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PSYCHOMEDIA
ARTE E RAPPRESENTAZIONE
Arti Visive



Edvard Munch. Arte e trasformazione della sofferenza mentale.
Riflessioni psicoanalitiche su un percorso artistico

di Luca Trabucco



Una sera passeggiavo per un sentiero,
da una parte stava la città e sotto di me il fiordo.
Ero stanco e malato.
Mi fermai e guardai al di là del fiordo
- il sole stava tramontando -
le nuvole erano tinte di un rosso sangue.
Sentii un urlo attraversare la natura:
mi sembrò quasi di udirlo.
Dipinsi questo quadro,
dipinsi le nuvole come sangue vero.
I colori stavano urlando.
Edvard Munch

Senza paura e malattia,
la mia vita sarebbe una barca senza remi.

Edvard Munch

A margine di una delle copie del Grido, Munch annotò: "Solo un folle poteva dipingerlo". Questa notazione ci fa pensare che non era un folle chi poteva porsi di fronte ad una tale rappresentazione della disperazione e osservarla criticamente. Certo era qualcuno che lottava strenuamente dentro di sè con "le rappresentazioni dell'irrapresentabile, del dolore e delle sue parti psicotiche, i frammenti che affiorano alla superficie della tela come residui di mondi esplosi, di materia psichica collassata. I buchi neri di Munch" (Magherini, 1998). La perdita e l'assenza sono gli elementi fondamentali della sua esperienza di vita, segnati nella sua mente tanto profondamente che le scene attorno alle quali questo vissuto si è determinato rimangono come un fil rouge che passa attraverso tutta la sua produzione artistica. Si pensi che un'opera quale La bambina malata verrà ridipinta, a parte le versioni litografiche, per quattro volte tra il 1885 e il 1927.

Vorrei tracciare un breve profilo biografico di Munch. Secondo di cinque figli, perse la madre all'età di cinque anni, nel 1868, assistendo, insieme alla sorella maggiore di un anno, Sophie, alla sua morte causata dalla tubercolosi. La zia materna si occupò dei cinque bambini. Il padre, medico, soffre per tutta la vita di disturbi ciclotimici, oscillando fra stati di colpa per non aver saputo curare e salvare la moglie, e stati di esaltazione mistica. All'età di quattordici anni perse la sorella Sophie, anch'essa a causa della tubercolosi, ed anche in questo caso assistendo alla sua dipartita, rappresentata nel quadro del 1895 Morte nella camera di un'ammalata. La sorella Laura si ammala di una grave malattia mentale in giovane età. Tra il 1888 e il 1889 si ammalò di febbri reumatiche. Nella convalescenza dipinse Primavera. Nel 1889 recatosi a Parigi con una borsa di studio, viene raggiunto dalla notizia della morte del padre. Dipinge Notte a St. Cloud. Nel 1895 muore il fratello Andreas, pochi mesi dopo essersi sposato. A cavallo del secolo lo stesso Edvard verrà ricoverato per un breve periodo in una clinica per malattie nervose. Nel 1902 la sua turbolenta storia d'amore con Tulla Larsen, esponente della "bohème" di Kristiania, l'attuale Oslo, si conclude tragicamente, con un colpo di revolver al culmine di un furibondo litigio, che amputerà un dito della mano sinistra di Munch. Questo "incidente" sarà spunto per elaborazioni di tipo paranoide da parte di Munch. "In una serie di caricature egli riversò il suo disprezzo nei confronti di Tulla e dei suoi più vicini amici dell'ambiente della bohème di Kristiania" (Hoifodt, 1996). Nel 1906 e nel 1908 fu di nuovo ricoverato per i suoi disturbi nervosi e per i problemi di alcoolismo connessi. Dopo questa crisi Munch darà una svolta alla sua vita, ritirandosi dapprima a Kargero, e quindi nella sua proprietà di Ekely, vicino ad Oslo, circondato unicamente dai suoi dipinti, fino al giorno della sua morte nel gennaio 1944. Lascerà la sua eredità, costituita da un numero enorme di dipinti, opere grafiche, fotografiche e letterarie alla città di Oslo.
Le evenienze fondamentali della vita di Munch sono rappresentate in opere che si prestano particolarmente ad illustrare il lavoro psichico della elaborazione e della trasformazione dell'angoscia e del lutto, anche in ragione delle molte versioni dello stesso tema che Munch ci ha lasciato. In questo senso l'opera pittorica di Munch mi appare particolarmente istruttiva, iconografica, per seguire il percorso elaborativo e trasformativo che la funzione artistica possiede, al di là di una valutazione estetica o, tanto meno, di una interpretazione "selvaggia" della sua produzione.

Munch e l'esperienza infantile della perdita.

La vicenda infantile di Edvard Munch ha segnato profondamente la sua opera, in particolare nella fase iniziale e centrale della sua produzione. Assistere a cinque anni alla morte per tubercolosi della madre, gli aspetti cruenti della scena, sono immagini intagliate nella memoria, e riattivate dal ripetersi della stessa situazione nove anni più tardi, alla morte della sorella Sophie.
Un lutto così precoce e drammatico espone il bambino al contatto con una realtà esterna e interna soverchianti le sue capacità di pensiero. Lo spazio mentale viene allagato dal vuoto dello spazio dove stava l'oggetto, determinando una dissoluzione dello spazio mentale stesso. Di fronte ad un'esperienza così devastante il bambino necessiterebbe proprio dello spazio mentale della madre per mentalizzare l'esperienza che sta vivendo, per utilizzare le capacità di contenimento e di rèverie della mente adulta, ma è proprio questo che è venuto a mancare. In questa situazione "è privo dell'equipaggiamento che lo aiuterebbe a cartografare la realizzazione dello spazio mentale" (Bion, 1970, p.21).
Pochi giorni prima della morte, e prima di dare alla luce la sua ultima figlia, Inger, la mamma ed Edvard ebbero la loro ultima passeggiata, ricorda Munch nei suoi diari, in una luminosa giornata di sole. "Non capivo perchè la mamma si fermasse ad ogni passo per riprendere fiato". Poco tempo dopo, ricorda sempre nei suoi diari, "venimmo svegliati nel cuore della notte, e capimmo subito perchè". Era l'addio della mamma ai suoi figli. In questi ricordi ciò che è notevole è questa oscillazione tra il capire e il non capire, il non poter capire. In realtà il piccolo Edvard sa perchè la mamma si ferma ad ogni passo a riprender fiato, ma non può tenere nella sua mente l'idea di una mamma morente, in un momento in cui la vita vuole avere il suo rigoglio apparentemente più grande, con la mamma che ha in grembo un'altra bambina, il sole che riscalda il loro legame, che non può essere concepito come qualcosa che non sia imperituro. L'idea della morte deve essere proiettata in un luogo infinitamente distante.

Coma osserva Rebeca Grinberg, nei lutti infantili il carattere peculiare è dato dal "maggior uso della negazione e dell'identificazione proiettiva, spiegabile con la maggior labilità dell'Io del bambino e la sua maggiore angoscia di fronte alla morte" (1971, p.241), ovvero della sua impossibilità a contenere questo tipo di esperienza.
Nella vicenda infantile di Munch la perdita dell'oggetto primario deve aver generato uno stato mentale di terrore e di angoscia largamente soverchianti le sue capacità di bambino di tollerabilità e elaborazione. Egli deve essersi trovato a "sentire il dolore senza soffrirlo" (Bion, 1970), forse vivendo inizialmente attraverso la sorella Sophie la funzione della memoria, per poter soffrire il suo dolore solo nel momento in cui ne fosse stato capace. Esiste infatti una particolarità nella cronologia dell'opera pittorica di Munch per cui le opere "della memoria" più recente precedono quelle dei ricordi più antichi. La bambina malata è datato 1885, Morte nella camera di un'ammalata del 1895 e queste opere si riferiscono alla morte dell'amata sorella Sophie; tra le due si inserisce nel 1890 Notte a St. Cloud, da mettere in relazione alla morte del padre dell'anno prima; La madre morta e la bambina è del 1897 - 1899, e qui infine viene a contatto con il ricordo primario della morte della madre (v. anche Trabucco, 1999a, b).
Nella versione del dipinto conservata a Brema - La madre morta e la bambina (1899-1900) - Munch rappresenta ciò che gli si è parato innanzi allo sguardo all'età di cinque anni, il letto di morte della madre, la sorella di sei anni con gli occhi sbarrati dal terrore, muta, "le mani sulle orecchie per allontanare l'urlo silenzioso ... della morte" (Bishoff, 1994). "Di uno sguardo, di un'orbita, si dice che sono vuoti in quanto hanno contenuto la visione e l'hanno perduta", dice Starobinski (1994), l'occhio sbarrato contiene ormai solo il vuoto. In questa versione la bambina è sola, si può solo identificare nella prospettiva lo stesso sguardo di Munch bambino, attonito, di fronte ad una rappresentazione dell'impensabile. In questo sguardo sembra aleggiare il vuoto di emozioni che deve essersi prodotto: "L'emozione suscitata dal nulla (no-thing) viene sentita come indistinguibile dal nulla (no-thing). L'emozione viene sostituita dalla non-emozione." (Bion, 1970, p.31). Si crea così un "buco nero". Tuttavia Munch ricorda la scena, ma nel lavoro del ricordo, a posteriori, la arricchisce di significato: in questa versione l'ombra unisce la sorella col letto di morte della madre; il destino materno si proietta sulla figlia, che prende su di sè il carico di tutta questa esperienza, delle emozioni non sperimentabili di Munch stesso. Nella sorella Sophie sembrano passare anche tutte le esperienze emozionali del piccolo Munch, essa diviene depositaria (v. Bleger, 1967) della sua impensabile angoscia di dissoluzione persecutoria, nell'assenza di un altro "contenitore" capace al momento di permettere al bambino di elaborare il lutto. Vediamo qui inoltre delinearsi uno dei temi della pittura di Munch, quello dell'ombra, che tornerà in diversi contesti, ma sempre ad indicare la presenza inquietante di uno spazio al contempo proprio e non proprio, sempre oscuro e minaccioso, dove il soggetto può continuamente rischiare di essere risucchiato.

