teorie sono assimilate sulla base teorica di partenza, che deve poco o tanto modificarsi per 'accomodare' i corpi estranei), mentre quella che parte da un approccio pragmatico, potendo muoversi liberamente tra molte teorie e tecniche senza vincolarsi ad alcuna, tende naturalmente all'approccio dei fattori comuni (rimando al mio articolo "Assimilative and Accommodative Integration: The Basic Dialectics", Journal of Psychotherapy Integration, 2001, 11: 105-115). La prima è un'integrazione teorica, come la seconda è metateorica (nel senso che si basa su fattori comuni a ogni terapia, indipendenti dall'approccio teorico prescelto dal terapeuta). Procedendo verso il centro della linea, i due approcci integrativi tendono a convergere verso quella che si può chiamare (che in ogni modo io chiamo) integrazione dialogico-dialettica, in cui la componente teorica e quella metateorica si bilanciano.

Ho trovato molto pertinenti le osservazioni di Liotti, secondo il quale Porcelli ha potuto applicare simultaneamente una tecnica comportamentale e una formulazione psicodinamica grazie al supporto concettuale fornito da due teorie: la control-mastery theory e quella dell'attaccamento. Queste osservazioni riecheggiano i punti su cui già in passato ci siamo trovati d'accordo, cioè il fatto che ogni terapeuta, di qualsiasi persuasione, deve bilanciare due modalità basilari di relazione: la cooperazione paritetica e l'offerta di una base sicura. C'era intesa tra noi anche sul fatto che la cooperazione paritetica sia da intendere come un laboratorio in cui due "local scientists" formulano e passano al vaglio ogni sorta di ipotesi sulla natura dei problemi presentati e sui modi per risolverli. In questo laboratorio gli schemi disadattivi o i modelli operativi interni vengono portati alla luce e modificati grazie all'insight o a nuove esperienze che disconfermano le attese arcaiche.

La creazione dei due ambiti relazionali sopra indicati, il laboratorio scientifico e la base sicura, è l'obiettivo di due delle strategie cardinali di ogni psicoterapia, cioè di due fattori comuni metateorici. Trovo molto interessante il fatto che Liotti si riferisca a questi stessi fattori in una prospettiva teorica piuttosto che metateorica, cioè in riferimento alla control-mastery theory e alla teoria dell'attaccamento. La convergenza dell'approccio teorico e di quello metateorico nella definizione di queste due modalità cruciali di relazione mi sembra una conferma significativa di quanto osservato sopra, cioè della convergenza dei due movimenti integrativi, quello teorico e quello metateorico, in un'area centrale di integrazione dialogico-dialettica.

Ancora un paio di osservazioni. Il fatto che un intervento del terapeuta si collochi nell'una o nell'altra area (o in quali proporzioni nell'una o nell'altra, o in altre ancora) non dipende tanto dalle caratteristiche procedurali dell'intervento stesso, quanto piuttosto, come hanno notato sia Migone che Liotti nei loro commenti, dalla sua qualità relazionale: un intervento comportamentale può valere ad esempio più come rassicurazione empatica che come proposta cooperativa, specialmente con una paziente come questa. Ma la qualità relazionale dipende sostanzialmente dal significato che il paziente attribuisce all'interazione, più che dalle sue caratteristiche oggettive o procedurali. Per questo motivo se volessi studiare più a fondo questo caso non mi servirebbe molto la videoregistrazione delle sedute (il punto di vista di un osservatore esterno, fondamentale per la ricerca che si propone di evidenziare dei fattori "oggettivi", come procedure descrivibili e codificabili), ma mi servirebbe molto di più il commento scritto della paziente ad alcune sedute, in cui le chiederei di notare i passaggi per lei più significativi e i suoi vissuti relativi, da confrontare poi con il commento del terapeuta alle stesse sedute (confronto molto più utile per la ricerca sui fattori "soggettivi', come sono quelli che per lo più contano in psicoterapia). A entrambi chiederei di siglare le interazioni più significative in funzione della loro collocazione nelle due aree in questione, ma non solo in queste.

Dirigerei infatti l'attenzione di entrambi i membri della coppia terapeutica sull'esistenza di altre due aree relazionali, corrispondenti ad altri due fattori comuni transteorici, entrambi presenti, a mio parere, nel resoconto di Porcelli. La prima di queste - la terza dopo le prime due - è l'area della responsabilizzazione (vertice paterno). Osserverei che la svolta decisiva in questa breve terapia è avvenuta dopo un intervento molto "fermo e risoluto" di Porcelli ("duro e risoluto" per la paziente: qui ci è noto anche il suo vissuto). Mi pare che questa donna abituata a comandare avesse bisogno di qualcuno che si mostrasse più fermo e risoluto di lei, qualcuno che la mettesse di fronte alla sua responsabilità (il poco tempo rimasto a disposizione) non per abbandonarla (Porcelli le aveva dato già molte prove di vicinanza empatica), ma per scuoterla dal suo atteggiamento negativo.

Infine, tutto il resoconto di questa terapia mi sembra percorso da interventi di Porcelli che collocherei nella quarta e ultima area, quella in cui il terapeuta incoraggia la paziente a rinunciare all'autocontrollo per abbandonarsi con fiducia al processo della terapia o della crescita (vertice O - per una descrizione dei  quattro vertici, rimando al mio articolo "Beyond Psychotherapy: Dialectical Therapy", Journal of Psychotherapy Integration, 1999, 9: 365-396). C'è una differenza sostanziale tra l'area in cui il paziente si sente accolto, contenuto, rassicurato e validato (vertice materno), e quella in cui il terapeuta non fa niente di tutto questo, ma  esprime o testimonia in vari modi la sua fiducia nella potenzialità autogenerativa e autorisanativa del processo ('vis medicatrix naturae'), incoraggiando implicitamente o esplicitamente la paziente a prendersi anche lei il rischio di affidarsi al "non sapere".

