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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Arteterapia


L’intelletto corporeo o immaginale
Uno strumento per le psicoterapie espressive

Marco Alessandrini



Psichiatra, psicoterapeuta, Responsabile Unità Operativa Territoriale del Centro di Salute Mentale di Chieti, Professore a contratto presso l’Università di Chieti per l’insegnamento di Psichiatria nella Facoltà di Psicologia e per l’insegnamento di Psicosomatica nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica Breve (autorizzata dal MURST).

Indirizzo per la corrispondenza:
Centro di Salute Mentale (C.S.M), Viale Amendola n. 47, 66100 Chieti (Ch),
tel. 0871-35.89.08/33, fax 0871-35.89.23; e-mail: lucesegreta@libero.it


INTRODUZIONE

Esiste un intelletto che nasce dal corpo. Le teorie che lo descrivono sono numerosissime e si estendono dall’antichità a oggi, oltre che da una disciplina all’altra. Esse da un lato appartengono all’ambito umanistico, come la filosofia, l’estetica, la religione e in particolare la mistica, dall’altro lato sono di pertinenza dell’area scientifica, come le neuroscienze, la psicologia sperimentale, la psicoanalisi.
A partire da alcune di queste teorie è fondamentale stabilire, nell’ordine:
(1) l’origine e la natura dell’intelletto corporeo;
(2) il ruolo svolto da questa modalità intellettiva nelle principali condizioni psicopatologiche, in particolare nelle psicosi, nelle nevrosi e nei disturbi di personalità;
(3) le strategie per agire su questo canale intellettivo in un contesto psicoterapeutico, ai fini di una trasformazione positiva della personalità.


1. ORIGINE E NATURA DELL’INTELLETTO CORPOREO


L’oggetto trasformativo

Un utile punto di partenza è la teoria psicoanalitica di Cristopher Bollas, in particolare la sua concezione del cosiddetto «oggetto trasformativo» (1). Secondo questo autore, la cui fonte ispirativa è Donald Winnicott (2) (3), l’Io ha una base inconscia e questa corrisponde a una sorta di «idioma» personale del neonato, un linguaggio provvisto di una «sintassi di gesti, di suoni, di modelli e di umore, tale da assicurare l’intimità - e da enfatizzare l’atmosfera appartata - (…)» del rapporto con la madre (ibidem, p. 1061).
Pertanto nel rapporto precoce, ricco di un interscambio relazionale oggi accuratamente scandagliato dagli studi dell’infant research (4), la madre equivarrebbe nell’esperienza del bambino a un «processo», ovvero all’insieme delle trasformazioni che lei con le proprie cure induce a livello psicofisico. Perciò Bollas afferma che agli inizi «la madre è più significativa e identificabile con un processo piuttosto che con un oggetto, un processo che consiste in trasformazioni cumulative interne ed esterne» (5, p. 22).
In altre parole, il carattere o la personalità di ogni individuo equivarrebbe, alla sua base, a una modalità inconscia ma soprattutto corporea, specificamente sensoriale e affettiva, di percepire e di “trattare” il Sé e gli altri. Questa modalità può anche essere definita estetica - da aisthesis, “percezione” (6) -, perché discende da come la madre ha “trattato” il Sé del bambino, vale a dire da come si è presa cura fisicamente del bambino. Anche in seguito, negli adulti, permarrebbe la tendenza a ricercare negli oggetti, o nelle esperienze di vita, un vissuto preriflessivo e fusionale dal quale attendersi una trasformazione psicofisica del Sé e del mondo circostante. Tale ricerca sarebbe non soltanto inconsapevole, ma fondata su una comprensione di sé e degli altri mediata da interscambi sensoriali e affettivi, da un vero «idioma» psicofisico composto di sensazioni corporee ed emotive, oltre che da gesti, da movimenti, da azioni.
La teoria di Bollas dà quindi luogo, volendo generalizzare, a una prima formulazione di un cosiddetto intelletto corporeo. Sono qui infatti evidenti due caratteristiche: in primo luogo la natura preriflessiva, intuitiva e sensoriale-emotiva di questo intelletto, i cui processi di pensiero sarebbero fortemente aderenti ai vissuti corporei, in particolare ai vissuti di trasformazione del proprio Sé psicofisico e dell’ambiente circostante; in secondo luogo, tale intelletto avrebbe origine in scambi relazionali precoci basati su un contatto psichico simbiotico-fusionale, anch’esso profondamente intriso di fisicità corporea.
Occorre segnalare una terza caratteristica di questa modalità intellettiva: l’idea, proposta anch’essa da Bollas, secondo cui tale attività sarebbe di per sé una funzione organizzante svolta attivamente dall’Io. In effetti l’appartenenza alle attività inconsce dell’Io, quindi alle attività comunque intenzionali, permette di qualificare questa modalità conoscitiva come un vero e proprio processo intellettivo.


Processo primario e processo secondario

Freud ha distinto due modalità intellettive o di pensiero: il processo primario, modalità specifica dei processi inconsci, e il processo secondario, modalità peculiare dei procedimenti della coscienza (7). Per quanto l’una o l’altra di queste due modalità di pensiero possa dominare il funzionamento mentale nella singola persona e nei vari momenti, autori tra i quali Ignacio Matte-Blanco (8), John Kafka (9) e Hans Loewald (10) hanno sottolineato che esse sono compresenti e reciprocamente intrecciate. E’ tuttavia evidente che nel corso dello sviluppo il processo secondario, la cui logica si compone di riflessioni astratte e analitiche, acquista un ruolo maggiore nei procedimenti psichici, perfezionandosi a livelli sempre più elevati. Invece il processo primario, la cui logica è extra-riflessiva, basata su “riflessioni” definibili piuttosto come intuizioni intrise di sensazioni corporeo-emotive, resta ben presente ma tuttavia in secondo piano. Accade in pratica che nel corso dello sviluppo il processo secondario e la coscienza - con ciò consolidandosi come tali - tendano a distanziare sempre più il processo primario.
Occorre ribadire che i due processi, primario e secondario, o anche extra-riflessivo e riflessivo, intuitivo o sensoriale-emotivo e astratto o logico-analitico, sono comunque compresenti. E’ quindi possibile distinguere due modalità di coesistenza reciproca. In una prima modalità, senz’altro più originaria perché predominante nelle fasi precoci dello sviluppo, il processo secondario o riflessivo è fortemente aderente al processo primario o extra-riflessivo. In una seconda modalità, più accentuata con il procedere dello sviluppo, il processo secondario o riflessivo acquista distanza, autonomia e differenziazione rispetto al processo primario o extra-riflessivo.


