PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> ATTACCHI DI PANICO

PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: RISPOSTA AL DISAGIO
Area: Disturbo da Attacchi di Panico


Modelli cognitivisti e intervento integrato nel disturbo di panico con agorafobia

Ferdinando Galassi, Marina Ciampelli*



INTRODUZIONE
Il disturbo di panico è un disturbo molto frequente nella popolazione generale e, negli ultimi decenni, è notevolmente cresciuto l'interesse verso la sua eziopatogenesi e cura. Attualmente vi è una consistente letteratura circa i diversi trattamenti possibili; l'intervento terapeutico indicato dalla letteratura internazionale come maggiormente efficace sul disturbo di panico e agorafobia è la terapia cognitivo-comportamentale (CBT).
Con questo termine s'intendono sia tecniche comportamentali (desensibilizzazione sistematica, esposizione in vivo, simbolica, rilassamento, training respiratorio, training assertivo, tecniche di gestione dell'ansia) sia psicoterapie cognitive standard.
Fra le tecniche comportamentali l'esposizione in vivo sembra nettamente più efficace rispetto a tutte le altre (Van Balkom, 1997; Marks, 1993); la tecnica prevede l'identificazione della natura e del grado delle limitazioni fobiche in modo da poter sviluppare una gerarchia di paure ed evitamento da affrontare gradualmente. Il meccanismo dell'esposizione in vivo non è chiaro; le ipotesi sull'efficacia includono l'estinzione alla risposta di paura, l'incremento della personale esperienza di successo e il cambiamento delle rappresentazioni cognitive memorizzate responsabili dell'attivazione delle emozioni.
Per quanto riguarda la terapia cognitiva la tecnica più riportata in letteratura è la ristrutturazione cognitiva. Clark (1986) sostiene che nel fare insorgere l'attacco di panico sia fondamentale la valutazione catastrofica dell'ansia conseguente a sensazioni di tipo fisico, vissute dall'individuo come pericolose. Le tecniche di ristrutturazione cognitiva sono mirate a modificare queste catastrofiche interpretazioni associate al panico (Barlow, 1988) e il significato stesso del panico (Beck, 1985; Salkovskis, 1991).
La terapia cognitiva da sola, tuttavia, risulterebbe superiore solo alle tecniche di rilassamento (Beck, 1985; Clark, 1988); infatti, Chambless (1993) indica come maggiormente efficace sul Disturbo di Panico il trattamento combinato cognitivo-comportamentale (ristrutturazione cognitiva ed esposizione in vivo).
Vari autori (Clark, 1986, Clum, 1993; Gould, 1995; Margraf, 1993; Barlow, 2000) riportano per l'intervento cognitivo-comportamentale tassi di remissione intorno all'80% nei campioni descritti, miglioramenti che permangono anche dopo un anno di follow-up.
Un'ampia letteratura ha dimostrato anche la buona efficacia della maggior parte dei farmaci serotoninergici nel trattamento del disturbo di panico, in particolare clomipramina (Modigh et al, 1992), paroxetina (Wagstaff et al, 2002; Pollack & Doyle, 2003) con o senza l'associazione di benzodiazepine, rappresentate soprattutto da alprazolam (Sheikh & Swales, 1999; Verster & Volkerts, 2004).
Negli ultimi anni sono stati condotti molti studi di confronto di efficacia fra l'intervento farmacologico e cognitivo-comportamentale (Klosko, 1990; Cox, 1992; Margraf, 1993; Marks, 1993): quest'ultimo sembrerebbe offrire un maggior numero di guarigioni, un minor numero di drop out ed un più prolungato mantenimento dei benefici ottenuti, oltre che un importante contenimento dei costi (Otto, 2000; Nadiga, 2003; Rayburn, 2003).
Alcuni studi hanno confrontato l'efficacia di tecniche comportamentali rispetto alla farmacoterapia: nello studio di Clum (1993) l'impiego dell'esposizione in vivo in pazienti con disturbo di panico si dimostrava più efficace rispetto all'uso di antidepressivi, che, a loro volta, si mostravano superiori all'uso di benzodiazepine e alle tecniche di rilassamento ed esposizione in immaginazione (Kilic, 1997).
Roth e Fonagy (1996) hanno sottolineato che le tecniche umanistiche e dinamiche non sono per lo più indicate nel trattamento del disturbo di panico, mentre sembra più efficace l'intervento combinato terapia cognitiva e triciclici (imipramina) e, per l'agorafobia, tecniche di esposizione in vivo; quest'ultime risulterebbero parimenti efficaci se fatte insieme o senza il terapeuta.
La letteratura più recente riporta la superiorità dell'intervento integrato o combinato sul disturbo di panico rispetto agli altri interventi effettuati singolarmente (Zarate, 1994; Van Balkom, 1997; Spiegel, 1997; Biondi, 1999; Barlow, 2000; Bridler & Umbricht, 2001; Foa, 2002; Biondi e Picardi, 2003)
L'intervento integrato si differenzia nettamente dall'intervento combinato o associato anche se in letteratura tale distinzione non sembra spesso emergere.
Associare due trattamenti significa che ciascuno svolge la sua funzione indipendentemente dall'altro: ciascuno apporta il suo beneficio e ci si aspetta al più che non interferiscano. I
ntegrare significa che il loro effetto è complementare e sinergico: ognuno agisce almeno a livelli diversi (in questo senso sono complementari) e il loro effetto complessivo è superiore alla somma di entrambi.
L'integrazione, inoltre, prevede tempi strutturati e sovrapposti:

