PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Area Problemi di Psicoterapia (a cura di Paolo Migone)

 

Trauma ed abusi infantili: 
teorie della dissociazione e teorie della rimozione
 Sergio Bordi
 

Nota: Questo testo è il seminario tenuto da Sergio Bordi il 31 ottobre 1998 al Circolo De Amicis di Milano, invitato dall'Associazione di Studi Psicoanalitici (ASP). E' stato poi pubblicato sulla rivista dell'ASP (Setting, 1999, 7: 8-25), col titolo "Realtà psichica, trauma, difesa". Dato il suo estremo interesse, lo ripubblichiamo su PSYCHOMEDIA, ringraziando l'ASP e Sergio Bordi per il permesso di pubblicazione. Abbiamo riportato, in carattere minore (e con alcune lacune dovute a imperfezioni della registrazione), anche gli interventi di coloro che hanno introdotto il relatore e hanno partecipato al dibattito. 
Sergio Bordi è uno psicoanalista di Roma, didatta della Società Psicoanalitica Italiana (SPI).

Ciro Elia: Oggi abbiamo con noi Sergio Bordi, che lavora in un gruppo teorico-clinico della nostra Associazione di Studi Psicoanalitici (ASP) che vi raccomando caldamente. Io volevo soltanto rivolgere un saluto a tutti voi presenti, ai Soci dell’associazione, agli Allievi della scuola, e a tutti i Colleghi che stamattina hanno voluto essere qui con noi in questo seminario con Bordi. Un saluto particolare naturalmente a Bordi, e un ringraziamento a lui per la collaborazione che da otto anni tiene con noi. La prima volta che è venuto qui da noi a Milano è stato invitato da me, per la relazione intitolata "Gli orientamenti attuali del pensiero psicoanalitico"; poi, come sapete, ha preso parte con una relazione al nostro Convegno del marzo 1996, pubblicato nel nostro libro Affetti e pensiero (Accerboni et al., 1998), sull’evoluzione del concetto di rappresentazione mentale inconscia (Bordi, 1996). A giugno abbiamo festeggiato l’ottantesimo compleanno di uno dei nostri più importanti maestri, che è Johannes Cremerius, e una delle cose che è stata giustamente detta a Cremerius, che gli è stata riconosciuta ed è stato ringraziato per questo, è stata la sua fedeltà, la sua "costanza d’oggetto" con noi. Anche Bordi è su questa linea nei nostri confronti, e per questo volevamo ringraziarlo tutti. 
Il tema di oggi si inserisce bene nel nostro discorso del convegno sul tema della memoria: "Psicoanalisi, memoria e neuroscienze". In primavera c’è stato il seminario di D’Alfonso, Civita e Gandellini sui problemi relativi alla memoria, al trauma, ai fondamenti neuropsicologici della memoria (la teoria di Edelman [1989, 1992], ecc.). Oggi abbiamo invece il seminario di Bordi su trauma, rimozione e dissociazione come difese, e a fine novembre avremo il seminario di Claudia Zanardi, che è nostra Socia (insegna a New York, si occupa da anni del problema del rapporto mente-corpo, e ha scritto un articolo per l’ultima sezione del nostro libro, quella che riguarda la femminilità). In primavera dovrebbe venire Silvia Amati Sas: sapete che lei si occupa, si è occupata sempre molto, del rapporto trauma/memoria, soprattutto in relazione a chi viene messo nei campi di concentramento e a chi viene torturato da regimi politici.

Marcello Panero: Io più che una presentazione di Bordi, che sarebbe un compito forse troppo ampio, vorrei dire due parole sia suoi Seminari che facciamo ormai dal 1995. Credo che siano ormai una ventina di volte che ci vediamo tre ore e mezza/quattro il sabato pomeriggio per discutere di casi clinici. (…) La teoria della mente è un campo di ricerca che nasce al di fuori della psicoanalisi ma che diventa poi integrato in quelli che sono gli sviluppi della psicoanalisi, soprattutto influenzati dall’osservazione del bambino. (...) Mi sembra di poter dire che l’aspetto centrale, forse uno degli aspetti centrali, dell’interesse di Bordi è quello del rapporto tra teoria clinica e teoria evolutiva, come viene detto anche nella sua relazione che ha aperto il Convegno del marzo 1996 e che è anche il primo saggio che compare nel libro Affetti e pensiero (Accerboni et al., 1998): vi è sempre stata una certa distanza tra la clinica e la teoria evolutiva, e questo ha implicato alcune conseguenze sulla clinica. (…) In particolare, fin dal titolo della relazione di Bordi (1996), "La rappresentazione mentale inconscia nell’evoluzione del pensiero psicoanalitico", l’accento viene messo sulla parola "rappresentazione", sulla parola "mentale", dove appunto s’intende per mentale la capacità che viene sviluppata nel bambino di pensare che le persone agiscono non in base - e cito proprio le parole di Bordi - "a quello che succede, ma in base alla rappresentazione che le persone si fanno di quello che è successo". Quindi, la capacità di sviluppare una comprensione dell’intenzionalità e comprendere le persone, sé stessi e gli altri come persone che hanno credenze, desideri, e affetti; quindi l’aspetto della cognitività sociale che si sviluppa nel rapporto.


Trauma ed abusi infantili: 
teorie della dissociazione e teorie della rimozione
Sergio Bordi 

La mia proposta di portare stamattina alla vostra attenzione il tema del trauma psichico è specialmente legata all’accresciuta importanza che esso ha ricevuto negli ultimi anni da parte di tutti coloro che si occupano delle scienze della mente. Anche la psicoanalisi ha partecipato a questo riconoscimento, non senza qualche esitazione, che può del resto comprendersi se si tiene presente la sua storia. Difatti, dopo un esordio in cui il trauma giuocava un ruolo da protagonista, la psicoanalisi lo aveva relegato in una parte di secondo piano, dando preminenza assoluta alla dimensione intrapsichica, alle fantasie sessuali, e al conflitto intrapsichico. Ricorderete pure che la nozione di trauma psichico era nata alla fine del secolo scorso come esito delle sequele legali connesse agli incidenti dovuti alla diffusione dei mezzi di trasporto, e che Freud le aveva subito assegnato un valore eziopatogenetico assoluto per i suoi "neurotica". In questo egli aveva seguito Charcot. Mentre la neuropsichiatria tedesca, impostata secondo principi clinico-anatomici, non sapeva come inserire la "railway spine" [vedi Freud, 1886] tra i suoi oggetti di studio, quella francese, che era invece improntata al criterio delle sindromi cliniche identificabili, l’aveva assimilata subito ai fenomeni psicologici, in particolare a quello della suggestione, che raccoglieva un certo interesse nella cultura sociale del tempo. Di qui, era breve il passo per connetterla alla sintomatologia isterica, della quale a sua volta, con la diffusione del darwinismo, era stata accentuata la coloritura sessuale. A questo proposito vale la pena di ricordare che lo storico John Kerr ha sottolineato che il titolo dato a una delle sue opere più importanti, i Tre saggi sulla teoria sessuale (Freud, 1905), lascia capire che la storia sessuale, soprattutto ad opera di Kraft-Ebing e di Moll, godeva già di una certa diffusione, alla quale Freud dava, appunto, il suo contributo. Fu su queste premesse che il fondatore della psicoanalisi poté, non senza compiacimento, annunciare allo sconcertato pubblico di medici viennesi che "... alla base di ogni caso di isteria vi sono uno o più episodi di esperienza sessuale precoce della prima infanzia, episodi che il lavoro analitico è in grado di rievocare nonostante i decenni trascorsi". 