I due intelletti: corporeo e astratto

In base a quanto appena detto si può affermare che le due modalità di coesistenza o di reciproco intreccio tra i due processi, primario e secondario, corrispondono a due forme di intelletto. Là dove la coesistenza tra logica extra-riflessiva e riflessiva è basata su una maggiore reciproca adesione, si può parlare di intelletto corporeo; là dove invece la coesistenza è basata su un distanziamento reciproco maggiore, si può parlare di intelletto astratto.
Un utile esempio di intelletto corporeo è fornito da una precisazione di Loewald riguardante il linguaggio. Questo autore puntualizza che il linguaggio, nelle fasi della sua acquisizione, è comunicato «in modo onnipervasivo dalla madre nelle pratiche quotidiane di accudimento e nutrimento (…)». Quindi in questa fase il linguaggio e la voce «sono una parte e un frammento della globale interazione tra la madre e il bambino» (10, p. 159). Ne risulta quindi che «le parole da cui è composto il parlare della madre formano ingredienti indifferenziati di una situazione o evento globale in cui si trova immerso il neonato (…)» (ibidem, p. 164).
Pertanto a questo livello i concetti espressi verbalmente, di per sé astratti e riflessivi, sono indistinguibili o strettamente aderenti rispetto a un insieme di vissuti sensoriali-affettivi e intuitivi di natura extra-riflessiva, radicati nell’interazione corporea con la madre e con l’ambiente. Il significato concettuale e astratto, specifico del processo secondario, è letteralmente immerso in questo significato intuitivo trasmesso per via corporea da sensazioni ed emozioni derivanti dai gesti, dalla mimica, dalle sonorità, dagli odori, dalla superficie tattile. Si potrebbe anche affermare - unendo le considerazioni di Loewald a quelle di Bollas - che in questo suo livello il linguaggio si compone di concetti ancora totalmente immersi nell’esperienza dei cinque sensi, è per questo motivo è esso stesso in grado di agire come “oggetto trasformativo”, provocando una modificazione dell’esperienza psicofisica del Sé e dell’ambiente.
Non solo. Per questa ragione i cosiddetti simboli si avvicinano, a livello dell’intelletto corporeo, a ciò che in altra sede sempre Loewald (11) designa come «protosimboli». In questi le parole e le cose, o i concetti e le cose - più in generale il simbolo e l’oggetto simboleggiato - sono intercambiabili e in uno stato di identità arcaica(12). A livello invece dell’intelletto astratto, derivante da una maggiore distanza e differenziazione del processo secondario rispetto a quello primario, i simboli corrispondono ai cosiddetti «simboli veri e propri». In questi ultimi «simbolo e oggetto simboleggiato sono reciprocamente differenziati (…)» (11, p. 56).


L’intelletto immaginale

I simboli e i concetti dell’intelletto corporeo si avvicinano ai protosimboli, ma non sono a questi esattamente corrispondenti. E’ utile definirne la reale natura tramite un concetto estraneo alla psicoanalisi tradizionale, sebbene ripreso da correnti recenti della psicologia junghiana (14).
Il concetto in questione è riassunto da un termine coniato dall’orientalista Henry Corbin, mundus imaginalis, che intende rinviare a una dizione araba altrimenti intraducibile, alam al mithal (15) (16). In particolare, nei testi studiati da Corbin un insieme di mistici islamici sciiti e sufi ha descritto, fra il XII e il XV secolo, una dimensione immaginativa consistente in mondi assolutamente particolari, recepita mediante una visione interiore.
Naturalmente esperienze di questo genere appartengono alla mistica di ogni ordine e tempo, non esclusa quella cristiana, e sono legate a organi percettivi “sottili” di cui l’anima disporrebbe in stretta corrispondenza con gli organi sensoriali del corpo (17). Per esempio, le metafore utilizzate a seconda delle epoche e delle esperienze comprendono espressioni quali “occhi di luce” o “occhi del cuore”, e così proseguendo per ogni altro canale sensoriale ordinario.
Ciò che stupisce di questi vissuti, e soprattutto delle descrizioni accurate e realistiche dei mondi delle visioni, è la stringente analogia con le rappresentazioni mentali preriflessive e preverbali oggi identificate dalla moderna psicologia. Tra queste, per esempio, le cosiddette RIG individuate da Daniel Stern, vale a dire «Rappresentazioni di Interazioni che sono state Generalizzate». In pratica, gli episodi vissuti nell’interazione con un caregiver, se ricorrenti nel tempo con caratteristiche ogni volta analoghe o simili, verrebbero raggruppati dalla mente del neonato sotto forma di rudimentali astrazioni, appunto le RIG. Queste perciò, scrive Stern, «sono strutture flessibili che rappresentano la media di diversi episodi reali e formano un prototipo che li rappresenta tutti» (18, p. 121).
L’analogia tra simili dati e i resoconti della mistica, apparentemente non evidente, è legata non tanto al contenuto delle rappresentazioni mentali - esperienze relazionali, nelle sperimentazioni di Stern, e mondi o paesaggi, nei resoconti della mistica -, quanto alle caratteristiche formali di queste astrazioni. Si tratta infatti in entrambi i casi - nella mente del neonato e nella mente dei mistici - di esperienze che coinvolgono contemporaneamente i cinque sensi, sebbene spesso di questi uno predomini. Inoltre queste esperienze sfuggono alla coscienza e alla descrizione logico-riflessiva, risultando di natura intuitiva ed extra-riflessiva, oltre che fortemente legate al coinvolgimento dell’intero corpo e dell’area affettiva.
Si tratta insomma di proto-astrazioni: schematizzazioni che raccolgono e veicolano un intenso significato in una forma in cui quest’ultimo, pur derivando dal processo secondario, è formulato in strettissima commistione anche nei termini del processo primario. Si tratterebbe quindi di vere e proprie operazioni cognitive dipendenti dall’intelletto corporeo. Perciò quest’ultimo può forse essere meglio definito come intelletto immaginale.


