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Psicoterapia e Scienze Umane, 2001, XXXIV, 2

Cambiamenti nella teoria della conversazione e cambiamenti nella relazione con i pazienti Alzheimer

Giampaolo Lai

 
La conversazione - dice Lai - va distinta dalla comunicazione per ragioni cliniche e teoriche. La comunicazione è "un processo interattivo di informazione, mediato da qualsiasi tipo di segnali o simboli - visivi, acustici, gestuali, anche linguistici, - e governato da regole logiche e pragmatiche; mentre consideriamo la conversazione come un oggetto puramente linguistico, cioè una sequenza di elementi discreti - le parole dette da una persona in presenza di un’altra persona - governata da regole grammaticali." (ibid., p. 55).
Nei pazienti Alzheimer la funzione della comunicazione ha subito una dissociazione modulare, Lai la chiama "conversazione senza comunicazione"; non così la funzione della conversazione. Data la dissociazione modulare tra comunicazione e conversazione è opportuno, nel caso del paziente Alzheimer, focalizzare l’interesse sulla facoltà ancora valida, la conversazione. In questo approccio va attuata una costante restituzione al paziente delle forme lessicali e grammaticali del suo linguaggio. Gli scopi sono duplici: sopravvivenza della conversazione, e, attraverso le operazioni di eco e di ripresa delle parole ascoltate e pronunciate, ampliamento della lunghezza dei turni verbali del paziente.

Una ricerca del Progetto Alzheimer, a Milano, basata su testi trascritti di conversazioni tra professionisti e pazienti Alzheimer, sta perseguendo due obiettivi: conoscitivo e pratico: aumento delle conoscenze nella parte inesplorata della parola e della conversazione; reperimento degli indicatori precoci delle modificazioni del linguaggio nell’Alzheimer.
Segue una descrizione del dispositivo sperimentale della situazione conversazionale. Le conversazioni, condotte da un professionista, avvengono tra professionista e paziente, in una situazione precisa e ripetuta, in una stanza apposita, e con un preciso progetto, cioè facilitare tra gli interlocutori una situazione simile quanto più possibile possibile a una normale conversazione, senza intenzioni pedagogiche, o preoccupazioni psicoterapiche, o rilevazioni psicometriche; il tutto con una continuità nel tempo, ripetendosi a cadenze fisse.
Fino all’estate del 2000, sono stati raccolti una quarantina di testi, filtrati con griglie grammaticali, sintattiche, lessicali e conversazionali. I risultati vengono sintetizzati in quattro punti, riguardanti i parametri della coesione e della coerenza testuali, della negoziazione dei motivi narrativi, delle regole della cortesia conversazinale. I legami tra gli elementi testuali dal punto di vista formale (coesione testuale) risultano relativamente buoni: le proposizioni sono ben formate, le regole grammaticali sono conservate, buona la sequenza soggetto, predicato, complemento. La coerenza testuale, cioè i legami tra i significati delle parole, o tra quelli delle proposizioni di un testo, appare invece relativamente compromessa. La negoziazione dei motivi narrativi, contenuti ed elementi di informazione, è spesso scarsa o manca del tutto, come se il malato non avesse colto le parole della persona che gli sta parlando come mediatrici di informazioni. Riguardo alla cortesia conversazionale, cioè ad aspettare che l'altro abbia finito di parlare per replicare, essa è sempre presente.
Questi quattro punti mettono in un luce una dissociazione tra conversazione e comunicazione; in particolare si può affermare che "il paziente Alzheimer parla bene ma non si fa capire; intrattiene buone conversazioni ma non trasmette informazioni comunicative. In una formula ancora più succinta diciamo che: il paziente Alzheimer sa conversare ma non sa comunicare" (ibid., p. 60). Questo riflette una presenza e una assenza; competenza e mancanza di competenza.
A questo punto la domanda è se il linguaggio serve a comunicare. Finora si è colto un sintomo irreversibile della dissoluzione della funzione comunicativa. Va peraltro considerato che le maggiori ricerche di psicolinguistica e neuropsicologia si inseriscono nell’assioma che dominava la seconda metà del 900, per cui il linguaggio serve a comunicare, cioè è una funzione della comunicazione .
I ricercatori dell’Accademia delle Tecniche Conversazionali, che fanno parte del gruppo di ricerca i Milano, sono riusciti a dissociare conversazione e comunicazione, trattandoli come oggetti di studio appartenenti a mondi eterogenei, attraverso il dispositivo sperimentale della raccolta dei dati del linguaggio Alzheimer come situazione conversazionale (Lai, 2000). "Questo dispositivo conversazionale, volto a raccogliere il testo autonomo delle parole che si producono in una conversazione, ha sostituito il collaudato dispositivo sperimentale dell’investigazione psicometrica che, attraverso il linguaggio, considerato comunque una funzione della mente, si propone di misurare le alterazioni mentali." (ibid., p. 61).

