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PSYCHOMEDIA
RISPOSTA AL DISAGIO
Psicosomatica



Il corpo della voce, la voce dell’ascolto

Silvia Biferale e Rita Toti*


Introduzione

E’ noto come la voce riveli l’essenza più intima e soggettiva dell’uomo, lasci trapelare anche i movimenti emotivi più sconosciuti alla mente; è una forza archetipica che annuncia una presenza, inaugurando così la relazione con l’altro. Ascoltare questa voce è intendere ciò che il soggetto che parla non dice, in un continuo gioco di intercettazione di significanti, all’interno di uno spazio relazionale, in cui ascoltare significa anche ascoltarsi, essere all’ascolto del reciproco risuonare.
Ascoltare in psicoanalisi è anche tendersi a cogliere l’incessante interscambio tra corpo e parola, ciò che il corpo denuncia e la parola non dice, ciò che la voce contiene come potenzialità di significato, in attesa della parola. E’ cogliere suoni, sillabe, consonanze e dissonanze, ritmo e tono della voce, i quali non si sono ancora dispiegati al senso, ma sono rimasti non ancora pensabili, non ancora tradotti in parola.
La nostra è una ricerca orientata all’ascolto degli affetti e delle emozioni mai rappresentati, rintracciabili in parte nella corporeità e matericità della voce. In questo senso abbiamo dedicato la nostra attenzione al movimento vitale che il corpo esprime nei suoi elementi più arcaici, quali il respiro e la voce, cogliendone la loro funzione all’interno della relazione primaria, funzione costitutiva della relazione stessa.
La prima parte di questo lavoro è perciò descrittiva dei movimenti corporei e delle reciproche risonanze che l’ascolto promuove, mentre la seconda parte rilegge gli stessi movimenti da un punto di vista psicoanalitico, ripensandoli come funzioni della mente. Nella terza e ultima parte alcune vignette cliniche illustreranno il percorso terapeutico da noi intrapreso per promuovere la possibile integrazione di contenuti affettivi sconosciuti alla mente.