Un processo inconscio e spontaneo di astrazione

L’intelletto che nasce dal corpo non è più una semplice ipotesi. La natura delle rappresentazioni mentali da esso prodotte può essere ulteriormente chiarita riferendo altri contributi oltre a quelli citati. Tra questi è possibile menzionare nozioni attuali quali l’«intelligenza intuitiva» indagata da Gary Klein (19), o l’«intelligenza viscerale» (20) ipotizzata sulla base degli studi di Antonio Damasio (22).
Tuttavia una formulazione particolarmente nitida delle rappresentazioni fornite dall’area corporea della mente, intrise di risonanze sensoriali e affettive, risale a Susan Langer, una studiosa di formazione filosofica. Quest’ultima puntualizza l’esistenza di un «processo inconscio e spontaneo di astrazione che funziona continuamente nella mente umana (…)» (23, p. 105), una «tendenza a percepire forme piuttosto che un flusso di impressioni» (ibidem, p. 124). Queste forme, veri schemi multisensoriali, si costituiscono perciò come iniziali «ricettacoli di significato» (p. 126).
La Langer precisa poi che «l’attività dei nostri sensi è “mentale” non solo quando raggiunge il cervello, ma già (…) ogni qualvolta il mondo esterno ed estraneo viene a contatto dei minimi recettori» (p. 126). Bisogna sottolineare, peraltro, che questo dato è oggi dimostrato a livello della funzione visiva dagli studi effettuati da Semir Zeki (24). Questi di certo non affermano l’assenza di intervento del cervello negli atti visivi, quanto il darsi in quest’ultimo di un’attività di «coscienza» già a livello dei micro-centri percettivi della corteccia visiva, i quali dunque, accanto alla funzione recettiva, sono in grado di compiere un’elaborazione attiva totalmente sufficiente. In questo senso l’atto della visione scaturirebbe da operazioni cognitive che si svolgono già nell’ambito e nel medesimo istante delle operazioni percettive.
L’intelletto corporeo o immaginale è perciò un’area della mente di straordinaria importanza, nella quale inoltre la memoria di esperienze passate - una memoria preriflessiva e preverbale - si inscrive e condiziona le ulteriori esperienze sensoriali-affettive (25).
E’ anche evidente quanto l’intelletto corporeo o immaginale sia un concetto sovrapponibile alla cosiddetta attività mentale inconscia, sebbene esso risulti pur sempre una funzione dell’Io – come peraltro indica la concezione di Bollas citata in apertura. Essendo funzione dell’Io, questo intelletto può essere attivato e “plasmato” attraverso esperienze che rendano meno direttivo e predominante l’intelletto astratto. Quest’ultimo infatti è maggiormente al servizio delle attività coscienti dell’Io, mentre l’intelletto corporeo o immaginale corrisponde piuttosto alle funzionalità inconsce dell’Io.


2. L’INTELLETTO CORPOREO NELLE NEVROSI E NELLE PSICOSI


Le psicosi

Si è soliti pensare che nei pazienti psicotici si verifichi un’irruzione più o meno costante dell’inconscio nella coscienza, e quindi il conseguente debordare delle modalità logiche del processo primario. Riferendosi alla terminologia esposta più sopra, si potrebbe perciò dedurre in questi pazienti la destrutturate predominanza dell’intelletto corporeo, a discapito di un intelletto astratto deficitario, qui privato del suo ruolo complementare, integrativo ed equilibratore.
In realtà l’esperienza clinica dimostra che nelle psicosi il deficit riguarda primariamente l’intelletto corporeo, e che a questo deficit consegue l’inadeguato funzionamento dell’intelletto astratto. Sostanzialmente i due livelli intellettivi permangono attivi e parzialmente anche efficienti, ma è il loro funzionamento interrelato a seguire modalità ripetitive oltre che straordinariamente oscillanti tra astrazione e concretezza, con un risultante effetto confusivo. Ne consegue un’ideazione irrigidita e bloccata, eventualmente ricca di intuizioni ma impossibilitata a offrire a queste uno sviluppo sufficiente, un’elaborazione più compiuta, variegata e cosciente (26) (27).
L’intelletto corporeo o immaginale nasce nelle relazioni interpersonali, nei contatti sensoriali ed emotivi tra l’Io e il tu e tra l’Io e il mondo. Nel paziente psicotico questi contatti hanno determinato un deficit della differenziazione e dell’autonomizzazione dell’Io, e ciò in dipendenza da figure di accudimento troppo simbiotiche oppure troppo deprivanti. Perciò le astrazioni embrionali dell’intelletto corporeo, intrise di valenze corporeo-emotive, in questi pazienti sono veicolo di particolare dolorosità, e soprattutto causano un fondamentale “difetto dell’autonomia”.
Dunque l’autonomia può essere conquistata da questi pazienti in forma soltanto parziale e inusuale, tramite un peculiare irrigidimento dell’intelletto corporeo. Il paziente, a causa di questo irrigidimento, da una parte tenta di “raffreddare” le sensazioni dolorose e destrutturati che lo stesso intelletto corporeo contiene e veicola, e dall’altra ottiene in questo modo alla propria individualità una sorta di confine, una barriera protettiva che fornisce autonomia. Tuttavia il prezzo di questo meccanismo di adattamento e di questo genere di autonomia è appunto il deficit di funzionalità dell’intelletto corporeo, in particolare una carente comunicazione tra i diversi canali sensoriali, con conseguente incoordinazione del “sentire” sinestesico e intuitivo.
Il paziente psicotico ha paura delle proprie reazioni emotive, così come delle sensazioni corporee che le accompagnano e che le esprimono rendendole manifeste al Sé e agli altri. In altre parole, lo psicotico ha timore del proprio intelletto corporeo e delle “faglie” che esso inevitabilmente contiene, e che tende a far riemergere e a segnalare. Tuttavia, dell’intelletto corporeo il paziente non conosce le correlative risorse e le potenzialità positive, e soprattutto non le conosce qualora “sostenute” e stimolate da una relazione interpersonale attenta e contenitiva.
Proprio nell’ambito delle psicoterapie espressive (28) (29) (30) (31) - e non solo in esse (32) - il lavoro con questi pazienti, se pur dimostra la scoraggiante ripetitività dell’intelletto corporeo, all’apparenza ricco di contenuti e di espressività ma estremamente rigido e in difficoltà nell’evolvere, dimostra nel contempo il ruolo determinante svolto dalla relazione interpersonale. Infatti l’elasticità creativa dell’intelletto immaginale, e quindi la vitalità dell’area mentale sensoriale e motorio-affettiva, in questi pazienti è straordinariamente pronta a riattivarsi e a evolvere, a patto però di un lento e faticoso sforzo, da parte del terapeuta, nel conquistare la fiducia del paziente. In particolare il terapeuta deve offrire, da una parte, una notevole affidabilità umana ed emotiva, e dall’altra una capacità di contenere e di elaborare vissuti transferali non solo molto conflittuali e intensi, ma strutturati in termini preverbali e preriflessivi, violentemente corporeo-immaginali.


