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PSYCHOMEDIA
ARTE E RAPPRESENTAZIONE
Arti Visive



L'INTIMA RELAZIONALITA' DELL’ESPERIENZA ARTISTICA
Tino Shegal alla 55a Biennale di Venezia
per una revisione delle teorie psicoanalitiche sull’arte

Alessandro Riva


Due o tre attori - uomini e donne - impegnati in un dialogo di gesti e vocalizzi, in corrispondenza transmodale tra la gestualità dell'uno e i suoni della voce dell'altra; una sorta di rituale danzato e cantato in cui si imitano in modo ripetitivo e si sorprendono con cambi di ritmo e di ruolo, messo in scena da giugno a novembre 2013 nel grande salone del padiglione centrale della Biennale di Venezia.
Questa è la sintetica descrizione della performance - di cui qualche stralcio è ancora visibile su youtube - ideata e curata Tino Shegal che ha vinto il Leone d'oro alla 55. Biennale d'Arte.
            Shegal nelle sue performance - che non riproduce né commercializza tramite video o fotografie - valorizza esplicitamente l'incontro dello spettatore con l'opera-evento, il dialogo e l'interscambio di ruoli, l'esperienza vissuta.
            Un esperienza "estetica" che, in quanto tale - nel riconoscimento dell'importanza dell'emozione in rapporto alla cognizione portato da neuro scienziati come Damasio - può offrire un'occasione affettivamente significativa per una trasformazione - anche minimale - del proprio senso di Sé e della propria visione del mondo.
           
Quest'approccio all'arte non è una novità, già Gadamer negli anni sessanta in "Verità e metodo" (1960 -1972) aveva sottolineato il carattere intersoggettivo, dialogico e processuale dell'esperienza estetica; considerando opera d'arte non tanto l'oggetto che si contrappone al soggetto percepente, quanto l'esperienza - un'autentica esperienza di "verità" - che mette in relazione - in un contesto comune - l'autore, il fruitore e l'opera stessa.
            Una definizione che può essere intuitiva per le arti performative come la musica, la danza o il teatro, ma lo è meno per quelle come la pittura, la scultura o la fotografia, anche se, ancor prima di Gadamer,  Merleau-Ponty (1945) aveva anticipato, nella sua fenomenologia, quei concetti di "consonanza intenzionale" e "simulazione incarnata" che  - ripresi oggi dalle ricerche sui neuroni specchio - fanno comprendere meglio le abilità implicite che ci permettono di "leggere" - in una modalità corporeo-motorio-emotiva - le proprietà formali di un dipinto e "dialogarci", al di là  dell'eventuale contenuto esplicito in esso rappresentato.
            L'arte contemporanea - recuperando, in forme diverse e laiche, quello "spazio del sacro" che le rappresentazioni artistiche hanno da sempre contribuito a creare nei luoghi di culto - ha comunque accentuato - tramite il particolare uso degli spazi espositivi, la giustapposizione di tecniche e linguaggi, ecc. - le potenzialità già insite nell'opera "d'arte" di attivare e costruire col pubblico un "un campo", un "contesto", una "cornice" nella quale gli spettatori-partecipanti possono vivere una propria peculiare e "speciale" esperienza, a partire dalle dalle capacità evocative di quella complessa configurazione percettiva "di qualcosa visto, udito o immaginato", che è la forma artistica nella definizione di Susan Langer (1953).
           
Quest'edizione della biennale, curata da Massimiliano Gioni, ha avuto il pregio di enfatizzare, non solo con Shegal, il valore dell'arte come esperienza di crescita e "cura", personale e sociale, facendo eco ad una concettualizzazione della creatività artistica considerata - alla pari del linguaggio - come una abilità connaturata ad ogni essere umano. Gioni, infatti, mette nello stesso luogo e sullo stesso piano lavori di artisti riconosciuti e acclamati dal "sistema dell'arte" e opere di "outsider" che - pur avendo lavorato con continuità creando una gran quantità di lavori - ne sono rimasti fuori per i motivi più diversi, tra cui il bisogno di mantenere segreta la propria espressione più intimamente creativa, come nel caso di Carl Gustav Jung e i suoi disegni del "Libro Rosso" (2009), collocati all'inizio del percorso espositivo.          