Oggi che il movimento delle donne ha posto al centro dell’opinione pubblica il problema della violenza sessuale, e ha fatto tirare fuori del cassetto dei segreti di famiglia incesti, abusi e maltrattamenti infantili, si è acuita l’attenzione per certi casi e si sono enormemente moltiplicati i processi istruiti per essi. E’ così accaduto che, nelle aule dei tribunali nordamericani, dove circa diecimila famiglie vi si trovano coinvolte, si siano riascoltate, per bocca degli accusatori, le parole pronunciate da Freud un secolo fa, benché fossero state da lui poi ritrattate. Anche se per alcuni anni, come scrisse a Fliess, "non lo andò a dire in terra di Dan, nè lo gridò per le vie di Assalon", dovette infatti accorgersi dell’aleatorietà dei risultati terapeutici ottenuti per via abreativa e, soprattutto, della presenza in lui stesso di molti dei contenuti sessuali rilevati nei pazienti. Ciò lo aveva indotto a concludere che la psicologia del normale e quella del nevrotico fossero più vicine di quanto si pensasse e che gli eventi che aveva giudicato come realmente avvenuti fossero piuttosto espressione di fantasie di seduzione, un portato dei desideri edipici infantili, i quali diventavano pertanto il vero complesso nucleare della neurosi. In questo modo Freud ha ricevuto una duplice accusa: dopo che, con la prima versione, ha dato verosimiglianza alla possibilità che nel corso di una psicoterapia riaffiorino ricordi di abusi sessuali subiti decenni prima (va ricordato che, nei processi menzionati, l’età media degli accusatori era di 35 anni, e di 55 quella degli accusati), con la seconda e definitiva versione egli ha gettato le basi di quella che oggi viene chiamata "sindrome da falso ricordo" [false memory sindrome], alla quale appunto si appellano gli avvocati della difesa [vedi la False Memory Syndrome Foundation]. Molto rumore ha suscitato qualche anno fa il caso Gary Ramona, per il quale è stato formulato un verdetto di condanna nei confronti sia dell’accusatrice che dello psicoterapeuta che aveva eseguito il trattamento nel quale era stato riattivato il ricordo di un incesto continuato, che la corte aveva giudicato non sussistente. Debbo tuttavia aggiungere subito che si verifica anche l’opposto: che è stata comprovata l’esistenza di un 6-7% di casi di incesto al di là di ogni dubbio, eppure insistentemente negato dalle vittime che affermavano di non essere in grado di ricordare assolutamente nulla dei fatti. 

E’ abbastanza evidente che, con la loro risonanza, i casi in questione generano un impatto molto negativo sull’immagine della psicoterapia e risultano nocivi per la professione, tanto più se si tiene presente che si vanno ormai facendo numerosi anche i processi intentati contro psicoterapeuti a cui vengono rivolte accuse di molestie e abusi, accuse che si rivelano spesso fondate per l’essersi verificati da parte loro dei fenomeni di collusione o di identificazione con l’aggressore. Questo insieme di avvenimenti ha certo costituito un forte movente per spingere gli psicoanalisti a riesaminare il problema, dopo il prolungato abbandono in cui esso era stato da loro tenuto. Difatti, dopo che il celebre scritto del 1912 di Otto Rank sull’incesto, niente era stato detto da loro al riguardo, né molto era comparso sulle riviste psicoanalitiche circa i traumi reali e gli abusi infantili. Un’eccezione naturalmente era data dal lavoro di Sandor Ferenczi che però, come sapete, era stato osteggiato, e quanto ai lavori di Sandor Rado e Phyllis Greenacre erano passati quasi inosservati. Questo silenzio è tanto più sorprendente se si considera l’ondata di popolarità che al termine della prima guerra mondiale la psicoanalisi si era guadagnata grazie alla versione esplicativa che aveva dato delle "nevrosi da Shrapnel", senza contare poi i celebri studi di Anna Freud e Dorothy Burlingham, del 1974, sui bambini sfollati dalla seconda guerra mondiale e quelli di Spitz sui bambini abbandonati e maltrattati. Uno dei fattori che possono spiegare questo silenzio sembra risiedere nel bisogno di mantenere un’identità teorica e una esclusività professionale fondate sulle determinanti endogene del comportamento e del funzionamento mentale che solo gli psicoanalisti potevano vantare di poter individuare e affrontare. Comunque sia, da quindici anni a questa parte l’orientamento è decisamente cambiato: il tema è ripetutamente oggetto di pubblicazioni e varie sono state anche le rivisitazioni critiche dei casi freudiani degli Studien über Hysterie (Breuer & Freud, 1892-95), nelle quali vengono considerevolmente rivalutate le opinioni di Janet e di Breuer. Inoltre, importanti convegni sono stati organizzati, come quello del ‘94 da parte della Società Psicanalitica di Boston sull’abuso sessuale riportato poi da Psychoanalytic Inquiry, che già in precedenza aveva dedicato un intero fascicolo ai disturbi di personalità multipla, e l’altro di un anno e mezzo fa sul recupero del ricordo dei traumi abusivi infantili tenutosi all’University College di Londra con un’enorme partecipazione di pubblico e di relatori e che è stato poi edito recentemente da Sandler & Fonagy (1997; Sandler, Fonagy & Baddeley, 1999). 

Un secondo e non meno importante motivo alla base di questa ripresa di interesse psicoanalitica per il tema è stato poi fornito dal mutato atteggiamento che la psichiatria, specie quella Nordamericana, ha lasciato apprezzare nei riguardi della valutazione diagnostica dei disturbi post-traumatici e di quelli dissociativi in genere, un mutamento che è stato anche interpretato, forse ottimisticamente, come un indice di riavvicinamento tra la psichiatria descrittiva e quella dinamica dopo il divorzio degli anni ‘70. Anche a questo riguardo c’è da dire che le pressioni sociali hanno esercitato una certa influenza: l’esito della guerra del Vietnam infatti, trovava eco nei riscontri effettuati nei Veteran Hospitals dove i medici denunciavano la presenza, nei reduci, di un 15-20% di disturbi post-traumatici da stress accompagnati da sintomatologie dissociative più o meno gravi. Andava intanto crescendo, nell’opinione pubblica americana, l’inquietudine provocata dalle sette religiose e dai riti satanici, inquietudine che poi i mass media alimentavano attraverso le fictions su visitors e su esistenze aliene. E questo si andava a saldare poi con la popolarità, diffusasi dalla California al resto del continente nordamericano, conquistata da parte delle personalità multiple e delle alterazioni di coscienza in genere. Tutto questo portava la psichiatria accademica a prendere in seria considerazione i fenomeni dissociativi e a connetterli da un lato ai fenomeni dissociativi transitori che colpiscono la popolazione normale - come l’ipnosi da autostrada, i sentimenti deja-vù e di estraneità passeggera - dall’altro, ai sistematici studi, come per esempio quelli di Kristal che andavano pubblicando sulle vittime dell’olocausto e i loro figli, e alle indagini sulle sequele dei traumi come quello di Overton & Horowitz (1991), e sulle personalità multiple come quelle di Kluft (1987, 1995) e di Van der Kolk (1987; et al., 1991). L’insieme di questi dati induceva quindi l’Advisory Committee del Dagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders (DSM) dell'American Psychiatric Association a rivedere la classificazione delle precedenti edizioni e a prendere in esame la possibilità, che adesso è in via di realizzazione, di stornare il disturbo post-traumatico da stress dalla sezione dei disturbi d’ansia per farne una categoria a sé in considerazione appunto della crescente evidenza che questi disturbi dipendono più da fattori soggettivi che dalla gravità assoluta dello stress. 