psicoterapia e farmacoterapia hanno differenti effetti, differenti loci e differente scansione temporale (Karasu, 1982); in terapia integrata i due trattamenti devono essere eseguiti con obiettivi comuni, metodologia coerente, verifiche in itinere.
Ogni trattamento è diverso rispetto a quando sono eseguiti separatamente;
la psicoterapia si occupa dei farmaci sia come informazione, psicoeducazione, elaborazione;
i farmaci sono dosati sull'andamento della psicoterapia;
la sintomatologia è valutata rispetto al significato che ha l'evento scatenante per il paziente e all'interno del suo mondo relazionale;
si stimola maggiore partecipazione e autonomia non facilitando passività, aspettative magiche e delega;
il paziente partecipa attivamente alla terapia sfruttando le sue capacità autodiagnostiche e autoterapeutiche.
L'intervento integrato determinerebbe un maggiore numero di remissioni rispetto alla somma dei singoli trattamenti, un miglioramento in aree non direttamente bersaglio di uno dei due trattamenti (es. qualità della vita, adattamento sociale, abilità socio-lavorativa, etc.), una minore durata del trattamento farmacologico, impiegato a dosi inferiori, con migliore compliance e ridotti effetti collaterali; nel follow-up determinerebbe remissioni più protratte con un numero minore di ricadute.
Il trattamento integrato si differenzia dal trattamento associato o combinato anche perché può essere condotto da un solo terapeuta con la possibilità di gestire ed articolare meglio le due strategie. La presenza di un unico terapeuta diminuisce inoltre i costi dell'intervento sia per il minor tempo impiegato sia per un minore utilizzo di risorse; naturalmente il terapeuta psichiatra deve avere anche una formazione di tipo psicoterapeutico.
Anche Karasu (1982), proponendo di adottare un modello integrato tra psicoterapia e farmacoterapia, considerava la questione in maniera "dualistica" sostenendo che le terapie psicologiche e farmacologiche potevano coesistere ed integrarsi proprio in virtù del diverso campo d'azione (i farmaci per i disturbi "di stato", limitati nel tempo e la psicoterapia per i disturbi "di tratto", di lunga durata), della modalità di azione (i farmaci sulla formazione dei sintomi e sui disturbi conseguenti, la psicoterapia sulle relazioni interpersonali) ed infine del tempo e durata d'azione (i farmaci con effetto iniziale rapido e durata più breve, la psicoterapia con effetti più lenti ma per periodi di tempo più lunghi).
I primi a sottolineare le modalità di azione intrinseche al farmaco nella psicoterapia sono stati Savage e Sarwer-Forner (1960). Molti Autori hanno sottolineato il significato relazionale del farmaco sia in senso positivo [Adelmann (1985) ha definito l'utilizzazione del farmaco come "oggetto transizionale", sottolineandone l'utilità e l'importanza nella relazione con pazienti borderline] sia in senso negativo [Savage (1960) sottolineò gli aspetti negativi ("manipolare l'ansietà" o "abbandonare l'effetto psicoanalitico") nella somministrazione di farmaci a pazienti in analisi].
Nella relazione terapeutica, soprattutto nella parte iniziale del trattamento, l'impiego del farmaco permette di costruire una relazione con il paziente su un'area privilegiata, e cioè in un campo prettamente clinico, che si avvicina per la sua prevedibilità alla migliore situazione di sicurezza per il paziente con tratti fobici: la distanza nella relazione può, così, diminuire diventando le modalità d'intervento più comprensibili e, quindi, più utilizzabili dal paziente.
Il farmaco, soprattutto inizialmente, può rappresentare una modalità di cura meno "invasiva", che consente di attivare modificazioni del sistema conoscitivo mantenendo coerenza con la propria storia o struttura di personalità (Arieti, 1981).
E', inoltre, "qualcosa che rimane della relazione, al di fuori della relazione" (Galassi, 1992) articolando maggiormente fattori terapeutici aspecifici quali accudimento e funzione vicariante e stimolando maggiore senso di autoefficacia e mastery nel paziente.
Il farmaco può servire, anche, a sfumare problematiche di distacco o abbandono, mitigando la particolare forma di dipendenza all'interno della relazione terapeutica che si struttura su un doppio binario.


Teorie eziopatogenetiche del disturbo di panico

1. Teorie comportamentiste
Secondo la teoria comportamentista gli attacchi di panico costituiscono uno stimolo incondizionato il quale, presentandosi in relazione temporale o spaziale con uno stimolo intrinsecamente neutro (luoghi e situazioni in cui gli attacchi si manifestano), conferisce a quest'ultimo la proprietà di evocare una risposta condizionata.
Le condotte di evitamento riducono il contatto con le situazioni ansiogene, contenendo, quindi, il numero degli attacchi di panico, e proprio per questo vengono sempre più rinforzate (rinforzo negativo). Nel tempo il comportamento fobico viene ad estendersi, fino a comprendere tutte quelle situazioni in cui il paziente ritiene difficile trovare aiuto o tentare la fuga. In questo modo l'"estinzione", cioè il processo per cui gli stimoli condizionati perdono il legame di associazione con gli stimoli incondizionati, diventa difficile per il progressivo incremento dell'evitamento.
Anche le sensazioni enterocettive o specifici contenuti di pensiero, secondo questa ottica, possono divenire stimolo condizionato per gli episodi critici, se posti in relazione inizialmente ad un attacco di panico di origine sconosciuta.


2. Teorie Cognitive Razionaliste
Goldstein & Chambless (1978) propongono un modello basato sulla teoria dell'apprendimento e che riprende il concetto di "paura della paura" di Razran (1961): il soggetto diventerebbe molto attento alle sensazioni corporee interpretandole come segni di imminenti attacchi di panico. Anche Beck (1985) e Clark (1986) sottolineano l'importanza dell'interpretazione catastrofica di sensazioni di tipo somatico come momento fondamentale dello scatenamento delle crisi. Wells (1990) propone un modello modificato di Clark secondo il quale ogni stimolo, esterno o interno, che è giudicato minaccioso, produce ansia; questa a sua volta induce vari sintomi, somatici e cognitivi, che vengono interpretati dal soggetto in modo catastrofico, contribuendo così ad alimentare ulteriormente lo stato d'ansia, ed instaurando un circolo vizioso autoperpetuantesi.

Figura 1 Modello cognitivo del disturbo di panico (Clark 1986) modificato, con aggiunta del ciclo di mantenimento (Wells, 1990)


Secondo la teoria cognitivo-razionalista, quindi, l'evento è spesso una sensazione fisica dovuta a stanchezza, malesseri transitori, etc. Alle sensazioni corporee fisiologiche verrebbe attribuito un significato peculiare; si attiverebbero, infatti, schemi cognitivi catastrofizzanti deputati all'analisi delle sensazioni somatiche; gli stimoli enterocettivi, che di per sé sarebbero neutri, verrebbero invece esperiti come sensazioni somatiche terrorizzanti, come risultato delle distorsioni introdotte in tale analisi; il disturbo verrebbe poi mantenuto da un eccesso di apprensione e ipervigilanza nei confronti delle sensazioni somatiche stesse.
La messa in atto di comportamenti di evitamento e protettivi, volti a evitare le conseguenze temute dell'attacco, favorirebbero un ciclo di mantenimento del disturbo, poiché impedirebbero la disconferma delle credenze erronee del soggetto, continuando così ad attribuire a tali comportamenti la capacità di impedire il verificarsi delle conseguenze temute; inoltre, i comportamenti protettivi potrebbero peggiorare direttamente i sintomi a causa di un'attenzione selettiva verso questi (per es. controllare la frequenza del respiro può aumentare la sensazione di mancanza d'aria).
Le interpretazioni erronee più frequentemente riscontrate, associate ai sintomi d'ansia sono:
* palpitazioni, dolore toracico: sto per avere un infarto;
* vertigine, irrealtà: sto per perdere il controllo, per impazzire, per svenire, ho un tumore al cervello;
* nodo alla gola, mancanza d'aria: sto per soffocare.