In questo contesto quello che mi ha colpito nella performance messa in scena da Shegal è il rimando implicito alle precoci interazioni bambino-caregivers, caratterizzate anche esse dalla reciproca capacità di mettersi in sintonia con l'altro a livello corporeo e ritmico, utilizzando la transmodalità tra voce e gesto per creare, in modo non lineare, ricorrenze e sorprese. L'artista, nelle interviste a seguito del leone d'oro, non spiega le motivazioni che lo hanno spinto a dare certe indicazioni al suo gruppo di attori. Sottolinea solo la scelta di farli stare in ginocchio, o seduti a terra, attinente a un diverso rapporto dell'essere umano col mondo, nel quale non si erge più a padrone. In una sacralità laica in cui gli attori si fanno piccoli, inginocchiandosi, per prendere parte a qualcosa di più grande… cercando una nuova connessione. Ma non potrebbe essere ricercata - invocata ed evocata in quel canto-danza - proprio quell'intimità relazionale di quei primi scambi interattivi fonti di emozioni positive e vitalizzanti a cui gli infant researchers, gli psicoanalisti relazionali e gli psicologi del Sé attribuiscono tanta importanza?
           
La creatività artistica, il "fare" qualsiasi tipo di arte - così come fruirla attivamente - comporta, tra le altre abilità e competenze "tecniche" legate alla forma utilizzata, un' attitudine a entrare in una dimensione dell'esperienza di sé e di sé con l'altro - l'altro da Sè del proprio dialogo interiore, e l'altro rappresentato dall'opera nel suo compiersi o nel suo dispiegarsi alla nostra percezione - qualificata da un senso di libertà e profonda intimità in cui le dicotomie: me-non me, conscio-inconscio, realtà-fantasia, mondo interno-mondo esterno, corpo-mente, ragione-sentimento, processo primario-processo secondario... si trasformano in relazioni complesse.
            Un vissuto già parzialmente evidenziato da Winnicott con i concetti di spazio e oggetto transizionale e da Khout con quello di relazioni di oggetto-Sè.
            Una dimensione dell'esperienza cui si riferisce Mitchell (2000) nel suo ultimo libro, dove - rileggendo Loewald - sottolinea la necessità per il benessere psicologico di mantenere o ritrovare la connessione con la vitalità e la giocosità carica di affetto derivante dalla matrice relazionale delle prime esperienze madre-bambino, all'interno della vita differenziata e organizzata dell'adulto. Riconciliando così la sensualità corporea del preverbale col linguaggio, il processo primario con quello secondario.
            Nelle interazioni dei bambini con i caregivers vi è una condivisione intersoggettiva di propositi, interessi e sentimenti molto prima dell'acquisizione del linguaggio o di una teoria della mente.        Condivisione permessa dalla capacità innata degli esseri umani di entrare in sintonia - grazie ai sistemi dei neuroni specchio - con le relazioni intenzionali degli altri attraverso la simulazione incarnata delle intenzioni motorie. Una conoscenza "diretta" dell'intenzionalità - azioni ed emozioni - che dà significato, anche negli adulti, alla relazione implicita con gli altri.
            Come sostiene Trevarthen (2009), il linguaggio e la cultura si trasmettono e acquisiscono grazie al bisogno umano di stare insieme e condividere "storie", a partire dai quei giocosi e liberi scambi comunicativi che coinvolgono precocemente bambini e adulti. Scambi in cui la sintonizzazione reciproca - tramite la ritmica musicalità dei gesti, le parole e i vocalizzi - può condurre a momenti sorprendenti e inattesi di intensa connessione emotiva. "Momenti di incontro", carichi di affetto, che rappresentano un'occasione condivisa di riconoscimento reciproco (Sander ,1991; B.C.S.G., 1998).
Le emozioni positive, il piacere e il senso di vitalizzazione, che accompagnano tali momenti "speciali", rafforzano reciprocamente il legame e conferiscono "valore" all'esperienza stessa (Meares, 2000). Fornendo così al bambino un modello incarnato per il senso di "valore" di sé e della propria esperienza soggettiva più intima e autentica - in un rapporto di risonanza affettiva col mondo, col proprio contesto di vita - in tutte le fasi successive di sviluppo: dal gioco simbolico, alla deambulazione, al linguaggio... all'età adulta.
           
