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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Arteterapia



Dalla pietrificazione alla narrazione.
Percorso di arte terapia in un gruppo con un adolescente del Centro Diurno (Servizio Adolescenti Villa Santa Giuliana - Verona)

Giuliana Magalini, A.T.I.



Nella mia esperienza ho osservato che in adolescenza si assiste o ad un irrigidimento verso il polo simbiotico o verso il polo del Sé osservatore. L’espressione artistica di queste due posizioni si manifesta, nel primo caso attraverso la regressione in immagini caotiche e evacuative, e nel secondo con immagini rigide “congelate” pietrificate e controllate. In riferimento all’affetto che traspare dall’immagine, allo stile, ai materiali, ai contenuti portati, come si può aiutare un paziente a muoversi da una posizione all’altra, per favorire un processo di integrazione? Il tema centrale, nel lavoro clinico con gli adolescenti, è la questione dello spazio, (1) che è osservabile in arte terapia attraverso l’uso dei materiali, nell’aspetto formale che comprende lo stile e l’organizzazione spaziale, nella capacità di simbolizzazione e nella relazione con l’adulto e con il gruppo dei pari.

P. Jeammet descrive le due condizioni dell’adolescenza: l’instabilità del mondo psichico interno e la grande dipendenza dagli oggetti esterni (2) delineando come il passaggio all’età adulta implichi un rimaneggiamento delle relazioni oggettuali e come in questa fase vi sia un grande bisogno di investimento all’esterno; ma questo è tanto più difficile da tollerare quanto più è necessario. Spesso il lutto che l’adolescente deve elaborare lo precipita nel conflitto fusionale; e come antidoto il ragazzo/ragazza utilizza la presenza di un Sé osservatore esasperata per proteggersi dall’esposizione a contenuti emotivi non tollerabili, tanto meno rappresentabili.

L’arte, legata ad elementi emotivi affettivi e preverbali, permette di aderire all’identità profonda ed apre la strada alla verbalizzazione. Immagini realizzate in uno stato di non-pensabilità possono oggettivare all’esterno stati indicibili: l’esperienza “vissuta” nel processo artistico permette di trasformarli. Abbiamo bisogno delle immagini perché la metafora crea un collegamento tra processo primario e processo secondario e la metafora contribuisce a dare significati. Inoltre, il simbolo si forma solo grazie ad una relazione che collega il soggetto ed il mondo e si avvale di una condivisione di significati.

Il caso clinico che qui presento si sviluppa all’interno del laboratorio di arteterapia del Centro Adolescenti dell’Ospedale Villa Santa Giuliana di Verona, frequentato da ragazzi/ragazze che sono ricoverati presso il Servizio Adolescenti della stessa clinica. Di solito il gruppo è numeroso perché l’attività è molto apprezzata dai giovani e dall’équipe. Purtroppo, le entrate e le uscite sono ripetute: alcuni sono presenti anche per un solo incontro, altri per 3-4 incontri, altri ancora per 10-12. È un gruppo aperto, scelta inevitabile per le circostanze, che ha il vantaggio di offrire una struttura senza creare un ambiente relazionale eccessivamente esigente, in quanto il gruppo agisce come sfondo e permette ad ogni individuo di farne uso secondo i propri bisogni. È inoltre focalizzato sul percorso individuale con uno spazio non solo materiale e pratico, ma soprattutto simbolico. È necessario che il contenitore setting, soprattutto per questa fascia d’età, sia sicuro; pertanto è strutturato in incontri regolari settimanali e a un ritmo preciso all’interno del tempo di due ore: presentazione, lavoro artistico, verbalizzazione. Il presupposto è che la stabilità del setting permetta di poter dipendere da limiti forti e consistenti, entro cui esprimere le proprie debolezze. Per pazienti gravi, la concreta negoziazione di spazi materiali, come in questo caso, permette un’interazione che promuove contenimento e cambiamento. Oltre al gruppo di arte terapia per i pazienti ricoverati al Servizio Adolescenti, esiste un secondo gruppo, sempre nello stessa istituzione, rivolto ai ragazzi/e esterni ai quali si richiede continuità di partecipazione per periodi abbastanza consistenti.

