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PSYCHOMEDIA
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Il Grido di Munch
Da sogno mancato ad icona del 900

Goriano Rugi


Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo -il sole stava tramontando- le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando.

E. Munch

 

Vietato sporgersi (Premessa)

Avvicinarsi al Grido di Edvard Munch è una esperienza affascinante e complessa, che può coinvolgere, esaltare o turbare, fino all’afasia, come camminare ai bordi di un abisso, quando meraviglia e paura tolgono la parola. La fama di questo capolavoro è cresciuta nel tempo, attraverso innumerevoli vicissitudini, anche di cronaca, che l’hanno radicata nel nostro quotidiano. L’immagine del Grido quindi persiste, non solo nelle innumerevoli riproduzioni, nelle versioni secondarie, nelle incisioni, essa insiste in noi, nelle nostre fantasie, è diventata un luogo dell’immaginario collettivo. Il fatto poi che essa dilaghi in infiniti gadget pubblicitari, dal cinema alle magliette, dalle copertine dei libri agli striscioni contro la guerra, ci fa pensare che ormai sia una sorta di figura apotropaica, che ci accompagna nelle nostre paure, a scacciare i fantasmi e il terrore come per secoli ha fatto l’immagine della Medusa. E tuttavia questo dilagare delle immagini del Grido rischia di addomesticare uno dei simboli più profondi e drammatici dell’arte, di rendere banale e obsoleta una delle figure più inquietanti della nostra epoca. Questa icona del moderno, questa immagine cult, racchiude infatti una complessità e una importanza difficili da immaginare. Non è esagerato affermare che le sue implicazioni per l’arte, la psicologia e la teoria della conoscenza sono straordinarie e inquietanti. Per questo mi è sembrato importante tentare di ricostruire la genesi del Grido, di ripercorrere le tappe di quelle trasformazioni che hanno reso possibile la sua realizzazione, di delineare gli orizzonti e gli scenari interni ed esterni sui quali esso si apre, lasciandoci sprofondare nei suoi abissi, nella speranza di far emergere la sua straordinaria profondità.

Anatomia del Grido

In quel piccolo dipinto una figura umana si allunga e si contorce al centro della tavola. La sua bocca è aperta in un cerchio vuoto, irregolare, da cui emana una formidabile forza deformante che stira il volto e lo dilata verso l'alto in una maschera di paura. I colori stessi gridano, sfigurano ogni forma, e l’emozione ci assale e ci sorprende in un impatto così forte che la rappresentazione del grido sembra rivelarsi a noi per la prima volta in tutto il suo allucinato realismo. Munch ci-fa-vedere il grido, lo costruisce nelle sue linee di forza e nel suo tremendo potere di deformazione, quando tutti gli oggetti si sfigurano e si trasformano animati di terrore e lo sguardo si fissa e si perde in quella che è l'esperienza del panico. Ma Munch ci dà anche il suono. Lo percepiamo violento, irresistibile, in quelle mani che si portano a coprire le orecchie, in quelle linee circolari, vorticose che dalla bocca e il volto si ampliano e si espandono sino ad inglobare tutto l'intorno. Così non è solo l'uomo che urla, ma tutta la natura che si anima di un grido vuoto, e tuttavia palpabile, in quelle linee di forza che si allungano e si dilatano disegnando sinuose i bordi, il mare e il tramonto, ove si caricano di color sangue. La diagonale di un ponte chiude bruscamente il vortice del grido, lo spezza verso il basso, mentre uno steccato obliquo, rosso, penetra l'uomo di dolore. Pochi segni umani accentuano la sua solitudine; un campanile e due barche che galleggiano irreali, due figure che si allontanano, irraggiungibili, dall'uomo che affonda nell'angoscia e nel totale estraneamento di sé e del mondo. Munch ha capito perfettamente che il fondo stesso della catastrofe è già tutto in quella superficie e lo mostra, magicamente, in quel piccolo essere deformato, allungato, regredito in una forma embrionale, senza sesso, che si chiude, sinuoso, al terrore puro della percezione. Nel dipingere un uomo-che-grida, Munch, sembra quindi smentire clamorosamente il giudizio di Schopenhauer, che riteneva impossibile la riproduzione del grido nelle arti figurative1. Munch rappresenta il Grido, lo fa vedere … in quella figura che si deforma, nella vertigine dell’abisso; di più lo fa sentire … in quel gesto delle mani che chiudono al suono e insieme lo evocano, in quelle linee di forza che di-segnano il turbamento emozionale … la forza del suono e lo sconquasso della natura. E proprio quel gesto è il nostro gesto, quelle mani sono le nostre mani, che si muovono a difenderci dal suono, a compiere la magia di una autentica trasformazione per cui noi siamo lì e non sentiamo il suono perché ci tappiamo le orecchie, e tuttavia quel suono lo udiamo talmente forte che ci dobbiamo difendere. Per questo quel grido sembra esplodere direttamente nella nostra mente, come un gesto che nasce dalla nostra interiorità, a contenere un caos informe che emerge dall’abisso della memoria. Quel grido è il nostro grido, anche se nessun urlo esce dalla nostra bocca, esso ci assale dall’interno, ci sorprende, come se … su quel ponte, fragili e senza difese, in balia del mondo, ci fossimo proprio noi.