Le nevrosi

Come appena detto, nelle psicosi l’intelletto immaginale necessita di attivazione e di ricostruzione – in alcune aree anche di costruzione – e può poi offrire più piena strutturazione anche all’intelletto astratto e al rapporto con esso.
Nelle nevrosi invece l’intelletto immaginale è potenzialmente adeguato ma risulta, per così dire, in letargo. Le pur eterogenee personalità nevrotiche hanno infatti in comune la difficoltà a confrontarsi con i conflitti e le esigenze a cui la sensorialità affettiva, se liberamente attiva, dà inevitabilmente voce. Ne deriva un’intensa ambivalenza da parte del soggetto nei confronti di questa propria area della mente.
Di nuovo, è fondamentale che il rapporto terapeutico possa offrire una particolare condizione di equilibrio e di rassicurazione attraverso le modalità di svolgimento del lavoro espressivo e mediante l’intera stabilità del setting. Solo così potrà attivarsi nell’intelletto immaginale lo stato che Winnicott definisce «continuità dell’essere», uno stato del quale il soggetto nevrotico ha quanto mai bisogno. La continuità d’essere è infatti una condizione sensoriale e affettiva equiparata da Winnicott all’esperienza soggettiva del bambino di essere fuso con una madre sufficientemente buona, esperienza dalla quale può emergere, come espressione del vero Sé, la capacità di «vivere in modo creativo» e di «giocare» (33).
Si tratta quindi di una capacità che pone il soggetto in condizione di sperimentare e di esplorare per via intuitiva le esigenze dell’Io più riposte e latenti, insieme anche agli arresti e ai conflitti più antichi o recenti. Si tratta dunque di esigenze, ma anche di conflitti, di natura profonda e psicofisica, che come tali possono emergere e manifestarsi soltanto dall’area della mente - l’intelletto corporeo - in cui questa costruisce le sue prime embrionali astrazioni. E queste sono sempre in stretto rapporto con i vissuti che scaturiscono dal proprio Sé nell’incontro sensoriale, motorio e affettivo con gli altri e con il mondo.
D’altronde questa è anche l’area che Bollas designa come il «conosciuto non pensato» (34) (5): un insieme di disposizioni ereditarie, corrispondenti appunto al vero Sé di Winnicott, esperite nei primi periodi della vita ed eventualmente intralciate dalle figure di accadimento, ma comunque rimaste senza una rappresentazione, a meno che non sia del tutto frammentaria e in nuce. Una più compiuta emersione di queste disposizioni innate e personali può perciò avvenire soltanto a partire da questa stessa area intrisa di un «idioma» costituito da ritmi e da vissuti corporeo-affettivi.
E’ quindi possibile e necessario che il soggetto nevrotico riconquisti per il tramite dell’intelletto corporeo quel vero Sé che secondo le parole dello stesso Winnicott «è una potenzialità ereditata di sentire la continuità dell’esistenza e di acquisire a modo proprio con un proprio ritmo una realtà psichica e uno schema corporeo personali» (35, p. 53).


I disturbi di personalità

In generale, nei disturbi di personalità l’intelletto corporeo è scisso rispetto all’intelletto astratto. Il paziente tende infatti a manifestare, a livello dell’intelletto astratto, un falso Sé collaborativo e consapevole, ma nettamente separato rispetto a quanto invece alberga a livello dell’intelletto corporeo. Quest’ultimo agisce quindi in forme improvvise ed “esplosive”, con immediati passaggi all’atto che impediscono allo stesso intelletto corporeo di effettuare in modo più compiuto i propri percorsi cognitivi (36) (37) (38).
Perciò in questi casi è necessario che le psicoterapie espressive tendano, da un lato, a offrire tempo e spazio a percorsi più compiuti dell’intelletto corporeo, e dall’altro lato a favorire una maggiore interrelazione tra intelletto astratto e intelletto corporeo.
In particolare, per raggiungere questo secondo scopo è possibile ricorrere, nell’ambito di uno stesso manufatto estetico-creativo, a modalità espressive eterogenee e multiple, come la scrittura abbinata o sovrapposta al disegno, legata nel contempo all’ascolto o alla produzione di sonorità musicali o vocali.


