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PSYCHOMEDIA
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Etica



Etica e Psicoanalisi

E. Mordini



Introduzione e definizione del metodo

“Etica e psicoanalisi” può essere detto in quattro modi: i) ci si può innanzitutto riferire al rapporto tra etica e psicoanalisi intese come due discipline separate ma con alcuni punti di interesse in comune; ii) ci può anche riferire con questa espressione all’ etica, cioè al contenuto morale, della teoria psicoanalitica; iii) oppure si può intendere il termine “psicoanalisi” come riferito ad una particolare forma di psicoterapia, nel qual caso ci si indirizzerà alle questioni etiche sollevate da tale trattamento; iv) infine si potranno considerare i contributi che la psicoanalisi, intesa come disciplina scientifica, può dare non tanto all’etica in sé stessa, quanto all’etica medica e alla bioetica (1).

Un secondo punto metodologico riguarda la definizione del termine “psicoanalisi”. Su che cosa si debba intendere oggi con “psicoanalisi” è in corso da almeno vent’anni un dibattito che ha diviso anche le società storiche, come l’ International Psychoanalytic Association. Due definizioni hanno trovato maggiore consenso:
1a Definizione (è la definizione storica): Psicoanalisi è il nome di una disciplina sviluppata da S.Freud, che include: 1) un metodo per investigare i processi mentali; 2) un corpus di conoscenze sulle motivazioni e i determinanti dei comportamenti umani; 3) una modalità di cura per i disturbi mentali (Freud S. 1922, Valenstein A.F. 1979).
2a Definizione (è la definizione operativa): Psicoanalisi è un modo di pensare (sia teorico sia clinico) basato sull’assunzione dell’esistenza di processi mentali inconsci che sottostanno alle attività mentali conscie, (Gabbard G. 1992) oppure, in altri termini, psicoanalisi è qualsiasi psicologia che si fondi sull’esistenza dell’inconscio (Gindro S. 1984).
In genere si userà la seconda definizione e quando ci si riferirà alla specifica teoria freudiana lo si farà sempre esplicitamente.
Per quanto riguarda poi la clinica psicoterapica, si potrà anche utilizzare la definizione di Holmes e Lindley che, nella sua divertente ambiguità, coglie bene la peculiarità dei trattamenti psicoanalitici: “Those therapies which, not content simply with the removal of unpleasant symptoms, aim for a bigger game” (Holmes J, Lindley R, 1994, p.671).


1. Etica e psicoanalisi

L’etica è “the study of the concepts involved in practical reasoning: good, right, duty, obligation, virtue, freedom, rationality, choice.” (Blackburn S. The Oxford Dictionary of Philosophy Oxford University Press 1994, 126). L’etica, cioè, si occupa delle scelte pratiche degli esseri umani, considerate come la risultante di un concorrere e confliggere di differenti beni, diritti, doveri, obbligazioni, cercando di dare basi razionali alle scelte che devono essere effettuate, o di mostrare le ragioni o la mancanza di ragioni di queste scelte. L’etica di consequenza non è direttamente interessata alle basi psicologiche del comportamento umano (anche se nell’antichità greco-romana, e segnatamente nel pensiero aristotelico, considerazioni di tipo psicologico hanno avuto un ruolo importante). Tuttavia la domanda centrale a cui l’etica cerca di rispondere non è quali siano le condizioni psicologiche in base quali si sceglie un bene piuttosto che un altro, ma se esistono fondamenti razionali al di là delle preferenze psicologicamente determinate per scegliere un bene piuttosto che un altro. In tal senso l’etica, almeno così come si è andata configurando nella filosofia occidentale, è impresa che necessita per fondarsi di mettere la psicologia tra parentesi. Il punto essenziale è che il modo in cui gli individui costruiscono il loro mondo morale interno è assolutamente irrilevante nel giudicare la validità degli argomenti utilizzati per giustificare tale mondo morale, esattamente come i motivi psicologici per cui Newton enunziò le leggi della meccanica sono assolutamente irrilevanti nel giudicare la validità di tali leggi. Una posizione fortemente antipsicologica in etica, che ha condizionato il dibattito filosofico di tutto il nostro secolo, fu assunta agli inizi del Novecento da G.E.Moore. Nei suoi Principia Ethica Moore sostenne che esitono tre distinte attività compendiabili sotto il termine di etica: 1) l’etica descrittiva, che compie una ricognizione delle credenze e pratiche morali degli individui e delle popolazioni; 2) l’etica normativa che cerca di definire principi morali per guidare sia le nostre azioni sia il nostro giudizio sulle azioni degli altri; 3) infine la metaetica, ovvero la filosofia morale, intesa come chiarificazione ed analisi dei principali concetti morali. Moore chiama “fallacia naturalistica” il confondere la funzione descrittiva con le altre due. Secondo Moore la descrizione empirica delle credenze morali delle persone e del modo in cui esse si costruiscono non ha nulla a che vedere né con l’etica normativa né con la metaetica proprio perché non vi è nessuno modo per trasformare un’affermazione descrittiva in una prescrittiva, cioè non vi sono fatti in virtù dei quali possono essere definite delle verità morali (2). Secondo Moore coloro che sperano di fondare un’etica a partire da osservazioni sociologiche e psicologiche incorrono nello stesso errore di coloro che riducono la logica a mere leggi di funzionamento dei processi mentali. Né logica né etica riguardano la mente umana più di quanto non la riguardino gli alberi, i pesci, o gli uccelli o gli altri oggetti: il fatto, cioè, che un oggetto possa essere “mentalizzato” non implica in nessun modo che quell’ oggetto divenga “soggettivo”, al contrario una vera conoscenza richiede che lo si studi indipendentemente dalla mente che, di volta in volta, in differenti circostanze, lo pensa. Gli studi di metaetica e di etica formale hanno così caratterizzato il mondo filosofico anglosassone per più di settant’anni, almeno fino alla comparsa sulla scena di J.Rawls, A.Macintyre, ed, in genere, delle nuove generazioni di filosofi post-analitici.