Il Grido tra passione e Hybris

Studiare Il Grido non è cosa facile. Più facile è farsi catturare dalla sua passione, che ti sprofonda in un vortice senza parole. Il grido in fondo è la voce del caos, che nel suo etimo indica il fendersi, l’aprirsi della terra, ma anche lo spalancarsi della bocca. Quando ho cominciato ad interessarmi di quest’opera non immaginavo in quali avventure e difficoltà mi avrebbe condotto. All’inizio ne ero soltanto affascinato, ma il mio interesse era rivolto soprattutto a cercare di cogliere i legami tra la vita e le opere del suo autore, legami intimamente intessuti in quel possente Fregio della vita ove Munch trasforma in pittura le passioni elementari della sua storia e della vicenda umana. In quella raccolta di opere vedevo un’autoanalisi per immagini, paragonabile solo a quella più nota di Freud. Da questo punto di vista, Il Grido, che fa parte del Fregio, è un’occasione unica per uno psichiatra interessato ai meccanismi del processo creativo. Rare sono infatti le opere in grado di testimoniare così drammaticamente la vittoria del genio artistico sulla patologia e pochi autori sono riusciti a farci entrare così a fondo negli intimi recessi della creatività. Munch ha lasciato tracce e testimonianze straordinarie di quei passaggi dolorosi e necessari che portano dall’angoscia e dalla sofferenza all’opera d’arte. E tuttavia, al di là del fascino e della passione, prima ancora dei suoi percorsi creativi, Il Grido si impone quale atto di hybris, quale straordinaria sfida e trasgressione ai canoni estetici dell’epoca che non ammettevano la sua rappresentazione. Non solo non la ammetteva Schopenhauer, che la riteneva “ridicola”, ma lo stesso Munch, che pensava di non avere i “mezzi” per rappresentare quel grido. Con la sua realizzazione il pittore norvegese superava quindi di gran lunga la sua vicenda personale coinvolgendo la storia della pittura e l’immaginario umano. In questo senso Il Grido non è solo una radicale innovazione, esso è anche un ribaltamento del paradigma estetico, un evento a partire dal quale è necessario ripensare la pittura precedente e quella successiva. Ovviamente questo non è il compito di uno psichiatra, ma degli storici dell’arte. Molti, in effetti, hanno visto nel Grido la nascita dell’Espressionismo. E tuttavia l’espressionismo non è solo un periodo o una corrente artistica, esso è anche una modalità del dipingere caratterizzata da un rapporto più diretto con le emozioni che imprimono alla forma una particolare distorsione per cui la superficie finisce con il portare le tracce e i “profumi” della passione. In questo senso l’espressionismo attraversa i periodi storici, le scuole artistiche e perfino lo stile individuale che cambia con il tempo e i soggetti passionali. Per cercare di capire Il Grido di Munch ho quindi dovuto seguire le tracce delle scene di questo gesto nella pittura antica, nella tragedia classica e nella letteratura; mi sono lasciato trascinare negli abissi della vicenda personale di Munch, ho risalito il suo percorso creativo attraverso abbozzi, prove e appunti, alla ricerca delle parole, della dinamica e del pensiero di una immagine “impossibile”. È su questa strada che ho trovato le scene della Passione, le immagini straziate del Cristo, che nel grido d’abbandono rivelano l’origine e la sofferenza di ogni conflitto. I risultati di queste ricerche appartengono ad un altro lavoro, ma il fascino della rappresentazione del volto e della Passione di Cristo è tale che ho finito con il pensare che anche Il Grido ne portasse l’eco. Una tentazione in parte sostenuta dal fatto che Munch ha realizzato altri dipinti a carattere religioso, come Il Golgotha (1900) e Deposizione (1916), opere trascurate da una critica più sensibile al fascino del biografismo e della psicopatologia che alle suggestioni del mito e dell’iconologia religiosa. L’identificazione Munch-Cristo corrisponde del resto ad un topos ampiamente documentato ed estensibile anche ad altri autori dell’epoca, come Ensor, Kokoschka e Gauguin2. Nel profondo abissale della propria sofferenza l’uomo occidentale tende infatti ad identificarsi nella figura di Cristo, come è dimostrato dal fatto che lo stesso Bacon, trasgressivo e notoriamente ateo, fa della Crocifissione e del grido i suoi temi centrali. Dipingendo Il Grido, Edvard Munch, realizza comunque qualcosa di veramente radicale; qualcosa che possiamo definire la rappresentazione dell’angoscia nel rovesciamento della percezione e nel disfacimento dell’Io. In questa opera la pittura per la prima volta trova i mezzi per esprimere nel suo emergere l’immagine della catastrofe interiore, per descrivere il collasso del mondo interno e della realtà nello sconquasso dell’emozione: “Soltanto un pazzo avrebbe potuto dipingerlo”1, scrive lo stesso autore su una copia del Grido. Del grido, gesto fondante e primario, Munch ci ha dato la rappresentazione estrema, realizzando il mito e il simbolo dell’uomo nella sua condizione di solitudine e d’angoscia. In questo dipinto Munch supera quindi i limiti espressivi fissati dal filosofo di Dresda nella sua celebre analisi del Lacoonte e crea un capolavoro assoluto che è diventato universalmente simbolo e icona dell’angoscia e forse di un’epoca che sta scomparendo. E tuttavia in quell’opera leggiamo anche la realizzazione della potenza stessa del genio creativo, la prova definiva della sua superiorità sulla follia. Dobbiamo allora cercare di capire di quali mezzi e magie dispone la creatività per arginare e superare gli abissi dell’angoscia e del delirio, per riuscire a passare da un caos interiore senza forma alla forma del caos.