Il corpo della voce

La voce esiste già come potenziale di significazione ancora prima che il linguaggio si strutturi in fonemi e in parole per trasmettere un messaggio in forma verbale, e vibra come un’espressione del desiderio di voler dire, di esistere. La sua natura è corporea, è respiro e suono.
Il respiro spontaneo è un movimento regolato da due meccanismi neurologici - uno responsabile del controllo volontario corticale, l’altro di quello automatico -, che ci fornisce il nutrimento indispensabile alla nostra esistenza, accompagna tutta la nostra vita e ci offre una ricchezza di informazioni sensoriali attraverso i suoi propriocettori, muscolari e articolari, e i recettori viscerali coinvolti nei movimenti accessori alla respirazione. Tutto il corpo partecipa al movimento del respiro dilatandosi e costringendosi secondo modi e ritmi individuali determinati da un’infinità di fattori interni ed esterni alla persona e perciò continuamente variabili. Così la vita inizia e finisce muovendosi all’interno della continua relazione “dentro-fuori” di cui la respirazione è costituita. Il corpo si apre nell’inspiro, i polmoni si dilatano, i muscoli si allungano, la pelle si distende per permettere all’aria di entrare, per accoglierla dentro di noi, lasciarla uscire poi modificata e attendere nella pausa che un nuovo inspiro nasca. C’è un movimento interno artefice di questo scambio che non è circoscritto nei polmoni, ma è molto più vasto, determinato dalla condizione corporea più generale, dal meccanismo d’innervazione reciproca dei muscoli inspiratori ed espiratori e dal rapporto tra tensioni e distensioni interne che permette a spazi toracici, addominali o pelvici di partecipare o meno al respiro. Il movimento del respiro nelle sue tre fasi, inspiro-espiro-pausa, coinvolge dunque tutto il corpo in una relazione continua con l’esterno, scandita da un ritmo suo proprio e dotata d’una qualità di movimento che rispecchia ritmo e qualità costitutivi della persona.
Ascoltare il respiro significa mettersi in una condizione di raccoglimento in cui è possibile cogliere le sensazioni provenienti dalla continua modificazione del corpo durante il ciclo respiratorio, del suo andare e venire, della pausa nella quale, come dice Marion Milner aspettiamo la nascita del nuovo respiro come un surfista aspetta l’onda, con il timore che accompagna ogni attesa (M.Milner, 1994); questo ascolto fornisce un’esperienza di coesione e di interazione. Eigen scrive: “l’io usa la sua esperienza del respiro come un ponte per muoversi con sicurezza dentro e fuori del corpo. Nel fare ciò rafforza sia la capacità di osservazione che la sua ricettività nel percepire la vitalità del corpo” (M.Eigen, 1977).
L’ascolto del respiro ci permette di fare esperienza delle dimensioni dello spazio e del tempo: degli spazi interni, cavità che si aprono e si chiudono, cavità che vibrano, che si dispongono a risuonare; degli spazi esterni che si fanno più vicini e più lontani. E del tempo scandito dal ritmo: ritmo inteso qui non solo come scansione, messa in forma del movimento che continuamente si ripete, ma anche come pulsazione, o meglio pulsione, rilancio verso il proseguimento, verso il nascere di un nuovo respiro.
Questa dimensione spazio-temporale ci apre al suono. In fondo anche il respiro ha un suo suono, quello del soffio, di uno sbadiglio o di un respiro affannato, i quali altro non sono che gli spazi e le cavità respiratorie entrate in vibrazione, in risonanza, anche in questo caso in un movimento continuo “dentro- fuori”. Suonare è vibrare dentro di sé e fuori da sé. Il corpo sonoro, infatti, non è una pura emissione di un suono, ma il trasformarsi del corpo in vibrazioni le quali, tendendolo e distendendolo, lo pongono allo stesso tempo in relazione a sé e lo mettono fuori di sé.
In questo senso il respiro e il suono hanno la stessa corporeità, ma il suono ha un inizio e una fine, una durata nel tempo costitutiva della sua propria forma, e un colore, o più propriamente un timbro, che ne esprime il contenuto affettivo. Fare esperienza di un suono, di un suono proveniente dal proprio corpo, significa fare esperienza di uno spazio che vibra in un tempo preciso, che può finire e può ricominciare, offrendoci l’esperienza della continuità e della separazione, della fine e, eventualmente, di un nuovo inizio. Se l’ascolto del respiro ci mette in contatto con un movimento continuo, il suono introduce invece l’elemento della separatezza tra chi ascolta e chi è ascoltato, all’interno di un risuonare reciproco, perché l’ascolto stesso è possibile attraverso un risuonare, e il suono dell’altro risuona dentro di me, modificando anche il mio corpo, facendolo vibrare. E’ questa modificazione che permette di essere raggiunti dal contenuto affettivo di quel suono che lascia traccia nel corpo e nelle emozioni di chi ascolta. Ne facciamo ogni volta esperienza quando ascoltiamo una musica che ci incanta, certamente per la sua architettura, ma, forse soprattutto, per quello che muove dentro di noi, per quello che le vibrazioni sapientemente portate e ordinate dal testo musicale ci fanno provare sul piano emotivo, per quello che ci dicono di noi: “Il sentire è sempre un ri-sentire, cioè un sentir-si-sentire: o meglio, se si preferisce, il sentire o è soggetto o non sente…un diapason-soggetto, fino all’ultimo spiegazzamento di sé” (J.L.Nancy, 2004).
Il respiro e il suono, con le loro risonanze, ci conducono nella dimensione più arcaica della vita: il bambino cresce nel ventre materno immerso nei suoni provenienti dal corpo della madre e dall’esterno, che lo avvolgono come una pelle risuonando intorno al suo corpo e ancora dentro di lui. Viene al mondo con il suo primo respiro e con un grido che lo individua come persona unica - è il suo corpo questa volta che vibra-, e così procede nella costruzione del suo sé corporeo anche attraverso le vibrazioni interne e quelle che dall’esterno gli danno forma. In questo modo un suono, una voce che canta per lui, lo accarezzano e lo circondano definendo i suoi confini corporei, definendo il sé e l’altro da sé, in un continuo rimando di senso.