Sia la maggiore attenzione alla vulnerabilità specifica e al patrimonio esperienziale del soggetto vittima dello stress, sia l’estensione del disturbo all’età infantile - un’estensione che ha certamente tenuto conto delle nuove conoscenze che si sono ottenute sulle capacità che ha il bambino sin dai primi giorni di vita di stoccaggio mnemonico e di regolazione di risposta allo stress - tutto questo tende a mostrare una maggiore sensibilità della psichiatria odierna, pur così biomedica e antimentalista, verso i principi da sempre sostenuti dalla psichiatria dinamica. Inoltre, l’introduzione come nuova categoria del disturbo da stress acuto, per essere stata inserita in una zona di confine tra i disturbi dell’ansia e quelli dissociativi, ha sensibilmente smussato i picchetti divisori che prima delimitavano le aree occupate rispettivamente dai disturbi dell’ansia, da quelli somatoformi e da quelli dissociativi. Infatti nella sintomatologia allegata a questa entità figurano, oltre al corredo ansioso, anche l’alessitimia, da sempre considerata compagna inseparabile delle psicosomatosi e dei disturbi di conversione, e la triade patognomonica del disturbo dissociativo, vale a dire l’amnesia traumatica, il distacco emotivo dall’evento e la derealizzazione/depersonalizzazione. 

Un discorso a parte merita poi il disturbo di personalità multipla, che il DSM-IV ha ribattezzato come "disturbo dissociativo dell’identità" proprio per allontanare l’idea di soggetti con una personalità in cui possono presentarsi stati di coscienza organizzati attorno a nuclei affettivi dotati di repertori mnesici e comportamentali limitati e circoscritti ai rispettivi sensi del Sé. Questo disturbo è sempre stato guardato dagli studiosi con forte sospetto tanto da averlo ironicamente paragonato alla Cometa di Halley per la sua periodica ed effimera comparsa alla fine di ogni secolo. Questo scetticismo è però fuori luogo, sia per la comprovata e frequente esistenza del disturbo dissociativo dell’identità, sia perché, contrariamente alle divulgazioni offerte dal cinema e dalla televisione, le sue manifestazioni cliniche sono tutt’altro che clamorose, tendendo anzi a restare piuttosto criptiche date le forti compromissioni mnesiche e la riluttanza con cui i pazienti - per meglio dire, le pazienti, visto che per il 90% si tratta di donne - parlano delle loro trance spontanee e delle lacune di cui soffrono. Semmai, gli aspetti suscettibili di generare clamore sono legati alla componente emotiva che si viene a sviluppare nel corso del lungo trattamento e che può sfociare poi in quegli agiti controtransferali o in quei coinvolgimenti legali a cui si è già fatto cenno prima. 

Certo, casi come questi rievocano inevitabilmente quelli che hanno contrassegnato gli albori della psicoanalisi e inducono a riflettere sulla controversia che oppose Freud, partigiano della teoria della difesa e della rimozione, a Breuer che ipotizzava invece, accanto a quello della scissione trasversale tra conscio e inconscio, anche il meccanismo proposto da Janet di dissociazione verticale tra stati coscienti e inconsci, paralleli, dove la "conditione seconde" poteva sopprimere la coscienza primaria durante gli stati di debolezza mentale "ipnoide". Com’è noto, Freud sosteneva la sua teoria basandosi principalmente su due ordini di osservazione: il primo consisteva nella netta distinzione che i pazienti mostravano tra gli stati di coscienza vigile e quelli di trance indotta dalla ipnosi, che lui assimilava poi a quelli dello stato onirico. Il secondo ordine di osservazione, connesso con il primo, era rappresentato dalla continuità presente tra i due diversi stati e dalla loro incomunicabilità. Quando si trovavano in stato di veglia i pazienti ricordavano perfettamente quello che era accaduto nello stato vigile precedente, mentre erano completamente dimentichi dello stato ipnotico. Viceversa, quando erano di nuovo in trance, si riconnettevano facilmente con lo stato ipnotico precedente ma restando del tutto estranei a quanto si era svolto durante la veglia. Da queste constatazioni Freud deduceva che tra conscio e inconscio esistesse un netto divario e per questo pensava a una barriera che aveva lo scopo di salvaguardare la coscienza dai contenuti inconsci, da lui definiti regressivi in quanto, essendo da lui assimilati al pensiero onirico, esprimevano un funzionamento mentale più primitivo. Breuer invece riteneva che occorresse chiamare in causa anche il fenomeno della autoipnosi: secondo lui, era questa a creare un’area ipnoide dalla quale riaffluivano le idee emarginate ed era in questa area che si impiantava la condizione seconde, così palese in Anna O. Breuer pensava che l’esperienza traumatica fosse tenuta in vita non tanto da un suo stazionamento nell’inconscio dovuto all’inammissibilità alla coscienza, quanto piuttosto da uno stato di autoipnosi che, obnubilando i poteri percettivi, impediva un pieno rapporto con la realtà, togliendo quindi al soggetto il mezzo più efficace per contrastare le idee responsabili della conversione. 

Nonostante che tutti i casi degli Studien avessero precedenti traumatici - quelli fisici di Frau Emmy, quelli sessuali di Katharina, i maltrattamenti infantili di Rosalie e i lutti improvvisi di Elisabeth - Freud ripeteva di aver visto sempre e solo delle neurosi da difesa. In altre parole non credeva all’esistenza di un’isteria autoipnotica perché era convinto, a torto, che la seduzione infantile di per sé non fosse traumatica - che poteva essere semmai accompagnata da sentimenti piacevoli - e che il suo potere patogeno fosse legato al sovrapporsi dei desideri sessuali puberali al ricordo dell’esperienza infantile: era allora che, per i sentimenti di colpa e di vergogna che si venivano a suscitare, si metteva in moto il meccanismo della rimozione. In seguito, con la scoperta della sessualità infantile e la conseguente priorità assegnata alle fantasie sugli eventi reali (che non vennero mai smentiti, com’è comprovato dalla nota presente nell’Autobiografia [Freud, 1924]) la rimozione non fu da lui più concepita come meccanismo presente soltanto nelle condizioni patologiche ma come un agente difensivo normale, avente lo scopo di proteggere la coscienza e i suoi standard morali dall’irruzione dei desideri inconsci. Chiamare in causa la rimozione come meccanismo generale connesso ai desideri edipici gli consentiva anche di dar risposta a un quesito che in lui si era sollevato sin dall’epoca in cui studiava le afasie, quando cioè si chiedeva come mai l’essere umano, che già a due-tre anni mostra di possedere notevoli capacità mnemoniche a lungo termine e di potervi costruire delle narrazioni coerenti, diventa in seguito del tutto amnestico nelle età successive. La rimozione poteva essere la risposta, un’idea che gli veniva confermata dal recupero di una parte di quei ricordi perduti attraverso l’analisi delle immagini oniriche, delle allusioni a esperienze precoci affioranti con le libere associazioni, o con atti sintomatici tanto banali quanto significativi. Il paragone con gli scavi archeologici nasceva da queste considerazioni. 

