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PSYCHOMEDIA
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Bambini “Stressati”: fin dalla nascita!

di Antonio Imbasciati



Tra gli studiosi delle origini e dello sviluppo delle strutture mentali, verso l’ottimalità piuttosto che verso la patologia, del bimbo e poi dell’adulto, esiste ormai da molti lustri una convergenza nell’affermare che la qualità delle strutture interne della personalità, e l’intelligenza stessa, dipendono da quanto si è strutturato nelle interazioni precoci del bimbo con i suoi caregivers. Quanto più precoci esse saranno state, tanto più incisive saranno, e decisiva la loro strutturazione per come poi si strutturerà lo sviluppo nelle successive esperienze; quanto migliori, tanto più è probabile che l’individuo si sviluppi bene, cosicché da adulto sia in grado di fronteggiare situazioni difficili, stressanti, senza scompensarsi. Le prime esperienze servono a imparare come si imparerà, ovvero, per dirla con Bion, come si apprenderà dall’esperienza (Bion, 1962). In queste strutturazioni precoci, tanto si è parlato di “cure materne” e delle relative carenze come causa di psicopatologia: un po’ meno si è discusso in cosa esattamente esse consistano, e cioè della loro qualità, rispetto ad una loro efficacia di buon sviluppo piuttosto che come pregiudiziale iatrogena per la futura persona.
Tra gli studiosi che si sono occupati di questo aspetto, c’è una relativa concordanza nell’avere individuato la chiave del problema non semplicemente nella quantità di presenza dei caregivers con il bimbo, ma nella qualità di questa presenza, cioè nella partecipazione dei caregivers alle nascenti capacità mentali del bimbo: queste dovrebbero essere cogenerate in un dialogo non verbale che implica una particolare capacità di comunicare da parte dei genitori, nelle interazioni col bimbo, in modo che egli possa costruire le sue prime strutture mentali. Questo “dialogo” non verbale, non distaccato né intrusivo, avviene spontaneamente se i caregivers possiedono queste capacità e ovviamente se possono rimanere col bimbo per tempi sufficienti e con piena attenzione, in modo che il di lui pensiero si sviluppi nell’essenza affettiva della relazione. Si è parlato di intelligenza emotiva, (Greenspan, 1981, 1997; Goleman, 1995) o intelligenza del cuore (Greenspan, Benderly, 1998). Notevoli studiosi di neuroscenze hanno confermato (Schore, 2003a, b) come la maturazione cerebrale (in particolare del cervello destro) dipenda dalla qualità delle interazioni coi caregivers.
Si tratta della “affect regulation”, oggetto di tante ricerche sperimentali (Schore, 2003a, b) psicologiche e neuropsicologiche, che si stabilisce tra madre e neonato/bimbo, e che agisce soprattutto in epoca preverbale, strutturando la funzionalità psichica e le reti neurali del bimbo, con particolare riguardo alle funzioni emotivo-affettive (quelle che più tardi potranno essere chiamate carattere, o personalità, o stili di vita, stili di attaccamento, disposizioni relazionali, o anche temperamento) e alla qualità strutturale della sua regolazione psicosomatica. Tale regolazione dipende dalla struttura psichica materna e avviene attraverso la comunicazione non verbale spontanea (interazioni comprese) che intercorre tra il caregiver e il bimbo: questi apprende le modalità strutturate e strutturanti della madre nella misura in cui vi è una sintonizzazione (Stern, 1977; 1987) dei messaggi che viaggiano sui media non verbali. Un tale apprendimento è funzionale per un ottimo sviluppo del bimbo nella misura in cui c’è sintonizzazione dei messaggi e nella misura in cui la madre ha una buona struttura mentale da trasmettere e per trasmettere in modo sintonico; oltrechè, ovviamente, voglia e tempo di essere vicino al bimbo in modo che la trasmissione abbia adeguato spazio. Tale apprendimento può però al contrario essere disfunzionale (iatrogeno, patologizzante) nella misura in cui manca la sintonizzazione (affect disregulation), vuoi a causa della struttura psichica materna, vuoi della discontinuità di spazi e tempi sufficienti perché la comunicazione possa avere luogo.