3. L’ATTIVAZIONE ESPRESSIVA DELL’INTELLETTO CORPOREO


Le psicoterapie espressive come terapie dell’immaginale

Le psicoterapie espressive agiscono stimolando elettivamente l’intelletto corporeo o immaginale all’interno di un rapporto interpersonale (duale o di gruppo). A questo scopo esse ricorrono di volta in volta alla parola orale o scritta, alla danza, alla musica, alla creatività plastico-figurativa (disegno, pittura, scultura), al teatro, utilizzando in tutti questi casi un “agire” che nasca dall’ascolto del proprio corpo e della sensorialità affettiva, e che in questo modo trasponga direttamente nel prodotto estetico le intuizioni e i percorsi dell’intelletto corporeo. In questo senso il prodotto estetico diventa un oggetto mediatore, autentica localizzazione esterna dell’area mentale interna immaginale.
Questa, di conseguenza, in quanto esternalizzata ma anche perché condivisa con il terapeuta e/o con il gruppo, non solo può assumere una forma oggettivata, definita e distanziata, ma ha la possibilità di riattivarsi con particolare libertà seguendo nuovi percorsi guidati dalla sua stessa natura intuitiva. Le libere “riflessioni” preriflessive della corporeità affettiva e immaginale possono dunque materializzarsi ed esprimersi in un agire anch’esso corporeo-affettivo, l’agire estetico e creativo mediato dall’oggetto estetico e dal rapporto interpersonale.
In questa forma e in questo contesto, il prodotto estetico-espressivo assume con particolare intensità il ruolo descritto da Bollas di «oggetto trasformativo». Si tratta in pratica del ruolo svolto dallo stesso intelletto immaginale: la produzione sensoriale e affettiva, vale a dire psicofisica, di positive trasformazioni del Sé e dell’ambiente.


Un metodo di lavoro

Ai suoi inizi il movimento artistico novecentesco noto come Bauhaus ha ricevuto grande impulso da Johannes Itten (1888-1967), pittore e docente d’arte svizzero. Nelle sue lezioni di pittura, Itten era solito sottoporre gli allievi a esercizi respiratori e di concentrazione sul corpo. In questo modo i partecipanti dovevano allentare la tensione e rilassarsi per poter dare al flusso delle sensazioni e delle idee «ordine e la giusta direzione» (39, p. 68). Come annota la studiosa Magdalena Droste, lo scopo di questa metodologia consisteva nel «trovare il ritmo e poi ricondurre a unità ritmi necessariamente diversi…» (40, p. 25). Il fine sotteso era lo sviluppo di due abilità apparentemente contraddittorie: «intuizione e metodo», oppure «capacità soggettiva di percezione e comprensione oggettiva» (ibidem).
Si può qui attingere un esempio di come esercitarsi in una produzione plastico-figurativa basandosi sulla riattivazione e sull’ascolto di quanto più sopra indicato come intelletto corporeo. Non è d’altronde casuale che alle lezioni di Itten abbia partecipato come allieva la pittrice Friedl Dicker-Brandeis (1898-1944). Quest’ultima infatti ha in seguito ideato un metodo nel quale la pratica del disegno e della pittura si accompagnava non solo alla concentrazione sul proprio respiro, ma all’attenta sintonizzazione con un ritmo che l’insegnante scandiva battendo le mani ed emettendo suoni vocali (41). All’insegnamento della Dicker-Brandeis ha poi attinto Edith Kramer, fondatrice di un procedimento di Arte Terapia focalizzato sul coinvolgimento sensoriale e cinestesico finalizzato alla spontanea emersione di simboli e metafore, a loro volta veicolo di emozioni antiche e nuove (42) (43).
Si tratta di esempi di lavoro espressivo basato sul riattivare e “ascoltare” l’intelletto corporeo. In altre parole, il fine di questi approcci è che dalla sintonizzazione con i ritmi e con i vissuti della propria condizione sensorio-affettiva emergano liberamente, traducendosi nella gestualità immediata del “fare” creativo, astrazioni intuitive di natura immaginale. In queste astrazioni, sfumate e tuttavia delineate, incerte ma già definite, “pensate” eppure ancora “vissute”, la consapevolezza e l’inconsapevolezza, il controllo e l’impulso interagiscono come un tutt’uno. Qui l’elaborazione riflessiva e la componente preriflessiva sono strettamente associate e generano “pensieri in azione”, o “azioni pensanti”.
L’obiettivo dunque è lasciare che il corpo-mente pensi, producendo pensieri che in realtà sono azioni intrise di sensorialità e di emozione, veicolo di astrazioni ancora embrionali perché ricche della matrice preriflessiva da cui sgorgano in stretta adesione. Perciò, riferendosi in questo caso a chi dell’arte ha fatto la propria professione, Caroline Case e Tessa Dalley affermano: «Il corpo dell’artista serve, grazie alla sua consapevolezza, a elaborare emozioni» (44, p. 97 – il corsivo è mio).
E’ quindi lecito domandarsi se questa “consapevolezza” di cui parlano la Case e la Dalley, appartenente al corpo, oppure appartenente all’attenzione rivolta dall’artista al proprio corpo, non sia appunto quella facoltà mentale fino a qui definita intelletto corporeo o immaginale.