La convinzione di avere scoperto una Stele di Rosetta che permetteva di tradurre i vari linguaggi umani - quello somatico, quello iconico e quello verbale - favorì l’accantonamento, da parte dei suoi seguaci, della teoria della dissociazione di Janet e di Breuer e l’assurgere della rimozione a protagonista assoluta delle difese e come unico meccanismo responsabile dell’oblio. Questi due effetti vennero poi consolidati dall’opera di Eugen Bleuler - l’unico psichiatra autorevole del tempo ad aver preso in seria considerazione la teoria psicoanalitica. Col conglobare in una sola entità nosografica, la schizofrenia, una vasta serie di psicopatologie gravi, comprese quelle dell’isteria accompagnata da fenomeni dissociativi, Bleuler diffuse nella psichiatria continentale, tranne quella francese, la convinzione che quei fenomeni fossero di pertinenza della grande psichiatria, come si diceva allora, e che non dovessero perciò interessare tutti coloro che, come gli psicoanalisti, si dedicavano all’osservazione delle neurosi e dei disturbi della piccola psichiatria. 

Nei decenni successivi, l’importanza della rimozione cominciò a diminuire, sia per il declino subìto dal modello pulsionale-strutturale, sia per il maggior ruolo conferito ad altre difese, come la scissione [splitting], il diniego e l’identificazione proiettiva, due motivi d’altronde complementari tra loro, dato che queste altre difese risultavano più congeniali alle teorie relazionali che stavano soppiantando quella su cui si era fondato il tessuto esplivativo freudiano. A livello clinico questo spostamento d’interessi si tradusse in una maggiore enfasi sul preedipico piuttosto che sull’edipico e a un’osservazione più sistematica dei disordini narcisistici e borderline piuttosto che alle nevrosi e alle caratteropatie più modeste. 

Queste modificazioni riflettevano anche la crescente insoddisfazione verso una teoria della patogenesi fondata su fissazioni e regressioni a fasi di sviluppo normali. Difatti, per il punto di vista adattativo, nasceva il sospetto che in ambienti che non rientrassero in quello "mediamente attendibile" le prime fasi di sviluppo non fossero del tutto normali. Lo stesso concetto di trauma tendeva perciò a cambiare fisionomia. E’ abbastanza evidente che se si vuole assegnare un preciso ruolo patogeno per lo sviluppo mentale al trauma infantile - in qualsiasi forma si presenti, in forma unica e violenta o in quella di microtraumi ripetuti - allora occorre avere un’idea altrettanto precisa sui gradienti evolutivi, e su quanto e su come si sia in grado di ricordare di tale trauma e in che forma, nelle età successive. 

Sulle modalità del ricordo traumatico sono state di grande importanza le osservazioni condotte negli anni ‘70 da Selma Fraiberg (1982; et al., 1975) sui "fantasmi nella nursery" e sulle difese che già dal primo anno di vita il bambino attiva per far fronte alle esperienze connesse al fallimento del ruolo protettivo di chi se ne prende cura. Soprattutto rilevante è stata la corrispondenza che queste osservazioni hanno assunto con quelle effettuate nel decennio successivo dai teorici dell’attaccamento, sia per le connessioni con i modelli operativi multipli, sia per le conferme empiriche, specie quelle concernenti l’attaccamento disorientato-disorganizzato. Per quanto riguarda invece i gradienti evolutivi, e più in generale le capacità mnemoniche del bambino piccolo a confronto dell’adulto, le migliori opportunità ci sono venute dagli studi cognitivi e neurobiologici, che ci hanno consentito una maggiore conoscenza sul funzionamento della memoria e sulle risposte che si vengono a produrre in condizioni di stress. Non potendo qui dilungarmi troppo sull’argomento, mi limiterò a ricordare che la Fraiberg aveva documentato l’inopinata comparsa di comportamenti genitoriali generativi di disadattamento e relativi a specifici settori di esperienza, come l’alimentazione, il sonno, o l’educazione sfinterica, che riproducevano modelli della loro infanzia. Lei interpretava tali comportamenti come espressione dei vissuti precoci che venivano ricordati soltanto a livello di memoria procedurale, o memoria implicita, e non integrati invece con altri settori di esperienza che quindi si venivano a riattivare in presenza del contesto situazionale d’accudimento e che finivano col determinare la trasmissione transgenerazionale degli schemi comportamentali relativi a quei ricordi. 

La possibilità di accordare queste osservazioni con la teoria dell’attaccamento è apparsa più chiara quando questa ha spostato la sua attenzione dal comportamento alle rappresentazioni mentali che lo accompagnavano, quando cioè ci si accorse che il modo in cui reagiva il bambino alla Strange Situation rappresentava una sua strategia che per di più poteva cambiare a seconda del personaggio - la madre o il padre - da cui veniva separato, o con cui era riunito in questa condizione sperimentale. La scoperta che il comportamento del bambino rifletteva la relazione da lui stabilita col singolo genitore e non invece un suo modo individuale di rispondere agli eventi, indusse i ricercatori del gruppo di Berkeley, guidato da Mary Main, a esaminare anche i genitori e a escogitare per loro un’intervista semistrutturata, l’Adult Attachment Interview (AAI), che evidenziasse i modelli d’attaccamento che essi, senza esserne consapevoli, adottavano nel porsi in relazione col bambino. In questo modo si potevano sottoporre a indagine sistematica gli eventuali "fantasmi della nursery" presenti nei genitori e anche verificare l’ipotesi avanzata da John Bowlby sui modelli multipli d’attaccamento che potevano svilupparsi nel bambino a seguito della sua relazione coi genitori. Lo psicoanalista londinese aveva infatti proposto che se i comportamenti di chi si prende cura del bambino sono molto contraddittori e, soprattutto, se sono tali da impedirgli di raccogliere informazioni sufficienti a fargli correggere e integrare opposte esperienze, allora il bambino non avrà alcuna possibilità di conciliarle e farà restare attivi dei modelli multipli, competitivi tra loro. Se, ad esempio, egli assiste ripetutamente a scene di un padre che rientra la sera ubriaco e che picchia la madre - scene che vengono raccolte dalla memoria implicita, episodica - ma, altrettanto ripetutamente, ascolta una madre che non fa che parlargli di un padre che la sera è stanco perché lavora tutto il giorno per il bene della famiglia - ciò che fa capo alla memoria esplicita, semantica - allora nel bambino saranno operativi due modelli, dei quali prevarrà, perché più funzionale alla sopravvivenza, quello semantico, mentre l’altro resterà silente fin tanto che non si presenteranno delle scene categorizzabili come simili a quelle della memoria episodica. In circostanze del genere le memorie disattivate guadagneranno il controllo della coscienza e potranno avviare un comportamento analogo a quello della dissociazione e della "conditione seconde" di cui parlavano Janet e Breuer. 