Fabio, un ragazzo di diciannove anni, ed io, abbiamo percorso insieme un po’ più di strada del solito: ventiquattro incontri in tutto, nove al momento del suo ricovero al Servizio Adolescenti e quindici con la frequenza al laboratorio di arte terapia per esterni; il prolungarsi del suo tragitto riabilitativo gli ha concesso di sciogliere la rigidità delle immagini e ricomporre la frammentazione, in parte con il colore e lavori di prospettiva, in parte con un abbozzo di narrazione attraverso la scrittura. Al buon esito del processo ha contribuito molto il suo poter affidarsi pian piano alla relazione con me e allo scambio nel gruppo.

Quando incontro Fabio per la prima volta mi rendo subito conto che per lui rimanere nella stanza del gruppo di arte terapia è come stare in una pentola bollente: è agitato, inavvicinabile. Esce subito, infatti, dopo aver tratteggiato velocemente su di un foglio con la matita delle montagne appuntite. Si sa che spesso l’adolescente, tanto più quello che sta male, non è sempre in grado di esprimere verbalmente il proprio malessere e il più delle volte lo “agisce”: noia, opposizione, provocazione. P. Jeammet descrive la netta predominanza del “vissuto” sul “pensato” in adolescenza. (3)

Nell’incontro successivo Fabio riesce a stare nel setting un po’ di più: disegna, ma poi esce, perché “deve fumare”, rientrando però per la condivisione verbale per presentare se stesso con l’immagine di un bambino spaventato: postura rigida, sproporzione fra torace e gambe e mani e bocca che mostrano un’aggressività trattenuta. Sarà dimesso dopo poco perché non accetta il ricovero.

Dopo circa un mese e mezzo sarà nuovamente in ospedale: lo ritrovo al laboratorio ed ha con sé un cd: parliamo di musica e sembra essere più disponibile. Disegna con pennarelli, vuole assolutamente uscire, ma poi rientra. Presenta al gruppo l’immagine di un di un teschio con quattro occhi, doppio naso e bocca a cui dà il titolo “indecisione” e commenta: “ho fatto anche un secondo disegno senza titolo. Così. Senza titolo perché è qualcosa di indefinito.”. Infatti, in basso a destra, sullo stesso foglio, ha disegnato una mano, un cannocchiale ed un uccello. La struttura è più morbida del primo lavoro, ma non c’è distanza fra le tre parti rappresentate; il cannocchiale, che dovrebbe essere la mediazione fra sé e gli elementi esterni, è sullo stesso piano della mano e dell’aquila. C’è una fusione dei tre elementi espressi. Mi ritorna in mente S. Resnik che descrivendo la formazione del simbolo afferma che la costruzione delirante nega la perdita e al suo posto si ingenera una modalità di pensiero che non lascia più spazio e distanze fra le cose.

Fabio ritorna ad essere agitato nella stanza nella fase dell’attività artistica, gira, dice che bisogno di uscire, ma alla fine accetta di rimanere. Partendo dalla sua difficoltà a distanziare gli oggetti e trovare quindi uno spazio mentale, (4) gli propongo un lavoro tridimensionale, ma mi rendo conto che lui vive i miei suggerimenti come una critica. Persiste l’ansia, rimane ostinato ed in chiusura. Rappresenta ancora due facce in una: una viola triste ed una gialla decisa sottotitolando “forza interiore”. Questa sovrapposizione mi fa pensare ancora alla difficoltà di differenziare. I tratti sono rigidi ed il viso non ha contorno. Nell’incontro successivo è decisamente arrabbiato; esce ancora prima che inizi il gruppo, rientra dopo mezz’ora, traccia dei segni leggeri a matita, infine si rivolge a me dicendo: “devo andare a lavorare io!” (e non perdere tempo qui). Non rientra per la verbalizzazione. Ha un atteggiamento di sfida, è provocatorio rispetto al gruppo e a me. Di fronte a questa svalutazione nei confronti miei e dell’attività mi sento davvero impotente.