Procedimenti tecnici: il rilassamento, il disegno di controno

Le tecniche finalizzate a far “discendere” la consapevolezza dal predominio dell’intelletto astratto alla maggiore vicinanza di quest’ultimo rispetto all’intelletto corporeo sono di vario genere.
Il lavoro espressivo può essere preceduto e accompagnato da procedimenti di rilassamento corporeo mutuati dallo yoga (45) (46), dal training autogeno (47) o dal cosiddetto rilassamento progressivo (48), o ispirati altrimenti a tecniche di modifica delle tensioni psicofisiche estrapolate dalla bioenergetica (49), dalla psicomotricità (50) o da metodi di concentrazione sul corpo quali il focusing (51). Lo scopo è ottenere un abaissement du niveau mentale [abbassamento della soglia mentale], secondo una dizione che compare di frequente negli scritti di Carl Gustav Jung e che quest’ultimo mutua da Pierre Janet (52).
In termini più attuali e strettamente neurofisiologici, ciò può corrispondere alla cosiddetta riattivazione dell’emisfero destro rispetto all’emisfero sinistro. Il primo infatti è sede di capacità di pensiero extrariflessive, prossime per esempio alle modalità logico-formali della fantasia o del sogno, mentre il secondo è fonte di procedimenti logici di tipo riflessivo e discorsivo, legati alla parola e al pensiero analitico (53) (54).
D’altronde è importante ricordare che proprio in ambito pittorico esistono tecniche dichiaratamente rivolte alla temporanea riduzione di attività dell’emisfero sinistro a favore di una maggiore predominanza dell’emisfero destro (55). Tra queste tecniche è senz’altro applicabile, come premessa al lavoro espressivo ma eventualmente come sua unica modalità di svolgimento, il metodo del cosiddetto «disegno di contorno» (ibidem, pp. 100-107). Questo risale a un insegnante d’arte statunitense, Kimon Nicolaides, che lo ha esposto in un suo libro nel 1941 (56). La tecnica consiste nell’osservare con attenzione, in uno stato di rilassamento, o meglio di consapevolezza dell’intero corpo e delle sue eventuali tensioni, le linee del palmo di una propria mano rese più accentuate da una leggera flessione delle dita. Lasciando che l’attenzione si “immerga” nelle linee della mano, si procede poi a disegnare con l’altra mano il tracciato osservato, senza però mai guardare il foglio dove questa appoggia reggendo una matita o una penna, e senza mai staccare la matita o la penna dal foglio. L’importante è far sì che la mano impegnata nel disegno agisca come una sorta di sismografo, quasi fosse la pura e semplice “appendice” di una continuità tra l’attenzione della mente e dello sguardo e il fluire del movimento, un fluire che a sua volta derivi da una condizione di rilassamento dell’intera unità di corpo e respiro.


Altri procedimenti tecnici: il respiro, la relazione inchiostro-pennello

Riguardo al respiro, sono poi fondamentali gli esercizi di consapevolezza rivolti alla sua rieducazione, finalizzati a una maggiore spontaneità ritmica ma anche a potenziare la capacità che il respiro possiede nel riattivare procedimenti logici extrariflessivi ed emozioni. Per questo genere di esercizi è possibile ispirarsi, di nuovo, allo yoga (57), oppure ad altre tecniche meditative orientali (58) o al procedimento noto come rebirthing (59).
In ogni caso l’essenziale è fare in modo che qualunque sia il metodo espressivo adottato, la danza o la musica, il disegno o la pittura, questo resti espressione di quanto liberamente emerge dall’ascolto sensoriale-affettivo del proprio corpo e dell’ambiente. Appunto per questo motivo è fondamentale evitare che si producano tensioni o irrigidimenti nel corpo e nel respiro. Infatti soltanto in questo modo potrà attivarsi una vera “immersione” nel sentire dell’intelletto immaginale o corporeo.
Nel caso per esempio di una psicoterapia espressiva a mediazione plastico-figurativa si potrà procedere a distribuire uniformemente, con movimento consapevole e fluente, un unico colore su un foglio, immergendo l’attenzione nel movimento stesso ma anche nel colore, in modo da lasciare poi che dal colore stesso emergano, nella mente e nel gesto, astrazioni embrionali costituite da linee, da contorni, da forme embrionali o anche più compiute (60). E’ inoltre necessario il procedimento opposto, il quale ha inizio da una qualche forma di partenza, per esempio di tipo geometrico, per muovere poi verso il “disciogliersi” di questa in un’informità di puro colore.
D’altronde già nella pittura cinese, in stretta analogia con gli esercizi appena indicati, è stato da sempre proposto uno stretto equilibrio tra il «pennello» e l’«inchiostro» (61, pp. 249-252): tra la forma, da una parte, vale a dire il controllo razionale, l’intelletto astratto (o se si vuole l’emisfero sinistro), e il colore dall’altra, ovvero il flusso emozionale e sensoriale, l’intelletto corporeo (o se si vuole l’emisfero destro).
In realtà questi semplici accenni servono a spiegare in quale modo sia possibile ottenere che nelle psicoterapie espressive l’intelletto corporeo risulti stimolato. Occorre infatti che quanto affiora nel gesto espressivo sia il frutto di una “consapevole inconsapevolezza”, e che questa si lasci guidare da quanto si affaccia a livello della soglia sensoriale e affettiva, là dove la mente è aderente al corpo e il corpo alla mente. Si tratta perciò di una ricerca al tempo stesso attiva e passiva di astrazioni iniziali, anche informi, espressione ora di nuove potenzialità, ora di blocchi e di tensioni del passato, ma sempre affioranti dal qui e ora del gesto guidato da una stretta aderenza tra pensiero riflessivo e preriflessivo. Questa aderenza infatti è il procedere stesso dell’intelletto corporeo.