Un’altra significativa corrispondenza tra le osservazioni della Fraiberg e quelle condotte nell’ambito della teoria dell’attaccamento è quella rappresentata dalla stretta somiglianza esistente tra le difese precoci descritte dalla psicoanalista di San Francisco - l’evitamento, il restare agghiacciati (freezing) - e quello che è evidenziabile in un piccolo gruppo di bambini che alla Strange Situation sono definibili come "disorganizzati" in quanto si mostrano privi di una coerente strategia di fronte alle situazioni di separazione e riunione dalla figura d’attaccamento. Il crollo della strategia comportamentale è in questi casi da attribuirsi all’impossibilità di conciliare la ricerca di protezione da quella figura, con la paura che essa nello stesso tempo pure evoca. La paura evocata è a sua volta spiegabile in base ai comportamenti oggettivamente minacciosi o incoerenti, di cui la madre non si accorge, o a situazioni di lutto non risolto che in lei sono evidenziabili con l’Adult Attachment Interview

Ciò che è rilevante per il nostro tema è la frequente constatazione con cui, in queste situazioni per lui impossibili a essere affrontate, il bambino cade in stati di trance e di autoipnosi. Ancora più rilevante è la considerazione che questi bambini, così facilmente esposti a situazioni traumatiche, sono candidati a futuri disturbi dissociativi - una considerazione che sembra confermata dall’elevata frequenza con cui le persone affette da disturbi dissociativi, presentano nella loro anamnesi madri con problemi di lutto irrisolto o con comportamenti d’accudimento molto contraddittori. Le madri dei bambini disorganizzati, sottoposte all’intervista menzionata, evidenziano alla Strange Situation di solito vistose lacune, lapsus di ragionamento o di discorso, non appena vengono invitate a parlare delle loro esperienze infantili e a formulare giudizi sul rapporto che hanno o hanno avuto coi loro genitori - lapsus e difetti che risultano invece assenti al di fuori di tali argomenti e che perciò suggeriscono l’esistenza di mancate integrazioni d’esperienza, a loro volta comunicabili al bambino, come suggeriva appunto la Fraiberg. Secondo l’ipotesi che viene avanzata da queste osservazioni, i lapsus che si rilevano sono l’espressione della irruzione di memorie implicite dissociate che tornano a presentarsi in concomitanza del presentarsi dell’argomento proposto dall’intervista. 

Passando adesso, sia pure per citarli solo sommariamente, ai recenti contributi che la neurobiologia ha fornito nel consentirci di capire meglio i processi che governano la recezione, l’apprendimento e lo stoccaggio mnemonico delle situazioni di pericolo, ricorderò i lavori di Le Doux (1996) e di Perry (1999) sulle vie che regolano il processamento fisiologico di queste situazioni. In base a queste ricerche siamo in grado di farci un’idea più precisa sul perché, ad esempio, una reazione di fuga si verifichi ancor prima che si sia avuta una percezione precisa della natura del pericolo dal quale si fugge. Ciò lo si deve al fatto che le vie che passano per la corteccia, che sono quelle preposte al "fine tuning" e al riconoscimento cognitivo del pericolo. Esiste cioè una tendenziale separazione tra l’apprezzamento emotivo e quello cognitivo, una separazione che nel bambino piccolo è anche più marcata. Difatti la sicurezza del bambino non è tanto garantita dalla pianificazione della risposta più adeguata alla natura del pericolo - la fuga, la minaccia, la lotta - quando piuttosto dal raggiungere al più presto la sua "base sicura". In lui pertanto risulta assai minore l’attivazione dei processi di ipervigilanza che invece si verifica nell’adulto, compresa l’attivazione della catena ortosimpatica e la focalizzazione attenzionale sulla fonte del pericolo. Se però, perché assente, o indisponibile in quanto a sua volta in preda a paura, la figura d’attaccamento non può garantire la sicurezza, allora si attiva un’altra catena di reazioni, che comprende il parasimpatico e il reclutamento delle endorfine, che allontanano il pericolo attraverso un ottundimento della risposta e una preparazione alla resa. L’esito è l’immobilizzazione - il terrore - che può giungere allo svenimento, per la contemporanea azione adrenergica e colinergica, distacco dall’evento, restringimento di coscienza e difetto d’appartenenza al Sé dell’esperienza in corso, vale a dire la serie dei fenomeni di tipo dissociativo. 

La migliore conoscenza neurobiologica di queste risposte ci consente di dare un senso a certi errori di valutazione che di esse usualmente dà il senso comune. Così è per quelli commessi dai genitori che, alla scarsa reazione manifestata dal bambino a un violento spettacolo a cui ha assistito, ritengono, tranquillizzandosi, che "fortunatamente non si è accorto di niente" - salvo poi a dover costatare i suoi frequenti risvegli durante le notti successive. Ad analoghe considerazioni si prestano i superficiali giudizi spesso pronunciati sul conto delle vittime di un’aggressione sessuale che vi hanno reagito con la sequenza dissociativa descritta, dove quella che una volta era chiamata la "bella indifferenza" viene erroneamente, e colpevolmente, scambiata come segno di parziale consenso. 

Gli esempi menzionati possono dare un’idea dell’ampliamento di prospettive che si apre una volta che vengono a integrarsi le conoscenze che affluiscono da queste diverse aree di ricerca. La maggiore attenzione rivolta alle sequele traumatiche, munita di queste conoscenze, ci potrà inoltre aiutare, in un futuro lontano, a spiegare come mai vi sia tanta somiglianza tra i quadri psicopatologici presentati da chi ha precedenti traumatici accertati - comportamenti impulsivi, tendenze suicidarie, relazioni interpersonali intense quanto instabili, sentimenti di vuoto - e quelli di molti disturbi di personalità classificabili nell’asse II del DSM nei quali precedenti risultano certamente assenti. Questa somiglianza, che è poi alla base della problematica della "sindrome da falso ricordo", potrà apparire meno misteriosa una volta che vengono ampliati i criteri di valutazione del trauma psichico, comprendendovi i ripetuti microtraumi della prima infanzia su cui si è soffermata la mia esposizione odierna. 

Poiché tale esposizione si è abbastanza prolungata, nel timore che, trattando di abusi, essa finisca col realizzare un abuso sul paziente ascolto dell’uditorio, è opportuno da parte mia chiedere ormai licenza e ringraziare della cortese attenzione. 


