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Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXV, 1

Fra Djinn e Super-io.
La relazione terapeutica possibile fra persone di mondi altri

Alberto Merini, Annalisa Vigherani

 
Gli autori focalizzano la relazione terapeutica tra persone appartenenti a culture diverse, sulla base della loro esperienza terapeutica con migranti africani (Magreb e Africa sub-sahariana francofona) di prima generazione. Con molte di queste persone, l'esperienza mostra che spesso l'ascolto terapeutico, unito all'instaurarsi di un reciproco rapporto di fiducia, è rapidamente efficace. Un'osservazione recente di Nathan, riportata dagli AA, sottolinea come, pur nell'incontrovertibile universitalità dell'uomo, ogni persona, essendo "fabbricata" da una lingua, è diversa dall'altra, osservazione di particolare interesse per un terapeuta. Inoltre, se in occidente l'origine del male viene cercata all'interno della persona, in Africa è cercata all'esterno. Due diverse teorie scientifiche sul male: Super-io e Djinn, da cui due differenti orientamenti nella terapia, quello occidentale, centrato sul soggetto, l'altro sull'esterno rispetto al soggetto.
In Africa, come osservato da Collomb (1978), il guaritore si chiede chi ha provocato la malattia, essendo la concezione della malattia sociale e di male visto come effetto di un desiderio altrui, ad esempio antenati o spiriti (Rab, Djinn, ecc.) o stregoni antropofagi o effetto di una magia attiva. Tuttavia, si è visto che, nella pratica clinica, i confini fra le culture non appaiono così rigidi, anzi si scoprono punti in comune per avviare un rapporto terapeutico. I miti testimoniano della presenza degli dei in vari luoghi della terra, con tracce nelle forze psichiche di molti popoli, a partire dalle quali è possibile cominciare a riconoscere elementi comuni su cui costruire la relazione terapeutica Nel gruppo inventato da Nathan, con i pazienti e i loro familiari, si indaga sul linguaggio e sui proverbi, una sorta di ricerca delle "tracce degli dei".
Da un punto di vista antropologico, tenendo presenti i contributi di De Martino, osserviamo che il concetto della malattia influenzata dall'esterno, come nel caso del malocchio (animo malevolo veicolato dallo sguardo) fa parte della cultura italiana, in tutte le classi sociali, col suo corredo di "indemoniati" e di esorcisti, che sono in grado di effettuare una diagnosi differenziale tra presenza del demonio e malattia mentale e di procedere di conseguenza. Lo stesso avviene nell'Africa mediterranea, ove gli esperti stabiliscono se un quadro sintomatologico sia dovuto ai Djinn o ad una malattia mentale. Facendo alcuni esempi clinici, gli AA rilevano come per molte persone, di diversa cultura, il ricorso all'eziologia esterna sembri più un automatismo arcaico, piuttosto che un dato culturale forte.
Un dato che lascia stupiti è come certi aspetti culturali "permangano a lungo in modo sotterraneo e, anche quando tutto sembra procedere bene, possano essere attivati dando luogo a sofferenza e dolore (con l'aumento dei ricongiungimenti e in base alla nostra esperienza, ci sembra che questo aspetto sia un problema serio, da trattarsi con molta cautela)" (ibid., p. 65).
L'eziologia esterna intesa come "maledizione" appare invece come un dato culturale debole, specie in caso di protratta lontananza dal paese di origine. La cultura stessa appare stratificata e in movimento. La questione importante è costituita dall'acquisizione della responsabilità individuale. Spostando il fuoco sulla terapia, con riferimento alla psicoanalisi, oggi nessuno più dubita dell'importanza della relazione come fattore terapeutico. Come messo in luce da Kohut, l'essenza del processo di guarigione non è necessariamente né esclusivamente nella sfera conoscitiva in quanto tale, anzi, la crescita della sfera conoscitiva non sempre si verifica, né è essenziale. Più recentemente Gabbard si è chiesto se il cambiamento sia frutto di buone interpretazioni esplicative oppure dalla relazione terapeutica in