Una sera d’estate

Sappiamo innanzi tutto che Munch ha rappresentato nel Grido un’esperienza reale, a Lijabroivein, una sera d'estate del 1890, pochi mesi dopo la morte del padre:

"Passeggiavo per un sentiero con due amici -annota Munch nei suoi diari- il sole tramontava. Ho sentito salire la malinconia. Improvvisamente il cielo divenne color rosso sangue. Mi fermai, appoggiato contro lo steccato, stanco morto. E guardai le nuvole sospese sopra il fiordo blu-nero e la città come lingue di fuoco e sangue. I miei amici camminavano avanti. Io restai lì tremante di paura. E sentii un grande urlo senza fine attraversare la natura"2

Per circa tre anni Munch tentò di dipingere questa esperienza senza tuttavia riuscirci. Christian Skredsvig, pittore e suo compagno di viaggi, riferì che Munch fu a lungo depresso per l'incapacità di realizzare un tramonto “rosso sangue” in grado di rendere quella visione di “sangue coagulato” che egli aveva vissuto3. Munch in effetti dipinse varie vignette nei suoi diari e sin dall'inizio tentò di realizzare proprio quella visione di sangue coagulato. Le macchie rosse, che emergono violente in Disperazione del '91, ne sono la prova. Ma forse non è tutto. Per anni Munch non ebbe neppure la piena consapevolezza di voler dipingere proprio un grido. I vari studi preparatori del resto si chiamarono Disperazione e il Grido prese questo nome solo dopo un suggerimento dell’amico poeta Przybyszewski, come già era accaduto per la Voce e il Vampiro. C'era dunque qualcosa d’inconscio che sfuggiva allo stesso Munch; qualcosa che si realizzò solo gradualmente attraverso gli studi preparatori che nella loro successione mostrano come ciò-che-cambia forma o piuttosto ciò-che-va cercando forma sia proprio il Grido. E tuttavia la sua ricerca non ebbe pace finché egli non riuscì a realizzare quell'immagine onirica di un fantasma senza sesso che grida. Una volta realizzato, esso fu il Grido; per l'amico intimo, per lui, per noi tutti. Perché dunque Munch non riusciva a realizzare il Grido? Lui che nei suoi diari scriveva "sentii un urlo attraversare la natura; mi sembrò quasi di udirlo" e che all'amico Skredsvig aveva parlato proprio di un "grido primitivo"4. Quale fu l'esperienza emozionale di cui il Grido rappresenta una formidabile trasformazione? Munch ebbe una allucinazione? Una crisi di panico? O vide semplicemente un intenso tramonto rosso sangue? Ovviamente non è facile dire se egli ebbe una vera allucinazione. Possiamo però fare alcune ipotesi. Nei suoi diari Munch scrisse: "Mi sembrò quasi di udirlo", e tuttavia lo udì …"Ho sentito un grande urlo attraversare la natura". Dunque Munch lo udì e non lo udì, però lo vide. Munch vide le nuvole “tinte di rosso sangue … dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando".5 Così Munch non sapeva se aveva sentito l'urlo, ma certamente lo aveva visto nel rosso sangue di quel tramonto. Questo era il problema del pittore, rappresentare un evento che fosse insieme segno visivo e segno sonoro, lo stesso problema di Schopenhauer, per il quale il grido non poteva essere rappresentato perché non si può vedere. Questa la formidabile sfida che ossessionò Munch, per anni; realizzare la forma nell'attimo stesso in cui questa si dilegua nell'esplosione sonora; realizzare la forma di ciò che non ha più forma e che tuttavia de-forma ogni cosa nella forza del grido. Questa certo la grande illusione della pittura che Platone aveva osteggiato perché "non tralascia alcuna stregoneria" per portarci dentro lo "smisurato"6, cosicché attraverso il disorientamento dei colori e la confusione delle cose possiamo udire ciò che non è udibile e vedere ciò che può essere soltanto sentito.

 

Udire labbra e vedere voci.

Ma cosa accadde allora nella mente di Munch? Si può realmente vedere un grido? Si può sentire gridare i colori? Per capirlo proviamo a fare un passo avanti fino al 1976, quando Mc Gurk e Mc Donald7pubblicarono su Nature un articolo dal titolo Hearing Lips and Seeing Voices, “Udire labbra e vedere voci”, in cui gli autori dimostravano che possono essere indotti dei suoni linguistici allucinatori allorché si presenta una scena visiva in cui un parlante fa dei gesti vocali idonei alla produzione di tali suoni. Dunque si può vedere una voce e si possono udire delle labbra. Questo è l'effetto Mc Gurk, una semplice sinestesia associata a stimoli linguistici, che però gli autori considerano essenziale per la comprensione e l'apprendimento del linguaggio e che potrebbe essere utile per la comprensione della genesi del Grido. E tuttavia Munch non vide qualcuno fare gesti; vide un tramonto rosso sangue e sentì un grido o gli parve quasi di sentirlo e … comunque lo vide. La psicologia direbbe che vi è stata una risposta colore puro, esattamente uno shock al rosso, come quando un paziente reagisce con una esclamazione violenta alla tavola due del Rorschach. Un indice, questo, di profondi disturbi nella sfera affettiva, aggressiva e sessuale, che tradisce la possibilità di violente tempeste emotive. Aspetti certo non estranei alla vita di Munch. Sappiamo inoltre che i colori esercitano sui processi associativi degli impulsi simili a quelli degli affetti nella vita quotidiana, cosicché il colore rosso può innescare una serie di associazioni a corto circuito che possono portare una persona a gridare. Munch però non ha gridato; è la natura che ha gridato per lui nel rosso di quel tramonto in cui era stato proiettato violentemente tutto il dolore che la sua mente non aveva potuto contenere. E questo perché " 'Lì fuori' -ricorda von Foester- non ci sono né luce né colore, ma solo onde elettromagnetiche: 'lì fuori', non ci sono né suono, né musica, ma solo variazioni periodiche della pressione dell'aria;...Infine, sicuramente, 'lì fuori' non c'è dolore"8. Così, quando Munch sentì o vide un urlo attraversare la natura, egli mise fuori di sé ciò che era dentro di sé; un grido di dolore infinito, rappreso come sangue nell'abisso della memoria, un grido che nello sciogliersi del ricordo fluisce incontenibile nel mondo. Possiamo allora pensare che il rosso del tramonto, rosso sangue, abbia scatenato un’emozione violenta, una reazione di panico, tale da scuotere Munch in un grido di terrore puro, proiettato violentemente sui colori, come se ciò che era entrato con lo sguardo, con quegli occhi spalancati sull'abisso della memoria, fosse stato evacuato attraverso la bocca, in quell’urlo, tremendo, che attraversò la natura.