Una paziente che, in seguito ad una grave patologia del sistema immunitario, si era resa conto di non aver mai sentito il suo corpo e di averlo conosciuto solo nel dolore, durante una seduta sentì il continuo passaggio della vibrazione di un suono prolungato da dentro a fuori e viceversa come un matita che disegnava il suo corpo, definendone i confini a ogni passaggio; o un musicista, che lavora nell’ambito dell’apprendimento musicale dei bambini molto piccoli, notò che, mentre cantava per un neonato, gli sembrava che il corpo del bambino si distendesse, si dispiegasse e prendesse forma, come se il suono, toccandolo con le sue vibrazioni, ne tracciasse più precisamente i suoi contorni.
Il suono contribuisce, quindi, a strutturare il sé corporeo e favorisce anche la costruzione della struttura affettiva perchè il suono ha un senso, un suo contenuto emotivo, quello che si esprime nel timbro e nel colore, quello che lascia una traccia nel corpo e che, anche se non accessibile al ricordo, il corpo stesso custodisce, restituendolo alla consapevolezza se nuovamente toccato e ascoltato, messo dunque in risonanza, in una nuova risonanza affettiva. In questo senso consideriamo il suono non come un veicolo di significati, e quindi di emozioni preesistenti, ma uno spazio; meglio: uno spazio-tempo, nel quale si costituisce l’emozione stessa e dove trova il suo corpo, la sua vita.
Anche la voce è un suono, quindi è respiro, è corpo, che prima di manifestarsi è come custodita in silenzio nel corpo. La sua matrice è il corpo stesso dal quale continuamente può nascere e nel quale in ogni istante può ritornare per ritrovarvi l’energia per una nuova vita, o per velarsi o per dissolversi in un silenzio che lascia ancora parlare il corpo. Molti aggettivi si possono usare per descrivere una voce, spesso provengono da esperienze sensoriali diverse, tattili o olfattive; una voce può essere dolce, vellutata, aspra, tagliente, penetrante, ma anche roca, grave, acuta, sottile. Cosa accade nel corpo perché la voce si colori di un determinato timbro o assuma una certa grana?
La voce, affinché possa essere udibile, ha bisogno di una cassa di risonanza - spazi interni disponibili a vibrare - e di un tono corporeo, cioè di una parte del corpo che abbia una tonicità muscolare tale da mettere in moto la colonna d’aria che farà vibrare le corde vocali. I cantanti chiamano il tono “appoggio” perché sostiene il suono, la voce, suggerendoci, con questo termine, la sua qualità di sostegno psico-fisico. Se il tono è presente con più forza nel bacino o nel contatto dei piedi a terra, la voce risuonerà diversamente. Se il torace è stretto in una tensione eccessiva, la colonna d’aria passerà con difficoltà, la voce avrà perso molti dei risuonatori toracici e apparirà più spenta, ovvero più povera di armonici. Se il tono corporeo perde vitalità la voce diventa meno timbrata, meno diretta verso l’esterno, come priva dell’intenzione di raggiungere l’ascoltatore. Il corpo si è sottratto, la voce non si fa sentire. Assia Djebar scrive a proposito delle donne algerine costrette al velo: “tabù del corpo visibile, soffocamento della voce”; e ancora: “ci sono molti modi per velarsi” (A.Djebar, 1999).
La matericità della voce è dunque nella carnalità del respiro, nella presenza della bocca e dell’addome, nella forza dei piedi e nell’articolazione della lingua, capaci di esprimere “la patina delle consonanti e la voluttuosità delle vocali” per usare l’espressione così suggestiva di R. Barthes (R.Barthes, 1979). In questa matericità rintracciamo dunque anche la sua forza eversiva, separare e distinguere, il suo potere evocativo che si fonda sul rapporto stretto tra voce e emozioni e il suo potenziale ordinatore espresso dal ritmo, senza il quale nessuna successione di parole o di suoni avrebbe un senso. Il suo potenziale eversivo era ben noto, ad esempio, alla Chiesa italiana della controriforma che, dalla metà del Cinquecento in poi, proibisce alle donne di cantare in chiesa e incoraggia la presenza degli evirati cantori che sembrano incarnare un’idea di purezza, l’ombra dell’originaria unità dei sessi, di quella perfezione che racconta il mito dell’ermafrodito, di quel suono arcaico prima di ogni separazione. Un corpo mutilato per una voce sublime che non deve turbare, che non appartiene più a questo mondo, ma cura, come quella di Farinelli curerà o, meglio, accompagnerà la depressione di FilippoV, re di Spagna, con infiniti quotidiani dosaggi di voce scanditi dal ripetersi ossessivo delle stesse arie tutti i giorni, fino alla morte. Una voce senza tempo, senza sesso: a prestarle ascolto si può sentire risuonare una specie di respiro prenatale, l’eco attutita di una profondità dove nessuna rottura separa ancora le parti.
La voce cela e svela continuamente il corpo a cui appartiene, proviene da esso rappresentandone la parte più flessibile e meno limitata, e lo oltrepassa con la sua dimensione acustica variabile e capace di ogni gioco: “ogni essere umano suona il suo strumento vocale per trasmettere qualcosa che va oltre il testo verbale. Segnala la parte non-ancora-simbolizzata dell’esperienza psichica attraverso la vocalità” (A. Di Benedetto, 2000).
Lo studio e la conoscenza della corporeità della voce - dei suoi spazi di risonanza, dei suoi appoggi, di quello che ne costituisce il timbro e la grana, di quello che definisce l’identità di genere o le sue stesse modificazioni nel corso dello sviluppo ontologico - non sono tesi a investigare sulla condizione della persona per comprendere il contenuto presemantico della parola, ma per conservare quell’orecchio sensibile al risuonare, al reciproco vibrare di corpi tesi all’ascolto, all’intendere; si potrebbe dire con Nancy: “ ascoltare è essere tesi verso un senso possibile, e dunque non immediatamente accessibile” (J-L. Nancy, 2004).
La voce, qualsiasi cosa dica, comunica innanzi tutto l’unicità di chi la emette e l’unicità della relazione che si manifesta acusticamente nel continuo e reciproco risuonare dei due interlocutori senza dover fare i conti con il detto , ma mettendo in primo piano la loro soggettività prima del contenuto semantico, o meglio ancora lasciando che il semantico prenda forma in quello spazio dove ha luogo il continuo risuonare di entrambi. “ Le mie parole sono “vive” perché sembrano non lasciarmi: non cadere fuori di me, fuori dal mio respiro in un allontanamento visibile” ( J. Derrida, 1997).