sé. Ormai, tuttavia, è generalmente accettato che la relazione terapeutica rappresenti un importante fattore terapeutico. Eagle ha notato come l'interazione transfert-controtransfert divenga essenzialmente equivalente a quella paziente-terapeuta (Eagle, 2000). Modell, ha poi chiarito come ciò che accade in una relazione fra due persone, non è solo nella mente del soggetto. Bolko e Merini, svolgendo dettagliate ricerche sulla identificazione proiettiva, specie con pazienti gravi, e su dati della letteratura, hanno evidenziato l'esistenza di "un insieme forte o una convergenza di dati empirici in favore della trasmissione non conscia di materiale psichico da una persona all'altra (...) intendendo per trasmissione non conscia una trasmissione che non si basa su dati percettivo-sensoriali comunque intesi" (ibid., p. 67) , proprio secondo l'osservazione di Freud, che "l'inconscio di una persona può reagire all'inconscio di un'altra eludendo il conscio" (Freud, 1915), cioč a dire una comunicazione extrasensoriale fra inconsci, sottolineando però che non è il contenuto ad essere inconscio, ma la trasmissione (Bolko, 1990). Qui gli AA ricordano un'importante osservazione di Pier Francesco Galli: " Il problema è in che misura trarre insegnamento dalle cose, non per scaricare sulla persona che stiamo aiutando in quel momento il nostro problema esistenziale e gnoseologico, bensì per mantenere aperto il canale conoscitivo. La nostra curiosità conoscitiva, tra l'al-tro, ci permette di non essere sopraffatti dalla patologia. Già Racamier nel 1954 aveva scritto che uno dei modi, per chi lavora con gli psicotici, di controllare l'invasione del mondo psicotico, è quello di avere un interesse intellettuale e conoscitivo per poter con-servare la propria autonomia. L'autonomia è importantissima per evitare la sopraffazione, non da parte dell'altro come persona, ma dalla ripetitività e dal forte impatto con la sua patologia" (Galli, 1996) (ibid., p. 68, n.13).
I fatti salienti sono dunque:
"- l'importanza della relazione come fattore terapeutico;
- il fatto che la relazione non avviene fra un manichino interpretante e un paziente, ma fra due persone, due oggetti reali non riconducibili, o non totalmente riconducibili a rappresentazioni, i quali si influenzano a vicenda;
- l'esistenza di una trasmissione non conscia di materiale psichico da un oggetto reale all'altro. Anche sotto il profilo della psicoanalisi, non sembra esservi un rigido confine fra eziologia interna ed eziologia esterna" (ibid., p. 68).
Tornando ora al lavoro con i migranti intrapreso dagli AA, essi notano che negli anni la "base logica dell'intervento" è rimasta la stessa, sempre a partenza dal presupposto che, per programmare un intervento terapeutico, occorre conoscere sia la situazione del paziente, che quella del terapeuta e della realtà ambientale e i reciproci rapporti. Da tenere sempre presente che la psicoanalisi, in quanto tecnica di trattamento, ha un campo di applicazione limitato e specifico, mentre il suo corpus di conoscenze costituisce una base assai ampia per: valutare e diagnosticare la situazione psicopatologica individuale ; la relazione fra paziente e terapeuta; il "livello del fallimento evolutivo" (Zetzel) per tutte le situazioni psichiatriche, e conseguentemente per formulare ipotesi di intervento, anche con tecniche lontane dalla psicoanalisi (Merini, 1977).
Sempre partendo dalla considerazione che il controtransfert, purché riconosciuto e non agito, è utilissimo per valutare la situazione psicopatologica del paziente e quella di rapporto fra terapeuta e paziente (Merini, 1977), viene poi messo in luce dagli AA il problema della relazione terapeutica. Stabilire una relazione terapeutica è una specifica e complessa capacità professionale, mettendo in gioco nei due partecipanti componenti affettive e di comunicazione profonde e non consce, comprese angoscia, resistenze e le relative difese. Freud raccomanda, per avviare bene un trattamento, l'immedesimazione, cioč di dimostrare un interesse serio, eliminando accuratamente le resistenze. Oggi si aggiunge la capacità di ascolto empatico, l'attenzione al livello non verbale, la capacità di coinvolgere attivamente il paziente.