In conclusione, mi sembra un caso di notevole interesse in una prospettiva integrativa, perché dimostra che anche una terapia breve può essere "a tutto campo".


Psicoterapia e Scienze Umane, 2003, XXXVII, 2: 107-109

Intervento di Fabio Vanni
Spazio Giovani, ASL, Via Melloni 1b, 43100 Parma, E-Mail <fabio.vanni@katamail.com>

Numerosi sono i livelli di analisi possibili nel discutere l'intrigante caso di Porcelli: devo, per ovvie ragioni di spazio, sceglierne due. Ciò che mi ha subito colpito nella storia  proposta, è stata la scelta di utilizzare una tecnica di provenienza cognitivo-comportamentale all'interno di una conduzione del caso di tipo psicodinamico. Si può supporre che il terapeuta abbia dovuto fare i conti, nel prefigurare il suo intervento, con alcuni dati clinici e di contesto e che la lettura dei primi sia ovviamente avvenuta all'interno di un modello teorico più o meno esplicito nei suoi legami logici interni e nelle implicazioni di metodo.

Prima di addentrarci nel caso, noto che questo approccio, nella sua apparente banalità, è ciò che caratterizza, da un certo punto di vista, la 'storia concreta' della psicoanalisi e di tutte le discipline scientifiche. Il passaggio dall'ipnosi alle libere associazioni nell'isteria, l'introduzione del narcisismo e della dimensione Io-Oggetto per spiegare la psicosi, il mutamento degli schemi concettuali ed operativi necessario per lavorare con i bambini, con i gruppi, con i disturbi di personalità, etc sono state operazioni effettuate all'insegna della migliore tradizione psicoanalitica.

In questa cultura, nella quale s'inscrive a pieno titolo il lavoro di Porcelli,  mi piace citare l'attività dei servizi pubblici in Italia che, da più di un ventennio, sono confrontati con le situazioni, gravi o meno gravi, che giorno per giorno, senza possibilità di declinare l'invito, ci chiedono un intervento clinico efficace. Mi pare che Porcelli faccia proprio questo, all'interno di regole burocratiche più che cliniche (otto, massimo sedici sedute, ma poi magari anche ventiquattro…), di un contesto ospedaliero che quindi, presumibilmente, lo confronta di frequente con la patologia psicosomatica (che mette a dura prova un analista proprio in quanto caratterizzata dalla difficoltà a mantenere mentalizzato il conflitto incistandolo invece nel corpo), di invii che, ci pare di poter immaginare, tendono ad assimilare l'intervento psicoanalitico a quello medico-internistico, egli dunque, con questi limiti e con una lettura delle caratteristiche della domanda e del funzionamento della  paziente, progetta e propone un percorso che, tenuto conto delle risorse anche del partner ('si dichiara subito indisponibile'), viene tagliato, il più possibile, su misura per lei, il suo contesto familiare e quello operativo del terapeuta, contesto che chiede, sembra di capire, interventi efficaci in tempi brevi.

Ma, fatta questa premessa che rende doverosamente onore alla creatività scientifica del collega, mi preme entrare nella seconda questione che riguarda l'annoso tema dei fattori terapeutici. Se volessimo, come artificio retorico, rinarrare la rappresentazione del terapeuta, si potrebbe raccontare Anna come una donna che sta lontana dal suo mondo di emozioni e di pensieri; sta, tutta chiusa nel tentativo di non sentire, di non esserci. Sono gli altri che hanno in mano la sua vita, lei non sa nulla e non sente nulla. Suo marito, d'altra parte, si guarda bene dall'informarla che esiste qualcos'altro oltre al petting. Ma non vivere non è facile; gli altri non ti lasciano in pace: vogliono dei nipoti, la tv racconta il sesso come un'esperienza facile e comune per una donna di 28 anni; lo stallo evolutivo, il ritardo, sta cominciando a diventare pesante: bisogna uscirne. Il primo passo è andare a vedere "come mai non riusciva ad avere figli", ma qui il ginecologo, che non è il marito, non collude con lei e dà un nome al problema: vaginismo, che richiede una cura: quattro mesi di esercizi e colloqui, dice lo psicoterapeuta.

Credo sia legittimo, anche se delicato, ipotizzare che, al di là di valutazioni razionali ("Oltre alle prove di efficacia di questa tecnica nel vaginismo…") intervengano sempre nelle scelte tecniche, rappresentazioni profonde che il terapeuta si costruisce da subito sul paziente e penso che è ad esse che il paziente risponde, come sa e può, più che alla scelta tecnica in sé. Ma l'andamento del processo offre occasioni reciproche di riconsiderazione delle rappresentazioni iniziali ed offre ad entrambi la possibilità di conferire loro un senso proprio nel contesto di 'quel' rapporto. Porcelli sembra prendersi tutta l'estraneità che Anna sente per il suo corpo, ma anche la grande potenza che ella può attribuire all'altro e le dice: "T'insegno a sentire" ma glielo dice attraverso una tecnica che le consente un'autogestione, una modulazione personale del sentire, e che la costringe, però, a parlare al terapeuta di quello che sente e pensa.