Ritornerà la settimana successiva annunciando “di essere in paradiso” per i farmaci assunti. Cerco di farlo lavorare sulla differenziazione dei piani, proponendogli di provare un esercizio di prospettiva con l’aiuto di una tirocinante. Accetta e presenta al gruppo “il punto fermo per una vacanza” dove rappresenta in modo elementare una casa, colorandola con matite. Ma ciò di cui vuole parlare sono i suoi stati d’animo che scrive, collocandoli in un grafico dal titolo “verso l’alto”. Per approfondire quanto ha presentato gli chiedo se può tradurre le parole in immagini; risponde disegnando visi e parti di corpo frammentati, affermando di trovarsi ora nella fase di depressione/speranza. Descrive la depressione come qualcosa di sfumato: confusione, stanchezza, mani che tremano (per i farmaci), ricordi. Per dare consistenza al suo racconto, mentre parla io disegno per lui. So che è terrorizzato dal mostro della follia, ma non oso entrare in questo territorio. È necessario che gli venga offerto uno spazio sicuro dove poter stare e pian piano, forse, poter esprimere. Mi aggancio alla parola “normalità” che ha scritto nel suo grafico. Questa volta disegna lui: una cascata piccola in basso, che colora con le matite. Commenta: “normalità è una cascata in un bel posto tranquillo, in un ambiente naturale”. Qui, nel segno, non c’è più un movimento meccanico, sembra far breccia un’affettività, quindi un precursore della trasformazione simbolica. L’immagine positiva gli dà poi la forza di parlare al gruppo della depressione esprimendo, per ora, che ognuno ha la propria. Riprende con il suo stile espressivo controllato e frammentato. Si tiene ben lontano da materiali che lo potrebbero mettere in contatto con elementi prossimi al corpo, alle emozioni, all’affettività. Il gesto è rigido, le immagini pietrificate, appiattite, come il suo mondo senza rilievi, né spazio per sentire e pensare. Mi sorprende però il fatto che Fabio, pur non commentando più di tanto i propri lavori, riesca invece a rimandare significati simbolici interessanti sui lavori dei compagni. Mi rendo conto di quanto il gruppo faciliti il processo di simbolizzazione perché attraverso le immagini dei compagni possono emergere contenuti propri.

Viene dimesso e prosegue la frequentazione come esterno; si presenta serio, è dimagrito e lavora in silenzio a matita, concentrato sul suo foglio comunicando verso la fine, di dover uscire. Ha disegnato un’aquila ed un cacciatore. Commenta che gli occhi ed il naso del cacciatore sono l’aquila e che sono due disegni in uno, un gioco di percezione psicologica. In realtà io penso che non ci sia la giusta distanza fra gli oggetti: c’è frammentazione o fusione e tutto è estremamente piatto, che è un modo per far sparire lo spazio mentale. In un lavoro successivo, “dreams”, per la prima volta “scorpora” due dimensioni disegnando due finestre: in una c’è una persona che guarda fuori, (l’interno) mentre nell’altra rappresenta il paesaggio che scorge l’osservatore (esterno). Due momenti diversi della stessa scena. In alto disegna un occhio che lui dice essere di un gatto (associato all’agilità e all’affetto) (5) . Con questo lavoro Fabio sta cercando un punto di vista (6).

Quando la sua scontrosità me lo permette, cerco di intervenire a sostegno, suggerendogli immagini che lo aiutino a collegare, condensare, sintetizzare, utilizzando come struttura suoi precedenti lavori che vengono ripresi ora con diverse tecniche di colore (gessi, acquarello) in modo da permettere l’emersione di rappresentazioni più libere, non così costruite/tenute. Fabio ha bisogno di nutrimento, di vivere un’esperienza buona e nello stesso tempo di trovare un spazio per sentire e pensare, trasformando il vuoto in assenza (7). Mi conforta la consapevolezza che l’arte è un buon mezzo per elaborare l’ambivalenza fra fusione e separazione. Lui lavora curioso nella sperimentazione di nuovi materiali, apprezzando molto “le tecniche”: la relazione con me è ancora qualcosa di troppo minaccioso, deve mantenersi su un terreno neutro. Si tratta di creare uno spazio di incontro che ha le caratteristiche attribuite da Winnicott all’area transizionale nella quale “le situazioni di investimento devono essere già lì, fornite dagli adulti, ma in modo tale che l’adolescente possa avere il sentimento di crearle” (8) per fargli rendere tollerabile ciò di cui ha bisogno. Il mio intento è di accompagnarlo nell’esplorazione del piano emozionale attraverso l’uso graduale del colore (9) ben sapendo che esso è l’equivalente visivo della realtà emotiva (omogeneità, intensità, contrasti, trasparenza). Emergono, infatti, immagini più libere che si staccano dalle strutture rigide difensive dei suoi giochi di percezione e dagli standard seguiti finora. Fabio titola un suo lavoro ad acquarello “confusione” perché – dice - manca la profondità. Si è reso conto della necessità di differenziare i piani delle immagini fusionali che ha prodotto fino ad ora, ma il processo è faticoso e ritornano elementi diversi e frammentati nel viso di un clown, che non riesce a collegare ai suoi stati interni. Risponde alla mia proposta di un racconto: “Non c’è un senso a tutto, sono un po’ tossico, ma non vedo collegamenti! Sono tutte cose separate”. E intitola: mente libera. Lo so che deve trascorrere del tempo prima che un ragazzo/a arrivi ad un’autentica espressione dei propri sentimenti: occorre aspettare – mantenendo la giusta distanza - e passare attraverso le fasi in cui le immagini esprimono difese e stereotipi. Cerco dei modi affinché riesca a dare profondità alle sue immagini e gli propongo la prospettiva attraverso il colore (10). Come in precedenza l’aspetto tecnico – neutrale - risulta essere un buon medium nella relazione con lui. Fabio ci prova, si impegna, e nasce “una vallata nebbiosa”. Ma la sua espressione preferita rimane il giocare con la percezione di due diverse cose nella stessa immagine; su questo filone presenterà in un lavoro, sempre grafico, quello che per me è un abbozzo di ordine: sembra il tentativo di rimettere insieme le membra di un corpo.