Le astrazioni corporeo-immaginali: un esempio dalla letteratura clinica

In chiusura, un breve accenno alla clinica. Loewald (10, pp. 65-67) cita il celebre caso di Helen Keller (1880-1968), la quale, sordo-cieca dall’età di 19 mesi, grazie all’aiuto dell’educatrice Anne Sullivan poté apprendere il significato di concetti e parole (62). In particolare l’episodio esaminato da Loewald, di per sé molto noto, è quello in cui Helen apprende improvvisamente il concetto di “acqua”, fino ad allora per lei del tutto incomprensibile. Ciò accade nel momento in cui la Sullivan fa scorrere un getto d’acqua su una mano di Helen, mentre sull’altra mano, pronunciando più volte la parola “acqua”, picchietta con le proprie dita un ritmo corrispondente. Accade dunque che due simultanee esperienze tattili, delle quali l’una veicola l’ “oggetto-acqua” e l’altra il “concetto-parola” che gli corrisponde, generino nella mente una confluenza di sensazioni da cui scaturisce un’astrazione improvvisa, un’intuizione a base preriflessiva. Occorre anche rilevare che ciò accade in prossimità di un pozzo, vale a dire in un ambiente sereno e saturo di profumi, oltre che all’interno di una relazione interpersonale che in quel momento è di complicità reciproca (mentre in altri momenti comportava stanchezza o irritazione).
Questa nascita di un’astrazione improvvisa e intuitiva, matrice mentale di un vero e proprio “concetto”, costituisce un ottimo esempio dei procedimenti dell’intelletto corporeo. Quest’ultimo si fonda infatti su stimolazioni sinestesico-emotive e su un ambiente che Winnicott definirebbe «facilitante», il cui ingrediente primario è una relazione interpersonale adeguata.
Quanto poi alla natura embrionale di queste astrazioni, strettamente a metà tra concretezza e simbolo, o tra elementi analitico-riflessivi e sincretico-preriflessivi, è di grande importanza ciò che Loewald afferma a commento dell’episodio di Helen. Egli infatti puntualizza che quest’ultima, nel momento dell’intuizione improvvisa, proprio grazie a questa risulta «capace di afferrare o di ricreare una connessione simbolica che mostrava unità nella differenza e differenza nell’unità» (10, p. 67). D’altronde Itten, citato più sopra, osservava che il fine degli esercizi corporeo-respiratori da lui proposti, e che secondo lui erano necessaria premessa alla pratica del disegno e della pittura, consisteva nell’unire la «capacità soggettiva di percezione e [la] comprensione oggettiva» (40, p. 25).
I concetti espressi da Loewald e da Itten sono perciò esempi, diversi ma tra di loro convergenti, di un’attenzione rivolta a un’area della mente – l’intelletto corporeo o immaginale – produttrice di astrazioni che per quanto oggettive, e appunto astratte, sono in realtà fortemente embricate a sensazioni ed emozioni aderenti alla soggettività del corpo e alla realtà concreta.


Un esempio clinico personale: il caso clinico di Giovanni

Diagnosi, anamnesi, esame clinico

E’ possibile il rapido paragone con un caso da me personalmente seguito. Si tratta di un uomo di 53 anni, che qui chiamerò Giovanni, affetto da un Disturbo Bipolare di Tipo II.
Giovanni segue una terapia psicofarmacologica antidepressiva e antimaniacale, con alte dosi di uno stabilizzante dell’umore (il litio), di un neurolettico (la quetiapina), di un antidepressivo (la venlafaxina). Al momento della consultazione attraversa un grave episodio depressivo, a causa del quale ha effettuato un tentativo di suicidio tentando di defenestrarsi. Salvato da un familiare che casualmente si trovava nella stanza attigua, Giovanni è andato immediatamente incontro a un ricovero presso il Reparto ospedaliero di Psichiatria.
A dimissione avvenuta, non presenta alcun sostanziale miglioramento. Il suo Disturbo risale all’età di 30 anni e ha attraversato episodi sia depressivi che maniacali, intercalati da fasi di compenso anche prolungate. Nell’anamnesi è presente un primo tentativo di suicidio, più o meno all’età di 40 anni. Il livello culturale di Giovanni è medio-basso, la sua statura fisica è modesta così come lo sono le condizioni economiche. Giovanni inoltre ha i capelli completamente bianchi e veste in maniera monotona e dimessa.
L’ambiente di vita è una piccola cittadina nella quale risiede da sempre. Adesso abita con la sola moglie, poiché da vari anni la loro unica figlia si è sposata e risiede nella stessa città insieme al marito e ai propri figli. Giovanni comunque è in pensione da vari anni (ex-meccanico in un’officina di automobili), mentre la moglie lavora tutt’ora come addetta in un ufficio.

La ricerca dell’ «oggetto trasformativo»

Gli incontri con Giovanni si svolgono all’interno di un Centro di Salute Mentale nel quale ultimamente, durante la fase di compenso antecedente, il mio rapporto con lui si è svolto in maniera distratta e saltuaria, avendo io preferito delegare al personale infermieristico i colloqui di controllo. Perciò Giovanni ha sicuramente maturato un vissuto di “abbandono”, la cui ripercussione possiede risvolti sensoriali e affettivi di non poco rilievo. Infatti la stanza dove io accolgo i pazienti è particolarmente ampia e serena in confronto alle altre stanze del Centro, e ha inoltre un arredamento di fattura nettamente migliore, che sottolinea il mio ruolo di “autorità” rassicurante e al tempo stesso influente. Il vissuto di mancato riconoscimento affettivo da parte di un’autorità ai suoi occhi importante svolge ora un ruolo determinante, che comporta da parte di Giovanni la proiezione su di me, a livello transferale, di “tracce” sensorio-affettive risalenti al rapporto con il padre e con la madre. Giovanni si sente probabilmente escluso e rifiutato da un ambiente e da una persona “facilitanti” – io e la mia stanza – che in questo modo non possono colmare il suo inconsapevole bisogno di un «oggetto trasformativo». Questo bisogno, a sua volta, pur se in atto nel momento presente, risale verosimilmente a carenze del passato inscritte nella sensorialità affettiva.