Tornando al lavoro coi migranti, fermo restando valido quanto ricordato finora, gli AA sottolineano tuttavia alcune peculiarità. E' innanzi tutto importante conoscere le relative differenze culturali ( vedi come base i lavori di Parin e Nathan di etnopsichiatria, portati poi avanti anche da Morgenthaler) In secondo luogo, la nostra conoscenza dei diversi costumi ci permette di attivare l'empatia , facendo sentire al paziente di essere compreso, cioč accettato da un oggetto-Sé arcaico idealizzato, con funzione protettiva e coesiva (Merini, 1993). Come osservato da Zempleni (1985), l'immigrato malato va dallo psichiatra o dallo psicoterapeuta perché venga compresa la propria profonda ambivalenza di fronte alle vecchie credenze e alle abitudini del paese di origine, punto di riferimento per la propria identità. Lo spazio tra i due mondi del migrante è pieno di problemi universali:sesso, rivalità, tradimento, invidia, che non mettono in gioco l'identità.
Viene quindi affrontata la questione del linguaggio. spessissimo il migrante manifesta due desideri: parlare in italiano e a tu per tu coi terapeuti, il che ha a che fare con autostima e componenti relazionali. Inoltre, certi argomenti "scabrosi" di carattere intimo personale (aborto, abuso sessuale, relazioni extraconiugali ecc.) vengono più facilmente trattati a tu per tu che non in presenza di connazionali traduttori. C'è infine lo spinoso problema della diagnosi, faticosa da riconoscere per la nostra cultura occidentale , con conseguente difficoltà sul piano terapeutico. Col tempo, gli AA , ad esempio, si sono resi conto che, fra migranti africani,l'elevata frequenza di diagnosi di Psicosi NAS, fosse piuttosto da riferire alla bouffée delirante provocata da una reazione a qualcosa che si risolveva in tempi assai brevi, più forma depressiva che psicosi. Oggi il problema della diagnosi all'occidentale non si pone più. Indubbiamente, non è facile abbandonare le conoscenze che sono parte integrante della nostra identificazione di ruolo terapeutico. Permane il conflitto delle teorie e delle culture.
Venendo al piano tecnico. i terapeuti presenti sono sempre due, in genere uomo e donna, il che facilita il confronto, a colloquio ultimato. Infatti, come notato da Nathan, appartiene alla sfera controtransferale anche la possibilità di rimanere affascinati da racconti su stregoni, Djinn e così via., tanto da considerare il paziente non malato, bensì informatore. Inoltre, la presenza di due evita il tabù riguardo alla comunicazione di un problema personale, intimo, in situazione duale, che, per l'africano, può avere connotazioni seduttive. Infine la coppia apporta maggiori livelli di rassicurazione e protezione riguardo al mantenimento dell'identità terapeutica e della curiosità intellettuale.
Le letture dei colloqui sono duplici: una psicodinamica e una culturale, seguita dalla valutazione dei rapporti intercorrenti. Generalmente, si ha l'impressione che la psicoterapia serva soprattutto a liberare il progetto migratorio il quale, a sua volta, attiva un processo di autoterapia, il tutto nell'arco di 6-8 incontri, spesso quindicinali, o mensili o quando è possibile per il paziente. La pratica degli AA è caratterizzata da un duplice aspetto, psicoterapico e socio-educativo (aiuto per problemi amministrativi, di lavoro o di tempo libero, ecc ). "In sostanza, nel lavoro con i migranti ci consideriamo dei "bricoleurs" che utilizzano i più disparati oggetti terapeutici. Ma, come si osservava all'inizio, in quanto psicoterapeuti crediamo soprattutto alla relazione, alla parola e all'ascolto come fattori terapeutici di per sé. Siamo convinti della relatività delle culture, ma anche della possibilità di un dialogo fra esse e della utilità di una curiosità rispettosa delle diversità. E il dialogo avviene sui problemi, dopo aver reciprocamente saggiato la possibilità di fidarsi" (ibid., p. 77).