DIBATTITO
Sergio Bordi: L’effetto curativo connesso al recupero dei propri ricordi e a un sufficiente dominio della propria traiettoria esistenziale è uno degli aspetti principali di tutte le psicoterapie che si ispirano al pensiero psicoanalitico. Tuttavia sulla natura di questa connessione rimangono molti punti oscuri. Freud la stabilì sulla base della einsicht: le determinanti biologiche dell’essere umano sono ineludibili e inevitabile il conflitto con le limitazioni imposte dalla realtà naturale e sociale. Dall’analisi di questo conflitto, al cui centro vi è quello edipico, scaturisce il riconoscimento che un pieno senso di libertà e di autorità su se stessi può essere assicurato soltanto dalla conquista di tale consapevolezza, una conquista che implica l’accettazione delle norme sociali e la rinuncia al desiderio. Questo sfondo illuministico e stoico presente nel trattamento analitico appartiene ormai al passato, sia perché la normatività si è dissolta nelle credenze condivise, sia perché gli stessi psicoanalisti, dopo aver abbracciato le teorie relazionali, non credono più a una natura recalcitrante rispetto alle inclinazioni umane, ma ritengono che vi sia invece una predisposizione all’incontro dell’uomo con la natura. Da questo punto di vista il loro credo è diventato, come dice Carlo Strenger (1992), meno illuminista e più romantico, più spostato verso l’autenticità e lo "spontaneous gesture" di Winnicott. Perciò, mentre è rimasta immutata la concezione classica del trattamento come riattualizzazione del dramma personale, è cambiata l’opinione che il recupero dei ricordi e l’efficacia terapeutica che ne consegue possano ottenersi con la sola attività interpretativa rivolta a rendere conscio l’inconscio, ma che occorra qualcosa di più. Le teorie relazionali, spostando il centro dell’attenzione dall’edipico al preedipico e rimarcando l’analogia tra il prendersi cura del terapeuta e l’accudimento dei genitori, hanno indicato questo qualcosa con vari termini: empatia, sintonia affettiva, e altri ancora. Nel corso della mia esposizione ho suggerito che, affinché questi termini raggiungano una più chiara connotazione, sia necessaria una maggiore conoscenza delle rappresentazioni mentali che governano i rapporti coi nostri simili e che, per raggiungere tale obiettivo, sia quanto mai opportuno che il nostro studio si avvalga anche di quello condotto nell’area della ricerca infantile e della psicologia cognitiva - almeno di quel settore di essa che comprende nella propria indagine anche il contributo della teoria dell’attaccamento e dello studio della metacognizione.
Cade perciò a proposito la citazione che il dottor Panero ha fatto del lavoro di Peter Fonagy (et al., 1991) [vedi anche, in questa area, l'articolo di Fonagy (1996) "Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologi nei disturbi di personalità"], che, tra gli analisti, è stato tra i primi ad afferrare l’importanza degli studi intrapresi da Leslie e Astington sul come si sviluppa la teoria della mente nel bambino, di come egli scopra la propria mente e si impadronisca delle regole che governano il pensiero del senso comune. Sembra un’ovvietà, eppure stenta molto a farsi strada l’idea che, proprio perché la mente è irriducibilmente privata, essa può sfuggire al solipsismo solo se si connette alle altre menti, il che può essere ottenuto solo a patto di avere una buona conoscenza del senso comune. Le indagini a cui si è richiamato il dottor Panero sono appunto rivolte a risolvere un antico problema filosofico, quello delle altre menti. Queste indagini tendono a dimostrare che, contrariamente a ciò che più comunemente si crede, l’esperienza degli stati mentali non nasce per virtù maturative intrinseche, né è il risultato di una simulazione delle altre menti; essa rappresenta invece un conseguimento che si sviluppa secondo tappe riconoscibili e che si raggiunge soltanto con la presenza di una sufficiente interazione con adulti sufficientemente amorevoli, che trattino il bambino come una persona sin da un’epoca in cui persona ancora non è, e che siano dotati di una buona capacità metacognitiva - quella che ci rende capaci di allontanare gli indesiderati fantasmi della nursery. Le osservazioni condotte secondo questa impostazione hanno verificato empiricamente quanto affermava Winnicott sul bambino che crea, sì, il suo mondo, con un mondo che però è già lì, pronto ad essere creato. Il bambino che tende le mani per essere preso in braccio, avendo, insieme al gesto, la rappresentazione anticipatoria di ciò che farà la madre, si costituisce come agente dell’evento il quale a sua volta inverandosi, lo fa sentire creatore di quanto è accaduto. Tuttavia la madre non si limita ad assecondare, non è soltanto "empatica": come gli esempi portati da Jerome Bruner (1991) dimostrano, lei alza a sua volta la posta, vuole un premio per se stessa, cercando ad esempio di ottenere dal bambino una qualche sua prestazione in più, come il fargli commentare, dalla nuova visuale consentitagli dallo stare in braccio a lei, quel nuovo oggetto appena comprato. Bisogna essere animati da uno scetticismo scientifico estremamente rigoroso per non credere, da esempi del genere, che nel bambino non si crei la convinzione di vivere in un mondo condiviso al quale lui può dare un senso, il senso, appunto, dello "stare al mondo". Se si suppone, secondo le varie ricerche citate nella mia esposizione, che chi si prende cura del bambino conservi una memoria implicita del corso attraversato da questi conseguimenti, questo intendersi reciproco può considerarsi già delineato programmaticamente. Quando, ad esempio, sugli 8-9 mesi il bambino conquista l’emancipazione dell’indice e comincia perciò a indicare i vari oggetti della stanza, la madre intuisce che non è molto sensato ripetere il gesto tante volte effettuato, di portarglieli alla portata della sua mano perché ci possa giocare, ma che è invece più opportuno intrattenere una conversazione su di essi. Lo stesso accade quando fa il suo esordio lo "sguardo deittico", quando cioè il bambino comincia a spiare dove si dirige lo sguardo della madre (la "deissi" è il tropo che designa come "questa" la bottiglia dell’acqua che ho davanti a me, che però diventa "quella" bottiglia per voi che ne siete lontani, sta cioè a indicare il punto di vista del soggetto). La madre se ne accorge e subito si mette a commentare qualcosa sull’oggetto che stava guardando, intuendo, sulla base dei propri modelli, che sta cominciando l’era del rapporto a tre, precursore di ciò che accadrà sui 20 mesi, quando il bambino darà inizio alla differenziazione tra l’Io e il me, tra il Sé agentivo e il Sé oggettivato. Da qui si sviluppano poi le varie tappe della teoria della mente citate dal dottor Panero. Per non dilungarmi troppo sull’argomento, mi soffermerò soltanto sul significativo passaggio che si verifica attorno ai 4 anni, quando si comincia ad essere consapevoli del punto di vista dell’altro. Se, ad esempio, si mostra al bambino di tre anni la bambola di Sally che ripone un cioccolatino in una scatola gialla e poi se ne va, dopo di che arriva Mary che prende quel cioccolatino e lo ripone nella scatola verde e poi se ne va pure lei, e, quando infine rientra Sally, si chiede al bambino dove, secondo lui, Sally cercherà il suo cioccolatino, lui risponderà "nella scatola verde", dimostrando così di non rendersi conto che Sally non può sapere dello spostamento, che non possiede l’informazione del dato percettivo che ne ha il bambino. A 5 anni invece la risposta al test è corretta nella grande maggioranza dei casi e ciò dimostra che a quest’età il bambino è diventato consapevole che le persone non agiscono secondo il dato immediato dell’evento, ma secondo la rappresentazione mentale che ne hanno, che, in altre parole, ci si può sbagliare, che perciò anche lui è soggetto all’errore - un errore che può essere corretto da un esame comparativo, riflessivo, tra i vari punti di vista. E’ da questo tipo di situazioni che studiosi come Fonagy sono indotti a concludere che è la riflessione sui vari punti di vista, impliciti e inconsci, ed espliciti e coscienti, ad esercitare un ruolo di primo piano nel conseguimento del traguardo terapeutico. Dunque non tanto il recupero del ricordo di per sé avrebbe importanza, quanto piuttosto la nuova possibilità, che la relazione analitica conferisce, di integrare l’area dell’esperienza relativa a quel ricordo con le altre aree che vi erano unite dallo stesso connotato esperienziale e di poterle così riunire in un senso comune. Le cose sono più complicate quando durante lo sviluppo non tutto è andato per il verso giusto e il conseguimento del senso comune si presenta difettoso. Dove cioè lo stare al mondo non è qualcosa di naturale e in cui capire quello che c’è dietro i gesti e le intenzioni, di se stessi e degli altri, è sempre arduo e spesso fallimentare. Dove perciò l’esistenza di uno sconosciuto che ci fa sempre perdere le chiavi, che ci fa spesso commettere lapsus madornali, che ci fa sentire perennemente inadeguati e eternamente incompresi, è immanente e tormentante. In tutti questi casi riuscire a portare il dialogo analitico sul terreno del senso comune dovrebbe costituire il primo risultato da ottenere, la base per una mitigazione delle infelicità e di un riscatto dalla miseria che il paziente avverte dentro di sé. 
Paolo Roccato: Ringrazio per questa ulteriore bellissima giornata e ringrazio il Prof. Bordi di essere qui a dirci il suo pensiero, che è sempre molto prezioso. Vorrei fare una domanda e proporre un’idea. La domanda è questa: che fine fa tutta la teorizzazione dei due tempi del traumatismo? C’è tutta una analisi francese… (...). Ora pensare che gli psicanalisti francesi siano tutti brillanti mi pare un po’ eccessivo! A parte questa battuta, talvolta nella clinica si ritrova un qualche cosa che fa pensare alle due fasi: c’è stato un evento transitato quasi in modo inapparente che poi dopo a un certo punto diviene traumatico. Ipotesi: è possibile che sia un errore nella valutazione del terapeuta, dell’osservatore che confonde il divenire traumatico con il presentarsi come traumatico? Si capisce che è traumatico quando c’è un’esigenza che compare sotto, come limite tra le cose che sono difficilmente o impossibili da reintegrare? La cosa che volevo dire è questa: in quei pazienti che sono reduci da massicce relazionalità traumatiche primarie (madre depressa, genitori psicotici o situazioni massicciamente e continuativamente traumatiche) credo che giochi moltissimo, nei trattamenti, una ideologia del terapeuta sulla quale si dice molto ma non in modo così esplicito: l’analista o il terapeuta spesso hanno una ideologia del Sé come di un qualcosa di unitario, sanno che è un Sé puro e si propone in relazione con il paziente con questo sottaciuto obiettivo di far sì che questo paziente arrivi ad essere lui, proprio lui, una "cosa sola". Con questi pazienti, questa è una ricetta per fare un’analisi interminabile: è un buon investimento economico per il terapeuta, un po’ meno per il paziente e alla lunga anche per il terapeuta perché è terribilmente frustrante. Io credo che se assumiamo un altro differente atteggiamento - cioè se consideriamo ovvio e normale (...) che ci sono tanti aspetti in ognuno di noi che sono e resteranno sempre distinti e che il problema non è di unificare ma di integrare - il compito del terapeuta diventa molto più facile, molto più accessibile al paziente, (...) l’analista si sente anche meno frustrato e le cose funzionano meglio.
Ultima cosa, volevo chiedere precisazioni su quei due autori che citava e che hanno studiato i processi cognitivi degli aspetti emotivi e gli aspetti propriamente metacognitivi; obiettivamente, non li conosco (…).