Dicevo all'inizio che l'uso della Desensibilizzazione Sistematica in un contesto psicodinamico può suscitare curiosità ed anche perplessità. Credo anche che ci si debba chiedere però che peso essa abbia avuto nel processo terapeutico e ritengo che una lettura un po' più attenta del trattamento non possa non evidenziare come l'utilità di questo strumento sia da circoscrivere. Vi sono molte ipotesi che possono spiegare gli eventi clinici: uno dei modelli più interessanti si rifà alla cosiddetta 'Matrice Relazionale' (Mitchell, 1988; Wachtel, 1986; Aron, 1992, etc) che tenta un superamento sia del modello pulsionale (Freud) che di quello del deficit evolutivo (Winnicott, Kohut, Stolorow, etc). Da questo punto di vista ciò che sembra più importante nel produrre i cambiamenti descritti da Porcelli nelle rappresentazioni che Anna ha di sé e dei suoi oggetti è da ricercarsi nella relazione con il terapeuta, relazione all'interno della quale la Desensibilizzazione Sistematica è nient'altro che un oggetto in comune. Un oggetto che non potrà che venir 'trattato' dalla paziente come tutti gli altri oggetti, essendo però il suo essere immerso nella relazione analitica ad offrire l'opportunità a lei ed al terapeuta di dargli una lettura nuova, e dunque di darla anche ai vissuti che fa emergere. Una volta rotto il primo guscio dell'uovo infatti ciò che consente alla paziente di riconsiderarsi è la risposta, potremmo dire l'orientamento soggettivo, del terapeuta: Porcelli infatti in questo caso mostra di essere ingaggiato in modo personale nella relazione, preso in parte dall'impotenza della donna, stupefatto delle sue azioni teatrali, e contemporaneamente, però, capace d'impegnarsi a dare senso a ciò che accade offrendo la sponda per consentire ad Anna di provare anche lei a farlo. "Finchè l'analista non partecipa affettivamente alla matrice relazionale del paziente o, piuttosto, non si scopre al suo interno, finché l'analista non è in un certo senso affascinato dalle richieste del paziente, plasmato dalle proiezioni del paziente, reso ostile e frustrato dalle difese del paziente, il paziente non è pienamente coinvolto e la profondità dell'esperienza analitica viene almeno in parte perduta" (Mitchell, 1988)

Credo che il racconto del caso metta in evidenza con chiarezza come la Desensibilizzazione Sistematica divenga vieppiù marginale nell'andamento delle sedute lasciando sempre più importanza ai vissuti soggettivi, ai pensieri, alle emozioni che, al massimo, da essa traggono spunto.  Più che dare risposta al quesito finale ('terapia psicodinamica?') ritengo dunque si debba valorizzare l'intenzionalità del terapeuta di non limitare i suoi obiettivi alla semplice modificazione di un comportamento sintomatico ma di ritenere invece scopo precipuo della psicoterapia la produzione di un cambiamento evolutivo nel mondo soggettivo del paziente: una più nitida rappresentazione di sé; il caso di Anna sembra mostrare con chiarezza che ciò può avvenire efficacemente lavorando a partire dall'analisi del comportamento purché, però, si metta il focus della terapia, come mi pare faccia Porcelli, sulle implicazioni interpersonali del lavoro comportamentale stesso, purché cioè il terapeuta sia personalmente ingaggiato nel processo, come attore vivo ma anche 'pensante' la sua paziente e la relazione che reciprocamente li lega.


Psicoterapia e Scienze Umane, 2003, XXXVII, 2: 110-112

Intervento di Piero Porcelli
Servizio di Psicodiagnostica e Psicoterapia, IRCCS Ospedale Gastroenterologico "Saverio de Bellis", Via Valente 4, 70013 Castellana Grotte (Bari), Tel. 0804960530, Fax 0804960273, E-Mail <porcellip@mail.media.it>

Ringrazio tutti i colleghi che hanno commentato il caso di Anna. Ritengo sia molto positivo che terapeuti di diversa formazione (cognitivisti, psicoanalisti, sessuologi) possano riunirsi in una case conference virtuale nello spazio offerto da questa rivista. Il caso di vaginismo funzionale presentato si presta certamente bene a questa operazione – tanto per la natura del sintomo quanto per il problema sollevato sul trattamento – che però potrebbe anche essere estesa all'intera clinica psicopatologica.

Il punto focale del caso è nel quesito finale: che tipo di psicoterapia è stata fatta con Anna? E' una domanda volutamente retorica, come evidenziato da molti interventi, al cui interno si possono individuare ulteriori ramificazioni, come ad esempio "quali ingredienti consentono maggiormente l'integrazione psicoterapeutica?" o "quali elementi forniscono alla psicoanalisi la propria identità peculiare?". Generalmente la critica rivolta più spesso ai tentativi di "integrazione psicoterapeutica" (movimento composito che costituisce probabilmente la punta più illuminata dell'universo psicoterapeutico internazionale che si riconosce nella Society for the Exploration of Psychotherapy Integration [http://www.cyberpsych.org/sepi.htm]) è ad esempio che si tratta di "una cattiva terapia cognitivo-comportamentale con troppi elementi psicodinamici" o di "una cattiva psicoanalisi con troppi elementi di comportamentismo". Nel suo intervento, così come in altri suoi scritti, Carere ha invitato giustamente a riflettere sulle condizioni (assimilazione e accomodamento) che consentono una "integrazione" distinta dall'eclettismo terapeutico. In breve, la "integrazione psicoterapeutica", comunque la si intenda, è un problema e la clinica è insieme campo di sperimentazione e banco di prova delle soluzioni ipotizzate. Questa, d'altronde, è stata la strada che ha caratterizzato la "storia concreta" della psicoanalisi, come nota Vanni, usando un'espressione vicina alla "storia clandestina della psicoanalisi" di P.F.Galli. Niente di meglio, quindi, che discutere di casi clinici per capire il senso dell'agire terapeutico.