            L'antropologa Ellen Dissanayake (2000; 2011), sostenendo che la creatività artistica sia un comportamento evoluzionisticamente caratterizzante la natura umana, ne colloca le origini nell'intimità delle giocose interazioni genitori-bambini.  L'autrice infatti, evidenzia in quegli scambi interattivi e nel "baby-talk", delle strategie o pattern "proto"-estetici: la ripetizione, l'esagerazione, la formalizzazione (intesa come semplificazione e astrazione di caratteristiche), l'elaborazione e la manipolazione delle aspettative. Pattern che rimangono nella vita adulta quale importante substrato implicito nell'attivare una risposta emozionale all'arte. Modalità che permettono di rendere "extra-ordinari", comportamenti ordinari e strumentali, osservate anche nei cerimoniali religiosi in tutte le popolazioni, e - ad esclusione dell'ultima relativa alle aspettative - nei comportamenti ritualizzati di corteggiamento e lotta negli animali.
Oltre al già citato Trevarthen, anche altri autori nell'ambito dell'infant-research, come Franck Lachmann (2008) e Daniel Stern (2010) hanno colto nell' espressione artistica certi pattern delle precoci interazioni bambini-caregivers. Lachmann evidenzia come la creazione e la violazione delle aspettative abbia un ruolo centrale in tutte le arti.  Stern, invece, sottolinea il ruolo delle "forme della vitalità" nelle arti temporali o performative.

            Quindi senza eccessivo riduzionismo, potremmo dire, in accordo con la Dissanayake e gli infant-researchers, che l'esperienza artistica - nella "cornice" della tradizione culturale di una determinata comunità - permette un espansione - rispetto alle ordinarie modalità di relazionarsi al mondo - dell'esperienza di sé e di sé con l'altro, che ha "qualcosa" delle complesse qualità motorio-emotivo-cognitive, - il "rasa" (il sapore), direbbero in India – dei precoci scambi interattivi bambini-caregivers e del gioco libero del bambino che da essi deriva. Quel "qualcosa" capace di rendere "speciale" e "straordinaria" l'esperienza, sostenendo emotivamente il dubbio e l'incertezza insita nei processi creativi ed artistici.