Parallelamente, e in opposizione, all’ impresa iniziata da Moore, altre correnti filosofiche del Novecento hanno, invece, cercato di destituire l’etica di ogni fondamento oggettivo. Per costoro (emotivisti, non-cognitivisti, quasi-realisti, ecc.) l’etica si fonda su ed esprime solo “stati d’animo”. La vera etica coincide, quindi, con il negare, o almeno, il dubitare dell’etica che pretende di essere razionale. Questa posizione, che va da Nietzche a Wittgenstein, sino agli esiti contemporanei del pensiero debole e del postmodernismo, afferma il relativismo etico e, contemporaneamente, nega ogni oggettività all’etica normativa e alla metaetica. Secondo questi studiosi l’etica è definitivamente una branca della psicologia e della sociologia, nel senso che non vi sarebbe alcuna possibilità di fondare il comportamento umano su un ragionamento specificatamente morale. La psicoanalisi, seppur in un modo suo proprio, appartiene a questa corrente di pensiero. In effetti la psicoanalisi pretende di fornire una spiegazione ultimativa e basilare sul perché gli esseri umani scelgano alcuni comportamenti piuttosto che altri, e come definiscano una gerarchia tra diversi beni. La psicoanalisi realizza tutto ciò negando le premesse non solo dell’etica filosofica ma della stessa psicologia morale. In primo luogo la psicoanalisi di S.Freud nega il fondamento della filosofia morale perché si basa su un determinismo psichico che esclude pressoché completamente il libero arbitrio (3). Da un altro punto di vista, la psicoanalisi toglie legitimità anche alla stessa nozione di “psicologia morale” (così come sviluppata da filosofi quali Dewey e James). La psicologia morale presuppone infatti che vi sia un “ragionamento morale” di cui valga la pena di dar conto, seppure in termini psicologici, soggettivi. Per la psicoanalisi ogni ragionamento morale è, invece, una “falsa coscienza”, cioè una razionalizzazione, un tentativo, più o meno riuscito, di fornire una giustificazione razionale a preesistenti divieti, interdetti, prescrizioni ed obbligazioni, gerarchie di beni e scelte pratiche, che in nessun modo si spiegano razionalmente ma che, piuttosto, sono il risultato del dinamismo pulsionale e del conflitto tra le diverse istanze intrapsichiche. Non vale, dunque, cercar di dar conto del ragionamento morale, poiché questo è solo un tentativo di riorganizzare il proprio mondo interno reso contraddittorio sia dal manifestarsi di desideri e pulsioni che sono nel contempo anche proibite, sia dall’indirizzarsi di istinti aggressivi verso persone amate.

Per concludere, dunque, se l’etica del Novecento (laddove le è stata riconosciuta legittimità) si contrassegna come impresa eminentemente anti-psicologica, la psicoanalisi, per converso, è stata “anti-etica”, almeno nel senso di negare il fondamento di ogni etica filosofica (l’esistenza, cioè, di una agente dotato di libero arbitrio) e di svalutare la psicologia morale come realtà (soggettiva) degna di essere indagata.


2. Etica della psicoanalisi

Il rapporto tra etica e psicoanalisi può essere affrontato, tuttavia, anche da un altro punto di vista. La psicoanalisi, come ogni altra disciplina scientifica, non è value-free. Al contrario la psicoanalisi ha il suo proprio sistema di valori, impliciti ed espliciti, e di consequenza, una “sua propria” etica. L’etica della psicoanalisi coincide con la sua metapsicologia (4) di riferimento (Gindro S. 1993). Si potrà pertanto parlare di un’etica comune a tutte le psicologie dinamiche, e di un’etica specifica che nasce dagli assunti metapsicologici di ognuna di esse.

L’etica comune che sottostà a tutte le psicoanalisi non può che trarre la sua origine da ciò che le diverse psicologie dinamiche hanno in comune, e cioè la convinzione che esistano processi mentali inconsci sottostanti alla coscienza e che la comprensione di questi sia un importante elemento nella cura delle malattie mentali. Dunque, ciò che fonda l’ “etica psicoanalitica comune” , è la credenza che esista una qualche verità “oggettiva”, in qualche modo approssimabile (non necessariamente raggiungibile in maniera piena) dal soggetto, e che cogliere (in tutto o in parte) questa verità abbia una funzione curativa. Verità e bene tendono dunque a coincidere, o, comunque, a sovrapporsi largamente, e la cura è anche una “cura morale”, un insegnare ad amare e ricercare la verità su stessi piuttosto che l’autoinganno difensivo. Da S.Freud in avanti tutti gli psicoanalisti - non importa quanto lontani dal pensiero freudiano originario - hanno sempre fatto del rifiuto della suggestione e dei metodi suggestivi in terapia un punto più etico che tecnico: la cura psicoanalitica deve anche insegnare al paziente la virtù dell’ onestà intellettuale, del saper guardare dentro di sé senza troppi comodi infingimenti. In definitiva l’etica psicoanalitica comune coincide con l’etica dell’ onestà (5), o, detto in altro modo, con l’etica evangelica “della trave e della pagliuzza” (6).