Nella versione di questo dipinto conservato a Oslo (1897-1899), vi sono cinque persone dall'altro lato del letto della madre morta, ognuna delle quali, a suo modo, sembra contenere le emozioni suscitate dall'evento. Ma sono al di là del letto, la bambina e il piccolo Munch sono soli. Si prospetta qui una tematica ricorrente e forse mai del tutto elaborata da Munch, quella della incomunicabilità dell'angoscia. Incomunicabilità che trova le sue radici nell'allagamento dello spazio mentale di ognuno da un carico di angoscia e di lutto che non lasciano spazio alle proiezioni dell'altro. La figura parentale è talmente assorbita dal suo dolore che non trova lo spazio dentro di sè per accogliere ed elaborare l'angoscia del bambino. In particolare sembra che qui l'isolamento delle figure voglia rappresentare la condizione di conflitto e separazione che ha caratterizzato i rapporti di Munch col padre, un uomo che non è mai riuscito a elaborare la perdita della moglie, probabilmente riversando su Edvard il peso della modalità persecutoria in cui viveva il lutto come una colpa personale, secondo il registro dell'onnipotenza per cui come medico doveva sconfiggere la morte, e che ritorna anche nella maniacalità di una ispirazione religiosa fanatica e integralista, in contrasto con ogni vitalità che poteva risvegliarsi. Ancora in questa versione il rosso al di sotto del letto della madre, rosso che ricorda anche l'emottisi, e che tornerà nelle nuvole del Grido (Rugi, 1996), si confonde col rosso del vestito della bambina, a sottolineare il passaggio del carico della malattia e della morte dalla madre alla figlia. Un passaggio senza possibilità di elaborazione e di cura.
Questo passaggio viene drammaticamente e crudamente rappresentato anche nel dipinto Eredità I (1897-1899). La madre piangente che tiene sulle ginocchia il bambino morente, in una sorta di "pietà", è in realtà colei che gli ha trasmesso la sifilide che lo uccide. Se questa è la raffigurazione di una scena che Munch vide nella realtà in un ospedale per la cura delle malattie veneree di Parigi, essa più personalmente rappresenta la fantasia della trasmissione della morte, della "presenza" persecutoria dell'assenza, di un dolore incontenibile. Inoltre le caratteristiche del bambino e del telo su cui giace, fanno pensare ad un feto contenuto nel suo sacco amniotico. La madre piangente ha in realtà il fazzoletto sulla bocca, e le gocce di sangue sparse sul corpicino sembrano provenire da una espettorazione materna. Siamo allora di fronte alla trasmissione non della lue ma della tubercolosi, e ad una trasmissione intrauterina, come a sottolineare che il fato del bambino è segnato prima della sua nascita, dovendo caricarsi di un destino non suo, di cui non è responsabile, che trasforma la culla della vita, il grembo materno, nella culla della morte. Sembra qui di sentire riecheggiare Keats: "...i due pensieri dominanti nella mente di un uomo sono i due poli del suo mondo e lui gli gira intorno e tutto per lui è a nord o a sud di questi pensieri. Non ci vogliono che tre mosse per passare dal letto più morbido al più duro" (Lettera a B. Bailey del 13\3\1818). Tema questo che in Munch, per i suoi elementi più francamente melanconici e paranoidi, viene poi a significare un destino persecutorio che presentifica la morte nella vita, come se quello che viene donato al bambino con la nascita fosse solo la condanna a patire la morte. Questo tema percorre molto profondamente una parte dell'opera di Munch, e a me sembra particolarmente illustrato nel dipinto La danza della vita, come vedremo più avanti.

Peraltro in questa maternità dolente possiamo riconoscere una caratteristica che Graziella Magherini (1997) ha individuato e segnalato nella pittura di G. Bellini: il bambino non viene tenuto tra le braccia, ma appoggiato alle ginocchia, con una evidente mancanza di "holding", essendo la madre qui troppo assorbita dal proprio dolore e forse, ancor di più, dalla colpa. L'insieme di questi messaggi che il contenimento materno offre al bambino sono quelli che permettono al sentimento di esistere di assumere un tono vitale, la loro assenza viceversa fa avvicinare a quelle sensazione che Grotstein ha definito "un sentimento profondo di insignificanza di Sè stessi e del proprio posto nel mondo" (1991, p. 876, trad. mia).
I primi piani dei volti che troviamo in questo dipinto, La madre morta e la bambina, e che torneranno in altri come Morte nella camera di una malata, Sera sulla via Karl Johann, Angoscia, il famoso Autoritratto con bottiglia di vino fino a Le quattro età, sono immagini allo specchio dello stesso Munch che sembrano alienate in uno spazio altro e che quindi ritornano come persecutorie. Attraverso il porre una figura in primissimo piano, Munch crea una "prospettiva", che caratterizza parecchie delle sue opere, di sovvertimento dello spazio, come lo definisce Fraenger (1996), in cui lo spettatore è posto in una dimensione di osservatore coinvolto nella dinamica del quadro stesso, come se fosse inevitabilmente attratto all'interno del dipinto che si propone come specchio, che rivela il soggetto e ciò che egli si porta alle spalle. In effetti si può notare come Fraenger osservi, a proposito dell'Autoritratto con bottiglia di vino: "Un uomo inospitale che, viziato dalla solitudine, schiva scrupolosamente il contatto con gli altri, e che qui, nel suo autoritratto veridico, ci tiene tanto vicini solo per spingerci via con la sua stessa eccessiva vicinanza. La figura così prossima al margine della cornice non ci invita forse a tenere le distanze e ad allontanarci?" (p.75). Qui il critico non riesce a cogliere il significato riflessivo di ciò, di quell'ambiguo allontanare e avvicinare che queste rappresentazioni configurano in ordine alle stesse emozioni dell'artista. Così la bambina in primo piano è e non è lo stesso Munch, ma sicuramente è la maschera di quell'angoscia determinata dalla perdita drammatica dell'oggetto primario. (Vi è un'altra caratteristica dell'opera di Munch che richiama alla funzione dello specchio: nella rielaborazione di un quadro che egli spesso affida alle versioni grafiche di questo, quasi sempre rovescia la prospettiva, oltre che per un problema strettamente tecnico - il rovesciamento della stampa rispetto alla matrice, che peraltro in certi casi può ovviare- credo anche come a rivedere il dipinto in uno specchio posto angolarmente a fianco dell'originale, che permette l'elaborazione del tema, e il disvelamento di nuovi particolari).

Nel dipinto Pubertà (1894) la giovane ragazza ritratta, ancora un'immagine della sorella Sophie, è sovrastata da un'ombra scura e fagocitante.
Correntemente si lega questa immagine alla serie Il risveglio dell'amore, legata quindi alla tematica della sessualità e della passione amorosa, tuttavia il rapporto esistente tra la fragilità della figura e la cupa presenza dell'ombra non possono non richiamare alla presenza della morte che incombe sulla figura della fanciulla. La fragilità rappresentata sembra illustrare la natura autentica del trauma, il rapporto di "forze" intercorrenti tra l'evento e il soggetto che lo sperimenta. Munch dice: "Dopo aver acceso la lampada, vedo improvvisamente la mia ombra enorme che va dalla parete fino al soffitto. E nel grande specchio sopra la stufa vedo me stesso, il mio stesso volto spettrale. E vivo con i morti, con mia madre, mia sorella, mio nonno e mio padre, soprattutto con lui. Tutti i ricordi, le più piccole cose, vengono alla superficie...". La memoria, per Munch fonte della creazione - "Non dipingo mai ciò che vedo, ma ciò che ho visto" - è la fonte interna della creatività, una memoria da recuperare, da chiarificare passo passo, frammenti di vita di cui dolorosamente riappropriarsi, attraverso un lavoro che permetta di non restare soverchiato dalla persecutorietà di cui possono tingersi "le più piccole cose" che non ci sono più. L'ombra che ghermisce la sorella Sophie, come carico di memorie senza nome e senza possibilità di essere pensate perchè troppo cariche di morte, diviene in Notte a St. Cloud (1890) rappresentazione dello spazio interno, uno spazio da illuminare, sovrastato dalla doppia croce nella finestra, i lutti non ancora elaborati, ma in qualche modo, necessariamente, proprio. Dopo la morte del padre solo resta ad accollarsi tutti i lutti della sua vita, la madre e la sorella, l'altra sorella malata di mente, il padre stesso. Per di più il lutto per il padre si tinge di quei caratteri della colpa che il rapporto molto conflittuale avuto con lui rende evidenti. Sia l'influsso dell'amicizia con Jaeger che quella con Strindberg aveva incoraggiato una rottura "adolescenziale" negli schemi dei rapporti col padre, il quale peraltro, in ragione della propria patologia, doveva rendere particolarmente difficili. Anche qui si è venuto a creare un convergere tra realtà e fantasia, nel senso che il tema della colpa e dell'autoaccusa proprio del padre, viene incarnato dal figlio, che diviene la materializzazione dell'accusatore, peraltro rendendo inestricabile la convergenza tra questi elementi proiettati e quelli propri derivanti della "fisiologica" funzione separante paterna. In Edvard quindi il momento della protesta verso il padre che interdice il possesso della madre togliendola al desiderio onnipotente del bambino perde tutti quegli elementi di ammirazione che permettono al bambino stesso di poter accettare l'interdetto paterno attraverso un'identificazione, e la procrastinazione del proprio desiderio. I desideri di morte del figlio verso il padre sono qui resi "reali" dalla assunzione del padre stesso del ruolo di colpevole. I sentimenti affettuosi non possono essere vissuti, Edvard aveva sempre allontanato suo padre, rifiutando anche le manifestazioni d'affetto che poteva avere nei suoi confronti, e i ricordi dei suoi rifiuti lo perseguitano come rimorsi irreparabili. Forse il conflitto col padre diviene così centrale nella mente di Munch in quanto è stata la sua assenza mentale come spazio nell'elaborazione del lutto per la madre, in quanto mai ha potuto assumersi la responsabilità della separazione, la colpa che ai suoi occhi doveva scontare. La figura paterna debole e schiacciata in realtà dall'evento non ha potuto dare ad Edvard uno spazio solido e contenitivo in cui trovare i modi e i tempi per una propria elaborazione della perdita. Se il padre ha anche la funzione di bonificare il rapporto aggressivo tra madre e figlio (Fornari, 1981), il padre di Munch non ha potuto assumersi l'odio che la separazione deve aver generato. La croce che compare nell'ombra di Notte a St. Cloud così si raddoppia non solo perché lutto si aggiunge a lutto, ma in quanto non avendo il primo lutto trovato possibilità risolutive attraverso l'aiuto della funzione paterna, persiste nello spazio interno di Munch, in una dimensione in cui è anche di questa funzione che bisogna fare il lutto: vi è la disperazione di poter mai risolvere queste esperienze, in quanto non ha introiettato un "apparato" capace di digerirle.