Gli interventi sul caso di Anna si possono dividere in due gruppi. Il primo gruppo ha sottolineato le insufficienze di tecnica nella conduzione della psicoterapia o ha messo in evidenza riformulazioni concettuali del caso clinico. Le osservazioni hanno riguardato ad esempio la corretta esecuzione tecnica di alcune prescrizioni (come gli esercizi di rilassamento o la gerarchia di successione nella desensibilizzazione sistematica) (Moderato, Rovetto, Dèttore), la correttezza diagnostica (dispareunia e non vaginismo) (Landini), la rilettura del caso partendo da punti di vista differenti di sessuologica clinica (Mizzi e Vida, Simonelli) o in chiave di conversione isterica (Busconi). Come dicevo prima, le insufficienze sul piano della tecnica sono fra i punti critici maggiormente evidenziati nei trattamenti integrati o eclettici ma ho trovato personalmente molto stimolanti questi commenti proprio perché aiutano ad essere più consapevole dei propri limiti ed a riflettere maggiormente da differenti prospettive teorico-cliniche.

Il secondo gruppo di interventi si è incentrato sugli aspetti di integrazione o di eclettismo nella conduzione del caso. Vorrei tentare, in questo commento finale, di articolare il discorso su questo versante. Sappiamo che fin dalle sue origini la psicoanalisi ha conosciuto il problema di darsi un'identità "forte", operando sottili ed a volte improbabili distinguo fra puro e impuro, oro e rame, espressivo e supportivo. Il discorso è lungo e complesso e Migone, nel suo intervento, ne ha fatto un breve ma puntuale sunto. Pur con contenuti diversi, tale distinzione ha fatto perno largamente sull'aspetto descrittivo, ossia sulla identificazione della teoria con la tecnica: più è la quota di "interpretazione" presente nell'intervento, tanto più è psicoanalisi; e viceversa. Questa impostazione, ufficiale e istituzionale, ha inevitabilmente portato ad arenarsi in "secche concettuali" (Migone). Un'altra impostazione possibile del problema è quella di separare una teoria di base dalle tecniche impiegate. Nel caso di Anna, la teoria di base è costituita dalla psicoanalisi (soprattutto per quanto riguarda la lettura delle implicazioni transferali e contro-transferali) mentre le tecniche impiegate sono di tipo comportamentale. Come direbbe Carere, siamo di fronte ad un eclettismo terapeutico secondo cui la teoria di base accoglie elementi tecnici eterogenei il cui uso è giustificato da considerazioni di pratica clinica (meccanismo di accomodamento, nel linguaggio piagetiano). Tuttavia anche l'identificazione "psicoanalisi = attenzione alla relazione" e "cognitivismo = prescrizione di comportamenti" appare riduttiva e, probabilmente, cucita su misura da chi vuol sostenere comunque la tesi della superiorità di un modello sull'altro. Cognitivisti come Dèttore e Lambruschi hanno infatti evidenziato nei loro interventi che le tecniche cognitivo-comportamentali vengono utilizzate non semplicemente in termini prescrittivo-direttivi ma come strumenti per comprendere i significati che il paziente attribuisce alla propria esperienza relazionale. Pertanto scindere l'analisi della relazione (psicoanalisi) dalle tecniche di intervento (cognitivo-comportamentali) appare una operazione debole poiché le zone di sovrapposizione – ossia quei "fattori comuni" che costituiscono un terzo possibile approccio al problema della integrazione psicoterapeutica – continuano ad essere tante.

Restano sicuramente differenti le "visioni del mondo" di psicoanalisi e cognitivismo ma, come fanno notare Moderato e Rovetto, se continuano ad essere inconciliabili sul piano metateorico (o meta-psicologico, nel linguaggio analitico), sul piano clinico le distanze tendono a ridursi nettamente. Infatti, a livello della clinica, la domanda sul tipo di psicoterapia fatta con Anna è troppo ingenua (se si tiene conto di tutti questi elementi sul tappeto) o volutamente retorica: non è stata una terapia psicoanalitica né cognitivo-comportamentale, o è stata entrambe le cose, come nota Carere. Infatti una autentica possibilità di integrazione dovrebbe partire non dagli assunti teorici ma dai bisogni del paziente e dall'interpretazione dei significati che terapeuta e paziente danno a ciò che avviene all'interno del rapporto. Nel caso in oggetto, è stato essenziale comprendere la rappresentazione della situazione complessiva da parte della paziente (basata su un dismissing attachment style caratterizzato da un modello interno positivo di sé e negativo dell'altro): sono perfetta se sono auto-sufficiente; adesso invece sono profondamente in crisi a causa tua (marito) e sono costretta a chiedere aiuto ad un altro (terapeuta), sovvertendo tutte le mie certezze di base. Ed è stato essenziale non solo per comprendere il punto di vista di Anna  - e quindi il significato attribuito alla sua esperienza, anche all'interno del rapporto terapeutico – ma anche per conferire un senso alle trasformazioni avvenute nel corso del processo terapeutico, come nota Vanni.

Si può discutere ulteriormente se è propriamente psicoanalitico qualsiasi approccio terapeutico il cui oggetto è l'analisi dei significati attribuiti dai protagonisti nella relazione terapeutica, indipendentemente dalla tecnica o dai "fattori estrinseci" citati da Gill (Migone), ma ritengo che l'attenzione verso i bisogni del paziente definisce l'autentico spazio della psicoterapia, in pieno accordo con quanto sottolineato da Vanni, Carere, Migone e Liotti. Molti interventi, ad esempio, hanno esaminato la mia scelta di utilizzare un intervento comportamentale (rilassamento, desensibilizzazione) per favorire il controllo del processo da parte della paziente e quindi facilitare l'alleanza terapeutica. Al di là delle prove empiriche di efficacia, la mia valutazione primaria è nata nell'hic et nunc della relazione con Anna: esercitare il controllo sul processo terapeutico e sui sintomi aveva per lei un significato più propositivo e meno difensivo di quanto ci si poteva attendere se avessi insistito sul "lasciarsi andare" e sull'abbandono del controllo, che resta ovviamente uno dei suoi principali problemi. Non mi sono preoccupato molto di definire questo intervento in funzione della teoria psicoterapeutica (psicoanalisi o comportamentismo) ma ho avuto in mente la facilitazione del processo terapeutico in funzione delle caratteristiche di personalità della paziente. Ritengo che preoccuparsi di definire l'intervento sulla base della teoria sia un atteggiamento difensivo del terapeuta per salvaguardare i propri bisogni di identità. Se si tiene conto dei bisogni del paziente e della centralità dell'alleanza di lavoro, ci si rende conto che un intervento comportamentale può facilitare la relazione empatica in psicoterapia tanto quanto può ostacolarla un intervento psicoanalitico "di scuola". Insomma, lo scopo è stato di evitare quella impasse ironicamente illustrata nella battuta del paziente che chiede al terapeuta I hope you treat what I have e del terapeuta che gli risponde I hope you have what I treat.