Le esperienze fatte dal 1989 al 2000 hanno messo a disposizione strumenti concettuali indispensabili per gestire le nuove situazioni di conversazioni, sia di pazienti con diagnosi di psicosi dissociativa che di pazienti con diagnosi di Alzheimer , che presentano dissociazione modulata tra funzione conversazionale e funzione comunicativa del linguaggio. Tali strumenti sono:
1. La funzione autoreferenziale del linguaggio: nelle teorie del Conversazionalismo si dà per implicito che la funzione originaria del linguaggio è produrre parole; esprimere i concetti della mente e riferirsi al mondo sono funzioni derivate e contingenti (Lai, 1995).
2. La conversazione è un fenomeno umano individuale che abita nel mondo della parola: secondo il Conversazionalismo, essa è la produzione, da parte di una persona in presenza di un’altra che parla e ascolta, di parole, organizzate in proposizioni attorno a un predicato, con eventualmente soggetto e complementi, in base alle regole della grammatica.
3. La comunicazione è la trasmissione di informazioni tra persone o animali e tra sistemi meccanici o elettronici . L'informazione va da un mittente a un ricevente, tramite segnali visivi, acustici, olfattivi, o corporei, mimici e comunque non verbali, oltre che attraverso messaggi verbali. Se il linguaggio verbale è quello umano, la comunicazione è valida per tutti gli animali, umani compresi: non abbiamo bisogno della grammatica per comunicare (Chomsky, 1994; Clark , 2000).
4. La competenza grammaticale costituisce la discriminante tra conversazione e comunicazione, anche se non garantisce la comunicazione. Tuttavia, è possibile comunicare senza competenza grammaticale ( vedi gli animali e i bambini prima dell’acquisizione del linguaggio e della grammatica). Mentre la conversazione richiede competenza grammaticale, la comunicazione necessita di competenza simbolica e dei significati.
Questi 4 assiomi conducono alla definizione grammaticale formale della conversazione dal vertice della teoria gram-maticale formale del Conversazionalismo, meno coagente della teoria della conversazione semantico-pragmatica o referenziale.
"La conversazione è una successione (non un’interazione) di turni verbali nella quale abita in posizione costitutiva la regola della cortesia conversazionale, che consente l’alternarsi a tempo debito dei turni verbali dei conversanti; e nella quale le funzioni comunicativa di informazioni e referenziale sono abitanti occasionali." (ibid., p. 63).
Quindi si possono avere conversazioni, come quelle con pazienti Alzheimer, in cui chi parla formula parole e frasi di cui può non conoscere il significato e cui il conversante risponde, senza sapere ciò che dice, né aver colto il significato di quanto gli è stato detto.