L’ascolto degli affetti

Una parte della ricerca psicoanalitica è orientata verso il tentativo di teorizzare nuovi modi di pensare il processo di cura. Gli studi recenti tendono verso formulazioni teoriche di processi psichici sempre più raffinate, che tengano conto delle modalità difensive e delle capacità relazionali di soggetti che presentano una sofferenza dell’area primaria, quella rivolta alla costituzione del Sé. Infatti la grande sfida nella quale il pensiero psicoanalitico da tempo si cimenta è quella di dare risposta e possibilità di cura a una crescente diffusione delle patologie narcisistiche con una debolezza nella strutturazione del Sé. Nella cura di queste patologie emerge l’imprescindibile importanza di recuperare l’affetto perché possa entrare nella scena della vita sottraendolo alla funzione muta dell’agito (A. Green, 1973). Ciò rende opportuno promuovere riformulazioni teoriche del ruolo del terapeuta, della modalità dei possibili interventi e, a volte, anche del setting, dando maggiore spazio alla capacità empatica, alla reverie, molto più vicine al corpo e agli affetti non manifesti, orientando la funzione dell’analista maggiormente verso un ruolo di ricezione sensoriale. Sembra necessario che nell’analisi del proprio controtransfert l’analista presti ascolto oltre che ai propri movimenti affettivi, alle risonanze sensoriali che scaturiscono dalle interazioni cliniche e aprono nuovi scenari per tentare così di raggiungere quella sofferenza senza nome, senza forma, che l’angoscia copre. È opportuno promuovere una possibile rappresentazione di stati emotivi rimasti inaccessibili alla mente del paziente, quegli elementi frammentari che la funzione alfa, esercitata dalla reverie, trasforma in pensiero (W.R. Bion, 1965), altrimenti destinati a rimanere nell’indistinto e nell’indifferenziato della memoria implicita (secondo le formulazioni teoriche delle ricerche neuroscientifiche), sempre presente e ugualmente sconosciuta. Strumento indispensabile di cura in questo quadro è l’ascolto orientato a far risuonare i propri echi profondi.
Sembra quindi opportuno inoltrarsi in un terreno terapeutico nel quale il ruolo dell’analista non è solo quello di essere depositario di fantasie e affetti transferali, ma quello di rendere pensabile ciò che è irrappresentabile alla mente del paziente cercando innanzitutto una possibilità di ascolto e poi una forma rappresentabile. Utilizzare l’attenzione fluttuante, in questo senso, consente di lasciare una parte della mente libera di fluttuare sulla musicalità del discorso, in cerca di quegli affetti sconosciuti incarnati nelle intonazioni della parola.
La psicoanalisi ha rivolto nel tempo maggiore attenzione all’area primaria e a quel contesto in cui comincia a prendere forma una interazione tra due soggetti in condizione di grande disparità. Nella matrice originaria, nell’incontro con la modalità ambientale del prendersi cura e, ancora prima, di pensare o di immaginare quel bambino, si costruisce uno spazio in cui prende corpo un essere umano. E’ proprio il corpo che sembra divenire la sede dell’esperienza e che prende forma dal rapporto con l’oggetto di cura, con il tipo di incontro fornito dall’ambiente. La modalità materna di rispondere al bisogno del bambino porta con sé, nel gesto, uno stile che Bollas chiama idioma e che determina la prima esperienza estetica umana in assoluto (C.Bollas, 1987). La natura del Sé, comprese le caratteristiche della disposizione ereditaria, riceve da questa esperienza una forma assunta sia per i contenuti sia per le modalità di comunicazione materna, che veicola emozioni significanti promuovendo i più precoci nuclei identificatori e attivando sensazioni corporee indispensabili alla costruzione del senso di sé.
E’ la sfera sensoriale la prima a sperimentare l’ambiente con le sensazioni che modificano lo stato corporeo. La qualità della traccia lasciata attiva stati affettivi primitivi, fusi e privi dell’accesso al pensiero.
In una lettera a Groddek, Freud afferma: “l’atto inconscio ha un’ influenza plastica intensiva sui processi somatici, quale all’atto conscio non è mai riservata”(S. Freud, 1917). Mi sembra naturale estendere questa osservazione agli stati più precoci della vita, in cui non c’è un soggetto in relazione con un oggetto, ma una diade indifferenziata. È la madre che interpreta i bisogni vitali del figlio e scandendone il ritmo, articolandone il suono, dipingendone le immagini ne crea il sapore, il colore, la consistenza, il calore, la morbidezza e quindi l’accettazione o il rifiuto. Ella mutua la risposta attingendo al significato che prende forma dal suo inconscio e fornisce un significante al tipo di esperienza convissuta. Per la madre questa interazione vive dentro un contesto di significati preesistenti, per il figlio determina un contesto che crea le coordinate e la materia della sua esistenza.
L’interiorizzazione di questa forma è precedente all’interiorizzazione del messaggio verbale e ha la funzione, così come tutte le successive esperienze estetiche, di consentire un isolamento dagli stimoli, quando intrusivi. Diventa quindi la funzione di scudo paraeccitatorio (S. Freud, 1920) che avvolge e protegge la mente infantile priva della struttura adeguata, da ciò che potrebbe per eccesso turbare i processi mentali precoci: una prima forma di reverie che protegge la mente. Questa funzione è in grado di garantire la continuità dell’esistenza attraverso la possibilità di conservare tutte le sensazioni evocate dal contatto con parti e funzionamenti del proprio corpo e con oggetti esterni, anche in assenza dell’oggetto: la pelle, il battito del cuore, la lingua, il calore e la rotondità del seno. Il bambino ritirandosi in stati di isolamento sensoriale e abbandonandoli recuperato dalla presenza materna, vive una parte importante della ritmicità dello sviluppo: “Divenir vivo come essere umano comprende l’atto di essere tenuto da e tra la matrice della vivacità fisica e psicologica della madre” (T.H.Ogden, 1994). La continuità permetterà un processo integrativo in itinere tra realtà interna ed esterna e, conseguentemente, darà luogo a successive modalità identificative che costruiranno una forma coerente del senso di sé.