Ci sono dei modelli che consentono di integrare approcci psicoterapeutici differenti in misura maggiore rispetto ad altri? E' evidente che la funzione di ponte o di tessuto connettivo risulta essere più "performativa" per quei modelli a basso tasso di meta-psicologia ed ad elevato livello di operatività pragmatica. Migone e soprattutto Liotti individuano tali modelli nella control-master theory del San Francisco Psychotherapy Research Group di Weiss & Sampson (da me stesso citati in occasione delle crisi regressive che hanno punteggiato il processo terapeutico) e nella teoria dell'attaccamento (da me non esplicitata nella discussione del caso ma costantemente sullo sfondo nel comprendere le dinamiche relazionali di Anna nel rapporto).  Non a caso, tanto il gruppo di San Francisco quanto Bowlby utilizzano un linguaggio ed un metodo di analisi che stanno a metà strada fra psicoanalisi e cognitivismo e, soprattutto, fanno un limitato ricorso ai massimi sistemi ed a totalizzanti meta-psicologie. Sono completamente d'accordo con Liotti quando scrive che la loro utilità in funzione di collegamento ed integrazione terapeutica consiste nel fatto che tali modelli tendono ad esaminare congetture limitate ad aspetti specifici della vita psichica. Nel nostro caso, tali modelli consentono di capire – forse meglio di alti – cosa muove la paziente ed a partire da quali bisogni profondi ella tende ad assumere specifici stili di vita e modi di relazione interpersonale, compreso il rapporto con il terapeuta.

Sottoporre a "test" il terapeuta è ovviamente un modo di testare le proprie credenze patogene ed i propri modelli interni di attaccamento. Facilitare alla paziente questo compito e riuscire a superare i ripetuti "test al terapeuta" (pro-plan interventions, come dicono Weiss & Sampson) assumono il significato empatico di comprendere meglio la persona stessa e metterla nelle condizioni di trovare inutili e superflue le usuali difese e resistenze all'interno del rapporto. Ma assumono anche, dalla parte del terapeuta, il significato di disporre di un rationale teorico per tentare approcci psicoterapeutici più "personalizzati" e meno difensivamente ancorati ad esigenze dottrinarie "di scuola".


Psicoterapia e Scienze Umane, 2003, XXXVII, 2: 113

Intervento di Nella Guidi
Via Alfredo Oriani 6, 20122 Milano, tel. 02-58305909

Il caso scritto da Piero Porcelli ha suscitato un dibattito protrattosi per quattro numeri di Psicoterapia e Scienze Umane. Il fascino del suo resoconto è sicuramente l'innegabile successo sintomatologico, la brevità del trattamento con la contemporanea comparsa di una consapevolezza del tutto nuova e imprevedibile nella paziente della sua problematica intrapsichica. Il resoconto termina infatti con la verbalizzazione della paziente che «il sintomo sessuale è stato solo l'aspetto più evidente di qualcosa di più importante che ha dentro, che ha altri problemi psicologici più seri e che vorrebbe affrontarli adeguatamente quando riuscirà a trovare il sostegno economico per una psicoterapia più lunga e approfondita».

Il terapeuta, di formazione analitica, ha sostenuto e stimolato sia con le sue parole che con la prescrizione/parametro di una tecnica comportamentale il bisogno della paziente che i suoi comportamenti fossero sempre tesi verso la massimizzazione dell'efficacia. Paradossalmente la paziente arriva, nella relazione transferale, a capire quanto poco nella sua vita abbia messo il proprio piacere (e non si riferisce solo a quello fisico) al primo posto rispetto al dovere, all'efficienza assoluta, all'aggressività agita contro il marito. Tutto ciò a scapito della cura per il proprio corpo, della tenerezza verso il marito, della femminilità.

Nella discussione seguita al caso clinico mi sorge il dubbio che l'introduzione di una prescrizione di tipo comportamentale abbia assunto, in quanto parte della tecnica comportamentale, una importanza di tipo predominante rispetto al suo essere, in questo caso, parametro della tecnica psicoanalitica; uno dei tanti parametri che spesso siamo o ci sentiamo costretti ad usare nei trattamenti psicoanalitici. La tecnica psicoanalitica non cessa di essere tale con l'uso di parametri in quanto la tecnica psicoanalitica non è esente da parametri. E in questo caso l'appartenenza della prescrizione/parametro alla tecnica comportamentale è a mio parere casuale, così come per altri pazienti sarebbe la prescrizione/parametro di riprendere gli studi o quella di iniziare a lavorare come attore teatrale. L'utilizzo dei parametri così come da Eissler concettualizzato nel 1953, permette di fare rientrare nella terapia analitica anche quei trattamenti che non possono procedere, in certe fasi del processo terapeutico, senza l'utilizzo di prescrizioni, di modifiche della tecnica. E questo soprattutto per la patologia grave. Per un errore redazionale, non sono stati tolti i riferimenti bibliografici, che non sono ammessi nella Rubrica Casi Clinici, in molti degli interventi pubblicati. Mi ha incuriosito come alcuni colleghi abbiano scritto i loro interventi con tanti riferimenti bibliografici precisi e puntuali nella discussione di un resoconto ove la paziente necessita di assumere "ruoli forti" e di "controllo" contro "passività" e "debolezza" in lei associate e vissute come situazioni di pericolo. E' un po' come se queste paure della paziente avessero contagiato anche i colleghi intervenuti nel dibattito.