Il primo dipinto di Munch di rilevanza internazionale, quello che provocò un "succès de scandale" per le caratteristiche tecniche assolutamente anomale per l'epoca, è La bambina malata (1885-1886).
Le caratteristiche tecniche che la contraddistinguono - le caratteristiche di abbozzo di molti elementi, i tratti frettolosi, sfumati, i graffi, esiti di ritocchi successivi - in realtà vengono a configurare la rappresentazione di un'immagine della memoria, dell'immagine soggettiva: i graffi sono la rappresentazione della visione attraverso le proprie ciglia e le proprie palpebre della scena. Scandalo suscitò nella critica l'imprecisione delle forme, definite addirittura "imbrattatura", in particolare per quel che riguarda la mano. Proprio in questa "imbrattatura" viceversa vedo il carattere più significativo di questo dipinto: la mano della bambina e quello della donna che l'assiste - in concreto la scena riguarda la sorella Sophie e la zia - sono unite in modo confusivo, come a sottolineare un passaggio senza soluzione di continuità fra l'una e l'altra, passaggio anche dalla figura materna rappresentata nella disperazione senza volto della zia verso la bambina, passaggio di morte e di impotenza. "...il gesto ... unisce colei che va e colei che resta, ma le mani sembrano quasi cancellate: resta una macchia dilavata come se quel gesto fosse stato consumato dalla sua impotenza a trattenere" (Di Stefano, 1994). Tenere la mano è un gesto impotente, l'impotenza di fronte alla morte, ma soprattutto l'impotenza del bambino, solo, di fronte all'abbandono irreparabile. Il piccolo Munch è presente in questo quadro attraverso il suo sguardo, impresso nella tela nei graffi che lo solcano, ma il suo sguardo non trova nessun altro entro cui poter inviare la propria angoscia, la sorella se ne sta andando, il suo sguardo va verso la luce della vita che per lei si allontana irrimediabilmente, la figura parentale è chiusa nella sua disperazione, inaccessibile alla disperazione del bambino. "Sono convinto che nessuno di questi pittori - dice Munch a proposito di altre raffigurazione di questo tema piuttosto frequenti all'epoca - avrà assaporato fino in fondo il suo tema come ho fatto io in La bambina malata. Non ero io solo a sedere là, bensì tutti i miei cari". Il punto di fusione tra le due figure fa pensare alla perdita irrimediabile di quegli aspetti del sè infantile che la madre, morendo, ha trascinato via con sè; quel bambino che, morendo la mamma, non potrà mai più esserci, in quanto, parafrasando Winnicott, non c'è bambino senza la madre, e non c'è madre senza bambino.
Quando, all'età di quindici anni la sorella Sophie muore di tubercolosi, proprio come la madre, il giovane Munch si ritrova a vivere l'esperienza del lutto e dell'angoscia della perdita in una sorta di apres-coup che lo costringe a riappropriarsi del proprio lutto originario, delle emozioni che sembrava aver depositato nella sorella stessa. Come osservano i Baranger e Mom (1987, p.184) "il primo tempo del trauma...acquista il suo valore eziologico a partire dal secondo, dalla sua riattivazione per un evento...e attraverso la storicizzazione analitica che congiunge i due tempi. Il primo tempo del trauma rimane muto finche la Nachtraglichkeit gli permette di parlare e di costituirsi in trauma". Naturalmente in Munch la storicizzazione non è analitica ma utilizza l'opera artistica quale medium ove operare questa storicizzazione. L'opera d'arte, come osserva Liebert (1982) "non ha l'effetto di operare un working through, cioè, di alterare permanentemente la rappresentazione mentale centrale di se stesso e degli altri e determinare cambiamenti basilari negli altri aspetti della sua organizzazione e delle prospettiva psicologiche interne. In questo modo ogni tentativo artistico inevitabilmente fallirà a questo proposito e riaffiorerà il sottostante conflitto" (p.448-449, trad. mia). Tuttavia in Munch la funzione del lavoro artistico sembra teso a far sì che l'immagine del ricordo possa accedere alla pensabilità, più che alla soluzione del conflitto. La sua funzione è quella di creare un contenitore, di poter "rappresentare l'irrapresentabile". Nel lavoro di ricostruzione e di significazione del ricordo, l'ombra, rappresentativa dell'esperienza del passato, del lutto non elaborato, inghiottendo la sorella, ed annientandola, ricade su di lui.

La riappropriazione del proprio lutto è rappresentata anche nel dipinto Morte nella camera di una ammalata (1895), la scena della morte della sorella Sophie.
Qui il giovane Munch si ritrae sulla sinistra del dipinto, accomunato al dolore della famiglia, in cui tuttavia l'isolamento e l'incomunicabilità restano tangibili nelle prospettive assolutamente divergenti di ogni personaggio. "E' la messa in scena del ricordo, e i personaggi non hanno l'età che avevano al momento dell'evento, ma quello dell'anno in cui viene concepito il quadro" (Di Stefano). E' il tempo del ricordo racchiuso in una prospettiva chiusa e ricorsiva, in cui il passato non può essere tale, ma è sempre, persecutoriamente, presente. Qui Munch esplicita quell'aspetto della "funzione psicoanalitica della mente" in cui l'elaborazione dei contenuti mentali è sempre rivolta al presente. "Il passato non è importante, perchè non ci si può fare nulla: le sole cose su cui si può fare qualcosa sono i resti, le vestigia del passato, degli stati mentali passati" (Bion, 1997, p. 60). Come Freud ha asserito nell'inconscio non troviamo traccia di una concezione del tempo. Il tempo è una dolorosa acquisizione della consapevolezza di Sè. In una litografia del 1896 le figure sono accomunate viceversa dalla prospettiva verso il letto della sorella morta, mentre sulla parete di fronte aleggiano i fantasmi dei morti, a sottolineare come il lutto attuale non faccia che ripresentificare quello precedente, ancora da vivere ed elaborare; la sorella Inger, in primo piano, sembra accogliere lo sguardo del pittore, carico di angoscia e di lutto, contenimento relazionale che rappresenta il movimento iniziale verso l'elaborazione e la pensabilità.
Questa possibilità di elaborazione e di riappropriazione del proprio vissuto emozionale si sviluppa in ragione della solitudine che si relativizza a poco a poco. La zia che cura fino al limite della propria impotenza la nipote in Bambina malata, il primo piano della sorella Inger, sia in Morte in camera di una malata, che nella relativa successiva litografia, sembrano indicare come prepotenti le istanze vitali, ovvero le buone relazioni con gli oggetti, nel mondo interno di Munch controbattono il carico di lutto che proprio quell'anno si è nuovamente abbattuto su di lui, con la morte del fratello Andreas. Inger è l'unica sorella che sopravviverà insieme ad Edvard.