Aver scoperto la conversazione senza comunicazione è sia un contributo conoscitivo alle teorie del linguaggio sia un’indicazione precisa per modalità razionali terapeutiche di approccio al paziente Alzheimer. La teoria pragmatica e la teoria neuropsicologica cognitiva, che hanno dominato gli studi del linguaggio della seconda metà del 900, asserivano, la prima, che il disturbo di base del linguaggio dell’Alzheimer stava nella perdita della competenza comunicativa, e la seconda, che la patologia si trovava nella compromissione delle funzioni semantica e lessicale. Di conseguenza, la terapia consisteva in programmi di rieducazione e di riabilitazione delle funzioni compromesse.
Invece, la teoria del Conversazionalismo adotta la cura della conversazione, avendo individuato integra, nel linguaggio dell’Alzheimer, la funzione della conversazione . Di conseguenza, il Conversazionalismo ha orientato le sue strategie di cura, valendosi di strumenti e mezzi precedentemente esperiti sia nelle conversazioni psicoanalitiche, sia nel corso di conversazioni con pazienti con diagnosi di psicosi dissociativa.
In termini tecnici, il conversante opera una restituzione costante al paziente del possibile motivo narrativo del paziente. (Lai, 1993). In particolare, "anche in presenza di un turno verbale che gli appare incoerente, il conversante eviterà, per quanto possibile, di porre domande volte a chiarire ambiguità e confusione; eviterà di confrontare il paziente con possibili errori cognitivi per aiutarlo magari a risolverli; ma userà frasi semplici in cui restituisce al paziente i significati possibili delle sue parole, anche quando il conversante non è in grado di coglierli chiaramente, o perché non ci sono, o perché non gli sono accessibili" (ibid., p. 64).

Questo studio, che prosegue una linea di ricerca sulla parola e sul linguaggio che Lai persegue da lunghissimo tempo con rara competenza, e sempre tenendo fermo un vertice di osservazione e di intervento psicoanalitico, mi è parso estremamente interessante e ricco di molteplici spunti di riflessione. In primo piano, oltre all'interesse per la ricerca, emerge un ' attitudine estremamente valutativa per la persona, per quanto deprivata possa essere ed apparire. Questo mi sembra un importante messaggio di fondo, la restituzione di un' intatta dignità dell'uomo Alzheimer, con cui, come mostrano gli eloquenti esempi di Lai, è possibile intrattenere una umana, semplice conversazione.
Inoltre, è una mia impressione, tramite le parole semplici, a volte a specchio, a volte unicamente sintetizzanti o addirittura interpretative (secondo un modello analitico), il conversante riesce a comunicare al suo partner di conversazione il riconoscimento e il continuare a sussistere dell'esistenza di un "tu" con cui si può comunque intrattenere un legame di scambio affettivo.
Mi sembra anche che il conversante svolga una sorta di mediazione tra tutto quello che il suo interlocutore dice e quello che sembra essere il "nocciolo" del suo conversare, un qualcosa che può essere individuato, valorizzato col riconoscimento, condiviso, e come tale rafforzato, essendo noto al paziente stesso in quanto a partenza da lui stesso.
Questo fatto può costituire una sorta di "filo rosso" senza aspettative manifeste se non quella di continuare la conversazione, una sorta di pretesto per continuare a stare insieme, ma anche un potente mezzo per continuare ad esercitare e valorizzare l'intatta capacità conversazionale, rafforzando, con la positiva conferma, una capacità cognitiva, oltre che trasmettendo valorizzazione e rispetto.
Sappiamo dalla nostra esperienza di terapeuti che la verbalizzazione plasma il pensiero, tanto più in quanto questa verbalizzazione è nutrita dal sostegno emozionale del proseguimento partecipe e sensato di una conversazione da parte di ambo i conversatori, il che, cosa non da poco, non può non portare ad un innalzamento della stima di sè da parte del paziente Alzheimer, e, chissà, forse, anche ad un evitamento di aggravamento della patologia, forse al di là dell'ampliamento della lunghezza dei turni verbali del paziente di cui parla la ricerca.

Giampaolo Lai, Via Camperio 9, 20123 Milano.
Relazione presentata al Convegno Alzheimer: Malattia e Società, organizzato a Torino dalla Associazione "Alzheimer Piemonte", nei giorni 20 e 21 settembre 2000.

 

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