Accanto a questa che abbiamo definito “etica psicoanalitica comune”, vi è poi l’etica specifica di ogni psicoanalista che ha elaborato varianti significative della metapsicologia freudiana o una metapsicologia indipendente. Ci sono pochi dubbi, infatti, che l’ etica freudiana, strettamente intesa, derivi direttamente dall’etica kantiana (Rieff P, 1979). La struttura deontologica dell’etica freudiana è stata ben colta, ad esempio, da Jacques Lacan che assegnava al celebre motto freudiano, Wo es war, soll ich werden, la stessa funzione della legge morale nella “Critica della Ragion Pratica” (Lacan J. 1966). Lo stesso Lacan, tuttavia, solo con estrema difficoltà avrebbe potuto ritrovarsi in un’etica deontologica. La metapsicologia lacaniana, tutta giocata sull’impossibilità costitutiva di addivenire ad una qualsiasi verità che non sia lo sgomento dinanzi all’assenza di verità, rimanda agli scettici antichi e all’etica pirroniana, piuttosto che a Kant e Freud. Il gioco della ricerca degli ascendenti potrebbe, ovviamente, proseguire a lungo per tutti gli maestri della psicologia dinamica. Ciascuno di essi, in quanto portatore di una sua peculiare visione del mondo ed interpretazione filosofica della realtà umana, ha anche proposto una propria etica, che è dunque l’ “etica propria” di quello specifico approccio psicodinamico.


3. Etica del trattamento psicoanalitico

A partire dall’ “etica propria” di ogni psicologia dinamica si giunge inevitabilmente alla questione dei problemi etici in psicoterapia. La discussione sulle questioni etiche in psicoterapia non è in alcun modo recente: basti ricordare che i più duri attacchi mossi a Sigmund Freud furono proprio di tipo morale, così come etiche furono le principali resistenze all’iniziale penetrazione della psicoanalisi nei vari paesi (Holt R, 1980). Nell’epoca poi del behaviorismo imperante, fu soprattutto la denunzia dei rischi morali connessi alle tecniche di condizionamento, fatte da intellettuali come A.Huxley, a indurre diffidenza verso queste teorie psicologiche e tecniche di cura. Più recentemente, accanto ad un acritico entusiasmo, si è sviluppato un’ altrettanto acritica diffidenza verso i trattamenti psicofarmacologici, che pure hanno dimostrato una loro efficacia. In genere, dunque, tutte le “terapie della mente” hanno sollevato, e sollevano, reazioni preoccupazione da parte della pubblica opinione. Questa inquietudine appare solo parzialmente giustificata. In effetti l’impressione che se ne trae è che essa mascheri una serie di fantasie onnipotenti, di controllo su di sé e sugli altri, più che una corretta percezione delle questioni in gioco. La paura, così tipica negli ambienti antipsichiatrici sul finire degli anni 60 e per tutti gli anni 70, di una crescente medicalizzazione della vita e di un estendersi del potere psichiatrico su settori sempre più vasti della popolazione (Szasz T, 1978), appare oggi totalmente irrealistica. Al contrario sono i problemi legati alla scarsità delle risorse e a una loro equa distribuzione a caratterizzare la medicina e la psichiatria degli anni 90.

Per quanto riguarda i problemi etici caratteristici della psicoterapia psicoanalitica, essi possono essere raggruppati in 4 principali capitoli: i) le questioni etiche connesse in qualche modo alla tecnica del trattamento; ii) i problemi sollevati da una forma di malpractice particolarmente subdola in psicoterapia, cioè lo sfruttamento del paziente; iii) il consenso informato; iv) il doppio ruolo dello psicoterapeuta (double agentry).


3.1. Etica e tecnica

Ogni questione relativa alla tecnica dei trattamenti psicoanalitici risente della nota convinzione freudiana che la tecnica fosse nulla e la metapsicologia tutto. Se la tecnica è nulla, allora non ha neanche senso discutere le questione etiche connessa alla tecnica. Tuttavia, riesaminando la letteratura più recente, la faccenda non appare così semplice. La tecnica - bon gré, mal gré - si è, infatti, andata via, via, caricando di vari e diversi significati, da quelli più banali legati al suo uso per sopperire un’ assenza di riflessione teorica, a quelli più complessi inerenti la distribuzione delle risorse nei servizi sanitari (evidentemente la tecnica costituisce l’unico parametro “oggettivabile” per giudicare quali psicoterapie debbano essere fornite dalla assicurazioni pubbliche e private: questo parametro è tuttavi affidabile?).