Non ci vediamo per due incontri; rientra dalle vacanze e comunica che non ha voglia di disegnare, che non ha tempo per queste cose e che è bloccato, sente troppe voci. Disegna a matita, vuole sviluppare il chiaro/scuro ma decide di buttare via il lavoro perché è negativo commentando che il disegno “è un incubo”. Decisamente è in un momento di passaggio e non sa più cosa fare. Gli suggerisco allora un cerchio nel quale inserire le immagini (11). Segue il mio consiglio e nasce un lavoro delicato “la luna con attorno le nuvole” leggero, quasi impercettibile. È questo un momento importante perché nonostante la ritrosia, Fabio cerca di fidarsi dei miei suggerimenti, e, in questo caso sopporta di esprimersi con una mente un po’ meno libera (frammentata), accogliendo la proposta di un confine che contiene i frammenti. Continua a presentarsi sconfortato, arrabbiato e inquieto; gli suggerisco di utilizzare ancora la tecnica del cerchio nel quale ordinare i pensieri; con fatica accetta e scrive all’interno: fiori, profumo di fiori, immagine, dolcezza di mamma, sorriso, sguardo, sorpresa, insieme, strada, per mano, unione. Ora almeno, come lui annuncia nel titolo del lavoro, esiste una “sequenza di pensieri”. Nell’incontro successivo è silenzioso, lavora concentrato, finisce venti minuti prima del termine ma rimane nella stanza fino alla fine dell’attività artistica. Disegna un quadrato ripetuto più volte, in caduta, tanto da dare l’impressione di un movimento. Gli propongo di trasformare il lavoro da bidimensionale a tridimensionale (12) (13): inizia a costruire, cerca soluzioni e ne nasce un libretto! È proprio soddisfatto oggi, alla fine mi saluta e mi ringrazia. Il movimento e la tridimensionalità nascono nel momento in cui accetta un confine e si crea uno spazio dove poter collocare sentimenti ed immagini. Inoltre, per quanto riguarda il passaggio al tridimensionale, mi viene in mente Resnik quando descrive l’idea di volume come condizione per il sentire e il pensare. Fabio ora sta decisamente progredendo: sequenze, narrazione, tridimensionale. Sembra pian piano trovare la dimensione dello spazio esterno, quindi interno.