Il lento e doloroso lavoro del lutto già in precedenza era giunto ad un punto di recupero delle figure della vitalità, nel dipinto Primavera del 1889.
Questo quadro è stato dipinto in un periodo di convalescenza, la ripresa delle proprie forze, la sconfitta della malattia e della morte sono mirabilmente descritte dalla leggerezza e dalla luminosità delle tende che si sollevano sofficemente sospinte verso l'interno dalla luminosa ariosità della brezza primaverile, a rischiarare un ambiente in cui la giovane malata, la sorella Sophie, risalta per il suo pallore in contrasto col colore salubre dell'incarnato della figura materna che l'assiste.
Quasi una idealizzazione la sconfitta della morte che sembra indietreggiare e dover cedere i suoi spazi alla vita rappresentata dalla madre florida, le due finestre luminose come seni rigogliosi di nutrimento vitale. Un omaggio alla zia, Karen Bjolstad, che ha preso validamente il posto della madre nella rappresentazione del mondo interno di Munch e che in questo modo ha permesso al suo stesso mondo interno di costituirsi. Un'identificazione in cui magicamente ripara alla morte della sorella, restituendola alla vita con questo quadro, così come si libera dalla propria malattia. La sorella può essere ritrovata viva dentro di sè nella misura in cui la mente di Edvard può riappropriarsi di tutta la emozionalità che aveva compresso dentro di lei nell'estremo sforzo di sopravvivere all'allagamento di angoscia persecutoria e di impensabilità legate alla solitudine in cui si è compiuta la perdita originaria.
Il recupero di oggetti vitali al proprio mondo interno permette di riappropriarsi del proprio mondo emozionale, in un travaglio che segue un continuo movimento oscillatorio tra aperture verso la vita, il legame e la passione del sentimento, e la paura angosciosa dell'abbandono. Ma nell'inverno di quello stesso anno, il 1889, morirà il padre, e le immagini vitali e luminose devono nuovamente lasciare il posto alle memorie delle perdite. Il lavoro del lutto, già di per sè così duro di fronte alla precocità e drammaticità del trauma iniziale, sembra doversi rinnovare e recedere continuamente in una lotta impari col potere della morte.

Questa ambiguità è espressa in un'opera come Il bacio (1897), dove il rapporto può essere concepito solo come fusione e con-fusione, unica salvaguardia nei confronti di un abbandono che sembra viceversa prospettarsi come unica evenienza possibile, come è rappresentato per esempio in Separazione (1896) o in I solitari (1906/07). "Ognuno sta solo sul cuor della terra", e in Munch questa solitudine è tratta non certo da una riflessione sulla solitudine fondamentale e metaforica dell'essere umano, ma da una concreta e dolorosa esperienza di vita.
Queste tematiche mi sembrano comunque riassunte nell'opera fondamentale La danza della vita (1899-1900), una vita che sembra promettere e togliere con la stessa leggerezza, con la leggerezza di un danza per l'appunto. La vita che offre uno scenario naturale accogliente perché la promessa ideale offerta dall'oggetto primario, rappresentata dalla donna in bianco alla sinistra, possa muovere desideri e passioni, tenerezza e gioia - le varie coppie impegnate al centro della scena - per finire togliendo tutto in una separazione irreparabile, raffigurata nella donna in nero sulla destra.
Il tempo della vita qui rappresentato si pone peraltro come un tempo senza divenire, una "temporalità circolare" (Baranger e al., 1987) fissata nell'attimo ricorrente del trauma, della separazione ineludibile. La storicizzazione che sembra proporsi è una falsa storicizzazione, in quanto la congiunzione tra promessa e disillusione fissa il tempo in una circolarità ricorsiva in cui il principio di morte ha sempre la meglio. Tuttavia, anche in questo dipinto, che mi sembra uno dei più tragici per il pessimismo - leopardiano - che trasmette, non completamente possono essere perdute le tracce di quello slancio vitale che, in qualche modo, può essere ricercato e trovato al fondo dello spazio interno della propria mente da parte di Munch: la luna all'orizzonte si riflette nel mare in una simbologia di fertile creatività.
L'oggetto buono e vitale non sembra tuttavia poter trovare un posto stabile nel mondo interno di Munch, essendo il fondo della sua angoscia racchiuso in una nicchia dell'anima irragiungibile, incomunicabile. Troppo solo sembra essersi sentito questo piccolo bambino di fronte alla perdita tragica della sua infanzia, troppo isolati tutti nella propria depressione ed angoscia quanti stavano intorno a lui.
La folla muta e cieca della Sera sulla Karl Johansgate (1892), non sembra accorgersi dell'esistenza del passante sulla destra che, solo, deve risalire la corrente, deve tornare verso l'origine, recuperare qualcosa da cui tutti viceversa sembrano allontanarsi, spaventati e pieni d'angoscia. Un passante che tuttavia non ha voce, sembra ripiegato su se stesso, a sua volta è impotente ad esprimere ciò che sente.

La solitudine di Munch si esprime al suo culmine, nella massima tensione rappresentabile in Disperazione (1892). Egli è solo, la natura intorno a lui si esprime indifferente alla cupa perdita del senso di sè che quel soggetto senza volto manifesta nel suo fermarsi lasciando che da lui si allontanino cose vive che si muovono, anche se verso il tramonto.
Come si può ben vedere questo dipinto prelude al Grido (1893).
Se questo viene considerato il capolavoro di Munch, le ragioni che ne determinano il successo credo che siano molteplici. Come ha osservato Rugi (1996) con quest'opera viene sovvertito un pregiudizio classico, sostenuto fra gli altri da Schopenhauer, della irrapresentabilità del suono.
E osservando questo quadro non può non venire in mente il paziente di Bion che, nella dimensione frammentata del suo tempo, segnala la mancanza del legame col seno attraverso il ripetere come manchi il "gelato" (no-ice cream), come manchi il grido (no I scream), e come questo grido, nel momento in cui può essere espresso, venga a rappresentare il legame (Bion, 1970, pp.22-23). La capacità di nominare, osserva Bion, "anche se il nome si limita ad essere un mugolio o un urlo" (ibid. p. 18) depone per l'acquisizione della capacità di tollerare una "congiunzione costante", ovvero di avere uno spazio interno sostenuto da un buon oggetto che permette di tollerare l'assenza e di pensare (v. anche Bion, 1962a,b).
Nel cammino elaborativo della propria vicenda Munch giunge finalmente a poter accedere al nocciolo della sua angoscia, a trovare una via espressiva e comunicativa, una via di pensiero, pur se appena abbozzato. Il trauma infantile di Edvard si deve essere posto come "una esplosione così violenta...accompagnata da una paura così immensa...da poter essere espressa...per mezzo di un improvviso ed assoluto silenzio" (Bion, 1970 p. 22). Un improvviso silenzio, quello anche proiettato nel terrore muto, senza nome nel volto della sorella Sophie, che ha necessitato del cammino di una vita per poter essere rotto, lacerato dal grido che finalmente trova uno spazio entro cui essere accolto. La natura-madre si piega all'onda sonora, si deforma secondo le sue linee di diffusione. Il grido di Munch trova una sua corrispondenza nella natura. Il personaggio, intriso di morte, come il suo volto mummiesco indica, riesce a far uscire il suo carico all'esterno, a pretendere di non sentirlo più come proprio, ad accettare la morte della madre senza doversi identificare in essa, tappandosi le orecchie per non sentire, ovvero far rientrare dentro di sè, il grido della madre-natura, che gli ritorna la morte, dipingendo le "nuvole come sangue vero", il sangue dell'emottisi fatale della madre e della sorella, come una cosa che deve stare al di fuori di lui. Arrivando ad accettare la perdita, elaborando il lutto, dentro di sè può ritrovare un contenitore buono, la madre viva, capace di contenere la sua angoscia.

La possibilità di esprimere in un ambiente contenitivo "il lutto indicibile" (Abraham e Torok, 1987) permette anche di spezzare la temporalità persecutoria del trauma. Nella versione più conosciuta del Grido la cesura rappresentata per mezzo del parapetto, che prospetticamente taglia rigidamente l'immagine, proiettandola verso l'infinito dissolutore, e contenente le figure che qui, persecutoriamente, sembrano inseguire il personaggio, è in realtà spezzata proprio dalla figura e dall'urlo. Proseguendo la linea del tratto di parapetto antistante la figura del personaggio, si noterà che non corrisponde alla linea del tratto del parapetto che prosegue alle sue spalle. La temporalità circolare della ripetizione che imprigiona all'interno di un universo fatto di persecuzione, di angoscia e di morte, nella relazione tra un contenuto e un contenitore si apre ad una storicizzazione che permette l'individuazione, l'appropriazione delle proprie emozioni e l'esclusione di quelle aliene.
Munch, come già prima ho sottolineato, ha scritto su una copia del Grido: "solo un folle poteva dipingerlo". Egli si dovrà confrontare ancora a lungo con la propria follia, ma in quest'opera si può ritrovare l'apertura espressiva della follia, i "sintomi positivi", produttivi, quelli che permettono di trovare una via, dolorosa e impervia magari, ma l'unica per uscire dalla prigione del non-pensiero. In effetti molto più "folli" sembrano i dipinti raffiguranti La madre morta e la bambina, o Disperazione, o altre varianti del Grido. In queste rappresentazioni del dolore mentale, l'assenza di apertura comunicativa delinea un quadro di inelaborabilità e fissità che veramente configura un'assenza di pensiero, uno stato a "sintomi negativi", la impenetrabilità della "follia".
L'elaborazione depressiva del lutto (v. Grinberg, 1971), che nel Grido possiamo riconoscere, non è una acquisizione data una volta per tutte, ma giunge al culmine di un lavoro elaborativo che procede oscillatoriamente attraverso il passaggio a modalità persecutorie del lutto stesso. In una litografia del 1895, una elaborazione successiva del Grido, così come in un'altra versione dipinta sempre del 1893 (in: AA.VV., 1985, e AA.VV., 1998), questa oscillazione verso la persecutorietà può essere ritrovata nelle caratteristiche che differenziano, profondamente, questa versione dalla precedente.
Vediamo qui come i caratteri salienti che rendono Il Grido così particolare nel percorso umano e artistico di Munch sono profondamente mutati. Le caratteristiche della natura riprendono la rappresentatività quasi "naturalistica" di Disperazione: le linee che descrivono la collina in primo piano, il fiordo, le nuvole, seguono il loro corso senza piegarsi all'onda d'urto del grido del personaggio, e senza amalgamarsi in un tutt'uno. Così come le linee del parapetto continuano senza spezzarsi in corrispondenza della figura, e i personaggi nuovamente si allontanano come a sottolineare l'irreparabilità del distacco e della solitudine.