Ciò che è interessante è, innanzitutto, l’intreccio che, inevitabilmente, si è creato tra varie forme di eclettismo e, segnatamente, tra l’ecclettismo teorico e quello tecnico. Mentre con il termine di ecclettismo tecnico ci si riferisce all’uso combinato di diverse tecniche di intervento nel corso di una psicoterapia, oltre i classici strumenti psicoanalitici dell’interpretazione e della presa di coscienza, con il termine di ecclettismo teorico si vuole indicare un’attitudine a rifarsi a diversi orientamenti metapsicologici (ad esempio: Freud, Adler, Jung, Lacan, Rogers, ecc.) a seconda dell’ utilità che essi possono avere in ciascuna situazione singolarmente considerata. L’ecclettismo tecnico non pone, per consenso umanime, alcun problema etico. Appare persino poco difendibile, professionalmente ed eticamente, quel terapeuta che non utilizzi tutti gli strumenti a sua disposizione (dagli psicofarmaci all’interpretazione, dall’educazione alla suggestione) per migliorare le condizioni del proprio paziente, almeno quando questi strumenti siano stati provati di sicura utilità (Sperry L, 1995). Un recente parere di un’apposita commissione del senato statunitense ha anche avanzato l’ipotesi che la mancanza di trattamento psicofarmacologico in casi di comprovata efficacia possa costituire una forma di malpractice (The Senate Subcommittee on Appropriations: U.S. Congress. Senate. National Advisory Mental Health Council. In: Am J Psych, 150, 1447-63, 1993). L’ecclettismo tecnico, quindi, dovrebbe essere accettato di buon grado come espressione di una tendenza alla progressiva riunificazione del campo “psy”. L’ecclettismo teorico appare invece sollevare gravi problemi sia etici sia professionali e questo per due ordini di motivi. Innanzitutto, quale che sia il rapporto tra ricostruzione della verità biografica del paziente e agenti curativi della terapia, è indubbio che è soprattutto la coerenza della ricostruzione, il suo rifarsi ad un modello metapsicologico chiaro, che le conferisce una capacità mutativa (7). L’ecclettismo metapsicologico così può costituire, e probabilmente spesso costituisce, una forma di malpractice. Con ciò, ovviamente non si sostiene che ogni psicoterapeuta debba per forza rifarsi ad una “scuola”, potendo egli stesso aver costruito un proprio sistema di riferimento metapsicologico: ma, appunto, deve avere un sistema metapsicologico di riferimento. Questo sistema di riferimento deve poi essere pubblico, proprio per permettere ai pazienti di scegliere in maniera informata e, se lo desiderano, di esercitare un minimo “controllo di qualità” sul proprio psicoterapeuta. L’ecclettismo metapsicologico, così come ogni forma di teoria esoterica, o comunque non disponibile al controllo pubblico per il tramite della letteratura scientifica, e del publico dibattito, è intrinsecamente scorretto, qualunque siano gli esiti terapeutici a cui, di volta in volta, può addivenire. Almeno finché non si giungerà a una teoria psicologica unificata, il dichiarare la propria “psicologia di riferimento” costituisce un elementare principio di correttezza “commerciale”, non diverso da quello per cui i produttori di alimenti, stoffe, ed altre merci ancora, sono obbligati a dichiararne e garantirne la composizione ed autenticità (Gindro S, 1993).

Un secondo gruppo di questioni etiche connesse alla tecnica psicoterapeutica riguarda la durata del trattamento, la sua efficacia ed i suoi costi. Il punto centrale è, ovviamente, quello dell’efficacia. Tutti i tentativi di destituire di fondamento la psicoterapia sono falliti e vi è ormai pieno consenso sul fatto che la psicoterapia possegga un’efficacia analoga ad altre forme di terapia in svariate condizioni, sia “organiche” sia “psicologiche”. Uno dei risultati più drammatici negli ultimi anni è stata, ad esempio, la dimostrazione dell’effetto di una psicoterapia di gruppo a breve termine su donne ammalate di cancro alla mammella: a parità di condizioni cliniche e generali, il gruppo sottoposto a psicoterapia ha avuto una media di 37 mesi di vita contro 19 del gruppo di controllo (Spiegel D, 1989). Tuttavia la questione si pone riguardo la durata e le indicazioni del trattamento. Si è detto che le terapie psicoanalitiche classiche della durata di parecchi anni, per più sedute settimanali, rappresentano un spreco di risorse (se a carico di sistemi sanitari pubblici) e, comunque, presentano un rapporto costi/benefici tali da renderle eticamente poco difendibili (Shaw Austad C, 1995). Attualmente c’è una tendenza verso periodi sembre più brevi di terapia. Secondo la maggior parte degli studi controllati, la maggioranza dei pazienti ottiene il massimo miglioramento entro le prime 52 sedute dopo di che il trattamento appare, se non inutile, comunque troppo costoso per i benefici che produce (Government Committee on Choices in Health Care, 1992). É stato obiettato che valutazione dei miglioramenti (sia clinica sia con strumenti ponderati) non tiene conto delle mutazioni strutturali, a cui mira invece il trattamento psicoanalitico classico, tuttavia questa obiezione non toglie validità alla considerazione di fondo per cui anche la psicoterapia non dovrebbe sfuggire ad un’analisi economica. Caso mai sarà compito degli psicoanalisti proporre strumenti di valutazione dell’efficacia del trattamento più sensibili e specifici.