Il sogno mancato

Bion ha segnalato che quando un paziente dice di udire qualcosa può "anche voler dire che la sta emettendo dall'orecchio"9. Nel modello bioniano della mente le emozioni troppo intense possono infatti essere evacuate dagli organi di senso che invertono la loro direzione e producono allucinazioni. Queste ultime sono quindi collegate al fallimento della cosiddetta “funzione alfa” e del suo compito di trasformare le emozioni in immagini oniriche o in pensieri. Quando invece non c'è un vero disturbo del pensiero si possono avere quei fenomeni che Meltzer (1984) chiama flash onirici in cui il paziente vede immagini o sente voci che però non sono vere allucinazioni perché il soggetto è in grado di mantenere un contatto emotivo e dare associazioni. In questo caso è come se il paziente avesse cominciato a fare un sogno che però la sua mente non riesce a contenere; da ciò una proiezione all'esterno, fuori dello schermo mentale, d’immagini o audiogrammi onirici. Sappiamo però che quella sera Munch non mantenne il contatto emotivo con i suoi amici, che erano lontano, e passarono almeno tre anni prima che egli riuscisse a rappresentare ciò che veramente accadde su quel ponte.

Nella mia ipotesi la realizzazione del Grido corrisponde allora al sogno riuscito di una vera esperienza allucinatoria, ad una formidabile trasformazione onirica e pittorica del fallimento di un sogno.

Perché una allucinazione e perché il fallimento di un sogno? Innanzi tutto le allucinazioni non sono rappresentazioni di cose, sono "cose in sé",10 almeno nei termini di Bion. Esse non possono essere usate per pensare, né per sognare; possono solo essere evacuate sotto forma dei cosiddetti “elementi beta”, che se misti a frammenti dell'apparato psichico, danno luogo a “oggetti bizzarri”.11 E tuttavia dobbiamo capire meglio questa funzione “misteriosa” che Bion indica come funzione alfa e pone alla base dei processi di pensiero. Essa fa parte della storia relazionale e presiede allo sviluppo della personalità; il suo compito è di rendere “digeribile” la realtà esterna ed emozionale, che lega in un processo di simbolizzazione. La funzione alfa lavora su tutta la realtà sensoriale ed emozionale e tuttavia qualcosa sfugge a questa funzione, qualcosa che essa non riesce ad “alfabetizzare”, o perché “difettosa”, o perché quel qualcosa ha una carica emozionale eccessiva. È questo l’elemento beta che sin dall’inizio rappresenta l’impensabile, lo scarto, ciò che sta al di fuori del pensiero12. Gli elementi alfa, che corrispondono ad immagini visive (ideogrammi), sono invece “metaboliti di base”, essenziali per la memoria e l’apprendimento, quindi per le operazioni di pensiero cosciente, ma anche per la formazione dell’inconscio e i pensieri onirici della veglia. Per Bion infatti ogni esperienza, sia che capiti nel sogno che da sveglio, deve poter essere sognata, sottoposta al lavoro del sogno-alfa, perché “L’incapacità di avere delle immagini visive di ciò che sta avendo luogo vuol dire che l’esperienza emotiva non può essere preservata né nel conscio, né nell’inconscio.”13 Per questo in Bion il pensiero è una “attività di legame”14 e “la mente si autocostruisce pezzo per pezzo”15 a partire dall’esperienza emozionale. Per questo le emozioni sono il vero motore della mente e le allucinazioni sono espressioni del "fallimento di un sogno". Bion quindi collega le fasi più precoci dello sviluppo del pensare agli elementi beta e alla “produzione dei segni”16. Gli elementi beta sono costituiti da componenti elementari o “materiali” psichici forniti di qualità affettive grezze, che possono rivelarsi come segni e rappresentare quindi la primissima matrice dalla quale si