Nei casi limite la sofferenza sembra spesso relativa a qualcosa di incomprensibile e appare come rottura del senso di continuità. Tentando una riflessione potremmo dire che la continuità del loro esistere sia stata interrotta da un salto evolutivo dell’intelletto, da una modalità dello psichismo che non conosce né riconosce ciò che sperimentano i sensi. A volte sono attacchi di panico o l’emergenza di un’angoscia catastrofica incomprensibile e ingiustificabile a determinare la richiesta di aiuto. Sembra che, a un certo punto della vita, il tessuto dell’organizzazione psichica del soggetto produca uno sforamento dando luogo a un collasso della funzione del pensiero, allo slegamento del senso, lasciando affiorare una sensorialità magmatica relativa agli stati affettivi primari mai integrati. Freud in La scissione dell’Io nel processo di difesa presenta l’Io, non più come un’istanza che tende a mediare, ma come un’organizzazione, nella quale, i meccanismi difensivi possono arrivare fino alla frantumazione e alla mutilazione dell’Io stesso (S. Freud, 1938).
Per il trattamento di queste patologie l’ascolto della vocalità della comunicazione, che prescinde dal significato verbale, è teso a cogliere i segni di quegli stati emotivi inscritti nella sonorità della voce e inaccessibili alla mente del paziente, affinchè questi possano essere provati e pensati dall’analista prima di poter entrare a fare parte della struttura affettiva del sé del paziente.
Il modo di parlare, la vocalità del linguaggio, porta tracce profonde nell’ordine del preverbale e del presemantico, relative ad affetti ed emozioni sperimentate ma non accessibili alla coscienza. Bollas definisce conosciuto non pensato quello che le neuroscienze chiamano memoria implicita, sempre presente ma non suscettibile di ricordo. Potremmo pensare questa parte dell’esperito non ricordato, come un filo rosso, sotterraneo, che unisce le generazioni fino a diventare nella trasmissione ereditaria indistinguibile dalla materia, quelle emozioni e sensazioni così profondamente incarnate nel corpo da essere esse stesse corpo, voce, respiro, ritmo e movimento. Gli studi di Gallese rivelano che “il sistema sensorimotorio appare cruciale per il riconoscimento delle emozioni altrui…media infatti il processo di ricostruzione di come ci sentiremmo se fossimo noi a provare quelle stesse emozioni. Riconosciamo così le emozioni degli altri mediante la simulazione incarnata degli stati corporei ad esse correlati” (V.Gallese, 2000).
La storia sepolta di ogni essere umano, soprattutto quella sofferta, attende un orecchio disposto all’ascolto perché possa dispiegarsi nuovamente alla vita. Possiamo cogliere nel corpo e nella corporeità del paziente alcuni segnali che inducono stati d’animo e muovono profonde simmetrie e risonanze nella mente dell’analista, a volte come vissuti incongrui o sensazioni inspiegabili che non sono rintracciabili nel significato delle parole pronunciate, sembrano piuttosto dare luogo a una forma di identificazione proiettiva. La Klein si riferiva ad un meccanismo che espelle i vissuti distruttivi, intollerabili per la mente infantile, proiettandoli in un oggetto esterno, fuori da sé (M.Klein, 1969). Rintracciamo negli elementi beta di Bion la stessa caratteristica, elementi affettivi intollerabili che cercano un luogo o una mente per essere pensati. Le identificazioni proiettive massicce, così come gli elementi beta, sono impensabili ma forse sono talvolta ‘ascoltabili’.
Possiamo pensare al meccanismo dell’identificazione proiettiva come a un campo convissuto di un tempo rimasto fermo, immobile, in una matericità mai soggetta a trasformazione. In quelle risonanze attivate tra due soggetti, paziente e analista, si crea un campo-corpo comune, una matrice arcaica da cui si possono dispiegare attraverso i sensi, futuri significati perché ciò che è muto da sempre possa trovare la parola degli affetti, disincarnata dal corpo.
Quando lavoriamo con alcuni di questi pazienti possiamo cogliere elementi che ci toccano affettivamente nella musicalità del loro parlare, nel tono, nel colore, nel timbro della voce, nel ritmo del loro respiro durante il fluire delle parole o nei silenzi. Elementi questi che nell’ascolto disponibile muovono profonde consonanze o dissonanze, una comprensione affettiva degli stati emotivi inconsci.
Di Benedetto con chiarezza esprime la potenzialità racchiusa nell’ascolto: “Il non-verbale espresso dal linguaggio del corpo e il non verbale espresso dagli aspetti prosodici del parlare, vengono a coincidere nella voce. Che è il crocevia di corpo e parola. La voce dà voce al corpo e a tutto quanto esso tenta di trasmettere. Nella vocalità, nell’alone musicale della parola, …si materializza un’immagine del corpo e, tramite questa, un primo messaggio dell’affettività inconscia” (A. Di Benedetto, 2000).
Una fra le funzioni della mente analitica è quella di registrare i messaggi scissi utilizzando il proprio Io-corporeo. In questo modo si potrebbe realizzare quella concordanza estetica grazie alla quale qualcosa dell’altro risuona in noi, accanto ad una iniziale forma di separatezza. Questo snodo è imprescindibile per rimettere in movimento il tempo degli affetti recuperandoli a un antico collasso della funzione differenziante dell’oggetto, nella storia del paziente. Il bambino sente il corpo e il movimento della madre come suoi, mentre la madre si identifica con i bisogni del figlio tanto che, a volte, smarrisce il suo essere altro, il suo rimanere viva alla sua vita e al senso di sé, perdendo, in questo modo, la funzione trasformativa. Infatti la funzione trasformativa, sia di una buona madre sia di un buon analista, è proprio nella possibilità di veicolare attraverso la propria voce e le proprie parole un movimento affettivo che possa avere un altro destino.
Dove il linguaggio elude, omette o trascura è nel corpo che vanno individuate quelle tracce iniziali che hanno segnato la storia individuale, la biografia interiore del paziente.