Secondo Beck, insieme alla catastrofizzazione ideica c'è la percezione di non poter affrontare la crisi utilizzando le risorse personali (deficit di strategie di "fronteggiamento"). C'è una sovrastima del pericolo ed una sottostima delle proprie risorse per fronteggiarlo.


3. Teorie Cognitive Costruttiviste.
Tutte le teorie cognitive partono dall'osservazione e dallo studio di problematiche cliniche ma prevedono una teoria della mente che considera l'uomo come fornito di una personale "rete cognitiva" costituita da convinzioni, aspettative e tendenze che ne guidano le interazioni con l'ambiente e che organizzano la conoscenza di sé e degli altri (Kelly, 1955).
La crescita del sistema avviene attraverso un equilibrio tra processi di assimilazione e accomodamento; nel processo di assimilazione la nuova informazione che arriva verrebbe attivamente modificata così da renderla il più possibile simile a quella già conservata mentre nel processo di accomodamento le strutture cognitive cambierebbero per adattarsi alla nuova informazione.
Nella sua continua obbligatoria evoluzione, ogni sistema conoscitivo tende gradualmente verso livelli di maggiore complessità ed ordine interno, cercando sempre di mantenere una propria coerenza sistemica interna e tentando di conservare integro il senso della propria identità personale.
Lo squilibrio nella crescita del sistema si verifica quando l'individuo non assimila gli stimoli ambientali oppure quando i cambiamenti indotti dall'ambiente nel sistema sono tanto rapidi da impedire lo svilupparsi del senso di continuità e di identità personale.
La perdita di equilibrio si verifica quando si produce all'interno del sistema una situazione caratterizzata da notevoli livelli di contraddizione fra i costrutti (in particolare i costrutti sovraordinati) e quando si manifesta una notevole inadeguatezza delle previsioni del sistema stesso, sottoposte a ripetute invalidazioni, in particolare riguardo al Sé e all'interazione con il mondo.
I processi di invalidazione, qualora avvengano all'interno di un sistema sufficientemente elastico, permettono, attraverso un adeguato meccanismo di accomodazione, una modifica dei costrutti che si sono dimostrati privi di adeguate capacità previsionali e, quindi, un miglioramento della conoscenza: migliorerà, di conseguenza, la coerenza complessiva del sistema.
Viceversa in un sistema rigido, l'invalidazione e il conseguente accomodamento di un costrutto si ripercuotono facilmente sulle strutture sovraordinate, i costrutti relativi all'identità personale.
In un sistema rigido, poco ramificato, con poche alternative soprattutto riguardo ai costrutti relativi al sé, l'invalidazione rischia di indurre un notevole livello di incoerenza che conduce allo squilibrio, vale a dire alla comparsa di una sintomatologia clinica manifesta.
Qualora l'invalidazione colpisca un sistema a struttura lassa, con previsioni generiche e nessi fra i costrutti scarsamente definiti, l'invalidazione di uno di questi costrutti rende difficile un suo accomodamento, una sua ristrutturazione, e il sistema rischia di avere un vuoto previsionale non essendo stato in grado di cogliere l'informazione e di utilizzarla al fine di migliorare la conoscenza.
Secondo la teoria costruttivista il sintomo ansia rappresenta la transizione tra costrutti dovuta alla minaccia di autonomia e indipendenza, sentita nel momento in cui la persona si prevede senza la figura significativa di protezione. La poca autonomia e indipendenza invalida la previsione del costrutto; il sistema rigido non riesce a riarticolarsi e ciò provoca la sintomatologia di transizione.


4. Teorie cognitivo-evoluzioniste
Mc Lean (1984) sostiene che le strutture cerebrali del sistema limbico, fondamentali per l'esperienza emozionale, sono evolutivamente più arcaiche della neocorteccia, che è invece indispensabile per la strutturazione del pensiero.
La teoria dei tre cervelli suggerisce che il cervello dell'uomo sia costituito da tre porzioni (cervello rettiliano; sistema limbico; neocorteccia) che si sono sviluppate in due fasi successive durante l'evoluzione. In una prima fase, al cervello rettiliano, costituito da tronco encefalico e gangli della base, si sarebbe aggiunto il sistema limbico, formando il paleopallio; nella seconda fase, che ha coinciso con la comparsa della specie umana, la neocorteccia si è sovrapposta al paleopallio.
Le specie dotate unicamente di cervello rettiliano sanno procacciarsi il cibo, sanno accoppiarsi, esplorano porzioni limitate dell'ambiente e difendono il territorio in cui vivono; non sanno, però, formare relazioni sociali implicanti un durevole riconoscimento reciproco. I vertebrati dotati, invece, di cervello bipartito (uccelli, mammiferi) possiedono, oltre ai sistemi motivazionali innati propri del cervello rettiliano, anche i sistemi motivazionali sociali connessi alle operazioni del paleopallio: grazie al sistema limbico compare la motivazione "primaria e innata" a stabilire relazioni con i conspecifici (attaccamento-accudimento, tipo agonistico finalizzato a stabilire ranghi sociali, tipo che conduce a formare coppie sessuali relativamente stabili).

Forme speciali di comportamento basico sono:
dominio (selezione e preparazione della tana, delimitazione del territorio, utilizzazione di un ambiente);
territorio (marcamento, sorvegliamento, difesa, combattimenti intraspecie per la difesa);
display di trionfo per un successo difensivo e assunzione di posture difensive o cambiamenti di colore per la segnalazione della resa;
utilizzazione di luoghi per la defecazione;
ricerca del cibo;
caccia;
ritorno alla tana;
accumulo di provviste;
formazione di gruppi;
formazione di una gerarchia sociale per mezzo di display ritualistici;
saluto;
grooming;
display di corteggiamento, accoppiamento, procreazione e accudimento della prole;
migrazione.

L'apparato comportamentale dell'uomo, dunque, comprende tre gruppi di comportamenti autonomi ma regolati con reciprocità funzionale:
* comportamenti di origine rettiliana (alimentazione, esplorazione dell'ambiente circostante, difesa del territorio, territorialità, predazione, sonno-veglia);
* comportamenti sociali limbici (attaccamento-accudimento, accoppiamento sessuale durevole: coppia durevole, competizione per il rango: dominanza e subordinazione, cooperazione paritetica: obiettivo comune);
* comportamenti puramente neocorticali (incremento conoscitivo, ricerca di significati, coerenza) probabilmente miranti a dare ordine e coesione a tutte le informazioni o conoscenze legate all'operare dei sistemi motivazionali evolutivamente più antichi fino a costituire una coerente visione di sé, degli altri, del mondo.
Esistono, quindi, strutture innate, schemi percettivo-motori che coordinano l'agire dell'individuo verso i conspecifici in vista di precisi obiettivi (comportamenti basici, sequenze comportamentali che seguono gli schemi percettivo-motori); l'esperienza di interazione con i conspecifici introdurrà modificazioni e sviluppi nei primitivi schemi senso-motori.