3.2. Lo sfruttamento del paziente

Si parla di sfruttamento del paziente ogni qual volta che lo psicoterapeuta approfitta della propria peculiare posizione per trarne un beneficio non previsto dal contratto terapeutico. Questo sfruttamento, che provochi o non provochi un danno al paziente, rappresenta sempre comunque una rottura dell’alleanza terapeutica (che viene a volte sostituita da forme di reciproca connivenza) ed è quindi contrario all’ ethos medico. Normalmente si distingue tra sfruttamento i) sessuale, ii) emozionale, iii) economico.

3.2.1. Sfruttamento sessuale

Il tema dello sfruttamento sessuale coincide con quello della liceità o meno di rapporti sessuali tra psicoterapeuta e paziente. Ci sono due posizioni: la prima sostiene che sempre e comunque il sesso esplicito tra psicoterapeuta e paziente dovrebbe essere vietato perché ostacola trattamento (Schulz-Ross RA et al., 1992); la seconda posizione sostiene che esso dovrebbe essere vietato perché in alcuni casi danneggia il paziente (Strasburger LH et al, 1992). Peraltro Gabbard e Gutheil hanno segnalato come la versione “politically correct” della sexual misconduct, per cui vi è uno psicoterapeuta maschio che si approfitta di una paziente femmina che rimane gravemente traumatizzata, è solo un aspetto e non il più frequente. In effetti tutte le possibili combinazioni avvengono e, spesso, è il paziente “predatore” che seduce un terapeuta debole provocando in lui gravi danni (Gutheil TG, Gabbard GO, 1992). Gutheil ha, comunque, proposto 4 ragioni per condannare eticamente il rapporto sessuale tra psicoterapeuta e paziente: i) infrange la relazione fiduciaria tra i due; ii) si sviluppa in una situazione di potere fortemente asimmetrica; iii) non tiene conto della vulnerabilità psicologica del paziente; iv) vi è un’eccessiva rilevanza di fenomeni intrinseci al processo terapeutico (Gutheil TG, 1994) (8). Gabbard e Nadelson (Gabbard GO, Nadelson C, 1995) hanno anche sviluppato il concetto di “confini professionali” (professional boundaries) sottolinenando come la rottura (violation), in qualsiasi settore, di questi confini, possa potenzialmente condurre ad una rottura dei confini sessuali e sia dunque di per sè pericolosa e eticamente riprovevole. Ci sono numerosi tipi di rottura dei confine professionali tra medici e pazienti: transazioni d’affari, alcuni regali e servizi resi, l’uso di alcune forme di linguaggio, alcuni contatti fisici, il tempo, la durata e il luogo delle visite, accordi non chiari sui pagamenti, un uso improprio dell’esame fisico.

Per riassumere, è evidente che la particolarità della situazione psicoterapeutica è tale da porre alcune questioni specifiche: i) innanzittutto l’intimità emozionale che si crea in una psicoterapia tende ad attivare correnti sessuali molto più che in altre pratiche mediche: queste correnti sessuali sono fondamentali nel processo di guarigione e quindi debbono essere di necessità evocate, ii) così l’interdetto riguarda solo alcuni aspetti della sessualità (il rapporto sessuale esplicito) ma non la sessualità tout court (cosa che sarebbe per altro impossibile, ovviamente), che anzi risulta a volte esaltata nel corso di una psicoterapia, iii) tuttavia la situazione particolare del paziente, che per definizione dovrebbe avere un equilibrio psichico fragile se non alterato, fa sì che maggiore sia la responsabilità del medico nel garantire che la sessualità venga solo utilizzata come spinta ai processi di guarigione, senza mai essere messa al servizio né della soddisfazione del medico, né delle resistenze che il paziente stesso oppone alla guarigione; iv) infine, a differenza di altre pratiche mediche, è assolutamente dubbio che, terminato il rapporto terapeutico, si sciolga anche il vincolo dall’astinenza del sesso esplicito tra medico e paziente, poiché le correnti emotive evocate dal trattamento rimangono attive ancora per lungo tempo e vi è il concreto rischio che un rapporto sessuale danneggi psicologicamente sia il paziente sia il medico. L’ American Psychiatric Association (APA) sostiene che ci deve essere un anno di tabù dopo l’interruzione della terapia e che, comunque, il sesso con un ex-paziente è “almost always” non etico (Lazarus JA, 1992). A fronte di ciò, però, circa un terzo degli psichiatri americani non ritiene il sesso con gli ex pazienti non etico (Appelbaum PS, Jorgenson L, 1991). Soprattutto nella comunità psicoanalitica, dove ogni psicoterapeuta è stato a sua volta in precedenza paziente di uno psicoanalista più anziano, questa interdizione del sesso con ex-pazienti appare problematica e non è mai stata mai veramente rispettata.