Un punto di focalizzazione della questione, quello culturale, su cui desidero aggiungere qualche parola: l'osservazione di Nathan sul fatto che se in occidente l'origine del male viene cercata all'interno della persona, in Africa è cercata all'esterno. In questo articolo si è osservato che in definitiva, nella pratica clinica, i confini fra le culture non appaiono così rigidi, anzi compaiono punti in comune nell'avviamento del rapporto terapeutico.
I miti stessi testimonino, come ricordato dagli AA, della presenza degli dei in vari luoghi della terra, e le loro tracce, presenti nelle forze psichiche di molti popoli, permettono di riconoscere elementi comuni su cui costruire una relazione terapeutica. Linguaggio e proverbi , dice Nathan, recano "tracce degli dei". Da un punto di vista antropologico, mi è parso centrale il rilievo del fatto che il concetto della malattia influenzata dall'esterno non sia soltanto peculiarità dei migranti, ma sia universale, nel nostro caso appartenga al popolo italiano (si porta qui l'esempio del malocchio, degli "indemoniati" e dei relativi esorcisti, in grado di effettuare da noi una diagnosi differenziale tra presenza del demonio e malattia mentale, proprio come nell'Africa mediterranea, gli esperti stabiliscono se un quadro sintomatologico sia dovuto ai Djinn o ad una malattia mentale).
Dunque, questo oscillare "interno-esterno" appartiene a tutti i popoli e a tutte le epoche. Un esempio concreto: il folle, nel Medio Evo (come nell'antichità classica), era considerato sacro, in quanto manifestazione del demone o della divinità: il male dall'esterno. Nella società occidentale, si comincerà solo nel 1500 a porre la follia tra le manifestazioni terrene, finché nel secolo dei lumi la follia verrà vista nella sua "umanità" e prenderà corpo la figura dello psichiatra. Ma questo oscillare di "vertice" osservativo, unito al mix di scienza e religione, strutturatosi nel tentativo di dare ordine al caos, sia quello interno che quello (proiettato?) della natura che ci circonda, non ci ha mai abbandonato, producendo, in tempi diversi e lontani fra loro, teorie spesso non basate su osservazioni empiriche, ma su una sorta di comunque "fideistica" credenza riguardo alla struttura della realtà, che certamente molto ha a che fare con un tentativo dell'uomo di evitare l'angoscia dell'ignoto, "il nulla dell'esistenza", come lo denominava Michel Foucault , che tale nulla legava strettamente proprio alla follia.

Quello che a noi terapeuti dinamicamente orientati appare oggi centrale è non cancellare la singolarità della persona. Non vanno in questa direzione le aggiunte al DSM-IV, Culture-Bound Syndromes, cioé disordini cultura-specifici, un concetto ancora basilare dell'antropologia medica, ma verosimilmente obsoleto e fuorviante, come tutti i concetti che tendono a classificare rigidamente etichettando nel campo della malattia. Dunque se, accanto al modello psicologico, è essenziale nella diagnosi tenere costantemente presente la cultura di origine, cioč il livello antropologico, senza postulare modelli di comportamento specifici rigidi, occorre parallelamente sempre riflettere sulle relazioni tra psicopatologia e contesto culturale, continuando senza sosta a stabilire dentro di sé delle correlazioni tra i comportamenti culturali originari dei migranti e i dati metapsicologici che sono alla base di un lavoro dinamicamente orientato.

Parte di questo articolo è stato oggetto di una relazione tenuta al Convegno "Co-municare tra mondi altri", Bologna, 31 maggio 2001

Alberto Merini, Annalisa Vigherani, Centro di Psichiatria Multietnica "Georges Devereux", Istituto di Psichiatria dell'Università, Via C. Pepoli 5, 40123 Bologna
 

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