Tenendo conto di ciò si può ipotizzare, secondo la teoria evoluzionista, che le emozioni possiedano un valore informativo o significativo biologicamente determinato con uno statuto di antecedenza e relativa autonomia rispetto alle strutture e ai processi di pensiero.
La paura è una delle cinque emozioni basiche (paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto); come tale è un fenomeno adattativo, utile cioè ai fini della sopravvivenza dell'individuo e della specie. Infatti, essa ci permette di riconoscere prontamente un pericolo e preparandoci ad affrontarlo, attraverso la mobilitazione di risorse appropriate per fronteggiare la situazione; nel bambino assolve fondamentali funzioni evolutive a protezione dell'individuo e della specie (preparadness di Seligman).
Come la paura, anche l'ansia ha una funzione adattativa. L'ansia ci avverte della presenza di un pericolo indefinito o futuro, riguarda l'aspettativa di un pericolo che non è immediato e nemmeno sempre ben definito.
Sensazioni semplici, come la sete, il dolore e la paura, sono sperimentate istantaneamente; al contrario, l'ansia richiede un lavoro cognitivo che la paura non richiede.
L'attacco di panico (ansia acuta) potrebbe così essere considerato la reazione cognitiva che utilizza schemi deputati ad una funzione di sopravvivenza di fronte a pericoli (interni od esterni) vissuti come particolarmente nocivi (es. morte) o sconosciuti e che porta all'attivazione della sequenza comportamentale basica. Si può considerare come minaccia per scopi o bisogni personali soprattutto inerenti il futuro.


5. Teorie cognitivo-strutturaliste
Le teorie cognitivo-strutturaliste nascono direttamente dagli studi di Bowlby sull'attaccamento (1988) e da quelli di Guidano e Liotti (1983). La conoscenza si costruisce attraverso le perturbazioni del sistema conoscitivo formatesi dagli stimoli provenienti dai vari rapporti significativi. Le informazioni via via ottenute si organizzano in vari prototipi che sono la lente attraverso cui l'individuo legge le nuove esperienze. Di questi prototipi ne sono stati descritti cinque e sono stati chiamati col termine che indica il tipo di squilibrio sintomatologico a cui preferenzialmente vanno incontro: fobico, dapico (dei disturbi alimentari psicogeni), ossessivo, depressivo, psicotico.
L'organizzazione fobica viene a crearsi all'interno di relazioni di reciprocità con figure di attaccamento rappresentate da genitori iperprotettivi e controllanti, che tendono a trasmettere messaggi di pericolo esterno, di debolezza-vulnerabilità del bambino, e che male tollerano la manifestazione delle emozioni da parte del bambino stesso. Il bambino che cresce in un ambiente di questo tipo tende, così, a costruirsi un'immagine di sé come debole e vulnerabile: da questo nasce la necessità di controllare i pericoli, sia quelli rappresentati dalle forti emozioni, verso le quali il soggetto ha poca dimestichezza, e che vengono controllate, attraverso l'evitamento di sensazioni nuove o improvvise, limitando i cambiamenti e le modifiche nella propria nicchia ecologica, assumendo un atteggiamento di leadership nei rapporti interpersonali e del "don giovanni" nelle relazioni sentimentali; vi è un'attenzione selettiva anche ai pericoli del mondo esterno. Il bambino sentirà da un lato la necessità fisiologica di esplorare l'ambiente, allontanandosi dalla figura di attaccamento, dall'altra, però, percependo il mondo come pericoloso e sé come soggetto debole, tenderà a non allontanarsi troppo dalla figura d'attaccamento, rinunciando così ad esplorare. Così, anche nell'adulto, si verifica l'oscillare fra due dimensioni essenziali, sicurezza e libertà: la predominanza della sicurezza porta a sentimenti di costrizione, la predominanza della libertà viene invece percepita come solitudine. In entrambi i casi, il mancato raggiungimento di un equilibrio fra le due dimensioni comporta sofferenza per il soggetto.
In questo senso gli eventi scatenanti per una persona con tratti organizzativi fobici sono quelli in cui essa percepisce costrizione (un legame affettivo poco soddisfacente, vissuto come non modificabile) o senso di solitudine intollerabile (rottura di un legame affettivo) che attivano la sequela sintomatologica attivando la reazione neurovegetativa di allarme.


Lo squilibrio del sistema: i sintomi

Un attacco di panico può considerarsi un'attivazione neurovegetativa di sequenze comportamentali basiche, incongrua alla situazione, perché attivato dalla sfera cognitiva senza avere le caratteristiche oggettive del pericolo.
L'evento attivante (interno od esterno) entrerebbe in relazione con schemi personologici vulnerabili costruiti nella reciprocità con le figure di attaccamento che si attivano in relazione a quell'evento.
Le modalità d'interazione tra l'evento e gli schemi personologici vulnerabili sembrano avere vincoli precisi.
L'evento sembra definirsi in situazioni di distacco o soffocamento in un legame significativo. La percezione netta di stare male in un rapporto stimola la fantasia di concreto distacco dal rapporto stesso: l'idea del distacco attiva il senso di solitudine e la conseguente paura; percepirsi non in grado di stare da soli spaventa perché minaccia l'esigenza di autonomia.
Le modalità di controllo non riescono più a riequilibrare la dissonanza emotivo-cognitiva (voglia di essere libero\necessità di avere qualcuno che mi protegge); emozioni confuse e disagevoli vengono inserite nel sistema conoscitivo e l'attribuzione di significato diventa confusa e centrata sul corpo, perché questo è un percorso facilitato nelle organizzazioni fobiche. Il soggetto fobico si considera, infatti, incapace di tollerare l'ansia e vorrebbe "eliminare" ogni attivazione neurovegetativa vissuta come disturbante: l'esagerazione di queste convinzioni lo pone in una sorta di trappola cognitiva il cui effetto è proprio la produzione della temuta attivazione neurovegetativa.
Se una persona con organizzazione fobica prova emozioni (anche piacevoli) senza controllo può attivare un meccanismo per cui sperimenta sensazioni confuse e poco definite che, a loro volta, attivano il controllo.
Se continua a provare emozioni attiva immagini ancora più pericolose: è come se non ce la facesse a provare emozioni senza elaborarle come pericolose e conseguentemente attivare controllo.
In quest'ottica i sintomi diverrebbero la risultante di una interconnessione tra eventi personali significativi e una struttura cognitiva preesistente che presenta schemi particolarmente vulnerabili con quel tipo di evento (asse dipendenza\autonomia).
Anche il sintomo agorafobico, nella sua manifestazione clinica, sembra avere alla base un meccanismo etologico come la territorialità. Partendo dalla percezione di "pericolo" interno rispetto ad un corpo che non si sente più sicuro ed affidabile, viene percepito come pericolosa la distanza dal territorio personale inteso come legame con figura significativa e si disattiva incongruamente la sequenza comportamentale basica di esplorazione.