3.2.2. Sfruttamento emozionale

Si parla di sfruttamento emozionale tutte le volte che uno psicoterapeuta utilizza il proprio paziente per ricavarne un illecito tornaconto emozionale. Naturalmente non è facile dire quali situazioni costituiscano un reale sfruttamento emozionale e quali facciano parte del piacere che lecitamente (e necessariamente) un terapeuta deve trarre dal lavoro svolto positivamente con il proprio paziente. Alcune situazioni sono paradigmatiche, come quando il terapeuta preme perché il paziente soddisfi le sue fantasie (Rosenbloom S, 1992), o perché lo gratifichi in altro modo. In altri casi il terapeuta può impedire lo svilupparsi di un sentimento di autonomia nel paziente e cercare di protrarre la fase di dipendenza per un tempo indeterminato (9). Il problema dell’autonomia emozionale del paziente è, in effetti, uno dei nodi etici di ogni psicoterapia. La psicoterapia ha tra i suoi obiettivi impliciti quello aumentare l’autonomia del paziente (Holmes J, Lindley R, 1989), ma ciò si può realizzare solo se il paziente riesce ad attraversare un “felice periodo” di dipendenza. Bowlby (Bowlby J, 1988) ed altri teorici hanno dimostrato che una delle precondizioni per l’autonomia emozionale è un sicuro attaccamento. La presenza di un modello interno di attaccamento sicuro permette alle persone di sopportare l’ansia di separazione e di non dipendere eccessivamente dall’opinione degli altri. Una “buona” terapia psicoanalitica deve, quindi, fornire al paziente anche modelli interni di “dipendenza buona” tali da condurre ad un aumento effettivo di autonomia.

Molto raramente lo sfruttamento emozionale del paziente avviene con cosciente intenzionalità da parte del terapeuta. Più spesso è frutto di imperizia, di cattiva formazione personale, di mancanza di un sistema effiace di supervisione o, comunque, di altro controllo periodico. Vale qui a pena di accennare che, molto più che in altre professioni mediche, in psicoterapia assumono importanza (sino a costituire un obligo deontologico) procedure di supervisione e peer-review.

3.2.3. Sfruttamento economico

Una delle preoccupazioni più comuni è che il paziente possa essere sfruttato economicamente o a causa di tariffe troppo elevate o per il prolungarsi inutile della cura. Una nuova preoccupazione è stata recente sollevata da Book (Book H, 1991) sul possibile effetto di pressione da parte di terzi. L’esperienza dell’autore nasce dalle assicurazioni private americane ma la sua descrizione è sempre di più applicabile ai sistemi sanitari riformati europei, dove i manager della sanità premono per riportare in efficienza e al lavoro i pazienti, fuori dai programmi assistenziali. Quando lo psicoteraputa deve risolvere il compito nei tempi assegnati e nei costi assegnati, come è previsto ad esempio dal sistema DRG, è probabilmente meno capace di entrare in contatto con il paziente.


3.3. Il consenso informato alla psicoterapia

Uno dei temi classici dell’ etica psichiatrica è quello del consenso informato al trattamento: la letteratura in merito è così vasta e dettagliata che non vale la pena di riprendere in questa sede il dibattito (10). Ciò che si può sottolineare è che ogni psicoterapia, soprattutto se analiticamente orientata, non può che fondarsi sul consenso del paziente, un consenso che, in effetti, deve essere rinnovato di seduta in seduta. La questione, semmai, che si potrebbe porre è quella se questo consenso sia sufficientemente informato. Se si escludono il caso (di per sé particolare) delle psicoterapie che fanno uso sistematico di inganni, frodi e ordini paradossali (come le terapie strategiche), e il caso della psicologia sperimentale (che, ugualmente, fa largo uso di inganni), la questione finisce per riguardare aspetti molto sottili del trattamento. Infatti qualsiasi terapia orientata psicoanaliticamente si basa, almeno in parte, su un disvelamento progressivo e graduale delle informazioni che il terapeuta apprende dal paziente ma che il paziente stesso ignora. Evidentemente non è l’accesso diretto a questo tipo di informazioni a costituire l’essenza del consenso informato in psicoterapia. Piuttosto l’informazione riguarderà il modo in cui il terapeuta raccoglierà e organizzerà le informazioni otteute dal paziente, e cioè il modello metapsicologico a cui egli aderisce. Cioè, e riprendendo in parte quanto già detto a proposito dell’ecclettismo, un consenso al trattamento psicoterapeutico è realmente informato non quando il paziente condivide tutte le informazioni cliniche in possesso del suo terapeuta (perché, così fosse, non ci sarebbe bisogno di trattamento psicoanalitico) ma quando il paziente è correttamente informato (e in maniera a lui comprensibile) sul modello psicologico di riferimento del proprio terapeuta. Solo così sarà possibile ad un paziente accettare o rifiutare consapevolmente uno specifico trattamento.


3.4. Double Agentry

Con il termine anglosassone di “Double agentry” si intende una questione di “responsabilità divisa”, cioè una situazione in cui il medico è diviso tra la responsabilità verso i propri pazienti e la responsabilità verso un’altra differente agenzia (l’ospedale, il servizio sanitario pubblico, una compagnia di assicurazione, un tribunale, ecc.). Il tema della double agentry è stato forse uno dei temi più dibattuti negli ultimi anni negli Stati Uniti. Esso comprende anche il tema del segreto professionale, per lo meno per quanto concerne il segreto su quelle informazioni che potrebbero essere di un qualche interesse per un agenzia esterna. Negli Stati Uniti il sistema delle managed care ha obbligato, ad esempio, gli psicoterapeuti, se volevano vedere rimborsate le sedute dalle assicurazoni, a rivelare diagnosi e informazioni particolareggiate sull’andamento clinico dei propri pazienti. Si capisce bene che, mentre la comunicazione del diario clinico di un disagio fisico può anche non costituire un gravo danno alla privacy del paziente, la comunicazione dell’andamento di una psicoterapia è sembre altamente lesivo di tale privacy.