può supporre che sorgano i pensieri. Per l’autore la lingua primigenia si basa quindi sul segno con una carica emotiva, che rinvia ad elementi grezzi, indifferenziati e la nascita del pensiero appare come una sorta di scrittura a partire dal caos di una catastrofe originaria. Essi sembrano corrispondere a emozioni o “fatti non digeriti”, che possono anche essere trasformati in immagini, ma solo per essere evacuati. Quando infatti l’esperienza e gli stimoli non sono stati trasformati da alfa, essi restano nomi senza significato per “mancanza di associazioni” o immagini visive usate come contenitori per espellere idee ed emozioni non desiderate. Tale processo avviene generalmente nello psicotico, che per un difetto della funzione alfa è incapace di digerire mentalmente l’esperienza emotiva18, ma anche nell’individuo normale, di fronte a stimoli troppo intensi. Per vivere ed apprendere dall’esperienza occorre quindi saper sognare le esperienze emozionali proprio mentre ci accadono. Con la sua teoria Bion quindi ci dà la possibilità di guardare più a fondo nei recessi del processo creativo, dando spessore scientifico a quelle intuizioni del sapere poetico e popolare che nelle espressioni “la vita è un sogno” e “i poeti e gli artisti sono dei sognatori”, avevano colto antiche verità. Non solo, lo stesso Bion ci ricorda che gli artisti hanno la capacità di digerire e sognare fatti ed esperienze che altri non hanno; di porsi di fronte al terribile e all’ignoto e di renderlo “visibile” agli altri attraverso le loro opere19. Se quella sera Munch ebbe una allucinazione, possiamo allora pensare che egli non riuscì a “sognare” quella terribile esperienza emotiva, né a ricordarla come pensiero, ma solo come “fatto nudo e crudo”20, nello spavento di una percezione reale. E tuttavia, quel grido proiettato "lì fuori", nella sua materialità, come cosa-in-sé e non pensiero, unito ad un senso di catastrofe, fu anche un primo segno a partire dal quale il pittore tentò un processo trasformativo, difficile e doloroso, che lo condusse infine a sognare e dipingere la sua esperienza allucinatoria. Il grido-allucinazione appare quindi insieme come traccia di una catastrofe e come prima immagine sonora della nascita di un pensiero. Le opere preparatorie -le varie Disperazioni- rappresentano allora le tracce dei passaggi necessari per una progressiva elaborazione onirica e pittorica di un sogno fallito. Attraverso queste opere la nascita del Grido appare come una sorta di scrittura realizzata a partire dai segni del caos di una catastrofe originaria. Così il sangue coagulato, stimolo shock che scatena l'emozione dolorosa; così l'uomo pensieroso, triste, appoggiato allo steccato e che qualcuno ha visto come un autoritratto di Munch ubriaco-che-vomita; così il paesaggio con il fiordo e la città ancora lineari e non deformati dall'esplosione del grido, sono tutti passaggi verso un insight che avvenne improvviso nel '93, quando il grido si rivelò in quell'immagine di un fantasma, che emerge, infine, dall’oblio, in una visione dall'interno, nel rovesciamento della percezione e nel collasso dell'Io. Solo allora Munch poté dipingere il grido nel suo effetto deformante, nella rappresentazione dell'uomo-larva-che-grida, come se fosse infine riuscito a riappropriarsi di quel suono che era fuoriuscito dalla bocca aperta, come se avesse infine sognato ciò che avrebbe dovuto sognare allora se fosse stato in grado di contenere il tremendo di un ricordo impossibile. Per questo il Grido ci assale nel trasalimento di una scossa; nell'emozione che toglie la parola; nella materialità di un evento che sembra rivelarsi a noi per la prima volta in tutto il suo allucinato realismo.