Protocollo di terapia integrata

Nella creazione di un protocollo di intervento secondo noi è necessario seguire tre caratteristiche fondamentali:

l'aspetto scientifico dell'intervento,
la v
erifica di qualità
, la d
omanda dell'utenza (circa l'80% dei pazienti chiedono una terapia psicologica breve e orientata sul sintomo).

I protocolli d'intervento devono avere, quindi, come caratteristiche fondamentali: brevità della durata, efficacia clinica, bassi costi, essere standardizzati e manualizzabili per poter essere sottoposti a verifica.


PROTOCOLLO DI TERAPIA INTEGRATA NEL DISTURBO DI PANICO
1) Valutazione, Assessment, Monitoraggio: diario degli attacchi di panico (data, situazione, emozione, pensiero, comportamento, numero degli attacchi)
2) Terapia farmacologica
3) Intervento didattico informativo
4) Intervento cognitivo-comportamentale (Esposizione in vivo)
5) Ristrutturazione cognitiva (intervento sugli schemi prevalenti)


A. Terapia Farmacologica.
Terapia farmacologica d'esordio (paroxetina o clomipramina con alprazolam). Il trattamento farmacologico dovrebbe essere mantenuto per circa 6 mesi.
La terapia farmacologica agisce riducendo l'attivazione neurovegetativa del disturbo di panico.
I sintomi possono essere considerati l'obiettivo principale della prima parte dell'intervento, poiché essi sono la manifestazione dello squilibrio della struttura cognitiva del paziente, organizzatori patologici dell'attuale sistema personale di conoscenza.
Quindi l'unica possibilità di strutturare un intervento e di impostare la relazione terapeutica non può che passare attraverso l'osservazione e il lavoro condiviso sui sintomi.
Dare i farmaci, in questo senso, non è un atto neutro; rappresenta l'incontro tra terapeuta e paziente che costruirà le basi e l'evoluzione della futura relazione terapeutica.
L'impiego dei farmaci, quindi, deve essere inserito in un contesto di rapporto in cui la molecola non è uno strumento di pura riduzione sintomatologica, bensì il mezzo grazie al quale l'impatto emotivo del sintomo viene attenuato e conseguentemente le proprie capacità elaborative rispetto al sintomo stesso possono modificarsi. Solo diminuendo i sintomi è possibile attivare le componenti funzionali della struttura conoscitiva.
Inoltre, una maggiore aderenza al trattamento psicofarmacologico può essere ottenuta responsabilizzando il paziente nel progetto di cura rendendolo consapevole degli obiettivi che si intende raggiungere esplicando chiaramente limiti e vantaggi; diventano pertanto essenziali le informazioni sulle medicine prescritte ed il modo con cui vengono fornite.
E' chiaro che in un protocollo di terapia integrata il significato del farmaco viene osservato ed utilizzato ampiamente.
Un'accurata spiegazione sulle caratteristiche dei farmaci ed interventi tipo cognitivo, volti a mitigare le distorsioni cognitive del paziente, lo faciliterà nell'assunzione del farmaco e permetterà di evitare una prematura interruzione della terapia.

B. Parte didattico-informativa.
A persone con tratti organizzativi fobici è fondamentale dare informazioni precise e ben dettagliate sulla teoria della crisi. La lettura di materiale informativo e spiegazioni su che cosa è il disturbo sono già di per sè un intervento di buona efficacia.
L'efficacia di questo intervento non consiste tanto nel fornire informazioni scientificamente valide quanto piuttosto nell'offrire al paziente una definizione funzionale di disturbo che renda possibile riflettere su se stessi e proporsi modi per accrescere il proprio percorso esistenziale.
Questo dovrebbe fornire una base per aumentare la compliance agli specifici interventi e per sviluppare i propri metodi di coping.
Gli obiettivi che si propone questo intervento sono:
1. Ottenere da parte del paziente una comprensione dei sintomi e della loro variabilità;
2. Formulare un'interpretazione della sintomatologia come risultato dell'interazione tra circostanze esterne ed eventi interni:
3. Offrire un modello psicologico del proprio disturbo; ciò dovrebbe fornire ai pazienti una maggiore consapevolezza rispetto ai sintomi, ai comportamenti e alle circostanze di esordio del disturbo che sono legate alle loro esperienze precedenti ed agli apprendimenti sociali;
4. Attivare le competenze necessarie per poter identificare precocemente i sintomi di crisi, per poterne bloccare tempestivamente lo sviluppo e per poter gestire in modo autonomo ed efficace la terapia farmacologica;
5. Aumentare la sensazione del paziente di essere capace di influire positivamente sull'andamento del proprio disturbo utilizzando strategie che possano essere imparate per affrontare le situazioni problematiche.
6. Fornire al paziente informazioni utili per ottenere in modo pratico e tempestivo assistenza sanitaria adeguata e informare il paziente sul tipo di disturbo psichiatrico e sul suo trattamento;


Messaggi ai pazienti:

1. Gli attacchi di panico sono una reazione "naturale" di paura che dura poche decine di secondi; la durata dello stato ansioso dipende da ciò che si pensa o immagina (tipo penso "ora muoio, sto impazzendo, che mi succede" e conseguentemente provo ansia).

2. L'ansia ha sempre una curva che prevede una salita e una discesa naturale: alla fine passa da sola senza dover fare nulla.

3. Gli attacchi di panico sono reazioni di difesa geneticamente determinate che servono per la sopravvivenza personale, poiché permettono di affrontare meglio la situazione aumentando le proprie capacità di prestazione (concentrazione, attenzione, performance). Le stesse sensazioni possono essere vissute in modo totalmente diverso: infatti molte persone vivono sensazioni di panico ("voglio provare adrenalina") positivamente e continuano a ricercarle.

4. Il panico non è pericoloso, deriva da come io penso riguardo alle cose che mi stanno capitando. Le varie situazioni, infatti, non sono oggettivamente pericolose: è l'individuo ansioso che ha imparato a viverle come tali, e deve perciò reimparare a pensare le situazioni come effettivamente sono.

5. Nessuno dei sintomi sperimentati durante l'attacco indica che la persona è pericolosamente malata o sta per diventare pazza: sono spiacevoli e fastidiosi, ma possono essere tollerati fino a che andranno via.

6. Evitare le situazioni che provocano paura non serve a nulla; anzi, pensando in modo catastrofico, se le rimando peggioro la mia ansia. L'evitamento è parte integrante del panico. Pertanto è molto importante addestrarsi a riconquistare il "territorio" perso.