Le stesse cose si potrebbero dire di Angoscia (1894).
Qui la natura è identificata ancora nel grido, ma in una unione confusiva tra l'Io e una madre-natura sanguinante nel suo grido di morte, non più rappresentabile quindi come una relazione che individua, ma come una relazione che annulla. Nel "corso" della vita una folla muta in preda ad un terrore senza nome, la stessa folla della via Karl Johann, volta le spalle a ciò che nella visione di Munch rappresenta l'alfa e l'omega della sua esistenza: l'origine e il tramonto coincidono, in funzione del tempo ricorsivo e chiuso su se stesso della morte e della persecutorietà. E' la folla degli adulti che restano chiusi in se stessi, sordi.
L'aver potuto tuttavia gridare il proprio dolore e l'angoscia porta Munch a confrontarsi con il proprio nucleo di esperienza più impensabile, e, conseguentemente, a rischiare di sprofondare nella follia, a questo punto non più la follia "bianca" del non-pensiero, ma nella follia come ritiro terrorizzato di fronte ad un'esperienza emozionale in qualche modo rappresentata, e collocata in una dimensione spazio-temporale. L'acquisizione di consapevolezza, il contatto con la verità del proprio mondo interno, produce un carico emozionale difficilmente tollerabile. Così come certi pazienti gravi in psicoterapia, quando cominciano a "star meglio", ad essere più coscienti di sè e della realtà intorno a loro, divengono proprio a quel punto a rischio di suicidio.
Successivamente al Grido l'opera di Munch oscilla continuamente tra immagini di follia e autodistruzione e altre dove prende corpo un sempre maggiore contatto con la vita. Angoscia, come abbiamo già visto, ma anche La vite rossa (1900ca.), fino all'Autoritratto con bottiglia di vino (1906), contengono maggiormente le prime.
"Le case, concepite antropomorficamente, appaiono come esseri animati congelati in un'assenza di vita da un incantesimo diabolico" (Messer). E' la paralisi del tempo del trauma che imprigiona nella sua morsa di morte la mente di Munch. Rappresenta a questo punto la propria mente come un'entità che viene assalita dall'esterno, il sangue mortale lo stringe in una morsa paralizzante, tendendo a renderlo inanimato. Eppure egli rappresenta la sua mente come una casa, una struttura che ha una sua solidità, una sua identità, che può rimanere soffocata, ma che continua a conservare le sue vie comunicative, le finestre non ancora invase dal rampicante.

E la lotta con la follia si dispiega fino al limite della sua sopraffazione, culminata nella grande crisi del 1906-1908, con i ricoveri per disturbi nervosi e per l'alcoolismo, rappresentato mirabilmente nell'autoritratto del 1906.
La solitudine, tale in quanto non comunicazione con le altre figure sullo sfondo, e l'oppressione di una via senza uscita verso la morte - il rosso che chiude l'angusta prospettiva dei tavoli - sono rispecchiate dall'espressione del volto di Munch in cui una smorfia di dolore è percepita dal sè del pittore con una profonda rassegnazione depressiva, che ritroviamo nell'espressione degli occhi. Lo sguardo di Munch è senza speranza, non può essere attratto dalla luce che pur copiosa si riversa all'interno dalle finestre, e che illumina la stanza verde in cui si trova. La consapevolezza dei suoi dolori, della propria realtà interna come della propria storia, non sembra poter offrire alcun sollievo all'angoscia e all'impotenza in cui egli appare inchiodato.
Come osserva Messer i colori sono usati da Munch come "chiavi", nel senso musicale del termine, quelli puri come chiave maggiore, quelli sfumati come tono minore. "E' ... del tutto evidente, dall'esame di un gran numero di tele, che per Munch il rosso e il verde costituiscono polarità emotive" (Messer), il rosso legato al trauma infantile, alla morte, il verde "rispecchia i colori permanenti ed eterni della natura" (c.s.), una natura viva e accogliente, una madre-natura capace di sostenere, ma qui relegata ai margini.
In questi anni di grande travaglio emozionale Munch dipinge anche quadri come Ragazze sul ponte (1899 ca.), Fertilità (1902), I quattro figli di Max Linde (1903), Danza sulla spiaggia (1904), Notte d'estate sulla spiaggia (1905 ca.), Le quattro età (1902).
In una delle numerosissime versioni di questo tema delle Ragazze sul ponte, vi è un'immagine dove si possono chiaramente individuare elementi della "vitalità", un accostamento più sereno alla realtà e alla dinamica emotiva. Accanto ad un tema legato alla figura femminile - la donna in bianco e la donna in rosso - e al non risolto accostamento alla passione amorosa, si può vedere come il distacco della figura in primo piano, la sua melanconia, non assuma delle caratteristiche catastrofiche, ma sia contenuta in una tristezza, in una nostalgia forse, che fa parte del normale dispiegarsi della vita emotiva. Il ponte può essere considerato come un elemento simbolico che lega, nell'attimo della sospensione riflessiva, il passato al futuro. Abbiamo allora ancora qui una rappresentazione della visione del tempo di Munch. Le tre ragazze, forse le sue tre sorelle, qui si possono differenziare in base ai loro destini: Sophie e Laura oramai voltate inesorabilmente verso la perdita, Inger che può sostenere il peso dei ricordi e non esserne travolta. E' come se si presentassero le diverse possibilità del destino del ricordo, quello che lo fissa come un carico che schiaccia la mente sotto il suo peso, o quello che lo inserisce nella "temporalità all'opera" (Green, 1990b) lo spazio, il ponte, del legame con un oggetto contenitivo che permette l'elaborazione.

In un'altra versione di questo dipinto (1901), forse quella più conosciuta, le tre ragazze tutte rivolte verso la stessa direzione osservano il paesaggio che si riflette nell'acqua. In questa riflessione esiste un particolare che è balzato all'attenzione di tutti, cioè che nell'immagine riflessa, accanto al grande albero, "fallico", manca la luna. Ma in realtà vi è un'altra caratteristica che può far pensare ad una sorta di lapsus pittorico, come nel caso del Grido. La casa che si riflette è diversa, reciproca, rispetto a quella reale. La parte più bassa del tetto diviene nel riflesso quella più alta e viceversa; compare una finestra in più nel riflesso che non esiste nella "realtà". Ciò che le ragazze vanno osservando è lo spazio della mente, popolato dagli oggetti della storia che possono declinarsi secondo due registri: da un lato vi è lo spazio dei ricordi, dove gli oggetti vengono conservati anche nelle loro relazioni tra loro. In particolare sembra che la luna, l'albero e la casa, nello spazio "reale" configurino una relazione tra padre e madre che crea lo spazio della familiarità. E' questo quindi lo spazio del ricordo e della creatività. Nel riflesso viceversa si configura lo spazio del "trauma", della perdita dell'oggetto. In questo spazio campeggia l'assenza, il luogo dove era l'oggetto, la non-cosa bioniana. L'elaborazione del lutto non toglie la perdita: se nella realtà la vita può riprendere il suo corso in una relativa tranquillità, nel profondo dell'anima i vuoti restano, anche se la riparazione può addirittura creare qualcosa in più rispetto al reale. Come osserva F. Meotti "nel momento stesso in cui procede alla riparazione dell'oggetto...crea di fatto un oggetto nuovo, ma, soprattutto, crea la propria creatività...[la riparazione] appare come un processo molto complesso in cui non è sufficiente l'affiancarsi di nuove esperienze buone accanto a passate esperienze cattive, ma in cui è necessario che l'esperienza vitale e sempre più importante del presente rafforzi la coesione e il peso che il sè dà a se stesso, in modo tale da variare il tono affettivo della memoria senza adulterarne il significato" (1998, p. 150). In questo senso mi piace pensare che sia la realtà soprastante ad essere un riflesso di quella sottostante, uno spazio in cui il sé ha potuto "variare il tono affettivo della memoria", attingendo comunque a primitive esperienze legate alla presenza viva e vivificante della madre. Pensiamo qui alle esperienze vitali rappresentate nella vita di Munch dall'eredità positiva materna legata proprio alla sensibilità artistica - la madre di Munch era estremamente dotata artisticamente- ma poi dal rapporto con la zia e con la sorella Inger.