Una tale regolazione avviene fin da prima della nascita, in epoca fetale: particolarmente studiato è stato lo stile di attaccamento prenatale della madre e lo stile di attaccamento del neonato e del bimbo (Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007; Della Vedova, Dabrassi, Imbasciati, 2007; Della Vedova, Tomasoni, Imbasciati, 2006) ed ancor prima è stata studiata la regolazione psicosomatica dei parametri fisiologici corporei da parte della madre sul piccolo (Hofer, 1978, 1981; Taylor, 1987). La letteratura psicoanalitica ha finemente concettualizzato il processo di sintonizzazione in relazione alla descrizione della capacità di rêvérie materna. Questa consiste nella capacità (automatica e acquisita dal caregiver quando a sua volta era piccolo nella relazione coi propri caregivers), di una comprensione emotiva empatica nei confronti dei vissuti del bimbo, attuata mediante modalità psichiche simili a quelle del sogno (donde il nome: rêvé, rêvérie, usato anche nella letteratura anglosassone) e nella immediatamente successiva capacità materna di restituire al bimbo un messaggio al livello in cui egli lo possa recepire e “capire”; cioè possa apprendere (Fonagy, 2001; Fonagy, Target, 2001). Sulla scorta della teorizzazione bioniana (Bion, 1962; 1963; 1965; 1967; 1970; Imbasciati, 2008b), la capacità di rêvérie viene descritta come possibilità della mente materna di accogliere le identificazioni proiettive espulse dal bimbo (oggetti cattivi) e di metabolizzare restituendogli messaggi pensabili. La madre insegna a pensare al suo bimbo. Ha così luogo l’apprendimento del neonato e del bimbo in epoca preverbale, quale fondamento da cui dipenderà la qualità di ogni suo successivo apprendimento e pertanto la costruzione della sua mente (Imbasciati, 2006a, b).
Con tali premesse dobbiamo considerare ciò che con etichetta sbrigativa (malintesa da chi non è sufficientemente documentato) viene chiamato “cure materne”. Il dialogo che costituisce le “cure materne”, per essere fruttuoso, cioè perché il bimbo ne apprenda, deve essere vero dialogo tra due soggetti che si intendono a vicenda, ossia tra due sistemi mentali, forniti di possibilità di codifica e corrispondente decodifica di messaggi, che possano davvero comunicare. La comunicazione interattiva e non verbale di una madre può non essere “compresa”, cioè decodificata in modo adeguato, se non si situa al livello di sviluppo in cui in quel momento il sistema del bimbo può funzionare: occorre pertanto che la madre abbia la capacità di riconoscere il livello funzionale della mente del bimbo; è questa la capacità di rêvérie. Di conseguenza ella avrà anche la possibilità (se le circostanze ambientali lo permettono) di emettere messaggi a livello corrispondente o poco più elevato ma comunque tali da essere “compresi”, ossia acquisiti, dal bimbo, nonché congrui ai messaggi emessi dal bimbo, e non dissintonici. Così si struttura, anzi si “costruisce” la base mentale dalla quale dipenderà la qualità di ogni futuro apprendimento del bimbo e quindi lo sviluppo della mente del futuro individuo. Perché un caregiver possa essere veicolo efficace di tale sviluppo occorre, sì, che sia adeguatamente presente nella cura del bimbo, ma questo non è sufficiente. Ci può essere una madre che è sempre col suo bimbo, con ogni sua attenzione sempre a lui rivolta e che pure non ha una sintonizzazione (non ha la capacità di rêvérie) che operi una affect regulation funzionale al buon sviluppo. Spesso i caregivers che vogliono intenzionalmente comunicare, talora perché razionalmente sanno che così si dovrebbe fare, sono proprio quelli che non riescono a sintonizzare; ma solo a intrudere e disorganizzare il bimbo con messaggi niente affatto congrui a quelli che il bimbo ha emesso e che la madre non ha compreso: la comunicazione sintonizzante, dialogica quindi, è spontanea: “viene”, perché l’intelligenza emotiva (per usare il concetto di Greenspan: 1997) del caregiver la emette automaticamente.
L’importanza della qualità delle cure materne (anche quelle di un padre) ha così un enorme rilievo per il futuro individuo: per la sua strutturazione psicosomatica, o meglio per la di qualità, della struttura che regolerà lo sviluppo del corpo e la costruzione della mente, nel bene e nel male, nella ottimalità piuttosto che nelle varie disfunzionalità, fino a quelle che chiamiamo patologie. In particolare avverrà che una buona costruzione mentale produrrà un individuo che avrà una buona struttura per assicurare a sua volta ai propri figli un buon sviluppo. Viceversa in una dimensione negativa. Possono così accadere circuiti transgenerazionali viziosi o virtuosi: si potranno generare figli sempre migliori, e persone sempre migliori, oppure individui sempre peggiori. Si tratta allora di visioni futurologiche della massima importanza. Al centro del circuito progressivo transgenerazionale, vizioso o virtuoso, della costruzione della mente, sta dunque la possibilità che in tale costruzione venga ad essere diminuita, oppure incrementata, la capacità di vivere le proprie emozioni e quindi comprendere quelle altrui; l’inverso cioè dell’alessitimia.