Laura Andreoli: Mi riallaccio un po’ all’ultima domanda: senza andare alla psicoanalisi francese e rimanendo sul terreno freudiano, credo che questa nuova contestualizzazione della memoria ha un po’ svelato ancora di più il potenziale intuitivamente anticipato da Freud su questo punto. Allora (…), staccandoci proprio dai quadri appunto della dissociazione, cioè dai quadri patologici cui lei accennava, io sono interessata a vedere come le teorie dell'attaccamento e le teorie della dissociazione, anche con il paziente "usuale", si modificano. Per esempio, il recupero del ricordo nella cornice, ormai di comune consenso oggi, della padronanza del proprio processo di Sé aggressivo. Ecco, io sono più interessata a questo: a vedere come lei lo spiega (…), perché lei, Prof. Bordi, dà per implicito che noi sappiamo tutte le cose che lei sa, ma per esempio lei aveva scritto da qualche parte un’accurata distinzione dei sistemi mnestici. Io ero rimasta proprio colpita dal fatto che, almeno dai sei mesi di vita, avviene da un punto di vista neurologico qualche cosa che ci permette di capire perché a quell’età il bambino ha capacità creative (…). Lei ha detto: "Se l’ambiente lo consente". Questo mi interesserebbe.

Ciro Elia: A proposito di richieste, ne ho da fare una molto concreta a Bordi, alla quale avevo già pensato prima, ma poi durante l’intervallo molti mi hanno chiesto la possibilità di vedere la relazione, la tua relazione, che è stata come tuo solito estremamente intensa, estremamente ricca, quindi credo che faccia piacere a tutti rileggerla; se tu ce la potrai dare, così noi la possiamo pubblicare su Setting [poi pubblicata: 1999, 7: 8-25]: te ne saremmo molto grati. Detto questo, volevo far seguito a quello che ha detto Andreoli - e volevo introdurre magari io questo argomento che tu, per ovvia mancanza di tempo, non hai potuto svolgere - e dire che mi pare che i due punti fondamentali della tua relazione siano stati un grosso affresco storico, dal punto di vista interno della psicoanalisi (rimozione, dissociazione, Freud, Janet e Breuer), rispetto a quanto è avvenuto nella società in relazione ai fatti traumatici; e infine poi il rapporto, che mi ha molto interessato, tra trauma, risposta emotiva e le vie neurofisiologiche attraverso le quali avvengono questi processi. Ecco, detto questo volevo chiederti e tentare io di proporre una precisazione rispetto ai concetti delle difese costituite da rimozione [repression], dissociazione [dissociation] e scissione [splitting] [a queste si può aggiungere la repressione (suppression), che si riferisce a uno sforzo volontario di tener lontano dalla cosapevolezza un contenuto spiacevole]. Effettivamente sono concetti sui quali credo che tutti noi abbiamo delle grosse confusioni, anche perché queste confusioni ci sono nella storia della psicoanalisi e della psichiatria. Mi interesserebbe soprattutto precisare la differenza fra dissociazione e scissione (la scissione come è stata concettualizzata da Kernberg e come l’ha ricordata prima Panero), in quanto si tratta - a mio parere - di due meccanismi di difesa molto diversi. Qui mi vengono in mente Gabbard ed alcuni altri autori (...) che hanno messo l’accento sul fatto che nella dissociazione - su questo volevo sentire il tuo parere - per esempio nel disturbo di personalità multipla la separazione avviene anche a livello della coscienza e non c’è ricordo tra l’emergere di una organizzazione della personalità rispetto all’altra, mentre nella scissione (come descritta da Kernberg) non ci sarebbe questa frattura nella coscienza.