Un ricordo impossibile

Quale fu quel ricordo impossibile? Quale emozione catastrofica si scatenò in Munch alla vista di quel tramonto rosso sangue? E perché egli non fu in grado di contenerla, ma solo di evacuarla come allucinazione? Sono queste le domande su cui ho cercato di interrogarmi a partire dalle opere di Munch e dalla conoscenza psicoanalitica. Nel Progetto di una psicologia Freud aveva già intuito in poche geniali osservazioni il legame essenziale fra grido, memoria e dolore. Egli segnalò tra l'altro come l'associazione di un suono con la percezione di un oggetto dava luogo a "immagini sonore" che stavano alla base degli schemi motori della memoria. Freud concluse che i primi ricordi coscienti erano quelli in cui "l'informazione del proprio grido serve a caratterizzare l'oggetto"21, proprio come propongono le parole del poeta Pratolini per il quale "alla base della memoria c'è sempre un grido di disperazione"22. Molti anni dopo, nel 1937, in Costruzioni in analisi, Freud fece quindi un’altra osservazione essenziale, quella per cui nelle allucinazioni "ritorna qualcosa che è stato vissuto in tempi remoti e poi è stato dimenticato"23. L'allucinazione, allora, è memoria senza ricordo; essa del ricordo occupa lo spazio doloroso, testimone e custode di un trauma che non può essere richiamato alla coscienza. E dell'allucinazione il Grido mantiene certo il carattere; Munch in quegli anni era effettivamente quasi "pazzo", continuamente vicino al punto di rottura. Per il pittore, come per noi, il Grido è l'immagine di quella "follia" che insieme alla "malattia" e alla "morte" rappresenta "gli angeli neri" che si affacciavano alla sua culla. 24 E di traumi Munch ne ebbe tremendi: a cinque anni perse la giovane madre Laura; a quattordici la sorella Sophie, entrambe malate di tubercolosi, malattia di cui egli stesso soffriva; a ventisei anni, nell'89, perse infine il padre, da tempo già sofferente di manie religiose e di depressione. L'arte di Munch nasce quindi come "autoritratto all'inferno"25, come immagine di un interno lacerato, frammentato, da perdite non ricomponibili nel lutto, da traumi non attraversabili nella mente. Così l'opera di Munch, come l'Angelus Novus di Klee, "ha il viso rivolto al passato, [....] vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto"26; essa è insieme luogo di assenza e simbolo di unione; immagine che racchiude in sé "la doloreuse synthèse de la survivance et du néant"27. Memoria, tuttavia, non come semplice "traccia mnestica", "ritrovamento delle immagini assopite nel cervello", né tantomeno memoria involontaria, "intermittence du coeur"; in Munch la memoria è immagine che persiste: "E io vivo con i morti -scrisse il pittore nei suoi diari- mia madre, mia sorella, mio nonno, mio padre- lui soprattutto. Tutti i ricordi, le minime cose mi ritornano a frotte. Lo rivedo così come lo vidi, per l'ultima volta.”28 Dunque immagini che ritornano e si impongono con i caratteri stessi di una allucinazione, come quei ricordi che Freud descrisse in Costruzioni e per i quali scriveva che "si sarebbero potuti chiamare allucinazioni se alla loro vividezza si fosse aggiunto il convincimento di una loro presenza reale"29. "Non presenza" e insieme "non assenza"30, la memoria in Munch si pone dunque con i caratteri della paradossalità, ha la funzione stessa dell’oblio in Blanchot; essa cancella, annulla il trauma, sottrae ad esso il carattere catastrofico, consente all'Opera il suo pietoso lavoro di ricomposizione. Per questo in Munch le immagini hanno spesso il carattere del "perturbante", ci colgono di sorpresa, come qualcosa che appare per la prima volta e che pure ci è familiare; di più, le immagini in Munch, hanno il potere dello "scandalo", in quanto infrazione, trasgressione; esse ci mostrano una verità che non avremmo voluto vedere mai. L’arte di Munch è infatti un’arte “essenzialmente autobiografica”; fin dal 1886 egli lavorò a un diario in cui esprimeva le sue idee di una “estetica del vissuto”, un’estetica cioè che avesse la sua origine nell’esperienza e nella memoria. Munch continuò a scrivere appunti autobiografici e mantenne un rapporto costante con la scrittura e la letteratura, luoghi privilegiati per la memoria e l’elaborazione di una poetica dell’immaginario i cui temi estremi sono l’amore e la morte. “Dipingo non quello che vedo ma quello che ho visto”31, scrisse Munch, prendendo le distanze dal naturalismo dell’epoca per approdare ad un’arte in cui “reminescenze e immaginazione” si uniscono come solo in letteratura. L’arte di Munch è così una sorta di narrazione, tesa tra parola e immagine, in cui i diari divengono quadri e i quadri divengono diari: “I miei quadri sono i miei diari”32 diceva e il Fregio della vita sostituì gli appunti autobiografici. Munch tuttavia precisò la sua poetica. In un manoscritto del 29 scrisse: “Non è mia intenzione ricostruire la mia vita. Piuttosto è mia intenzione cercare le segrete forze della vita, per tirarle fuori, riorganizzarle, intensificarle allo scopo di dimostrare il più chiaramente possibile gli effetti di queste forze sul meccanismo che è conosciuto come vita umana, e nei suoi conflitti con altre vite umane.”33 Il noto legame tra autobiografia e arte, in Munch, è allora qualcosa di più di una ricostruzione per immagini, la sua opera non è semplice rappresentazione di un evento, uno stato d’animo o un conflitto, piuttosto è disvelamento e messa in forma della complessa trama di forze che agitano la vita. Potremmo anche dire che l’opera di Munch è trasformazione in pittura delle passioni elementari e quindi interpretazione della vicenda umana. I temi delle sue opere sono perciò costruzioni aperte, figure che si ripetono, con continue approssimazioni e spostamenti, in una sintesi perfetta di emozioni e di pensiero, in quella che può essere definita la cura dell’anima e dell’uomo. “La mia pittura- scriveva ancora Munch- è in realtà un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza. È dunque una forma di egoismo, ma spero sempre di riuscire, grazie ad essa, ad aiutare gli altri a vedere chiaro”.34 Opera come interpretazione, dunque; pittura come autoanalisi, cura dell’anima. L’arte di Munch è infatti un “eterno ritorno”, una infinita “variazione su un tema”, su rari nodi, coaguli d’esperienza. Essa, in fondo risponde all’unico vero bisogno dell’artista: quello di ricomporre il proprio mondo interno, di ricreare i propri oggetti d’amore lacerati, distrutti … perduti.