4. Bioetica e Psicoanalisi

Un ultimo punto da considerare riguarda il contributo che la psicoanalisi può dare all’etica medica e alla bioetica. Si tratta, indubbiamente, dell’aspetto meno discusso nella relazione tra psicoanalisi ed etica, e, tuttavia, ne rappresenta forse il risvolto empiricamente più interessante e suscettibile di sviluppi. Infatti, se è discutibile un ruolo della psicologia in filosofia morale (essendo alcune obiezzioni di Moore completamente condivisibili), non c’è chi possa negare l’importanza di una psicologia morale in bioetica, cioè in un’impresa che è eminentemente pratica, concernendo la definizione di norme e politiche applicabili nel governo delle moderne tecnologie biomediche e del loro impatto sul pubblico. Un’ agenda virtuale che contempli i principali problemi sul campo dovrebbe probabilmente comprendere:

1) La definizione di identità personale: La bioetica ha tratto dalla filosofia morale il suo modello di agente morale. Il paziente ideale dei bioeticisti è una persona libera di agire, pienamente razionale ed autocosciente, priva di impulsi emotivi e priva, in definitiva, di una vera vita mentale. Questo modello - che in definitiva è di provenienza kantiana - può forse funzionare abbastanza bene in condizioni mediche acute, quando il paziente è posto dinanzi a poche, semplici, e chiare alternative. Tuttavia si tratta di un modello scarsamente applicabile in condizioni complesse quali sono la maggior parte dei disturbi cronici e tutti i disturbi psichiatrici (Agich G. 1994). In particolare ciò è evidente per quanto concerne temi come le advanced directives date in relazione a situazioni di ridotta o alterata coscienza quali quelle provocate da processi involutivi cerebrali e le demenze. Negli ultimi anni sono stati sollevate obbiezioni fondate su argomenti concernenti l’identità personale, sviluppati già da Parfit in Reasons and Persons. Più in generale, la bioetica si trova oggi a dover abbandonare una nozione ingenua di “soggetto” e a fare, invece, i conti con quel processo di destrutturazione e decentralizzazione del soggetto che ha caratterizzato tutta la cultura del Novecento e di cui la psicoanalisi è stata tanta parte.

2) La struttura dei processi motivazionali: La bioetica ha sinora accettato la finzione che i processi decisionali fossero il risultato di una critica razionale. Come per il punto precedente, questo modello è scarsamente applicabile in situazioni complesse e sempre più si avverte l’esigenza di utilizzare anche in bioetica un modello di motivazione che vada al di là della pura razionalità e che consideri invece la moltiplicità dei desideri e la complessità del mondo pulsionale. In definitiva un modello motivazionale che non consideri l’esistenza di processi mentali inconsci e di una dinamica tra differenti e, spesso, confliggenti motivazioni, pecca di eccessiva astrattezza e appare operativamente viziato da troppi pregiudizi. Un interpretazione letterale delle motivazioni consciamente apportate da un malato, spesso conduce a non conprensione sostanziale della sua volontà. In particolare, in assenza di un’ articolazione delle motivazioni che tenga conto dell’insegnamento psicoanalitico, tutta la dottrina del consenso infomato sembra peccare di un’ astrattezza via, via crescente che ne minaccia la stessa applicabilità clinica.

3) La descrizione dello sviluppo e della competenza morale: Perché un atto sia moralmente rilevante è necessario non solo che vi sia un agente ma anche che vi sia un’intenzione. A sua volta la nozione di intenzione richiede che l’agente possegga una competenza morale. Il tema della competenza morale, ovvero di quanto e in che misura un soggetto sia cosciente dei propri gesti e sia in grado di valutarli moralmente ( sia in se stessi, sia nelle loro consequenze), è uno dei temi cruciali della bioetica. Sia in clinica, sia nella ricerca una corretta valutazione della competenza è preliminare ad ogni altra valutazione. Il concetto di competenza è, tuttavia, teoricamente non chiaro e operativamente di difficile applicazione, tanto che ogni tradizione culturale e ogni codice legale tende a darne differenti definizioni ed applicarlo in differenti maniere. La psicoanalisi, così come altre psicologie, può contribuire a chiarire cosa si debba intendere con il termine di competenza e dovrebbe nel contempo forrnire alcuni elementi valutativi basilari.

4) Il ruolo delle emozioni nella scelta morale e nei processi decisionali: Un’ altra importante questione che la psicoanalisi potrebbe contribuire a chiarificare nel dibattito bioetico riguarda il ruolo delle emozioni in psicologia morale. La bioetica ha finora accettato il paradigma cartesiano che voleva una netta distinzione fra ragione ed emozioni. Questo paradigma, che pure ha uniformato anche buona parte della psicologia ottocentesca e del primo Novecento, non è oggi più sostenibile (Damasio A. 1994). Al contrario ragione ed emozione appaiono essere da un punto di vista sia psicologico sia neurologico strettamente interconnessi tanto da poter essere considerate null’altro che le due diverse faccie di un’identica moneta. Inutile dire che un differente approccio al tema delle emozioni non solo condizionerà la bioetica “clinica” (si pensi al tema dell’autonomia del paziente, ad esempio) ma anche, e soprattutto, la bioetica “normativa”. Descrizioni di pratiche correnti, raccomandazioni, guidelines, non potranno più soltanto tenere in conto gli elementi “razionali” di un problema, ma dovranno sempre anche valutare attentamente il loro impatto emotivo sul pubblico sia “laico” sia professionale”.