            Nella psicoanalisi contemporanea svariati contributi hanno enfatizzato il valore terapeutico di una relazione analista paziente in cui possa essere promossa una dimensione creativa di pensare ed interagire per ampliare le possibilità di negoziazione e di libertà emotiva, rispetto alle costrizioni dei vissuti traumatici incorporati nella rigidità delle configurazioni sé-altri e delle dissociazioni difensive (ad es. : Donnel Stern, 2010; B.C.S.G., 2010; Bromberg, 2012; Meares 2000; Lachmann 2008; Ferro, 2006).
            Nonostante ciò la comprensione psicoanalitica delle esperienze artistiche è ancora tema di controversie e fraintendimenti, retaggio della prospettiva intrapsichica del modello pulsione-difesa-sublimazione, freudiano e post-freudiano. Prospettiva che impedisce di comprendere pienamente il valore dei processi psicofisici attinenti alla creatività e all'arte - così come alla spiritualità - per la crescita psicologica e il benessere di ogni individuo.
            Il fondamentale lavoro di Ernst Kris del 1952, col suo modello a due fasi: "ispirazione - elaborazione" e il concetto di "regressione al servizio dell'Io", con aggiustamenti e trasformazioni recenti (ad es. : Mc Dougall, 2006; Abella, 2010; Aragno, 2011; Kandell, 2012; Knafo, 2013), appare ancora troppo spesso la principale chiave di comprensione psicoanalitica del fare artistico. Con una paradossale identificazione col senso comune: Il valore di un opera risiede nel risultato non nel processo. Se il lavoro è "bello" o "artisticamente valido", c'è stata sufficiente "elaborazione" - "riparazione" - "sublimazione" - "simbolizzazione", altrimenti le motivazioni infantili inconsce, legate al processo primario - necessarie ad innescare il lavoro creativo nella fase di ispirazione - hanno avuto la meglio, rivelando di fatto la psicopatologia dell'artista. Rendendo così - apparentemente in buona fede - il sapere psicoanalitico "custode" dei valori estetici socio-culturalmente dominanti.
            Danielle Knafo, ad esempio - pur con un back-ground relazionale e con una sincera ammirazione per il lavoro degli artisti - nel suo interessante e ricco "Dancing with the Unconscious" (2013), preferisce continuare a sostenere che una regressione "sana" sia al cuore della creatività artistica. Evocando così - per poter distinguere una regressione sana da una patologica - un implicita valutazione normativa del risultato. Inoltre, il termine "regressione" non permette di cogliere le complesse qualità espansive dell'esperienza estetica, portando tracce di quel pensiero dicotomico che separa rigidamente – in una linearità evolutiva dal primitivo al maturo - i processi inconsci da quelli consci, il mondo interno dal mondo esterno.  
           
Sarebbe storicamente utile far riemergere dall'oblio i "mostri" prodotti dalla letteratura psicoanalitica sull'arte e gli artisti - con tutte le sofferte ricadute nella clinica. Testi come: "lo scrittore e la psicoanalisi" (1949) di E. Bergler, che vedeva nel masochismo psichico orale la spinta motivazionale dello scrittore, o "Creatività e perversione" (1985) della Janine Chasseguet-Smirgel che evidenziava un "nucleo perverso latente" nella spinta umana a travalicare i limiti della realtà e della propria condizione.
            Mi soffermerò invece su un lavoro che rappresenta un recentissimo tentativo di applicare dogmaticamente dei costrutti teorici psicoanalitici alla comprensione dei processi artistici, effettuato da Anna Aragno (2011) nel Journal of American Psychoanalitical Association. L'autrice considera l'opera d'arte un complesso intreccio polisemico di segnali, segni e simboli, in cui il processo di simbolizzazione raggiunge il suo apice nella "sublimazione".  Cioè - depurando il termine dalla sua origine pulsionale - nella "completa separazione tra il simbolo e il suo referente", che, dice (pag. 272 e seg.): "eleva le funzioni mentali e l'esperienza ad un livello più alto". Riesumando così la distinzione tra "vera" arte e arte "psicotica". "Dire 'dipingo' - afferma - non è dire 'dipingo artisticamente', questo spiega lo strano effetto che ci dà l'arte psicotica (...) congelata in un concreto universo asimbolico dove la 'cosa' non è niente altro che la cosa." Giustificando con il concetto di "raro talento", l'evidente contraddizione di artisti che pur avendo vissuto esperienze psicotiche, come Goya, Van Gogh, Munch, Poe, Joyce... Virginia Woolf, Paul Celant, Sylvia Plath, ecc. ecc. in un elenco che può essere molto numeroso... abbiano prodotto opere meravigliose.
           