E' utile comunque chiarire ancora una volta i motivi della scelta redazionale di non accettare le bibliografie in questa rubrica. Oltre cento anni di esperienza clinica nel campo delle psicoterapie fanno sì che per ogni comportamento posto in essere si potrebbero citare almeno cinque o seicento voci. Pertanto l'unico valore conoscitivo diventerebbe quello di individuare perché un collega abbia scelto quella citazione, o un'altra, magari di se stesso, tra le migliori possibili. Noi riteniamo invece utile capire la logica che ha regolato il "fare" dei colleghi, senza trasformare gli interventi in dotte disquisizioni accademiche su una sorta di "dover essere" psicoterapeutico.


Intervento distribuito alla lista della SEPI-Italia, e in stampa in inglese sul Journal of European Psychoanalysis, 2004

Intervento di Sergio Benvenuto
Via Dandolo 24, 00153 Roma, E-Mail <benvenuto.jep@mclink.it>

Nella bella commedia – a lieto fine – che Porcelli ci ha raccontato, la cosa che mi ha colpito (e divertito) di più è il linguaggio cognitivo-comportamentale: la tecnica di desensibilizzazione sistematica!

La scelta di questo nome non è di per sé un po' "isterica"? Porcelli ci fa vedere chiaramente che si tratta in pratica esattamente del contrario: di sensibilizzare (l'organo genitale femminile? o un soggetto con corpo femminile?) all'altro sesso, e nemmeno sistematicamente, dato che è la genitalità a fare problema. Il vero problema di Anna non è nemmeno la maternità: una volta scoperta la sua femminilità, non gliene importa più di tanto di restare incinta… (e poi, anche una contadina come lei saprà che oggi la tecnologia permette di scindere completamente la maternità dal coito). Si dirà: i nomi scientifici sono sempre frigidi, non c'è da stupirsi – ma il sospetto è che un approccio usi nomi e stile frigidi proprio perché fa sornionamente l'occhiolino ad una frigidità anche femminile. Parafrasando Karl Kraus, potremmo dire che "il linguaggio cognitivo-comportamentale è affetto da quella frigidità di cui vorrebbe essere la cura".

Per chi come me si è formato psicoanaliticamente, questo caso di vaginismo è un'isteria da manuale (ma per altri non è così, dopo tutto ognuno ha avuto i suoi manuali, e i miei non sono quelli di altri). Questo non implica affatto che questo caso mi appaia irrilevante – al contrario, altrimenti non starei qui a perdere tempo a scriverne.

Porcelli alla fine pone la domanda "continuo a chiedermi che tipo di psicoterapia è stata fatta con Anna" – in fondo una domanda retorica, perché lui stesso poi si dà la risposta (a mio avviso giusta): che la domanda davvero interessante non è questa. La domanda interessante (Porcelli ne converrà) è piuttosto "che cosa è davvero accaduto in questo periodo di cura?". In termini più metafisici: qual è stata LA VERA CAUSA del cambiamento avvenuto in Anna? Questa è la domanda per me interessante, più che sapere le statistiche (spesso biased) sull'efficacia relativa delle varie tecniche.

Si cita spesso l'interpretazione behaviorista della psicoanalisi da parte di Eysenck – ma sarebbe anche ora di tentare un'interpretazione psicoanalitica delle tecniche behavioriste.  La psicoanalisi mi interessa particolarmente non in quanto è una tecnica tra le altre, ma in quanto è in prospettiva una teoria sulle cause possibili del cambiamento – oltre che una teoria sulle cause possibili del malessere stesso che spinge al cambiamento.

Tempo fa in Gran Bretagna si fece una ricerca scientifica sull'efficacia delle preghiere sulle malattie organiche. Ammettiamo che si fosse rilevato statisticamente che, ad esempio, le preghiere degli islamici sono efficaci. Un dato del genere sarebbe stato una bomba, ma sarebbe stato solo l'inizio della ricerca scientifica vera. I fatti sono questi – le preghiere islamiche sono efficaci – ma poi si tratta di elaborare ipotesi sul PERCHE' lo siano. Mutatis mutandis, Davide Dèttore ci assicura che la "desensibilizzazione sistematica" è la cura più efficace nei casi di vaginismo. Non esito a credergli, ma la domanda allora interessante è perché. Che Anna si sia riconciliata con la propria femminilità è un fatto, ma che cosa davvero abbia provocato questa riconciliazione resta enigmatico. La psicoanalisi ha le sue congetture, altre teorie ne hanno altre (dopo Popper, non parliamo più di ipotesi: solo di congetture). Vediamo le congetture della prima.

Qual è la congettura freudiana su casi come questo? Detto molto brevemente, è vedere le cose dal punto di vista della cameriera. Di fronte a casi del genere, mi chiedo sempre "che cosa ne penserebbe una cameriera in gamba" del tipo di quelle che si vedono nelle commedie di Molière? Le serve furbette di Molière capiscono molto meglio i problemi delle loro padroncine rispetto ai paludati medici che parlano in latino di systematica desensibilitudo. Questo perché la servetta è visceralmente "freudiana": sa che le cul a ses raisons que la Raison ne connaît pas (cul in francese significa sessualità in genere). Ora, cosa penserebbe la bonne Lisette di questo personaggio di Anna, che pare uscito da un romanzo di Vitaliano Brancati? Direbbe: "questa poverina non la vuole dare a questo uomo-bambino, che peraltro se ne viene subito". Non la dà perché è Anna a portare i pantaloni in casa (peraltro, li compra lei direttamente a questo marito di peluche) – e non solo nella casa acquisita, anche in quella originaria.