Parte clinica

Abbiamo organizzato un gruppo terapeutico articolato in due tempi distinti ma legati tra loro. L’elemento comune è il movimento che, dalla corporeità della voce intesa come suono, esplorata nella prima parte del lavoro attraverso l’ascolto degli spazi di risonanza dal quale emergono sensazioni, percezioni ed emozioni, permette poi catene associative di pensieri esprimibili in parole e condivisibili nella seconda parte: il momento in cui la voce diventa parola.
Alla potenzialità già nota del gruppo, come attivatore della gruppalità della mente, si aggiunge così quella della pluralità delle voci, le quali, in quanto suoni, riconducono l’ascoltatore alla matrice arcaica dalla quale hanno origine.

Il gruppo, il corpo-gruppo, si lamenta della schiena come “ciò che non si vede mai ma duole” e arriva poi a rintracciare nel petto il peso di un’angoscia. La parte alta del torace toccata dalle risonanze del suono della N dà modo a una paziente di poter parlare del suo dolore. Da tempo segnata da una grave malattia autoimmune, parla della sua disperazione, della voglia di farla finita, della depressione da cui fugge perché le ricorda la madre odiata, depressa e chiusa in un letto. Mentre piange racconta la sua storia e anche il suo costante tentativo di difendere la mente con la razionalità, così come avrebbe voluto interrompere quel suono chiuso nel torace dalla N, per fare la U che le permettesse di uscire fuori, di fuggire. Il gruppo raccoglie nell’ascolto silenzioso e partecipe il suo pianto come l’ansa della U, poi le propone le parti che non vede, quelle delle capacità di cui spesso ha parlato. Una U non più per fuggire ma per proporre un’uscita dopo aver raccolto il dolore.