Gran parte di questi studi sono partiti dalle ricerche sulle situazioni psicopatologiche, sia dei bimbi che di adulti, rilevando nel loro passato relazioni affettive a carattere patogeno. In tal modo si sono sensibilizzate le Organizzazioni che si occupano di prevenzione e di promozione della Salute (O.M.S.) a provvedere cure psicosociali per i bimbi piccoli e i loro genitori. Tale sensibilizzazione non è stata però ad oggi sufficiente ad organizzare servizi adeguati alle necessità effettive di genitori e bimbi, né tanto meno a raggiungere gli obbiettivi indispensabili.
Lo stile di vita attuale, piuttosto frenetico, e le necessità economiche lavorative condizionano i genitori alla fretta, favorendo l’uso di tecnologie sostitutive dell’attenzione che essi dovrebbero al bimbo: giocattoli, televisione, videogiochi e via dicendo. Il bimbo viene così privato dell’attenzione viva con una persona, interazione riconosciuta come essenziale perché le cosiddette cure materne siano positive. Anzi spesso il bimbo è oberato di giochi, giocattoli, iniziative, distrazioni in modo che quivi sia occupato e non “dia fastidio”, anziché in interazioni coi genitori. Ma soprattutto lo stile di vita attuale, non semplicemente sottrae il caregiver al bimbo, ma induce nei genitori disattenzione emotiva verso quella compartecipazione affettiva intelligente e oculatamente dosata che è vitale per lo sviluppo del bimbo.
Potremmo dire che il bambino è stressato: e lo sarà più grandicello immesso in sequenze continue di scuola, sport, giochi organizzati e via dicendo. L’etichetta stressato è però generica e riduzionista. In realtà questo bimbo è deprivato dell’alimento psichico essenziale ad un buon sviluppo della sua mente. Quali futuri individui avremo se questa tendenza sociale si accrescerà? E quale società? O meglio, quale Umanità?
Gli studi suaccennati mostrano una peculiarità dello sviluppo psichico del bambino così cresciuto, che, anche in assenza di psicopatologie rilevate, produce un difetto nella sua struttura mentale. La mente di questo futuro individuo, deprivata della capacità dell’intelligenza emotiva, svilupperà tendenze alessitimiche (Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2007; Imbasciati, Margiotta, 2008; Imbasciati, 2008), ovvero sarà poco capace (se non incapace) di interagire con gli altri con quelle modalità relazionali (e con quel tipo di comunicazione non verbale) che legge i propri affetti (a-lexis-tymos) e quelli degli altri e che di conseguenza può “toccare” le loro (e le proprie) strutture profonde di personalità. Sono proprio queste le modalità che occorrono per accudire un bimbo. Il nostro futuro individuo non ne sarà capace: non potrà dare a suo figlio quel che i propri genitori non gli hanno dato. Come dunque si svilupperanno i suoi figli?
L’interrogativo su una futura società, o umanità, diventa allora preoccupante: il bimbo stressato, meglio diciamo deprivato, produrrà a sua volta bambini altrettanto e forse più privi di quella parte di intelligenza indispensabile non solo per le buone relazioni con gli altri, ma anche come base di garanzia contro i disordini psicopatologici; un individuo sempre più vulnerabile di fronte allo stress – qui è vero stress – che la società attuale gli imporrà. Tale vulnerabilità potrà avere conseguenze imprevedibili. E oltretutto si produrranno figli sempre più incapaci di allevare i propri figli.
Si delinea allora un effetto cascata, in un progressivo circuito vizioso transgenerazionale. Quale umanità si prepara? Possiamo invertire la tendenza?
Si impone allora la massima attenzione, a provvedere qualcosa per la salute mentale di questi bimbi, che è la nostra salute e il futuro della nostra civiltà. A provvedere, ora, i genitori dei sussidi possibili perché possano meglio (o meno peggio) curare i loro bimbi.
Discende da qui un rilievo per una fondazione di una Psicologia Clinica Perinatale. Da alcuni anni studiosi anche italiani si occupano di vita psichica prenatale, di sviluppo mentale del neonato, e di organizzazione dei reparti ospedalieri di neonatologia, ma una più completa Psicologia Clinica perinatale, che inquadri non solo come fronteggiare le emergenze per evitare guai peggiori, ma di assistere psicologicamente tutti i genitori per promuovere una migliore salute mentale dei futuri individui, deve essere ancora assimilata negli ambienti sanitari. Occorre d’altra parte che questi siano politicamente sollecitati a diventare permeabili ai contributi di altre discipline “umane”, quelle psicologiche e sociologiche in primis. La cosa non è facile, visto anche quali sforzi il progresso tecnologico sta imponendo ai medici. Ma è pur necessaria una “umanizzazione” della medicina (Imbasciati, 1998; 1999; 2000), perché questa non resti soltanto asettico e tecnico rimedio alla patologia: usando l’operato degli psicologi clinici soltanto per rimediare ai guai quando si manifestano e non per promuovere la Salute per prevenirli.


Bibliografia

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