Nel frattempo si è costruita una buona relazione con me, accetta le proposte e rimane interessato ad offrire rimandi ai compagni del gruppo. Rimane comunque altalenante nella relazione con me: talvolta provoca, è polemico, insofferente, mi ascolta con diffidenza. In un successivo incontro mi sorprende perché, fin dall’inizio, sembra deciso nel sapere cosa vuole fare. Disegna, scrive sul retro, e rivolgendosi a me dice: “Ho fatto come dici tu, disegno e poi collego!”. Nel presentare il lavoro al gruppo è preoccupatissimo che non si sciupi la sua opera: “Attenzione! Questa è la nascita!”. Spiega che l’idea di partenza era quella di rappresentare i sentimenti; ha disegnato un punto di domanda, un vortice, un punto, una diagonale, scrivendovi poi il senso che per lui hanno questi segni. L’opera inizia con “questa è la vita” dove racconta delle cose che vengono perse, della morte, ecc. e termina con “il resto del disegno e della vita è il futuro abbastanza sconosciuto di ogni persona”. Aggiunge che gli fa paura quello che esprime e che una parte l’ha comunicata con le parole partendo dai segni, mentre un’altra parte è incomunicabile. Fabio riesce a nominare il suo mondo interno con l’aiuto della scrittura e in questo lavoro “Nascita” racconta in modo profondo, comprensibile e poetico il suo modo di sentire l’esistenza. Dirà poi di riuscire a creare solo qui, “a casa non ci riesco” (bene, penso fra me, questo è diventato per lui uno spazio sicuro) e riprende il tentativo di immagine/scrittura descrivendo emozioni sogni idee ed i rapporti fra le persone, sottolineando che gli stati d’animo si evolvono.

Poi un evento doloroso, inaspettato sconvolge tutti noi: una ragazza del gruppo, il sabato precedente, si è suicidata; quando Fabio arriva al gruppo, lo sa già. È agitato, non so come trattarlo. Porta la sua sofferenza descrivendo somatizzazioni, ma il tentativo – a livello artistico - è di rappresentare i sentimenti attraverso soggetti. Disegna una stanza dove ci sono persone che si abbracciano, altre che litigano, “situazioni normali della vita. Morte. Situazioni fantastiche, paurose, eccitanti e di speranza”. Ogni tanto si perde, esprimendo l’impossibilità di disegnare, preferisce parlare del suo progetto, allora rappresento io per lui. Nello stesso incontro disegna raccontando della depressione e dell’alcool. Alla fine ammette di avere questa pesantezza e malessere per la morte della compagna. Fabio è riuscito a parlare oggi di sentimenti, di vita, di morte, e dei suoi problemi legati alla realtà. Comunica al gruppo che fra un po’ di giorni andrà a vedere la Comunità. Cerca poi le tonalità dei sentimenti chiedendo il mio aiuto per capire qual è “il colore della sicurezza”; trova che è azzurro chiaro, mentre la paura è come un buco nero e la speranza una striscia rosa. Disegna, dipinge, ma soprattutto si relaziona con me. Spiega al gruppo di associare la sicurezza al chiaro/luce/sole che ti dà la possibilità di distinguere e dice che la vita è come nuotare, “puoi risalire e prendere il respiro: allora sei sicuro”. Come qui, penso. Fabio ha trovato tonalità e forme condivise per parlare del suo mondo interno in un lavoro che, non a caso, titola “incontro”.

È l’ultima volta che ci vediamo, annuncia di non avere idee e sembra che niente gli vada bene. Si sa, non è facile separarsi. Partendo dalla sua difesa principale, la “mente libera” come lui dice, pone il problema del punto di vista soggettivo rispetto ad un oggetto “come quando vedi una farfalla, io penso che vada su una montagna, tu su di un fiore”, mentre ciò che a lui interessa è dare la libera interpretazione. Agganciandomi a questa immagine della farfalla gli propongo che ciascuno di noi rappresenti lo spazio dove si trova, come lo si immagina e così ci divertiamo a dipingere insieme sullo stesso foglio in spazi separati; nasce una composizione ad acquarello, un ambiente costruito da noi due, un po’ suo e un po’ mio; al centro Fabio rappresenta una farfalla trasparente che si dirige verso un fiore nero. Nella verbalizzazione dice ai compagni che il disegno fatto con me gli piace molto e spiega che guardando una farfalla ognuno può pensare cose diverse.. Mantiene il suo titolo d’elezione: libera interpretazione. Sì, “libera, ma c’è lo scambio fra noi”, gli rimando.

E così le immagini da rigide e sovrapposte che erano, si sono sdoppiate in due finestre con uno sguardo esterno, sono diventate colore, movimento, spessore, spazio, volume, narrazione. Abbiamo condiviso nel processo artistico la costruzione di tonalità legate ad emozioni, di ambienti di persone con stati d’animo diversi, per arrivare ad un ambiente comune, dove due elementi la farfalla ed il fiore si trovano in relazione. Come sostiene Resnik la nozione di spazio mentale non può essere ridotta alle sole relazioni interne, ma rinvia al mondo esterno e al movimento relazionale con l’altro: la formazione del simbolo è un percorso che si avvale di una condivisione di significati. (14)

 

Bibliografia

(1) Jeammet P., 2004, Psicopatologia dell’adolescenza, Borla, Roma, pag. 88

Sostiene P. Jeammet che l’adolescente utilizza spesso lo spazio in modo concreto, senza possibilità di distacco e come mezzo per evitare una simbolizzazione che lo mette di fronte ad una perdita che non è ancora in grado di elaborare.