Questi dipinti richiamano Melanconia del 1894-95 ca., in una della sue varie versioni, appartenente al Fregio della vita, l'ideale opera d'insieme in cui Munch desiderava descrivere il cammino interiore dell'esistenza.
Anche qui vediamo come la tristezza del soggetto trovi una sua collocazione in uno spazio vitale, sia inteso come una natura dai colori tenui e sfumati, sia come vita che si svolge tranquillamente, anche se alle spalle del protagonista.
Lo stesso clima che si ritrova in un dipinto del 1889, Notte d'estate o Inger sulla spiaggia, in cui la dolce malinconia della sorella, immagine di vitalità per eccellenza nell'opera pittorica di Munch, si dispiega nelle luci tenui e calde della notte estiva, in un relativo ritiro dalla vita vissuta, presente tuttavia nelle pertiche delle nasse e nella barca dei pescatori che si distinguono sullo sfondo.
La disperazione e l'angoscia indicibile non occupano tutta l'opera, il ritratto dei bambini Linde, o della bambine di Aagarstrand, denotano una oscillazione momentanea verso la vitalità e un calo della tensione angosciosa nella vita del pittore. Alle soglie della sua crisi dipinge Danza sulla spiaggia.
Qui abbiamo la rappresentazione di una gioia connessa all'infanzia che potrebbe apparire quasi come una negazione maniacale del proprio lutto e dell'angoscia, se non fosse per l'apparire delle altre tre figure, le due in nero e quella in rosso, che ripropongono la simbologia della Danza della vita. Però qui non si ha quella paralisi del tempo che contraddistingue quel dipinto, ma una successione, la rappresentazione delle fasi della vita, l'infanzia, la maturità con le sue passioni, il declino.
E ancora troviamo un ambiente in cui il dispiegarsi del tempo avviene in un clima di non persecutorietà, una madre-natura accogliente, anche in funzione di una specie di combinazione edipica in cui la funzione materna è sostenuta dalla figura paterna dell'albero, che sembra avere propriamente una funzione discriminante, evitando le confusioni tra le fasi descritte, in quanto ciascuna è separata dall'altra dai rami che le incorniciano.
Questa funzione strutturante dell'edipo è quella che permette di distinguere tra sè e altro, tra interno ed esterno, tra fantasia e realtà. E' questa che permette ad uno spazio contenitivo di non divenire confusivo e simbiotico, e quindi permettere trasformazione e crescita mentale.

Lo spazio interno in cui si possono discriminare le diverse esperienze del Sè permette a Munch di accostarsi ad una visione più libera della vita intorno a lui, ad acquisire una visione dello spazio non più dominato dalla paura e da una temporalità persecutoria, ma in cui i diversi elementi si integrano in una naturalità sempre maggiore, come per esempio nel dipinto Notte d'estate.
In particolare possiamo notare come le figure della temporalità si modifichino, confrontando le due versioni del Grido proposte, Disperazione, e Ragazze sul ponte.
La linea prospettica che vorticosamente porta verso una profondità insondabile, le origini come la morte, presente in Disperazione e nel Grido litografico, diviene quella linea che si spezza nel Grido del '93, un percorso del tempo della vita in Ragazze sul ponte. Qui la linea prospettica si adatta alla presenza delle figure, comprese forse in un'attesa, in rapporti umani, anche in pause melanconiche, ma con la tranquillità del vedere svolgersi sotto i loro occhi il cammino delle emozioni, i percorsi della vita, i riflessi della realtà nella profondità della mente, rappresentati dai riflessi nell'acqua, il tempo attuale a confronto con quello passato e quello futuro, massimamente espresso proprio in questa versione del dipinto, con una delle figure che guarda in direzione opposta alle altre due, come a sottolineare una possibile reversibilità della temporalità nello sguardo interiore.
Proprio questa discriminazione, una nuova prospettiva temporale, giunge alla sua più chiara esplicitazione nell'opera Le quattro età.
Il cammino del tempo si dispiega così nell'arco delle fasi dell'esistenza, che, non più fissata nell'attimo del trauma, trova la sua naturale successione in un percorso racchiuso in una prospettiva mobile, delimitata dal quotidiano. La bambina in primo piano, che, come rileva Bischoff (1994, p. 68), ricorda la sorella del dipinto La madre morta e la bambina, sembra potersi lasciare alle spalle le immagini della morte e guardare innanzi in una strada della vita che le si apre davanti sconosciuta, ma che contiene immagini di un tempo che non priva dei propri oggetti primari, bensì permette loro di crescere e di invecchiare, conservandosi nello spazio del proprio mondo interno. Le figure femminili che invecchiano rappresentano, nell'esperienza interna di Munch, una rappresentazione della consolidata affermazione nel proprio spazio interiore di immagini vive con cui può confrontarsi e sentirsi sostenuto, e non con la presenza della morte, ovvero un oggetto buono assente che, con la sua assenza, si tramuta in oggetto persecutorio presente.

In effetti le uniche figure femminili che Edvard ha potuto veder invecchiare sono state la zia e la sorella Inger. Nei ritratti che si succedono di Inger (1892) ritroviamo il continuo attingere, da parte di Munch, ad una immagine interna di vitalità che, nonostante tutte le vicende luttuose che ha dovuto affrontare, è sempre, in qualche misura, stata presente.
Nella sorella Inger, così centrale nell'elaborazione della propria vicenda esistenziale, Munch sembra condensare tutta la vitalità che ha potuto attingere dalle figure materne della sua vita: la madre stessa, la sorella Sophie, la zia Karen, una vitalità che si sprigiona prepotente in particolare in un ritratto precedente, in cui lo sguardo sembra uscire dalla cappa luttuosa dell'abito e dello sfondo nero come un trionfo della vita sulla morte (1884).
A questa figura della vita fa da riscontro Il sole (1909-11), gigantesco monumento alla vitalità paterna, forse un poco "sovrumana", vista l'ispirazione nietzschiana da cui il dipinto è partito, ma che sviluppa al massimo grado quell'elemento fecondo dell'incontro del sole col mare, che nelle opere precedenti vedeva il sole sempre rappresentato in tono "minore". Qui viceversa la sua potenza calorosa trova il suo dispiegamento completo, anche in funzione di una maggiore "penetrazione" nell'ambiente marino.
Nel famoso Autoritratto tra la pendola e il letto (1942-43), forse il suo ultimo quadro, Munch vecchio e curvo sosta tra gli assi della temporalità e la non temporalità, l'asse verticale della pendola - il tempo della vita - e quello orizzontale del letto - l'eternità della morte -, indicando come il suo tempo sia finito, attraverso il simbolo, forse ripreso anche da Bergman in "Il posto delle fragole", dell'orologio senza lancette. Alle sue spalle tutta la sua vita, i suoi quadri, il sogno di una passione (il nudo femminile che si vede alla sua sinistra) che non ha potuto trovare una realizzazione. L'elaborazione solitaria, mediata dalla creazione artistica, non gli ha permesso di giungere ad una fiducia nel legame sufficiente per realizzare un rapporto stabile e creativo - si pensi al suo rapporto burrascoso con Tulla e al suo epilogo segnato da una "castrazione" nemmeno tanto simbolica, la perdita di un dito della mano sinistra -; il tentativo di padroneggiare l'esperienza traumatica, come osserva Green (1980), produce "sublimazioni [che] mostreranno la loro incapacità ad esercitare un'azione equilibratrice dell'economia psichica, perchè il soggetto resterà vulnerabile in un settore particolare, quello della sua vita affettiva" (p. 278-279).

Il "progetto trasformativo dell'esperienza artistica" (Conforto, 1997), non può colmare completamente il "buco" lasciato da quegli eventi della storia infantile; nel suo ultimo autoritratto la luce che penetra e illumina il pavimento ai suoi piedi, e che benché formi una croce come quella di una pietra tombale, come osserva Di Stefano (1994), lo sostiene tuttavia fino all'ultimo momento del suo tempo, luce della vitalità che ha saputo ritrovare nella costruzione del suo mondo interno, grazie al recupero doloroso, attraverso il lavoro del lutto, delle figure vive dei suoi genitori, degli oggetti primari, che per lo meno hanno potuto mitigare il peso del posto occupato al centro del proprio apparato psichico dalla "madre morta", quegli oggetti primari che noi tutti possiamo ritrovare lungo il corso della vita, e che ci donano momento per momento nel nostro cammino la sostanza e il sostegno per il nostro esistere.
"Reinsediando dentro di sè...i genitori buoni... e ricostruendo il proprio mondo interiore disgregato e in pericolo, il soggetto supera il cordoglio, riacquista il senso della sicurezza e perviene a un'autentica armonia e a una vera pace" (Klein, 1940, p. 354).
Munch non è giunto fino al limite di ricostruire il proprio mondo interno pervenendo ad "un'autentica armonia e a una vera pace", ma, grazie ad un'esperienza infantile precedente ai traumi luttuosi che lo hanno indelebilmente segnato, deve aver trovato un'esperienza familiare dove lo spazio della creatività ha potuto svilupparsi sufficientemente, senza essere annientato dall'esperienza traumatica. Questa creatività, tratta forse da una coppia genitoriale che, nei cinque anni dopo la nascita di Edvard, ha avuto altri tre figli, nonostante la malattia della madre, si è sviluppata nell'artista permettendogli di "mettere in contatto con il mondo esterno le ... verità interiori, scavalcando d'un balzo sia le prigioni psichiche della follia sia le espressioni compiacenti di un adattamento 'come se'" (Conforto, 1997, p 82), senza così dover mai rinunciare alla sua originalità espressiva.

Alcune considerazioni sui destini del "traumatico".