La cripta segreta

Tornando alla genesi del Grido dobbiamo tuttavia supporre che quel giorno a Munch fosse accaduto qualcosa di più che un ricordo a carattere allucinatorio come descrisse Freud e come verosimilmente funzionava il normale procedere della sua memoria. Stanley Steimberg35, uno dei primi psicoanalisti a studiare Munch, ha collegato il tramonto di sangue all'immagine della madre morente, di cui il pittore sarebbe stato effettivamente testimone all'età di cinque anni. Immagine questa, dolorosamente rinnovata e confusa con quella dell'emottisi della sorella Sophie, morta nove anni dopo. Ciò avrebbe dato una connotazione visiva al suo trauma infantile e segnato per sempre le stigmate di una "visione dolorosa". Sappiamo infatti che Munch aveva una memoria visiva penetrante e tenace, ma raramente si permetteva di guardarsi attorno. Temeva la visione delle cose, lo sguardo del mondo che poteva sopraffarlo e sommergerlo nel dolore della memoria. Per questo il rosso sangue di un tramonto è "ricordo impossibile"; esso è già la solitudine assoluta, l'angoscia di una separazione traumatica che lo scaraventa nel vuoto, nell'esperienza del panico. L'immagine della madre e della sorella morenti si confondono dunque nel colore rosso sangue, di quel tramonto di fuoco, che sin da subito è visione stessa della catastrofe, immagine dell’abisso. In un dipinto meno noto, La madre morta e il bambino, realizzato tra il '97 e il '99, Munch rappresentò infatti un bambino che grida davanti al letto della madre morente; questa dunque sta al posto del tramonto rosso-sangue nel Grido. In altre parole solo dopo sette anni Munch riuscì a rappresentarsi e raffigurare il vero oggetto che aveva scatenato il suo grido e solo allora riuscì a metterlo al posto giusto davanti a lui bambino-che-grida. E tuttavia dobbiamo notare che quel bambino si porta ancora la mani a coprire le orecchie per non sentire l’antico urlo e che il rosso sangue di quel tramonto diventa una grande macchia di sangue che gli fa da vestito, mentre gli occhi non osano ancora guardare la madre morente e fuggono disperati all’esterno del quadro. Ma perché sette anni prima la madre era un ricordo impossibile? Perché dobbiamo pensare che fosse impossibile per Munch rappresentare nella mente il ricordo della madre e della sorella morenti? La morte del padre, appena qualche mese prima di quella sera a Lijebroivein, può aver giocato un ruolo importante; con lui era scomparso l’ultimo approdo, un approdo che solo molti anni dopo Munch ritroverà “ricomposto” idealmente in Nietzsche. Nel 1906 egli dipinse un ritratto del filosofo, che a noi oggi appare essenziale per la comprensione del Grido. Nietzsche è appoggiato su quello stesso ponte, quindici anni dopo, ma non grida... guarda invece cupo e pensieroso nella superiorità di Zarathustra ai destini del mondo. Il dipinto ripropone così l'iconografia del Grido, ma di esso rappresenta l'antitesi, l’immagine mancata, che 13 anni prima il pittore non aveva potuto realizzare. La mia ipotesi è che possiamo pensare quest’opera come a un “autoritratto” in cui Munch ha ritrovato finalmente la misura, la fede in se stesso, nella forma ricomposta e idealizzata del padre-filosofo. In quel ritratto di Nietzsche possiamo allora vedere una sorta di identificazione con un padre idealizzato, in cui Munch, nelle vesti del padre-filosofo, domina lo stesso scenario interno nel superamento del grido. Munch non conobbe mai il filosofo: "non l'ho mai visto con il mio occhio esterno"36 scrisse nel 1905. Di Nietzsche però Munch condivise il clima epocale, la grande crisi mistica e religiosa, la perdita di ogni fede in Dio e nella salvezza. E Nietzsche, insieme a Böcklin, Klinger e Wagner, era uno di quei pochi grandi tedeschi che Munch amava sopra ogni altro. Quella sera d’estate di molti anni prima il dolore del padre morto era dunque la ferita aperta da cui il grido fluì fuori. E tuttavia quel grido, che nessun scenario esterno giustifica, esplose improvviso come risposta ad una percezione … una visione interna del trauma. Un altro dipinto può aiutarci a capire. Si tratta de La morte nella stanza della malata in cui tutti i personaggi raccolti attorno al letto della sorella Sophie appaiono ritratti esattamente nell'età in cui il quadro fu realizzato e non di quando avvenne il fatto. Il dipinto è del '93, l'anno del Grido; la morte della sorella risale al '77, ma l'episodio sembra essere rimasto inalterato; come se il tempo trascorso non avesse portato alcun sollievo; come se il lavoro del lutto non fosse mai avvenuto, nonostante il lavoro del tempo sui personaggi. Per questo mi è sembrata illuminante la teoria della cripta così come è stata proposta da Abraham e Torok nel libro La Scorza e il Nocciolo. "Il lutto indicibile -scrivono questi autori- instaura all'interno del soggetto una tomba segreta. Nella cripta riposa, vivo, ricostituito a partire da ricordi di parole, di immagini e di affetti, il correlato oggettuale della perdita, in quanto persona completa, con la topica che le è propria, nonché i momenti traumatici -effettivi o supposti- che avevano reso l'introiezione impraticabile"37. In altre parole per Abraham e Torok quando si verificano delle perdite, che per qualche ragione non possono essere accettate in quanto perdite, avviene l'incorporazione. É questo quindi un meccanismo psichico in cui l'oggetto perduto viene letteralmente incorporato, introdotto nel corpo, ove resta custodito clandestinamente in un luogo segreto dell'Io. Da quel momento l'Altro morto abita come vivo dentro l'Io, ma come fantasma, come spettro chiamato a preservare il soggetto da un cambiamento catastrofico. Mentre con l'introiezione il soggetto assimila l'oggetto in un processo di crescita e ne accetta la perdita, con l'incorporazione il soggetto imprigiona l'oggetto e lo assume magicamente sottraendolo alla morte, nell'incapacità di accettarne la perdita e di elaborarne il lutto. Così è "per 'non inghiottire' la perdita che si immagina di inghiottire, di avere inghiottito ciò che si è perduto, sotto forma di un oggetto".38 Quella sera Munch non vide allora solo un tramonto rosso sangue, ma il fantasma stesso della madre morta, che insieme a quello della sorella, teneva nascosti in una tomba psichica, magicamente inghiottiti, per non vederne la perdita troppo dolorosa. Per questo l'uomo che grida ha gli occhi spalancati, gli occhi di colui che hanno visto ciò che non avrebbero voluto vedere mai; la visione di quei fantasmi, ingoiati, espulsi dentro di sé, nascosti in una cripta.