Nella prima parte il gruppo ha lavorato sull’ascolto del torace alto, inizialmente attraverso la percezione dello spazio corporeo che il respiro apre e muove, poi emettendo una N che ha la caratteristica di risuonare internamente soprattutto nella gabbia toracica facendone vibrare le ossa. E’ un suono che si muove solo internamente, chiuso nel suo spazio che viene toccato e amplificato nella percezione dei suoi confini. L’ascolto di questa risonanza così costretta in uno spazio chiuso ha suscitato in Lina un sentimento di angoscia, la paura di sentire quello che il corpo custodiva e manteneva escluso alla possibilità di una elaborazione. (La salute di Lina è gravemente compromessa da una malattia autoimmune che ha colpito le mucose e l’epidermide con una conseguente degenerazione neoplastica dei tessuti).
Dopo aver lavorato con la N al gruppo viene proposto di lasciar risuonare la stessa parte corporea con la U. La qualità della U è la sua larga sonorità che si muove dentro uno spazio verticale che poggia nel bacino, raggiunge il torace, ma da qui questa volta esce. Questo suono era stato percepito da Lina come una piacevole occasione di ristabilire la forza della difesa nella fuga dal dolore, con un ritmo inspiro-suono che lei sente diventare sempre più veloce suggerendole l’urgenza della fuga. Riconoscere la frequenza affrettata del suo ritmo le permette di soffermarsi sulla sensazione angosciosa prima provata, ferma nello spazio chiuso della N, e di poterla ora ascoltare, sostandoci. Lina ha infine messo in parole la sofferenza che il gruppo aveva fin dall’inizio circoscritto al corpo, localizzandolo nella schiena: “ciò che non si vede mai ma duole”. Lo spazio chiuso del torace come lo spazio chiuso della stanza della madre, del dolore della madre che la rendeva inavvicinabile al bisogno della figlia. Il suono della N tenuto dentro questo spazio permette a Lina di sentire l’angoscia e il dolore. La sua organizzazione difensiva è sostenuta dalla sua grave malattia somatica, per cui il corpo malato costituisce il luogo del dolore inaccessibile alla mente e mantiene così l’efficienza di un funzionamento concreto e razionale, nell’impossibilità di farsi carico del dolore. L’ascolto della molteplicità dei suoni articolati prima in una N e poi in una U ha permesso a Lina di percepire il dolore non più su un piano prettamente somatico, ma di aprire, attraverso catene associative, il ricordo di momenti dolorosi dell’infanzia.
Questo movimento dalla sensazione corporea alla percezione e poi al pensiero, sembra promuovere un’articolazione delle diverse funzioni della mente rappresentate dalle diverse voci del gruppo, prima come suoni e poi come parole. La risonanza a più voci funge da attivatore e da contenitore nell’ascolto reciproco sia intrasoggettivo, sia intersoggettivo, rappresentando la funzionalità del gruppo a diversi livelli.

In una seduta successiva il gruppo pone l’ascolto al rapporto tra gli spazi corporei interni e quelli esterni, attraverso la percezione del movimento del respiro, scoprendo come anche un movimento così semplice, automatico e poco consapevole, possa rivelare una condizione interna con delle caratteristiche proprie. Nel gruppo alcuni esprimono il piacere di lasciare entrare l’aria come nutrimento, altri si soffermano sulla sensazione di pienezza che l’inspiro produce toccando le pareti interne, c’è chi invece percepisce soprattutto la difficoltà a riempirsi e chi ancora sente l’uscita dell’aria come il momento più significativo: una piacevole espressione di sé o una fonte di disagio e di ritiro. Per sottolineare il movimento di accoglimento dell’aria viene proposto il suono della O, che, per la sua qualità di risonanza, riempie gli spazi interni con morbidezza disegnandone i confini e mantenendo l’apertura verso l’esterno. Riconosciamo lo stesso movimento “dentro-fuori” rintracciato nel respiro e nel suono, nella comunicazione successiva la quale si polarizza intorno al tema della conquista dell’autonomia come passaggio continuo dal riconoscimento del proprio bisogno, al riconoscimento dell’altro come altro da sé.