La storia dell'infanzia di Munch potrebbe far immaginare uno sviluppo disastroso, allo sbocco in una vera e propria follia, quella che in effetti più volte egli ha toccato e contro la quale ha dovuto lottare per tutta la vita. Quell'esperienza che ha portato d'altronde alla follia una sorella, alla morte di altri due fratelli, ma in cui lui ha trovato sufficiente sostanza perchè dal trauma potesse essere recuperata una capacità di crescita della mente in qualche modo creativa.
Secondo la concezione psicoanalitica più attuale, che insistentemente torna a riflettere sul significato del "traumatico", il trauma "si genera non tanto per l'evento in sè, quanto per la sua inelaborabilità" (Giaconia e Racalbuto, 1997) e genera, sempre in accordo con questi autori, dei fantasmi che "esprimono le tracce mnestiche grezze, cioè tracce di esperienza slegate da un contesto rappresentativo linguistico" (ibid., p. 542).
L'inelaborabilità dell'esperienza si lega ad una insufficienza relativa dell'apparato per pensare i pensieri, ovvero ad una carenza di rèverie dell'oggetto primario. Può quindi essere compresa in una concezione della mente che consideri tanto l'intrapsichico che l'interpsichico. Nell'esperienza del bambino è naturale che certe esperienze richiedano la presenza della mente della madre per poter essere transitate. In questo senso la solitudine in cui si può trovare il bambino, per un'assenza fisica o mentale della madre, diviene elemento traumatico in funzione della mancanza di un'apparato per lui vitale perchè la sua mente non venga allagata o disintegrata da un contenuto inassimilabile. Perchè il bambino possa giungere ad una introiezione stabile di una funzione di pensiero, deve essere in grado di riconoscere "il valore della capacità di pensare in quanto strumento idoneo ad attenuare la frustrazione presente tutte le volte in cui predomina il principio di realtà" (Bion, 1962b, p. 74). Questo valore viene trasmesso attraverso il legame affettivo nella misura in cui la "madre" è convinta di questa idoneità, così come noi cerchiamo di trasmetterlo ai nostri pazienti, al di là del contenuto specifico dell'interpretazione. E' la passione del "pensare", in senso bioniano, in quanto ricerca della "verità su se stessi" (Grinberg, 1979) che viene trasmessa più profondamente.

Il lutto legato alla perdita della madre, rappresenta, nell'età in cui Munch l'ha patito, un'esperienza che si pone ai limiti della possibilità di concepire una elaborazione per una mente ancora così bisognosa di un supporto. Sarebbe proprio della madre, della sua capacità di consolare e dare conforto che il bambino, di fronte ad un carico di emozioni così grande, avrebbe bisogno; ma è proprio questa che viene a mancare. La possibilità di avere dentro di sè un oggetto interno materno sufficientemente solido appare, in un'età così precoce, e con le vicende familiari specifiche di Munch, profondamente problematica. L'ambiente familiare in questo momento viene rappresentato da Munch come completamente assorbito dal lutto, venendo così a interdire la possibilità di un reperimento di un oggetto materno sostitutivo, capace di ricevere la comunicazione di angoscia del bambino e di contenerla. Questo ambiente così chiuso su di sè e sul proprio dolore viene a configurare un ambiente "madre-morta" nell'accezione di Green: l'evento trasforma "l'oggetto vivente, sorgente della vitalità del bambino, in una figura lontana, atona, quasi inanimata" (1980, p. 265). Inoltre il lutto appare inelaborabile, e quindi la situazione si pone come psichicamente traumatica, in funzione della "conferma" che la morte reale della madre viene ad avere in ordine alle fantasie distruttive del bambino verso il corpo materno, e la sua relazione col padre (Klein, 1935, 1940). La figura paterna in particolare, durante l'infanzia e l'adolescenza di Edvard, con tutta la sua patologia legata la tema della colpa, e della propria insufficienza, non sembra avere la possibilità di accollarsi il peso del lutto e del distacco. Forse il piccolo Munch avrebbe potuto pretendere qui di ritrovare una figura capace anche di accollarsi il carico di accuse, della delusione della credenza infantile nell'onnipotenza del genitore, catalizzando ed elaborando l'odio che la separazione in ogni caso viene a creare. Perché il bambino possa vivere liberamente e elaborare il proprio sadismo verso le figure genitoriali, è necessario che queste non vengano realmente distrutte, sopravvivano agli attacchi; il legame dei genitori che si rivela fecondo, come nel caso dei genitori di Munch, produce tanta gelosia, per la nascita di tutti i fratelli, ma anche tanta fiducia che questi attacchi non sterilizzino la coppia. Ma dopo la morte della madre la vitalità della relazione genitoriale si perde, e Munch si ritrova ad avere a che fare con una madre morta e un padre distrutto.

La morte reale della madre si può così sovrapporre a momenti in cui per il piccolo Edvard la madre era come morta in quanto assorbita dalla nascita dei tre fratelli. Possiamo anche pensare a quanta depressione deve esserci stata in questa donna, malata di tubercolosi, al pensiero di dover così presto lasciare tutti i suoi figli. Il legame fecondo tra i genitori è strutturante nei confronti della mente del bambino, in funzione della presenza reale del padre fra il bambino e la madre che permette quella separazione che distingue le identità e determina la creazione di quello spazio di vuoto e di assenza necessario perchè si sviluppi il pensiero e la funzione simbolica (v. anche Di Chiara e coll., 1985), e che determina quella "perdita metaforica" di cui ci parla Green (1980). Il padre che, peraltro, attribuendosi la "colpa" della morte della madre viene a configurare questo elemento di separazione nei termini di un oggetto persecutorio vissuto in modo paranoide. Vissuto questo che accompagnerà per tutta la vita Munch, impedendogli di vivere le situazioni di competizione maschile nei confronti della donna in modo "fisiologico". Nel momento in cui questa perdita si pone non più come metaforica ma reale, l'oggetto verso cui indirizzare il proprio sforzo introiettivo si configura come una assenza persecutoria, in quanto ancora carica della colpa del soggetto da un lato, e che inoltre porta via con sè le parti del sè vitale identificate in esso. Il bambino di fronte alla perdita della madre, per mantenere con essa una qualche forma di relazione, tende ad attribuirsi la responsabilità degli eventi, la morte o la malattia. Le motivazioni per cui la madre si ritira dal rapporto sono per il bambino incomprensibili: si viene cioè a configurare quella "perdita di senso" di cui parla Green. Per il bambino la scomparsa della madre viene tradotta in una colpa, "legata alla sua maniera di essere, piuttosto che a qualche desiderio proibito; di fatto gli viene proibito di essere" (Green, 1980, p.277). Il bisogno dell'oggetto determina così una situazione paradossale in quanto per ristabilire l'unione con l'oggetto perduto si può ricorrere non ad una autentica riparazione, che comporterebbe la presenza di un oggetto e un mondo interni già sufficientemente sviluppati, ma ad un'identificazione mimetica "allo scopo, visto che non è possibile possedere l'oggetto, di continuare ad averlo, diventando non solo come l'oggetto ma l'oggetto stesso. Questa identificazione, condizione della rinuncia all'oggetto e della sua contemporanea conservazione secondo una modalità cannibalica, è fin da subito inconscia" (p. 276). Il centro della mente del soggetto è così occupato dalla "madre morta".

Ancora Green, in questo splendido saggio, nota come il primo movimento appariscente di questo dramma sia di natura preconscia, e cioè il disinvestimento dell'oggetto. Nell'opera di Munch questo disinvestimento può essere reperito nella caratteristica che possiamo ritrovare nel dipinto La madre morta e la bambina, come osservato sopra, della attribuzione di tutto il carico emotivo della scena alla sorella Sophie. Il primo tempo del trauma, secondo la dizione dei Baranger e Mom (1987), resta inscritto nella mente di Edvard: è "tenuto a mente". A proposito Bleger osserva: "Può darsi che il 'tenere a mente' sia un'equazione simbolica, e che invece il pensare sia già un'operazione in cui si utilizzano dei simboli. Pertanto, l'equazione simbolica non è una confusione tra il simbolo e ciò che viene simbolizzato, ma l'interiorizzazione di un nucleo sincretico nel quale coesistono ancora l'oggetto e la sua rappresentazione astratta (mentale), senza che siano tuttavia completamente discriminati. Il 'tenere a mente' è, geneticamente, anteriore al pensiero e non discrimina tra parola e pensiero" (1967, p. 249). La lezione bioniana permette di superare certi punti di questa concezione, e sicuramente un "engramma mnestico" non può essere considerato un pensiero con un pensatore. Il ricordo deve trovare il proprio senso nel suo collocarsi in una prospettiva storica dello sviluppo del Sè. "Intorno all'evento traumatico si organizza così nella storia del soggetto un'area astorica, fuori dal tempo e fuori dal conflitto. Qualcosa su cui non è mai stato possibile 'chiudere un occhio', su cui gli occhi sono rimasti 'sbarrati'" (Barale, 1996, p.445); sbarrati come gli occhi della sorella, nel dipinto sopra ricordato, fissati nel ricordo come in uno specchio, che rimanda la propria esperienza ma collocandola in un altrove in funzione della sua non tollerabilità.