La proposta di una metodica espressiva

Io perciò adesso propongo a Giovanni di recarsi da me, nella mia stanza, ogni giorno. Gli incontri hanno una durata di circa 40 minuti. Considerando la condizione depressiva che inibisce quasi del tutto la mimica e l’eloquio, fornisco a ogni incontro un foglio bianco di formato normale e una penna, e in prima battuta chiedo a Giovanni di disegnare qualcosa che esprima “come lui adesso si sente”. Poi, a disegno eseguito, Giovanni formula in genere qualche commento, e io lo ascolto con estrema attenzione osservando nel contempo il disegno.
Si tratta di disegni semplici, simili a quelli infantili, espressivi di una solitudine estrema. Di solito ritraggono un omino situato al polo estremo di una linea che raffigura il suolo, e rara è la presenza di altri particolari sullo sfondo. Quando presenti, le ulteriori raffigurazioni rappresentano montagne, il mare, qualche stella o il sole.
I commenti di Giovanni esprimono poi vissuti di indegnità che sfiorano il delirio, accompagnati soprattutto dalla terribile sensazione di non sperimentare più alcuna emozione. Non solo: le mani di Giovanni manifestano un tremore fine e costante dovuto alla terapia psicofarmacologica. In me ne deriva ancor più la percezione di quanto la corporeità sensorio-affettiva sia in Giovanni estremamente raggelata e irrigidita, profondamente “spenta”, o meglio abitata da un vissuto di inerzia, di mancanza, di vuoto senza forma e senza altra risonanza che la propria assenza di qualunque risonanza.
A ogni incontro, io comunque dopo il primo disegno propongo a Giovanni di effettuarne un secondo. Questa volta, suggerisco di osservare lo sfondo bianco del primo disegno. In pratica, propongo di rivolgere l’attenzione allo sfondo bianco e poi, da lì, di abbandonarsi a tutto ciò che può affiorare nel gesto e nella mente. Questo secondo disegno è eseguito sul retro dello stesso foglio.

La svolta decisiva

In questa sede non è possibile descrivere la sequenza delle sedute. Mi limito a segnalare un incontro che ha prodotto effetti decisivi. Giovanni infatti in quell’occasione, dopo aver effettuato come primo disegno lo scenario desolante in cui campeggia l’omino solitario e disperato, traccia all’improvviso, come secondo disegno sul retro del foglio, un analogo omino che adesso ha un corpo più ampio e che accenna un movimento, tentando di afferrare la mano di altre sagome umane. Giovanni commenta dicendo che le altre figure sono la moglie, la figlia e la nipotina, e che ora gli sembra che la soluzione risieda lì, nel non rivolgere più la sua attenzione soltanto a se stesso, ma ai suoi familiari più cari e in generale agli altri.
Questo momento della terapia assomiglia all’esperienza di Helen Keller riferita più sopra. E’ infatti verosimile che Giovanni, nel corso dei colloqui precedenti, abbia gradualmente ripreso contatto con l’area sensorio-affettiva grazie alla semplice tecnica espressiva proposta, dunque grazie alla gestualità che essa comporta, alle forme figurative emergenti e alla sequenza dei due disegni, il secondo dei quali letteralmente “spalancato” sul bianco spaesante, matrice possibile di un pensare preriflessivo e intuitivo. Si è quindi in lui progressivamente riattivato l’intelletto corporeo o immaginale, all’interno inoltre di un ambiente e di una relazione in grado di veicolare contenimento e rassicurazione, anche “a riparazione” di tracce legate a vissuti abbandonaci attuali e preesistenti.
Nell’incontro cruciale, poi, il secondo disegno è stato di per sé la diretta emersione di un’ “azione pensante”, o di un “pensiero in azione”, veicolo di un’astrazione embrionale che a metà tra concretezza e riflessione ha reso manifesta una potenzialità evolutiva, un nuovo atteggiamento emotivo. In particolare, il nuovo atteggiamento è consistito in un moto di reinvestimento oggettuale che ha letteralmente “infranto” il guscio autistico del ripiegamento narcisistico. Un guscio, è bene sottolineare, di per sé inevitabilmente fondato sull’irrigidimento e la desensibilizzazione dell’intelletto corporeo, vale a dire dell’intera sensorialità affettiva e dei suoi moti espressivi e conoscitivi.
Il reinvestimento oggettuale è perciò potuto nascere soltanto dall’intelletto corporeo, opportunamente riattivato dal procedimento del disegno, procedimento che di per sé è direttamente di una ricca componente sensoriale, motoria e affettiva. Ma tale riattivazione ha richiesto altrettanto ineludibilmente che l’intelletto corporeo fosse “fecondato” dalla progressiva introiezione di fattori - anch’essi sensoriali e affettivi - legati al rapporto interpersonale e all’ambiente. Da questo punto di vista, si sono dimostrati altrettanto fondamentali il tono della mia voce, il mio atteggiamento mimico ed emotivo, l’atmosfera della stanza di consultazione e i valori a essa attribuiti da Giovanni a livello transferale.
Bisogna infine sottolineare che la terapia non si è svolta in un atelier strutturato, né rispettando le modalità e il setting di tipo classico. E’ tuttavia un esempio di come le modalità espressive possano essere comunque utilizzate a livello terapeutico con successo, a patto che il focus di attenzione sia l’intelletto corporeo. Non è infatti importante effettuare necessariamente una psicoterapia espressiva che sia completa in ogni suo aspetto, quanto saper “osservare”, nel singolo caso, l’intelletto corporeo e le sue condizioni psicopatologiche, elaborando poi una strategia in grado di agire su di esso positivamente. Tutto ciò, inoltre, come nel caso di Giovanni può accadere anche nell’ambito dell’attività psichiatrica di routine di un Servizio pubblico.


CONCLUSIONI

L’intelletto corporeo o immaginale, di per sé attivo in qualunque contesto psicoterapeutico, e peraltro abitualmente sfruttato anche in psicoterapie diverse da quelle espressive (63) (64) (65) (25), in queste ultime è specificamente “lavorato” tramite il ricorso a mezzi creativi che implicano l’agire del paziente.
Quanto questo agire sia in realtà appunto una modalità intellettiva, vale a dire una forma di pensiero, è il dato che la pratica clinica e la riflessione teorica devono ormai sempre più esplorare alla luce dell’eredità storica e degli attuali risultati delle psicoterapie espressive.


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