7. E' importante imparare ad accettare l'ansia, non combatterla. L'ansia fa parte di noi; combatterla è come combattere contro una parte di sé. Rimanere ad osservarla e accettare l'ansia è il modo più veloce per farla scomparire.

8. E' importante imparare ad osservare l'ansia, guardandola senza giudizio, né buono né cattivo, osservando i livelli massimi e minimi e le situazioni che la fanno aumentare o diminuire, rimanendo distaccati e diventando buoni osservatori di se stessi.

9. Bisogna imparare ad agire con l'ansia, normalizzando la situazione, immaginando di essere "sani". Fuggendo dalla situazione, l'ansia si abbasserà ma il disturbo peggiorerà. Si può rallentare, continuando a fare le cose che si stavano facendo: non fermandosi sia l'ansia che la paura si abbasserà e sarà possibile, in poco tempo, riprendere a fare quello che già stavamo facendo.

10. Si può riuscire a distrarsi dall'ansia, utilizzando tutte le tecniche di distrazione che conosciamo: concentrandosi sui particolari e i dettagli di quello che ci circonda, magari descrivendoli a voce alta, farà passare il breve momento ansioso e già dopo poco tempo ci si potrà sentire meglio.

11. Bisogna cercare di aspettarsi il meglio. Ciò che più l'uomo teme raramente accade; le più famose società di assicurazioni hanno guadagnato miliardi sfruttando la tendenza di tutti noi di stare in ansia per eventi che raramente si verificano; sono pronte a scommettere con chiunque che le disgrazie previste non accadranno mai: solo che non le chiamano scommesse ma assicurazioni e cioè una scommessa basata sul calcolo delle probabilità.

12. Importante sarà affrontare le situazioni difficili con piccoli passi, ponendosi piccoli obiettivi. Le situazioni di cui si ha paura devono essere affrontate gradualmente, senza fretta, e se spezzettiamo le situazioni difficili riusciremo a risolvere meglio ogni piccola parte e rimarremo soddisfatti dei risultati ottenuti.

13. Non bisogna essere sorpresi quando sperimenteremo ansia, ma di come ci poniamo nei suoi confronti. Finché vivremo avremo ansia: va abbandonata la convinzione magica di aver sconfitto l'ansia per sempre. Aspettandoci l'ansia in futuro, ci mettiamo in una buona posizione per accettarla quando verrà di nuovo.

14. Bisogna continuare ad applicarsi costantemente per rendere abituali certe nostre azioni che ci sembrano straordinarie rinforzando la nostra sensazione di capacità di affrontamento.


C. Tecniche comportamentali.
Alcune sedute saranno dedicate ad insegnare al paziente ad esplorare il territorio: egli si dovrà gradualmente esporre a tutte le situazione ansiogene, precedentemente ordinate secondo una gerarchia di ansiogenicità. Le varie fasi dell'esposizione saranno superate come in un programma di allenamento.
L'esposizione è preceduta da informazioni sui meccanismi fisiologici dell'ansia e del panico e sui vari interventi che si possono effettuare per autocontrollarsi: il messaggio iniziale deve poter sottolineare la possibilità di essere attivi nel proprio dialogo interno di fronte alla manifestazione sintomatologica. Addestrare le persone a riacquisire la capacità di esplorare il territorio aumenta il senso di autoefficacia, diminuisce la previsione catastrofica, diminuisce il senso costrittivo di "imprigionamento".

D. Tecniche cognitive: Ristrutturazione cognitiva.
L'intervento cognitivo è basato sulla valutazione delle regole di funzionamento interno e lettura delle emozioni. Si cercano di identificare gli schemi prevalenti di funzionamento della struttura conoscitiva. Si identificano le regole che seguono la necessità di controllo, la catastrofizzazione e la predisposizione al soffocamento. Si lavora con modalità razionaliste nell'identificare e nel mettere in discussione tali regole. L'intervento si focalizza soprattutto sulle caratteristiche di controllo per un riequilibrio della dissonanza cognitivo-emotiva attraverso:
* stimolo dell'autonomia.
* stimolo dell'esplorazione.
* stimolo della curiosità.
* disponibilità emotiva nei rapporti.
* analisi delle comunicazioni con i familiari: distacco dalle figure significative per un rapporto non dipendente ma paritetico.
L'alleanza col paziente si può costruire rendendolo partecipe alla cura fornendogli informazioni e spiegazioni circa le caratteristiche del disturbo e le modalità del trattamento. Possono invece crearsi dei conflitti se l'intervento terapeutico è troppo incentrato sull'intensità emotiva, oppure se non sono stati sufficientemente definiti l'andamento e la durata della terapia. Bisogna tener conto, infatti, che il soggetto con organizzazione cognitiva di tipo fobico ha necessità di sentire il controllo sulla terapia e di immaginarsi protocolli poco costrittivi; in questo senso già dalla prima seduta si presenta facendo una descrizione autobiografica precisa, tende minimizzare il problema, non dà informazioni a carattere emotivo, cerca di gestire il colloquio facendo domande e mostrandosi diffidente alle domande del terapeuta, non favorendo, così, una buona relazione comunicativa; ha difficoltà ad accettare progetti troppo lunghi, avvertiti come costrittivi, ed i farmaci, avvertiti come pericolosi e fuori dal proprio controllo.