La psicoanalisi non è una scienza, è un raccapezzarsi plebeo. E' vero che oggi molti analisti pontificano con il latino scientifico – che oggi è inglese – ma, gratta gratta, da sotto il camice bianco che molti analisti indossano sovente spunta la servetta plebea che origlia dal buco della serratura. Cosa che fa appunto Porcelli (lui stesso ci parla francamente del suo ruolo voyeuristico): egli partecipa all'intimità del ménage, sorveglia e "controlla" i rapporti sessuali di questa coppia "bianca". La mia congettura è che la terapia riesca proprio per questo: è il ménage à trois come cura. L'ABC della psicoanalisi dell'isteria.

Questo del resto ci fa capire la saggezza di cui danno prova certe culture, che fanno svolgere in pubblico il primo coito coniugale – o ne affidano l'incombenza ad un re, sacerdote, stregone… oggi magari psichiatra. Un'iniziazione trascendente alla genitalità è una condizione – per molte donne – per poter funzionare da femmine.

La congettura freudiana fondamentale è che l'isterica non si rassegna ad essere (non donna ma) femmina – ergo, non le va di essere penetrata. Vuole essere donna e madre, ma non femmina. Ovvero, ci tiene a mantenerla "vuota". Questa fedeltà al proprio vuoto è il grande enigma dell'isteria.

Porcelli non fa menzione degli eventuali godimenti extra-vaginali della Nostra (ha mai conosciuto un orgasmo clitorideo, ad esempio?). Questo suo silenzio – non sappiamo se per sua scelta o per ignoranza dei fatti – è un segno del fatto che per lui, come per Anna, il problema cruciale qui è come sostenere un ruolo femminile nell'amplesso.

Perciò non posso essere completamente d'accordo con Liotti, quando parla de "l'esigenza di una forte e diretta e immediata attenzione del terapeuta ai sintomi [dei pazienti], prima di poter prestare attenzione ad altri aspetti, più 'profondi', della loro vita mentale". Perché per me invece i sintomi sono, in un certo senso, la cosa più profonda negli esseri umani…  Se la psicoanalisi non si è concentrata sul trattamento del sintomo, è semplicemente per una scelta in apparenza tecnica, in realtà etica: per evitare prescrizioni. Ma appunto, come insinua Porcelli, la psicoanalisi è solo secondariamente una tecnica: è un certo modo "volgare" di vedere le cose. E il sintomo dice la verità forse più profonda su Anna: la sua difficoltà ad accettarsi come femmina.

Questo probabilmente spiega perché storicamente la psicoanalisi non si sia concentrata sul sintomo, rinunciando quindi a guarigioni spettacolari: perché in fondo non vuole rimuoverlo al più presto. Il sintomo – se non è insopportabile – è prezioso perché esibisce "il nodo" di un soggetto più di mille chiacchiere metapsicologiche. Fastidioso ma eloquente.

Anna è un caso da [mio] manuale, dicevo, perché mostra due tratti patognomonici dell'isterica, che chiamerei "Scetticismo Terapeutico Pregiudiziale" ["Anna mi gela dicendomi che lei è scettica – scrive Porcelli – che io prendo la situazione troppo alla leggera…"] e "Massiccia Domanda d'Amore".  Molti ancora si chiedono perché l'isterica spesso esibisca in modo provocatorio questa sfiducia. La congettura più verosimile è che in questo modo lei dice obliquamente "non ho alcuna intenzione di cambiare!". E perché dovrebbe? Già Freud descrisse la belle indifférence dell'isterica: a dispetto delle sue lamentele, dopo tutto, pare stare bene così come sta. La vediamo questa belle indifférence plateale di Anna: la sua incredibile ignoranza sessuale ci mette la pulce all'orecchio. Ignora (evidentemente perché le faceva comodo ignorarla?) la realtà della penetrazione fallica perché è in questa a-sessualità che ha trovato il suo equilibrio. Possiamo leggere quindi il suo pessimismo come una sfida al terapeuta: "credi di essere proprio tu il maschio che mi farà diventare davvero donna?"

Infatti, appena comincia ad auto-violentarsi seguendo le prescrizioni mediche – quando la forza medica penetra in lei – "ha le gambe paralizzate" ovvero sente "le gambe dritte e rigide come stoccafissi". Che cosa penserebbe la nostra cameriera di una reazione del genere? Penserebbe: se "lo stoccafisso" lei ce l'ha già in sé, perché dovrebbe procurarselo all'esterno?

Eppure il maschio terapeuta si mostra più forte di lei: "alla seduta successiva, Anna arriva per la prima volta truccata, pettinata, ben vestita; insomma con un aspetto decisamente più femminile". Ovvero, ha dismesso i pantaloni e "fa la donna" – cosa per lei pericolosa, perché significa "lasciarsi possedere" dall'attività virile, rinunciare a controllare l'altro.

Quanto alla Domanda d'Amore, la vediamo drammatizzata nella seduta cruciale in cui la Nostra viene a dire al terapeuta che se ne va da un altro uomo, anziano e ricco, e pianta in asso i suoi due uomini impotenti… Su questo punto non condivido la nota di Porcelli, il quale non considera questa una "scenata isterica" per la sola ragione che sarebbe stata architettata. Eppure molti grandi clinici hanno avuto dubbi sulla natura volontaria o meno dell'"istrionismo isterico", spesso al limite tra messinscena e attacco involontario.