Conclusioni

Appare difficile, a questo punto, giungere ad una qualche conclusione coerente di un percorso che, volutamente, è stato frammentario, proprio perché voleva dare l’idea della complessità, e ricchezza, delle relazioni tra queste due discipline, etica e psicoanalisi. Se, tuttavia, un’esperienza si può trarre da questo rapido excursus che abbiamo cercato di compiere, esso può bene essere espresso da una frase di Karl Popper: “Never let yourself be goaded into taking seriously problems about words and their meanings. What must be taken seriously are questions of fact, and assertions about facts: theories and hypotheses; the problems they solve; and the problems they raise” (Popper K., 1992, p.16) Se psicoanalisi ed etica rinunzieranno ad ogni disputa nominalistica e a ogni diatriba ideologica, e sapranno collaborare nel futuro, i risulati non potranno che essere eccellenti.



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Note

(1) Non vale tornare in questa sede sulla distinzione tra “etica medica” e “bioetica” , tanto se ne è discusso in questi anni. Il lettore interessato all’argomento potrà trovarlo discusso in qualsiasi trattato di bioetica in uso.

(2) In bioetica si trova spesso riferita questa affermazione come “Legge di Hume”. In effetti Hume scrive in Treatise of Human Nature, iii. 1.1: “altogether inconceivable that this new relation [ought] can be derived from others, which are entirely different from it”. Il che, però, come si vede, non è esattamente la stessa posizione di Moore. Hume parla di “relation” mentre Moore parla di “fact” e la differenza non è irrilevante.

(3) Quello di Freud è un “determinismo moderato” nel senso che ammette la persistenza di una qualche forma di libertà e responsabilità individuale, del resto Freud non negherà mai il concetto di responsabilità personale (egli giungerà persino a sostenere che noi siamo moralmente responsabili anche del nostro inconscio). In realtà Freud distingue un’etica “positiva”, composta di norme e divieti, e di cui egli dubita profondamente, e un’etica astratta, deontologica, oggettiva ed autofondante, di cui la psicoanalisi è parte essenziale. In ciò si può dire che Freud sia kantiano.

(4) Il termine “metapsicologia” fu introdotto da S.Freud per indicare gli assunti teorico-filosofici di fondo della propria psicologia. Per estensione viene oggi utilizzato per indicare gli analoghi principi di qualsiasi psicologia dinamica.

(5) P.Rieff (1979) ha dedicato un convincente capitolo all’ “etica dell’ onestà” in S.Freud, mettendola in contrasto alla morale ipocrita “dell’uomo civilizzato”. Rieff sceglie come esergo del capitolo una citazione nietzschiana, proponendo implicitamente la sua chiave di lettura.

(6) Imparare a vedere la trave nel proprio occhio non solo è una cura efficace, ma è anche un requisito etico irrinunciabile. Sandro Gindro ha ripetutamente sostenuto che l’immagine evangelica della trave e della pagliuzza contiene già in nuce tutto il pensiero psicoanalitico, o almeno il suo messaggio essenziale.

(7) L’argomento è controverso. Vi è stato anni or sono addirittura un movimento che si augurava la scomparsa di ogni “metapsicologia” in quanto palesemente inutile e mero orpello metafisico. Se con il termine di metapsicologia si intendono una serie di affermazioni dogmatiche indimostrabili sulla psicologia umana, non si può che essere d’accordo con questo augurio; differentemente se con il termine di metapsicologia ci si riferisce a un modello teorico di riferimento che viene costantemente testato nella pratica clinica. Tutto sta, insomma, ad intendersi con le parole.

(8) Gli argomenti sembrano seri ma, se applicati rigorosamente, avrebbero condannato anche Paolo e Francesca (rottura di relazione fiduciaria, asimmetria del rapporto, ecc.). Insomma secondo questi parametri ogni rapporto amoroso sarebbe “non-etico”.

(9) Questo caso va distinto da quello in cui non è possibile una reale guarigione e lo psicoterapeuta deve diventare una sorta di protesi emozionale di cui il paziente (spesso portatore di gravi disturbi di personalità) non potrà più fare a meno. Si tratta di guarigioni per difetto (o riuscite cronicizzazioni) in cui il supporto psicoterapeutico assume il senso dell’insulina per il diabetico. Distinguere questi casi da quelli in cui la cronicizzazione è provocata da una malpractice è, tuttavia, tutt’altro che facile.

(10) Il lettore potrà trovare tutti le informazioni sulla situazione europea e sullo stato del dibattito nel recente volume: AG, Reiter-Theil S, Helmchen H (eds): Informed Consent in Psychiatry. European Perspectives of Ethics, Law and Clinic Practice. Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden.


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