La scena della morte della madre e il suo configurarsi come una scena vista allo specchio riporta ad una fondamentale funzione materna che si interrompe drammaticamente lasciando il bambino solo con la sua angoscia impensabile: esattamente quella che Winnicott descrive così efficacemente e poeticamente nel capitolo di Gioco e realtà su "La funzione di specchio della madre". "Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me di solito ciò che il lattante vede è se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge" (1971, p.191). Ma cosa succede se la madre, e più in generale l'ambiente materno, non possono più guardare? I bambini, dice Winnicott, "guardano e non si vedono". L'ambiente così funziona veramente solo da specchio, che rimanda al mittente, immodificata, l'immagine che gli viene proposta. E qui Munch guarda e non si vede, può vedere la sorella e la scena retrostante, ma lui non si vede. Il volto di Sophie viene così a rappresentare il proprio volto non visto dalla madre. La scena e le emozioni correlate restano impresse nella sua mente come in una pellicola fotografica non sviluppata, allo stato virtuale, senza poter transitare nella mente adulta che le possa "sviluppare". L'occhio sbarrato registra la scena che resta in un qualche luogo della mente conservato con le caratteristiche di un'allucinazione. Bion ci ha insegnato a considerare le allucinazioni come evacuazioni all'esterno di contenuti non pensabili e contenibili nella mente, attraverso un'inversione della funzione degli organi di senso. Questi ricordi sembrano conservarsi con tutte le loro caratteristiche di non-pensabilità e di non-contenibilità esattamente con le caratteristiche delle allucinazioni, ma all'interno della mente. Il venir meno della funzione di rèverie materna fa sì che le "tracce mnestiche grezze slegate da un contesto rappresentativo linguistico" (Giaconia e Racalbuto, 1997) debbano attendere delle nuove situazioni in cui l'originaria rèverie materna possa essere riparata, ovvero il contenuto traumatico possa essere allucinato nuovamente all'esterno, in una situazione in cui vi sia un oggetto che possa dare a questo movimento un significato creativo. E' quello che avviene quando i pazienti hanno "allucinazioni" nel trattamento (v. Bion, 1958), è quello che è avvenuto in Munch, e nell'artista in generale, quando nel medium artistico trova la possibilità di elaborare, almeno parzialmente, la propria sofferenza mentale. Il fatto che questa elaborazione sia parziale non dipende tanto dal fatto che l'artista non svolge un trattamento analitico, quanto dal fatto che l'oggetto sia riparabile. Come osserva Green (1990, p.298-299) non si può ripristinare una funzione di rèverie che non sia stata inscritta nella mente del bambino, così non si può riparare un oggetto, o dare all'oggetto una funzione di rèverie, se questi non contiene in sè la possibilità di averla. Così il paziente può evocare le sue figure originarie, ma se in queste non è rintracciabile una qualche funzione positiva, non la si può nemmeno creare a posteriori. In questo senso perchè la creatività possa svilupparsi è necessario che l'oggetto "si lasci riparare".

Nell'esperienza di Munch questo percorso è stato in parte possibile, evidentemente in quanto non aveva a che fare solo con una madre "morta", ma anche con una madre "viva". Le tracce mnestiche grezze hanno trovato all'interno della sua mente la possibilità di essere trattenute non solo come in una cripta, nel senso in cui ne parlano Abraham e Torok (1987), ovvero come un lutto non elaborabile, ma anche come reliquia, oggetto virtuale e labile, che deve essere recuperato attraverso il lavoro del lutto. Come una pellicola fotografica impressionata non deve prender luce prima che il processo di sviluppo la abbia fissata in un'immagine utilizzabile per essere riprodotta, così la reliquia deve essere conservata al riparo da agenti che potrebbero distruggerla definitivamente, senza possibilità di recupero. Come osserva Fèdida: "La relique ... rappellerait que le deuil, avant de se concevoir en un travail, protège l'endeuillè contre sa propre destruction ... l'endeuillè n'a pas encore perdu son partenaire" (1978, p. 70). E' proprio sulla base di questa presenza viva che la creatività, il pensiero, possono svilupparsi attraverso il "lavoro del negativo" (Green, 1993), in cui il distacco dalla madre non generi quel vuoto incolmabile e infinito nel quale il Sè sprofonda, ma uno spazio di assenza "metaforica" (Green, 1980; Di Chiara, 1985) che stimola la funzione della memoria, della temporalizzazione e della simbolizzazione, ovvero gli elementi della creatività. E' in questo contesto, alla presenza dell'oggetto conservato vivo e con funzione di rèverie, che le tracce mnestiche grezze possono essere concepite come conosciuto non pensato, che in presenza dell'oggetto trasformativo possono essere integrate nel patrimonio del Sè (Bollas, 1989). La memoria così può avere la sua funzione strutturante nella crescita del Sè in quanto "la ripetizione ... possa essere pensata nei termini di un ricorso a categorie affettive già utilizzate" (Modell, 1990, p.95), che sono categorie che hanno a che fare con le modalità di cura della madre nei confronti del bambino, quindi categorie relazionali. In altri termini si può parlare di memoria allorchè vi è pensiero, in caso contrario si potrebbe parlare di "memorie come allucinazioni ". Nel recupero graduale dell'oggetto trasformativo, vivo e capace di rèverie, si può quindi passare "dall'allucinazione al sogno" (Ferro, 1988, 1992), in un percorso che permette di rendere tollerabile un dolore mentale fino a quel momento non contenibile. Come osserva Ferro: "l'allucinazione ... mi sembra recuperabile al pensiero, attraverso un percorso intersoggettivo, basato non tanto su una decifrazione interpretativa, quanto su operazioni di rèverie/trasformazione: queste ultime aventi di fronte le vere allucinazioni, per oggetto non il contenuto di queste, ma il panico, il terrore, la confusione a esse correlati" (1992, p. 124). La produzione artistica di Munch si pone programmaticamente di fronte al panico, al terrore, alla confusione, non simbolicamente attraverso un processo di occultamento da interpretare, ma tende a fare oggetto della sua rèverie il contenuto emozionale autentico del ricordo-allucinazione. Una intersoggettività si è quindi potuta costruire all'interno della sua mente, attraverso degli oggetti primari che hanno mantenuta viva la relazione con la "madre": la zia, la sorella Inger, e chissà quali altri.

Ciò che è stato possibile nella vita di Munch non sembra possibile nella storia di persone che hanno avuto vicende traumatiche simili, ma che divengono pazienti molto gravi. Questo diverso destino sembra in molti casi determinato dalla presenza svuotante della "madre morta", buco mentale che priva delle funzioni basali e minimali affinchè l'esperienza della separazione e dell'individuazione dall'oggetto primario divenga tollerabile. In quei casi in cui sembra veramente di trovarsi di fronte ad una situazione in cui l'oggetto materno non risulta riparabile, in quanto non ha mai sviluppato delle funzioni materne differenziate, capaci di contenere l'emozione, essa pertanto deve essere evacuata in uno spazio claustrofobico, il corpo, o agorafobico, legato alla sensazione di smembrarsi nel vuoto infinito, in ogni caso spazi lontani in maniera assoluta dalla pensabilità. Come ricorda Borgogno, il trauma "relega la relazionalità e la soggettività non nominate, non accolte e violate nel corpo... dove la paralisi della libido e della vitalità, per così dire spaventate e traumatizzate, vengono ad esprimere l'impotenza, il terrore, l'orrore e il dolore..." (1997, p. 281); qui si parla delle nevrosi di guerra studiate da Ferenczi, una situazione che comporta una vulnerabilità, una mortificazione che possono a buon titolo essere riportate regressivamente alla condizione di vulnerabilità del bambino. Queste situazioni così gravemente mortificanti, come anche quelle di cui ha parlato recentemente Ruth Barnett (1997), di separazioni e orrore innominabile, riguardante i bambini ebrei profughi in Inghilterra e drammaticamente separati dalle famiglie destinate all'eccidio, non abbisognano purtroppo solo di condizioni storiche particolari e, speriamo, irripetibili, ma possono riprodursi nella vita dei singoli, quando l'assenza di amore per la vita di certe condizioni di follia, si riversa anche sui figli. In quelle situazioni cliniche caratterizzate da disturbi del pensiero, quelle che Munch ha "schivato" attraverso la sua arte, l'esperienza mentale non può passare dall'allucinazione al sogno, trasformare gli elementi b attraverso una funzione a in oggetti pensabili, in primo luogo sognabili; questi restano come elementi indigeribili, in uno stato di scissione in cui l'esperienza viene registrata "da una parte del soggetto che 'sa e vede tutto' ma non sente; e un'altra parte che 'soffre' ma 'non capisce' ed è 'impotente' e 'inerme' nel suo muto dolore", come dice ancora Borgogno parafrasando l'eccezionale Ferenczi del Diario clinico. "Il ricordo è possibile soltanto se l'Io, sufficientemente consolidato (integrato o divenuto tale), resiste alle influenze esterne, ne subisce l'effetto che però non determina spaccature" (Ferenczi, 1932, p. 280); ovvero: per poter ricordare, inserire il ricordo in una trama temporale e narrativa, cioè storica, è necessario un mondo interno in cui gli oggetti che sostengono e permettono la funzione del pensiero, siano introiettati e conservati in uno spazio vivo e accessibile della mente (v. anche Ferro, 1996). Questa condizione interna credo che sia stata la chiave di volta della vita di Munch, quella che gli ha permesso attraverso lo schermo delle sue tele di non essere annientato nel vuoto della follia, in una tensione costante di lotta. Il dolore e l'angoscia che Munch esprime nella sua opera non hanno mai il carattere di una riflessione compiaciuta sulla propria miseria, un estetizzante rimestarsi in una condizione esistenziale ascetica. "L'ascesi deve consumare, distruggere, evacuare tutti i pensieri, tutti i desideri della creatura...L'annientamento ascetico è così radicale che si è potuto confonderlo con l'annientamento malinconico, senza vedere che tra questi due annullamenti la differenza è quella che separa la disperazione dalla speranza" (Starobinski, 1994). In Munch il dolore mentale è qualcosa che rappresenta sempre il frutto di un'esperienza, sofferta fino all'estremo, ma sempre tesa al legame e alla speranza di una sua ricostituzione.

Nota

Le illustrazioni dei dipinti di Munch sono presenti nei volumi indicati in bibliografia, e inoltre in diversi siti di internet:

www.museumsnett.no/nasjonalgalleriet
www.artchive.com
www.artonline.it
www.postershop.com
sunsite.sut.ac.jp
sunsite.unc.edu

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