Per concludere

La visione rosso sangue è allora una reintroiezione violenta e improvvisa di un qualcosa che era stato espulso (dentro, non fuori), da cui l'esplosione improvvisa e l'evacuazione esterna nel grido. Per questo quando osserviamo il Grido non vediamo solo un'immagine deformata dall'esplosione sonora, ma proprio il fluire fuori della mente; nel fluidificarsi vorticoso dei ricordi; nell'espulsione violenta di uno spazio mentale che si scioglie e si dilata senza fine. L’immagine del Grido non è quindi stilizzazione, né allegoria; piuttosto è immagine deformata, visione dall’interno, nel rovesciamento della percezione e nel collasso dell’Io. In questo senso Munch è espressionista, anzi dell’espressionismo è “padre spirituale”. Linda Nochlin39 osserva che i simbolisti dell’ultimo decennio dell’ottocento, pur non rinunciando al significato, vollero renderlo in parte “ermetico”, “ambiguo” e “non disponibile per la traduzione”, accentuando così l’indipendenza dei segni dalla realtà materiale esterna. In Munch invece il simbolo non è ermetico, non è ambiguo, non ha bisogno di traduzioni; esso è lì, in una totale identità di significato e significante, di contenuto e forma, esso è già realtà, così come la realtà è già simbolo. L’urlo primitivo, Urschrei, che fonda la poetica dell’espressionismo tedesco, non è infatti urlo di “ribellione”; come in Munch esso è urlo d’angoscia, non esprime “liberazione”, ma caduta verso l’ “elementare”, il “primordiale”, il “panico”; esso non rinvia alla comunione dell’uomo con l’uomo, caso mai alla sua solitudine, alla nudità “materica” dell’Io dissolto, quando l’essere dell’uomo si con-fonde con l’essere della natura. Lo stile di Munch resta insieme naturalista, impressionista, simbolista, espressionista e niente di tutto ciò. Come ebbe a dichiarare Schmidt-Rottluff, Munch resta un “fenomeno unico”, le cui ossessioni e le cui immagini hanno tuttavia attraversato l’espressionismo sin nelle derivazioni astratte dei nostri giorni (Jasper Johns). Il suo stile è in ogni modo legato all’esigenza di esprimere contenuti emotivi, ma questi in Munch sono già problemi formali. L’innovazione stilistica, in Munch, è allora necessità espressiva interiore, e la sua tensione pitturale concreta organizza e controlla la vicenda emotiva nella costante ricerca di nuovi rapporti con lo spazio e l’immagine. In questa corrispondenza tra interno ed esterno, tra fantasma ed opera, sta forse il segreto dello stile di Munch, fatto di scarti improvvisi, recuperi, incertezze. Esso non è mai completamente aderente agli stilemi dell’epoca, né mai completamente indifferente. “Il simbolismo- scrive Munch- deve essere l’immagine della propria emozione”, anzi, di più, esso dovrà “esprimere tutto ciò che è talmente sottile da essere appena un’intuizione, un pensiero, una ricerca, una quantità di cose inesplicate, d’idee in stazione, che non hanno ancora trovato la loro forma”40. “Tras-formazione” dell’emozione, nel suo processo di emersione dall’informe; “figure” plasmate dalla forza dei pensieri ancora vuoti e appena percettibili, le opere di Munch appartengono, allora, insieme al sogno, al mistero della nascita psichica, al luogo della formazione del Sé.

Bibliografia

1 Arthur Schopenhauer , nel suo testo fondamentale Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), tr.it. Mursia, Milano, 1969-85, sostiene che nella arti figurative la rappresentazione del grido è impossibile, perché l’essenza del grido, e quindi anche il suo effetto sullo spettatore risiede tutta nel suono e non nell’apertura della bocca.


2 Vedi Heller, Reinhold, Mondo meraviglioso, in L’Io e gli Altri, a cura di G. Cortenova.


1 Heller R. (1984). Munch His Life and Work. J. Callmann and Cooper, London.


2 Ibidem, pp. 82-3


3 Skredsvig, C. (1992). Jours et Nuits parmi les artiste. in Munch et la France. Paris, Musée d’Orsay s.


4 Ibidem p.135


5 Messer T.M. (1975). Munch, Garzanti, , p. 84


6 Platone. Repubblica, X, 602,d.


7 Mc Gurk, Mc Donald. ( 1976. Hearing Lips and Seeing Voices. Nature,


8 Foester H. (1981). Costruire una realtà, in La realtà inventata, ( a cura di ) Watzlawich, P. Milano: Feltrinelli, 1988.


9 Bion, W. R. (1967). Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Roma: Armando, 1979.


10 Ibidem


11 Ibidem


12 Rugi G. (2003). Che fine ha fatto l’impensabile? Riflessioni sull’elemento beta di Bion. In Pubblica/azione, n.2.


13 Bion W.R. (1992). Cogitations. Roma: Armando,1996.


14 O’Shaughnessy, E. (1981), La teoria del pensiero di Bion e le nuove tecniche in analisi infantile. In Melania Klein, v.2., Roma: Astrolabio, 1995.


15 Meltzer, D. (1984), La vita onirica. Roma: Borla, 1989.


16 Bion W.R. (1963). Elementi della psicoanalisi. Roma:Armando, 1973.


18Bion W.R. (1992). Cogitations. op. cit.


19 Bion W.R. (1992). Cogitations. Op. cit.


20 Bion W.R. (1962). Appendere dall’esperienza. Roma:Armando, 1972.


21 Freud, S. (1895). Progetto di una psicologia. O.S.F. Torino: Boringhieri, 1968, p.265


22 Pratolini V. Lo Scialo.


23 Freud, S. (1937). Costruzioni in analisi. O.S.F., Torino: Boringhieri, 1979. p.550.


24 Rugi, G. (1989). Simbolo, Memoria e Trauma in Munch. in Da Van Gogh a Schiele Milano: Mazzotta.


25“Autoritratto all’Inferno” è il titolo di un dipinto che Munch realizzò nel 1895.


26 Benjamin, W. Angelus Novus. Tesi di Filosofia della Storia.Torino: Einaudi, 1976.


27 Proust, M. Sodoma. Torino: Einaudi, 1963, p. 177.


28 Eggum, op. cit. p. 62


29 Freud, S. (1937) op. cit. p. 550


30 Blanchot M. (1962), L’attesa, l’oblio. Milano: Guanda,1978.


31 Bruno, G. (1985). Edvard Munch. Il problema dell’immaginario. In Munch, Milano : Mazzotta,. p. 30.


32 Ibidem p. 31


33 Ibidem p. 32.


34 Eggum A. op. cit. p. 118.


35Steinberg, S. Weiss, J. The Art of Edvard Munch and Its Function in His Mental Life. Psych. Quart. 23, 409-423, 1954.


36 Heller, R. op. cit. p. 188


37 Abraham, N. Torok, M. (1987) La Scorza e il Nocciolo. Borla, Roma 1993, p 259.


38 Ibidem p. 254.


39 Nochlin L. Il realismo nella pittura europea del XIX secolo, Einaudi, Torino, 1989.


40 Eggum A. op. cit.



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