Struttura del Protocollo

Il protocollo di terapia integrata è costituito da 12 sedute circa.
Durante il primo incontro avviene la raccolta dell'anamnesi psichiatrica patologica e familiare.
La prima parte è orientata sull'intervista dei sintomi (descrizione del paziente, intervista DSM-IV-R, descrizione dell'ambientazione dell'ultimo episodio, primo episodio, periodi intercritici, storia clinica); insieme al soggetto si cerca di costruire una definizione del problema, seguendo la tecnica dell'"ABC".
Subito dopo si raccoglie la storia di vita: si indagano le relazioni affettive e sociali, il rapporto con la famiglia d'origine e con la famiglia attuale, le relazioni sessuali, la situazione nell'ambiente lavorativo e in quello sociale; si indagano i periodi antecedenti l'esordio della sintomatologia e l'ultimo episodio per identificare la prevalenza di eventi scatenanti.
Si chiede al paziente le spiegazioni che si è dato sul perché del suo malessere (teorie naive) e si valutano le aspettative e gli scopi che intende prefiggersi con la terapia. Si valutano, inoltre, i tentativi già fatti personali o altri trattamenti e le sue risorse. Vanno, anche, discusse insieme, eventuali aspettative irrealistiche o un'eccessiva diffidenza nei confronti dell'intervento.
A questo punto avviene la formulazione del contratto. L'inquadramento del caso viene fatto secondo l'ottica integrata farmacologica e cognitivista. Si fa una proposta farmacologica con descrizione accurata dei meccanismi d'azione dei farmaci, degli effetti positivi che ci si può aspettare, degli effetti collaterali, dei tempi di latenza, della durata della terapia.
Viene quindi fornito materiale psicoeducativo e somministrate scale di autovalutazione per la quantificazione del disturbo (Mobility Inventory Agoraphobia, Disability Scale,
State-Trait Anxiety Inventory,
Patient Global Inventory, Clinical Global Inventory).
Il paziente sarà rivisto ogni 15 giorni per 3 mesi, per le prime 8 visite, successivamente le visite di controllo saranno mensili.
Nel secondo incontro viene proposto più incisivamente il modello d'intervento secondo la teoria cognitiva.
Si parla insieme dei sintomi cercando di sottolinearne la non pericolosità. Si stimola domande sul significato dei sintomi cercando di trovare la condivisione sulle spiegazioni che provengono dal soggetto che siano coerenti con la teoria del disturbo.
Viene spiegato il modello del circolo vizioso di mantenimento degli attacchi di panico, il meccanismo cioè mediante il quale alcuni sintomi fisici vengono percepiti dal soggetto come pericolosi, innescando quindi una spirale di ansia che porta all'attacco di panico. Si indaga anche la presenza di comportamenti protettivi e di evitamento: di questi viene spiegato il significato al soggetto e vengono anch'essi inseriti nel circolo vizioso ponendo attenzione ai pensieri ed alle emozioni a questi correlate.
Al soggetto viene spiegata la presenza di credenze irrazionali e stimolata la loro ricerca.
Si cerca di riformulare il disagio emotivo del soggetto, valutando insieme gli eventi e l'ambientazione che precedevano le manifestazioni sintomatologiche; si ricerca una correlazione con eventi legati all'infanzia, fattori o situazioni precedenti la crisi che possono averla favorita.
Infine si danno al soggetto compiti di autoosservazione attraverso anche la compilazione del diario degli attacchi di panico (data, situazione, emozione, pensiero, comportamento, numero degli attacchi) per poter valutare la reale esistenza delle relazioni proposte.
Ad ogni seduta verrà anche valutato l'andamento della terapia farmacologica, sia riguardo gli effetti positivi che gli effetti collaterali e l'aggiustamento dei dosaggi concordato con il soggetto.
Al terzo incontro si verificano insieme al soggetto i compiti di autoosservazione.
E' poi continuamente riformulato il circolo vizioso includendo anche i comportamenti protettivi e di evitamento, focalizzandosi sulle credenze chiave del soggetto.
Da questa seduta si attua la ristrutturazione cognitiva mediante tecniche di riattribuzione verbale e comportamentale. Si invita il soggetto ad una rilettura del disagio emotivo in termini ABC in senso trasversale e longitudinale.
Si somministrano al soggetto esercizi di autoosservazione da compiere fuori dalla seduta per identificare la relazione pensieri disfunzionali/ansia.
Continua la monitorizzazione della terapia farmacologica con attenzione all'eventuale scalaggio di benzodiazepine.
Dal quarto incontro si attiva maggiore richiesta alla partecipazione del soggetto alla sua cura; si propone e costruisce insieme una gerarchia di esposizione in vivo, invitando il paziente a ridurre i comportamenti protettivi e attivandosi nella costruzione della sua vita futura. I compiti comportamentali saranno utili per evidenziare ulteriori credenze disfunzionali e per identificare gli schemi prevalenti del soggetto. Continua la monitorizzazione della terapia farmacologica mantenendo stabilmente i dosaggi acquisiti.
Dal quinto all'ottavo incontro si valutano gli schemi prevalenti (catastrofismo, esigenza di controllo, costrizione), si identificano e si eliminano i comportamenti protettivi residui, si stimola ancora l'autoosservazione.
Continua la verifica degli esercizi comportamentali, l'analisi delle crisi e delle ricadute favorendone una rilettura a questo punto centrata sugli schemi prevalenti del soggetto.
Quest'ultima parte della terapia prevede la diminuizione dei dosaggi e lo stimolo all'osservazione da parte del soggetto delle proprie reazioni emotive e delle strategie per equilibrarle; lo scalaggio farmacologico è importante proprio perchè attraverso questo lavoro di osservazione il soggetto può identificare gli eventi e gli accadimenti che anticipano la reazione emotiva e metterla in correlazione e può sviluppare la capacità di associare le sensazioni fisiche a pensieri ed emozioni coerenti al filone della storia personale.
Al nono incontro si valuta la capacità del soggetto di associare i pensieri alle emozioni attraverso l'analisi delle situazioni; si rinforza l'autostima attraverso l'accentuazione degli atteggiamenti positivi.
Si favorisce la prevenzione delle ricadute stimolando ancora al soggetto alla comprensione del sintomo riguardo agli eventi e rendendolo attivamente partecipe alla diminuzione del dosaggio farmacologico.
Dal decimo al dodicesimo incontro si chiude il protocollo verificando il lavoro svolto, terminando lo scalaggio della terapia e organizzando un eventuale progetto successivo.
In questa fase è importante che il paziente percepisca una sua diretta responsabilità nel processo di miglioramento dei sintomi.
Al termine del trattamento vengono nuovamente somministrate le scale di autovalutazione e si valuta l'eventualità di un progetto a lungo termine che può includere anche l'invio in psicoterapia standard.