(2) Jeammet P, Op. cit. pag. 48

(3) Jeammet P., op. cit, pag. 23

(4) Resnik S., 1990, Spazio mentale, Bollati Boringhieri Editore, Torino, p. 42

“Lo spazio mentale non può essere concepito privo di profondità, di rilievo, di volume. La scoperta della prospettiva in pittura introduce nelle arti plastiche e nell’architettuta l’idea di prospettiva interiore”.

(5) Resnik S., 2002, Il teatro del sogno, Bollati Boringhieri Torino, pag. 92

“L’Io osservante freudiano rivela la possibilità di scoprire una certa distanza interiore, una prospettiva interna, tra una certa parte di sé e un’altra, in grado di distanziarsi senza perdere il contatto emotivo: condizione indispensabile per essere sé stessi, cioè soggetto di fronte all’oggetto”.

(6) Resnik S., 1992, Sul fantastico, Bollati Boringhieri, To, pag. 244 “concetto dell’io osservatore (Selbst-beobachtung) significa trovare lo spazio e la possibilità prospettica di guardare sé stesso”

(7) Resnik S., 1990, Spazio mentale, Bollati Boringhieri, Torino, pag. 64 “la tendenza a fare il vuoto è molto frequente e corrisponde a trasformare in vuoto ciò che l’io non può tollerare in termini di perdita d’oggetto. Se il meccanismo di difesa psicotico, in rapporto al lutto, si caratterizza per la tendenza a svuotarsi della capacità di sentire, di pensare e di vivere la mancanza, il processo terapeutico dovrà esprimersi nel senso opposto, come trasformazione del vuoto in assenza e come ri-elaborazione del lutto”

(8) Jeammet P, op. cit, pag 89

(9) Kandinsky W, 1989, Lo spirituale nell’arte, SE srl, Milano, pag. 46

“In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. Il colore è il tasto. L’ occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde”

(10) Resnik S., 2002, Il teatro del sogno, Bollati Boringhieri, Torino, pag. 230

“l’idea di prospettiva – scenografia per i Greci – è parte essenziale della pittura. La scelta della distanza corrisponde al “punto di vista dell’osservatore” che significa anche la posizione del soggetto di fronte all’oggetto osservato. La scoperta del mondo è anche scoperta del mondo proprio. L’idea di spazio vissuto corrisponde alla scoperta e all’esperienza di un’apertura ritmica tra soggetto e oggetto esterno (spazio esteriore) o tra soggetto e oggetti interni (spazio interiore)”.

(11) Jeammet P., 2004, Psicopatologia dell’adolescenza, Borla, Roma, pag. 11

“In quest’ottica, il lavoro sui confini e sui fattori di differenziazione è essenziale a tutti livelli: differenziazione tra dentro e fuori, tra gli interlocutori esterni che si offrono al suo investimento ma anche tra le varie componenti e le rappresentazioni che costituiscono il suo psichico interno”


(12) Resnik S., 2002, Il teatro del sogno, Bollati Boringhieri, Torino, pag. 65 “ Lo spazio mentale che perde la sua tridimensionalità non dà spazio al sentire, al pensare senziente”.

(13) Resnik S., Il teatro del sogno, Bollati Boringhieri, Torino, pag. 230

“L’esperienza spaziale è anche una questione di angolazione, di punto di vista, di ritmo, cioè di tempo (…) La scoperta del mondo è anche scoperta del mondo proprio: per giungere all’intersoggettività, l’individuo deve “svezzarsi” dalle sue tendenze sincretiche, fusionali e simbiotiche”


(14) Resnik S., 1993, Sul fantastico, Bollati Boringhieri, Torino, pag. 69 “ogni spazio mentale ha bisogno di uno spazio relazionale, di un legame operativo dove l’espressività senza paura possa andare incontro a ciò che non si sa, e con un saper avere”


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