Quel movimento “dentro-fuori” del respiro sembra aver attivato la spinta verso l’autonomia. Questa, così come erano individuali le percezioni corporee, viene espressa in diverse forme di difficoltà a sostenere il processo di emancipazione. Emergono molte paure: in Elena a impegnarsi in una prossima occupazione che, pur prestigiosa, le stimola fantasie di un sacrificio totale di sé; in Alessia, dato un ambiente familiare poco attento a riconoscere i suoi bisogni, a essere costretta a una contrapposizione forte e quindi alla perdita degli affetti; in Lina, già da tempo irrigidita nel dolore, la paura suggerisce solo soluzioni drastiche che diventano fughe.
Il suono proposto offre la possibilità di percepire uno spazio chiaro, definito dal movimento di distensione e di messa in tensione delle pareti interne. La pienezza del suono e del respiro fornisce, in questo caso, il nutrimento per l’espressione di sé, e lo spazio necessario perché questo accada, ripercorrendo le memorie arcaiche del primo nutrimento. La percezione stessa della pienezza corporea ritorna come consapevolezza del proprio esistere e al contempo nutre il senso di sé. Il piacere e la forza che il gruppo ha provato in questa esperienza sostiene il movimento di apertura verso l’esterno, suscitando fantasie di un possibile incontro con l’altro che prendono forma nei pensieri e nei timori relativi alla ricerca dell’autonomia. L’andamento ritmico del respiro permette un uscita fiduciosa in quanto contiene un sicuro rientro e la possibilità, nella pausa, di sostenere l’attesa che un nuovo respiro nasca. Un fuori che mantiene il contatto con il dentro: un lasciare, quindi, che non è perdersi.


Conclusioni

Nella nostra ricerca abbiamo preso in considerazione il corpo come custode degli stati affettivi più arcaici e il lavoro con il corpo come una possibilità di raggiungere regioni ordinariamente inesplorate, sorpassate, ma che ogni volta ci si trova a ripercorrere. Abbiamo individuato nel suono e nella voce strumenti di lavoro preziosi in quanto costituiti da elementi corporei compiuti in contatto diretto con le emozioni e quindi con quei vissuti di infinitezza che sono associati sia ad esse che alle modalità precoci di sperimentare il mondo sensorialmente. Sensazioni ed emozioni hanno bisogno di accedere alla funzione dividente e asimmetrica del pensiero per trasformarsi in percezioni del mondo esterno e interno, e diventare successivamente fantasie: una prima forma di pensiero in grado di integrare le caotiche esperienze primitive.
Se, come dice Matte Blanco, “l’emozione è la madre del pensiero” (I. Matte Blanco, 1981), emozione e pensiero sono un prima e un dopo che rappresentano i due tempi del funzionamento psichico. Due tempi sempre presenti e intimamente legati da una reciproca interazione che tesse la trama mai conclusa del lavoro della mente. La nostra ricerca ci ha permesso di riconoscere quella trasformazione della sensorialità mobile in percezioni ed emozioni accessibili alla mente nel percorso che la voce compie dal suono alla parola. Il suono inteso qui come corporeità della voce e quindi intrecciato con la sensorialità e con il mondo degli affetti e la parola come l’investimento del suono nel pensiero. Questa trasformazione si rende accessibile alla mente mediante l’ascolto che è la disponibilità a risuonare, a stare dentro quel movimento fatto di continui rimandi tra parti del sé e funzioni. Essere tesi all’ascolto è essere tesi a cogliere quel movimento affettivo perché diventi esso stesso rappresentabile.
Mentre prendiamo in considerazione le relazioni interne e la loro possibile integrazione attraverso il risuonare, abbiamo anche considerato il valore del suono come intenzione verso l’altro. Le vibrazioni che il suono produce nel corpo, con il loro continuo passaggio da dentro a fuori, favoriscono la percezione di una forma che si va costituendo nella definizione dei confini di sé e quindi dell’altro. Intendiamo perciò l’ascolto dell’altro un reciproco risuonare. In questa reciprocità abbiamo individuato l’elemento pregnante della comprensione empatica e delle comunicazioni non verbali che sono il fondamento della relazione terapeutica.


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*Rita Toti: laureata in psicologia presso l’Università La Sapienza di Roma, ha compiuto la formazione psicoanalitica. Membro Associato della SIPP, Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica, specializzata in psicoterapia psicoanalitica individuale per adolescenti e adulti. Ha condotto gruppi Balint per medici e terapisti e partecipa a gruppi di studi e ricerca, con una particolare attenzione agli stati affettivi primari. (tel 06 66000948)

Silvia Biferale: terapista della riabilitazione specializzata in Germania, presso l’Istituto Middendorf , Pneumoterapeuta e Terapeuta della Voce con Maria Hoeller-Zangenfeind. Membro Associato AFA e BVA (Berufsverband fur Atempadagogik und Atemtherapie).Da anni impegnata nella ricerca sul respiro e sulla corporeità della voce, lavora con terapie individuali e di gruppo presso il CIMI (Centro Italiano di Medicina Integrata) tiene seminari presso diverse istituzioni come l’Auditorium di Roma, Conservatori, Scuole di Musica e di Teatro. Responsabile della Formazione dell’Aigam, Associazione Italiana Gordon per l’Apprendimento Musicale. (tel 328 6946869)


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