Bibliografia

1. Barlow DH, Gorman JM, Shear MK, Woods SW. Cognitive-behavioral therapy, imipramine, or their combination for panic disorder: A randomized controlled trial. JAMA 2000 May 17;283(19):2529-36.
2. Barlow, D. H. (1988). Anxiety and its disorders: The nature and treatment of anxiety and panic. New York: Guilford Press.
3. Beck AT, Emery C, Greenberg RL. (1985). Anxiety Disorders and phobias: a Cognitive Perspective. New York: Basic Books.
4. Biondi M, Picardi A. Attribution of improvement to medication and increased risk of relapse of panic disorder with agoraphobia. Psychother Psychosom. 2003 Mar-Apr;72(2):110-1; author reply 111.
5. Bowlby J. Developmental psychiatry comes of age. Am J Psychiatry,1988;145,1-10 (trad.it. Dalla teoria dell'attaccamento alla psicopatologia dello sviluppo, Rivista di Psichiatria, 23, 2, 57-68).
6. Bridler R, Umbricht D. Treatment of panic disorder with combination of SSRI and cognitive-behavioral therapy. Psychiatr Prax. 2001 Jul;28(5):244-5.
7. Chambless DL, Gillis MM. Cognitive therapy of anxiety disorders. J Consult Clin Psychol. 1993 Apr;61(2):248-60.
8. Clark DM (1988). A cognitive model of panic attacks. In: S. Rachman & JD Maser (Eds.), Panic: Psychological Perspectives (pp. 71-89). Hillsdale, NJ: Erbaum.
9. Clark DM. A cognitive model of panic. Behaviour Research and therapy. 1986;24, 461-470.
10. Clum GA, Clum GA, Surls R. A meta-analysis of treatments for panic disorder. J Consult Clin Psychol. 1993 Apr;61(2):317-26.
11. Cox BJ, Swinson RP, Lee PS. Meta-analysis of anxiety disorder treatment studies. J Clin Psychopharmacol. 1992 Aug;12(4):300-1.
12. de Beurs E, van Balkom AJ, van Dyck R, Lange A. Long-term outcome of pharmacological and psychological treatment for panic disorder with agoraphobia: a 2-year naturalistic follow-up. Acta Psychiatr Scand 1999 Jan;99(1):59-67.
13. Foa EB, Franklin ME, Moser J. Context in the clinic: how well do cognitive-behavioral therapies and medications work in combination? Biol Psychiatry. 2002 Nov 15;52(10):987-97.
14. Galassi F., Salvatori S., Cabras P.L. (1992). Il significato del farmaco nella relazione terapeutica con soggetti depressi. Psichiatria e Psicoterapia analitica, 11, 2, 203-210.
15. Goldstein AJ, Chambless DL. A re-analysis of agoraphobia. Behaviour Therapy 1978, 9, 47-59.
16. Gould RA, Otto MW, Pollack MH (1995). A meta-analysis of treatment outcome for panic disorder. Clin Psychol Rev 15:819-44.
17. Guidano VF, Liotti G. Cognitive processes and emotional disorders. 1983, Guildford press, New York.
18. Karasu TB. Psychotherapy and pharmacotherapy: toward an integrative model. Am J Psychiatry. 1982 Sep;139(9):1102-13.
19. Kelly GA. The psychology of personal constructs. 1955, Norton & Co. Inc., New York.
20. Kilic C, Noshirvani H, Basoglu M, Marks I. Agoraphobia and panic disorder: 3.5 years after alprazolam and/or exposure treatment. Psychother Psychosom 1997;66(4):175-8.
21. Klosko JS, Barlow DH, Tassinari R, Cerny JA. A comparison of alprazolam and behavior therapy in treatment of panic disorder. J Consult Clin Psychol. 1990 Feb;58(1):77-84
22. Margraf J, Barlow DH, Clark DM, Telch MJ. Psychological treatment of panic: work in progress on outcome, active ingredients, and follow-up. Behav Res Ther. 1993 Jan;31(1):1-8.
23. Marks IM, Swinson RP, Basoglu M, Kuch K, Noshirvani H, O'Sullivan G, Lelliott PT, Kirby M, McNamee G, Sengun S, et al. Alprazolam and exposure alone and combined in panic disorder with agoraphobia. A controlled study in London and Toronto. Br J Psychiatry 1993 Jun;162:776-87.
24. McLean P.D. A Triune Concept of the Brain and Behaviour. University of Toronto Press, 1973.
25. Modigh K, Westberg P, Eriksson E. Superiority of clomipramine over imipramine in the treatment of panic disorder: a placebo-controlled trial. J Clin Psychopharmacol. 1992 Aug;12(4):251-61.
26. Nadiga DN, Hensley PL, Uhlenhuth EH. Review of the long-term effectiveness of cognitive behavioral therapy compared to medications in panic disorder. Depress Anxiety. 2003;17(2):58-64.
27. Otto MW, Pollack MH, Maki KM. Empirically supported treatments for panic disorder: costs, benefits, and stepped care. J Consult Clin Psychol. 2000 Aug;68(4):556-63.
28. Pollack MH, Doyle AC. Treatment of panic disorder: focus on paroxetine. Psychopharmacol Bull. 2003 Spring;37 Suppl 1:53-63.
29. Rayburn NR, Otto MW. Cognitive-behavioral therapy for panic disorder: a review of treatment elements, strategies, and outcomes. CNS Spectr. 2003 May;8(5):356-62.
30. Razran G. The observable unconscious and the inferable conscious in current Soviet psychophysiology: interoceptive conditioning, semantic conditioning, and the orienting reflex. Psychological Review, 1961, 68, 81-147.
31. Roth A., Fonagy P. (1996), What works for whom? A critical Review of Psychotherapy Research, Guildord, New York; trad. it. (1997) Psicoterapie e prove di efficacia: quale terapia per quale paziente. Il Pensiero Scientifico Editoriale Roma.
32. Salkovskis PM, Clark DM, Hackmann A. Treatment of panic attacks using cognitive therapy without exposure or breathing retraining. Behav Res Ther. 1991;29(2):161-6.
33. Sawer-Foner (in Freni S. et al.). Implicazioni psicoterapeutiche in psicofarmacologia clinica. Psicoterapia e Scienze Umane, F.Angeli, N.4.1988.
34. Seligman M.E.P. Phobias and preparedness. Behavior Therapy, 1971,2, 307-320.
35. Sheikh JI, Swales PJ. Treatment of panic disorder in older adults: a pilot study comparison of alprazolam, imipramine, and placebo. Int J Psychiatry Med. 1999;29(1):107-17.
36. Spiegel DA, Bruce TJ. Benzodiazepines and exposure-based cognitive behavior therapies for panic disorder: conclusions from combined treatment trials. Am J Psychiatry. 1997 Jun;154(6):773-81.
37. van Balkom AJ, Bakker A, Spinhoven P, Blaauw BM, Smeenk S, Ruesink B. A meta-analysis of the treatment of panic disorder with or without agoraphobia: a comparison of psychopharmacological, cognitive-behavioral, and combination treatments. J Nerv Ment Dis 1997 Aug;185(8):510-6.
38. Verster JC, Volkerts ER. Clinical pharmacology, clinical efficacy, and behavioral toxicity of alprazolam: a review of the literature. CNS Drug Rev. 2004 Spring;10(1):45-76.
39. Wagstaff AJ, Cheer SM, Matheson AJ, Ormrod D, Goa KL. Spotlight on paroxetine in psychiatric disorders in adults. CNS Drugs. 2002;16(6):425-34.
40. Wells A. Cognitive Therapy of Anxiety Disorders. A Practice Manual and Conceptual Guide. 1997, John Wiley & Sons, Ltd. Tr. It. Trattamento cognitivo dei disturbi d'ansia, McGraw-Hill Italiana, Milano,1999.
41. Whittal ML, Otto MW, Hong JJ. Cognitive-behavior therapy for discontinuation of SSRI treatment of panic disorder: a case series. Behav Res Ther. 2001 Aug;39(8):939-45.
42. Zarate R, Agras WS. Psychosocial treatment of phobia and panic disorders. Psychiatry. 1994 May;57(2):133-41.

* Centro di Terapia Cognitivo-Comportamentale.
U.O. di Psichiatria.
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche.
Università di Firenze.

PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> ATTACCHI DI PANICO