Ma quel che mi colpisce della "scenata" è che essa segua non ad un fallimento terapeutico, anzi, ma ad un vero turning point in cui Anna si dà – per la prima volta – come femmina. Come spiegare questa reazione ad un progresso eclatante? Credo con l'incalzante "prova d'amore" che l'isterica chiede continuamente non solo al terapeuta, ma a qualsiasi altra persona per lei significativa. La rivendicazione isterica è essenzialmente una rivendicazione d'amore. Qui mi pare che ella sfidi il terapeuta in quanto si rende conto che sta "guarendo", il che significa (1) la fine del loro idillio terapeutico, e (2) deve ammettere che stavolta un uomo l'ha "avuta".

Anche la fantasia (ammesso che sia tale) dell'"altro uomo" ideale – ricco ma anziano – è un classico: l'isterica molto spesso vagheggia un uomo che soddisfi i suoi bisogni materiali e sociali (danaro, prestigio) ma non la penetri (perciò è concepito come vecchio o impotente). E' la quadratura del cerchio: trovare finalmente un Uomo ideale che la edifichi donna senza penetrarla… In fondo, non è quel che fa proprio qui il terapeuta?

Mi rendo conto, scrivendo tutte queste mie congetture, che sto parlando più il linguaggio delle telenovelas che quello della scienza che usano tanti colleghi.  I cognitivo-comportamentali parlano il latino dei medici di Molière, lo psicoanalista parla il volgare delle servette che sanno quanto le faccende amorose siano decisive nella vita. Lo psicoanalista pensa che una parte di noi vive in una telenovela.

Allora, qual è il fattore terapeutico secondo la congettura psicoanalitica? Anche qui Freud ha scoperto l'acqua calda: non medicamentum, sed medicus sanat. Il famoso "transfert" è semplicemente questo. La psicoanalisi non crede che siano stati essenzialmente gli esercizi chiamati "desensiblizzazione sistematica" ad aver prodotto il cambiamento, ma il fatto che il terapeuta prescrivendo questi esercizi sia entrato nella famiglia erotica, per così dire, di Anna (del resto, lei gli scrive lettere belle e commoventi da innamorata). Una terapia – qualunque ne sia il setting – funziona perché il terapeuta entra in qualche modo nell'economia affettiva del paziente, e proprio per questo è in grado di modificarla. "Una tecnica di seduzione", dice crudamente Migone, che la paragona anche al judo (è vero, tutta la psicoanalisi è un judo psichico). Ma in fondo, questa scoperta da cameriera fu fatta già in quel che consideriamo il vero inizio delle scienze psicoterapiche: la relazione del 1784 della Commissione Reale – alla quale parteciparono B. Franklyn e Lavoisier –  sulle portentose guarigioni di Franz Anton Mesmer.

 Questo Rapport des commissaires chargés par le roi de l'examen du magnétisme animal è considerato uno dei grandi capolavori della letteratura scientifica, un classico della storia della scienza. Mesmer – a suo modo già un comportamentista – sosteneva che gli attacchi isterici che lui produceva (le sue pazienti erano in gran maggioranza donne), a Parigi, erano dovuti al magnetismo animale. La commissione reale dimostrò invece in modo inoppugnabile che le crisi erano dovute al carisma dell'ipnotista. Dimostrò che la CAUSA degli effetti isterici (e quindi delle cure mesmeriche) non era il magnetismo ma il terapeuta stesso. Ma che cosa ha "scoperto" Freud di diverso?

Da Lavoisier a Porcelli – passando per Charcot e Freud – è sempre la stessa cosa: è soprattutto dal lato della relazione con il terapeuta (e con l'immagine della Terapia) che occorre vedere la causa, più che dal lato della tecnica o di altre misteriose forze. Infondo, con l'isteria torniamo sempre al punto di partenza: alla Regia Commissione che indagò sulle portentose guarigioni del Dr. Mesmer.

Se Porcelli si è concentrato sul sintomo, del resto, non è per ragioni "scientifiche": doveva risolvere un problema in poche sedute, perché queste sono le norme della ASL. Se operava in Germania, dove lo stato rimborsa 300 sedute, forse avrebbe fatto altrimenti. Ma sono d'accordo con chi dice che certe limitazioni esterne – ad esempio, il fatto di avere limiti temporali – possono essere benefiche anche per il terapeuta analitico: lo svezzano da una certa confortevole indulgenza a tirarla per le lunghe. Già Ferenczi negli anni 20 faceva ricorso a limiti temporali dell'analisi. Proprio il fatto che si possa fare un'"analisi" in 24 sedute ce la dice lunga contro un accademismo psicoanalitico che identifica l'analisi non solo con un setting preciso (del tipo quattro sedute a settimana di 45 minuti l'una ecc. ecc.) ma anche con una lunghissima e contorta introspezione intellettualistica.

Ma allora, è l'analisi classica che può essere spiegata in termini cognitivo-comportamentali, o sono le tecniche cognitivo-comportamentali che possono essere spiegate in termini analitici? La sfida – eccitante – è aperta. La vittoria epistemologica dell'una o dell'altra dipenderà da vari fattori (di cui alcuni nemmeno ancora immaginabili). Oggi pensiamo che la servetta di Molière vedesse giusto, mentre i medici dell'epoca avessero torto. Ma la ruota può sempre girare.


Prima parte: Piero Porcelli, "Un caso di vaginismo: il caso Anna". Interventi di: Paolo Moderato & Francesco Rovetto; Paolo Migone; Chiaretta Busconi; Alessandra Mizzi & Marcella Vida; Enrico Landini

Seconda parte: Interventi di: Giovanni Liotti; Furio Lambruschi; Maria Pia Roggero Kluzer; Chiara Simonelli; Davide Déttore; Tullio Carere-Comes; Fabio Vanni; Piero Porcelli; Nella Guidi; Sergio Benvenuto