            Se non si considerano le basi intersoggettive dei processi artistici - nell'ampliamento semantico dato dalla significatività incorporata delle relazioni implicite - non si può comprendere come l'esperienza artistica possa fornire il "mezzo" e il "contesto" per uscire dall'esperienza psicotica.
Sophia Richmann (2014), nel suo bello e toccante "Mended by the Muse" (Ricucita, risanata, dalle Muse), evidenzia le possibilità di trasformazione creativa dei vissuti traumatici date dalla esperienza artistica. Oltre a mostrare come il "mezzo" artistico possa, per le sue peculiarità, veicolare ed esprimere ciò che non può essere detto con le parole d'uso quotidiano, l'autrice sottolinea in modo particolare, come la presenza di un pubblico - anche soltanto immaginata e potenziale, come quella di un compagno immaginario - attivi quella "funzione di testimonianza" che permette di trascendere il senso di solitudine e alienazione che accompagna il trauma. Aprendo uno "spazio intersoggettivo" di dialogo, nel quale la persecutorietà alienante delle memorie traumatiche può diventare una dolorosa esperienza vissuta. Dotata di significato e di una storia che possono essere condivisi.

Di fatto, fin dal primo segno sulla tela, la prima parola sulla pagina, la prima nota emessa dallo strumento... l'opera porta traccia dell'intenzionalità incarnata dell'autore ed è anche sconosciuta, nuova... è già un Tu che risponde con forza nel dialogo con l'Io dell'artista aprendo uno spazio intersoggettivo di esperienza.

Un dialogo non facile.  In cui momenti di vitalizzante e piacevole risonanza con ciò che sta emergendo lì nell'opera - dove un senso di padronanza, di agency e sicurezza, accompagna l'abbandonarsi creativo allo svolgersi dell'esperienza - possono alternarsi all'ansia, al dubbio, allo sconforto. "Se non sono profondamente immersa nel processo" - dice Susan Erony (in Richmann, 2014; pag.138) - "mi faccio le stesse domande che si pone ognuno dei miei amici artisti, domande come: che senso ha?  Come posso passare la mia vita facendo stupidi segnetti sulla tela o qualsiasi cosa mi capiti di fare? Chi ha bisogno di un altro still-life? Chi ha bisogno di un altro dipinto deprimente? C'è già un sacco di roba nel mondo, perché ne devo aggiungere altra? "

George Hagman (2000; 2010) - autore che seguendo Rotemberg (1988), considera l'attività artistica come una esperienza di relazione di oggetto-sé - vede nello struggimento dell'artista che accompagna - tra rotture e riparazioni - il perfezionarsi dell'opera, il tentativo di tradurre in una forma idealizzata un vissuto soggettivo. Dargli una forma sempre più articolata e rifinita, dove la tendenza alla perfezione formale si pone al centro del senso del bello.

Questo struggimento emotivo - nel conflitto dialettico tra perfezione e imperfezione, bellezza e bruttezza, originalità e banalità, vergogna e orgoglio... della propria opera - più che il tentativo di produrre una forma idealizzata, rappresenta, a mio avviso, il bisogno di dare "valore" all' esperienza, strettamente connesso al significato e al valore di sé. Quel senso di valore e autenticità procurato dalla risonanza affettiva tra i propri vissuti interiori e il mondo esterno, tra l'Io dell'artista - o dello spettatore - e il Tu dell'opera, che può emergere nello spazio intersoggettivo dell'esperienza artistica.

Il valore dell'arte, come esperienza "speciale", sta proprio in questa possibilità di creare uno spazio dove - di fronte all' angosciosa insensatezza del nascere-crescere-morire - il senso e il valore della propria presenza nel mondo - dell'appartenenza ad una comunità umana con la propria unicità ed autenticità -  possa essere ritrovato, distrutto e trasformato… perduto, ricostruito... vissuto.

 

 

 

Alessandro Riva
Via Latina,15
00179 Roma
aleriva@fastwebnet.it

 

 

Bibliografia

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