Sergio Bordi: Dai vostri interventi viene intanto confermato che tutti ormai concordiamo sul fatto che le teorie del terapeuta - quelle che gli derivano dall’esperienza personale, analitica e non, e quelle che raccoglie dai libri - esercitano una potente influenza sull’andamento della cura. Lo stesso si può dire per lo zelo terapeutico, verso il quale ognuno di noi nutre la diffidenza che Freud per primo ci invitava ad avere. Tuttavia sappiamo pure che con le stesse parole si possono intendere le cose più diverse, e che quello zelo può vestirsi nelle fogge più disparate, ad esempio per compensare un prestigio in declino. Sul problema del sapere psicoanalitico e sull’autorità che ne deriva, Stephen Mitchell ha dedicato più di uno scritto, con delle considerazioni che ritengo utile commentare qui con voi. Poiché sappiamo che è impossibile operare precise demarcazioni tra il dato osservativo e l’interpretazione che ne dà l’osservatore, e che, come stavo dicendo, le teorie influenzano il dato, allora siamo anche consapevoli di non poterci più presentare con l’autorità dell’esperto che "conosce le risposte", grazie a un sapere oggettivo e in virtù della conoscenza che ha del linguaggio dell’inconscio. Le profonde trasformazioni che la sensibilità postmoderna ha comportato sul modo di concepire il rapporto col paziente, l’enfasi che si dà alla polisemia e all’ambiguità dei messaggi, al "superficiale che è altrettanto profondo del profondo", e alla primarietà de "l’analista come persona", hanno certamente reso tale rapporto più paritario ma hanno con ciò stesso ridotto di molto il prestigio conferito all’analista nel passato - per non parlare dell’influenza negativa del mercato con la presenza di tante psicoterapie. Infine, rimarcare l’importanza dell’analisi del controtransfert e dello "stare nell’incertezza", alimentano ulteriormente il timore di non poter fare assegnamento su qualche forma di autorità. Ricorrere al gruppo d’appartenenza, alla scuola, è di aiuto per i primi tempi, quando il bisogno di rafforzare la fiducia nel proprio metodo è più sentita, ma in seguito anche questo ricorso non ha più l’originario significato di acquisizione di sapere, semmai quello di rifocillamento, connesso al confronto con l’attività dei propri compagni. Difatti, come ci ha più volte ricordato Arnold Modell (1984 ecc.), l’illusorietà della situazione analitica contiene in sé il pericolo di esserne assorbiti, di cadere cioè in una condizione non molto diversa da quella di certi pazienti che non possono più fare a meno della psicoanalisi. Il richiamo della propria comunità professionale costituisce allora una salvaguardia preziosa, analoga al richiamo della realtà quando ci si lascia troppo prendere dalla fiction. Forse il nome di Modell mi è venuto in mente a seguito degli accenni all’après coup e alla teoria della memoria di Gerald Edelmann (1989, 1992) fatti nei vari interventi. Modell è infatti l’analista che ha dato maggior rilievo alla relazione tra la nachtraglichkeit di Freud (1914, p. 575), l’après coup, e il darwinismo neurale di Edelmann. E’ ovvio che tale relazione occupa solo una parte della concezione della memoria che aveva Freud. Freud che proponeva il riarrangiamento continuo dei ricordi e che parlava dei ricordi schermo è un anticipatore di almeno 40 anni, rispetto a Bartlett, di una memoria caratterizzata dalla costruttività, ma per il resto, che è il più, era ancora legato alla concezione del tempo, ed era tale concezione che gli faceva ritenere di poter recuperare qualsiasi ricordo, non importa di quale età. Questa convinzione si è dimostrata insostenibile, sia perché la memoria è in realtà un insieme di sistemi diversificati tra loro, sia perché tali sistemi sono scaglionati ontogeneticamente in tempi diversi, sì che il sopraggiungerne di uno nuovo implica un riassestamento di quelli già funzionanti. Nella mia esposizione non c’era spazio per soffermarsi sulle più recenti e copiose acquisizioni in questo campo, e ciò che è stato accennato sulla memoria procedurale ed episodica è stato francamente insufficiente. Anche parlando della teoria della mente è stata omessa la relazione probabilmente esistente tra lo sviluppo di questa capacità e la maturazione dell’ippocampo che avviene attorno ai tre anni e che, essendo un’area deputata alla memoria di lavoro, cioè alla coordinazione tra il contesto percettivo immediato e il patrimonio esperienziale, determina certamente delle modifiche sulla valutazione delle differenze esistenti tra l’input in arrivo e la rappresentazione che se ne ha. Per il tema di stamattina l’ippocampo presenta poi un altro aspetto rilevante, quello del danno che esso subisce in condizioni di stress prolungato. Come ho già detto, di fronte a una situazione minacciosa viene attivato il sistema di difesa che, per via talamico-ipofisaria, immette noradrenalina in circolo. Questa giunge tra l’altro al giro d’ippocampo, che agisce da inibitore. Se però la condizione di stress persiste nel tempo, allora il meccanismo di feed-back negativo non funziona più, in quanto l’eccesso di noradrenalina deteriora i neuroni locali. Come si può facilmente immaginare, troviamo qui un chiaro esempio in cui l’elaborazione mentale incide in concreto sul substrato fisico. Per informazioni più dettagliate su questo punto si può consultare il libro di Joseph Le Doux (1996) Emotional Brain, che forse è già disponibile anche in italiano. Il pozzo della memoria di Lenore Terr (1992), della Garzanti, affronta invece l’argomento dei sistemi mnemonici più in generale e quello degli abusi sessuali e dei veri e falsi ricordi che ne seguono. La Terr è una valida psichiatra forense con uno stile divulgativo che si fa leggere con diletto. 

Adesso cercherò di rispondere alla domanda posta dal dottor Elia il quale, a ragione, chiedeva maggiori precisazioni sulle differenze tra rimozione, scissione e dissociazione. Temo infatti di non essere stato del tutto esauriente in tema di definizioni, limitandomi a dire che, mentre la rimozione era un meccanismo di scissione trasversale tra conscio e inconscio in quanto regioni della mente nettamente distinte tra loro, la dissociazione era concepita come una scissione verticale tra due parti dell’Io, o del Sé. Avevo anche aggiunto che col passaggio al modello strutturale e con l’individuazione di un vasto spettro di difese eseguite dall’Io, la rimozione aveva perduto d’importanza. Con il contributo di Melanie Klein e la sua concezione delle posizioni dell’Io, la scissione, in quanto meccanismo cardine nel passaggio da una posizione all’altra, aveva gradualmente guadagnato il primato nella pratica analitica. Vi è poi da considerare che le indagini successive hanno dimostrato che la demarcazione tra stati di coscienza coscienti e inconsci non è così netta come riteneva Freud e che i passaggi da uno stato all’altro sono sempre molto graduali. E’ attualmente piuttosto diffusa l’opinione che tali stati rappresentino altrettanti stati potenziali del Sé: spesso noi diciamo "oggi non sono io", oppure "stamattina sto ancora dormendo", per dire che il nostro stato soggettivo subisce interferenze che lo rendono diverso da quello usuale. Su questo punto, e sui neurotrasmettitori che regolano l’andamento di questi stati, posso raccomandare, di Allan J. Hobson, The Chemistry of Conscious States della Little Brown di Boston. In breve, l’uso del termine rimozione fa oggi parte più del vocabolario del linguaggio ordinario che di quello professionale, benché essa conservi la sua ragion d’essere come meccanismo esplicativo dell’oblio e del possibile recupero del ricordo. Anche la scissione venne pensata come meccanismo di demarcazione, non tra conscio e inconscio, ma tra una modalità e l’altra nel modo di rapportarsi all’oggetto. La sua affinità con la rimozione è inoltre basata sul fatto che entrambi i meccanismi sono concepiti come patologici soltanto quando il loro uso diventa "eccessivo", altrimenti rientrando tra le funzioni adattative della mente. Lo stesso non è per la dissociazione che sta invece a indicare l’indisponibilità, non già di certi contenuti di coscienza, bensì di alcune procedure operative, tra le quali le stesse difese, che ne risultano perciò indebolite. E’ al riguardo assai pertinente la citazione che ha fatto il dottor Elia di Glenn Gabbard il quale, proprio nel menzionato convegno psicoanalitico di Boston sugli abusi sessuali, aveva sottolineato sia la primarietà della dissociazione nelle sequele da abuso, sia la diminuita efficacia delle difese, rimozione compresa. Ci sono altri punti che ho tralasciato; col mio intervento ho cercato di indicare il quadro generale, nell’idea di poter ampliare l’orizzonte e sentirsi più confidenti sul futuro del nostro lavoro. 
Ciro Elia: Volevo ancora ringraziare Bordi: ha fatto - direi - un’altra dettagliata e piccola conferenza dopo la conferenza centrale, e soprattutto per questo suo messaggio di speranza che ci ha comunicato alla fine: speranza nella psicoanalisi e fiducia che si possono creare questi collegamenti fra psicoanalisi, neuroscienze e altre discipline vicine. Speriamo di averlo presto ancora con noi. Grazie.

Summary. This paper is the transcript of a seminar held by Sergio Bordi in Milan (Italy) on October 31, 1998, and published in the journal Setting, 1999, 7: 8-25. It deals with an historical and critical overview of the concepts of psychic reality, trauma, and defense, ranging from psychiatry to psychological, cognitive, and psychoanalytic research. Sergio Bordi is a training analyst of the IPA-affiliated Italian Psychoanalytic Society (SPI).


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Sergio Bordi
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