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Psicoterapia e Scienze Umane, 2001, XXXIV, 1

I pericoli della neutralità

Owen Renik

 
Da Freud in poi, gli analisti, tesi al benessere dei loro pazienti,  si sono sempre trovati davanti ad un conflitto relativo all'influenzamento. E' difficile che gli interventi analitici non siano significativamente determinati da qualche fattore personale che resta al di fuori della consapevolezza, perciò occorre stabilire dei principi di tecnica che  tengano in considerazione questo fatto. Uno di questi è il concetto di neutralità  analitica.
Secondo Renik, esso "è pieno di buone intenzioni ma non riesce comunque a svolgere il compito per il quale è stato formulato: esso non ci fornisce un obiettivo utile sul quale basarci mentre svolgiamo il nostro lavoro di analisi clinica" (ibid., p. 6). 
Il concetto è stato creato per contenere l'indebito influenzamento, ma ci ha poi incoraggiato a perpetuare le illusioni sul ruolo dell’analista nel processo psicoanalitico. Renik propone  una revisione del concetto di neutralità analitica che proceda lungo tre linee: 1) il concetto non tiene conto delle modalità di apprendimento in analisi e quindi non riesce a descrivere la relazione ideale tra giudizi dell’analista e conflitti del paziente; 2)  vede da un altro punto di vista il ruolo delle emozioni dell’analista nella tecnica analitica; 3) fa parte di una concettualizzazione non corretta del campo della tecnica analitica.
Da molti e da tempo si è mostrata l'impossibilità della neutralità, per l’analista. Renik si propone di dimostrare che essa, quand’anche possibile, non sarebbe neanche utile. L’A ricorda come Anna Freud raccomandasse all'analista di mantenersi equidistanti da Io, Es e Super-Io, onde non comunicare le personali opinioni, e salvaguardare l'imparzialità rispetto ai conflitti del paziente (ammesso che l'analista riesca a discernere correttamente quali siano i conflitti, e in particolare quelli da tener presenti, del paziente). Non è cosa semplice: come nota Raphling (1995), secondo cui qualsiasi linea interpretativa favorisce un aspetto del conflitto a spese di un altro, sicché, appena l’analista interpreta, si è già allontanato dall’atteggiamento di neutralità. In altre parole, l’unico modo per l’analista di essere neutrale è quello di essere inattivo! Non sembra dunque avere il minimo senso aspirare alla neutralità in quanto obiettivo tecnico. Shapiro (1984) aveva fatto la medesima osservazione. Altri (Poland, Kris, Hoffer) si sono pronunciati sulla neutralità, e Renik li ricorda brevemente.
All’A le diverse  elaborazioni del concetto di neutralità appaiono macchinose, e si chiede se non sarebbe più semplice concettualizzare l’analista al meglio delle sue possibilità operative come figura non neutrale. Inoltre, Renik ritiene che la neutralità non costituisca un ideale per cui l’analista debba sentirsi in dovere di lottare, tanto più che la neutralità ostacola il progresso di un’analisi produttiva, in cui talvolta un analista può e  deve esprimere giudizi riguardo a quale possa essere la risoluzione migliore di un conflitto, ma a volte invece l’analista non dovrebbe formarsene alcun giudizio, nè  comunicarlo. 
Perciò il concetto di neutralità è improbabile e nocivo. Più utile sarebbe occuparsi di quando e di come l’analista forma o non forma, comunica o non comunica al paziente i propri giudizi circa la risoluzione di un conflitto. 
Dopo aver riportato un caso clinico, l'A fissa la sua attenzione sull'apprendimento da parte del paziente nel contesto dell'analisi, il che avviene in modo dialettico, dato che egli presenta al paziente dei punti di vista nuovi, che ne mettono in crisi i vecchi : "Analista e paziente trovano una loro strada comune per giungere a un incontro cruciale tra tesi e antitesi, per così dire, e quindi lo risolvono attraverso un processo di negoziazione (Pizer, 1992)" (ibid., p. 16).
Talora si ha un confronto, non necessariamente un contraddittorio, l'importante è comunque che ci sia sempre consapevolezza, e che l'apprendimento avvenga  attraverso una serie di esperienze emozionali correttive inavvertite, se possibile,  riesaminate retrospettivamente, il che  costituisce  un nuovo enactment delle motivazioni inconsce di entrambi .
Tuttavia, secondo Renik, la neutralità dell’analista non facilita l'instaurarsi di un processo dialettico di apprendimento. E' l’analista che deve saper cogliere l’essenza degli sforzi del paziente considerando il suo punto di vista .e comunicando qualche valore o  giudizio specifico, dato che l'assoluta neutralità -seppure esista - porta l’analista fuori campo: "per lo sviluppo di un processo dialettico di apprendimento, è necessaria la partecipazione attiva e personalmente motivata dell’analista." (ibid., p. 17), il movimento verso quello che Ehrenberg (1992) chiama  "il margine intimo". Pertanto l’apprendimento costituisce un processo attivo che va ben al di là dell’introspezione guidata dal paziente, ma si muove verso l’apertura di un punto di vista differente da quello di partenza, anche se non necessariamente più valido di quello del paziente , bensì alternativo e stimolante. 
Renik aggiunge che  il cuore dell’attività analitica dell'analista sta nel far conoscere al paziente il proprio punto di vista  su questioni centrali e su come sta gestendo il conflitto.
Varie formulazioni da parte di psicologi di scuole diverse sono essenzialmente versioni rivedute e corrette della neutralità analitica, ribadendo il concetto per cui nell’attività analitica al paziente non vengano offerti  punti di vista personali dell’analista, che si mantiene imparziale, mirando a trovare i punti di vista del paziente. 
Il concetto di neutralità viene impiegato nel linguaggio comune  per denotare  il non coinvolgimento emotivo. Freud  usava il termine indifferenza, ma esiste una linea di pensiero, a partenza proprio da lui, secondo cui esiste una relazione cordiale tra analista e paziente. Ma questo si configurerebbe nell'extra-analitico: nel lavoro analitico, Freud intendeva  il concetto di neutralità come assunzione di un atteggiamento di distacco emotivo,  sottoscritto anche dal gruppo viennese , e protrattosi fino ai giorni nostri.Oggi invece si tende ad una condizione di base di equanimità affettiva, le cui deviazioni vengono usate ai fini di un lavoro autoanalitico chiarificante sull'intreccio transfert-controtransfert, poi utilizzabile da parte di un analista tornato di nuovo neutrale.
Ormai sappiamo che i nostri migliori pensieri si manifestano mentre sperimentiamo sentimenti di qualità e di intensità completamente diverse; le neuroscienze  (Damasio, 1994; Edelman, 1993) ci indicano come obsoleta la dicotomia tradizionale tra affetto e cognizione . Quindi, non sussiste più alcun motivo per considerare la neutralità affettiva come condizione facilitante e produttiva per il pensiero analitico, né che la comunicazione da parte dell'analista del proprio coinvolgimento emozionale al paziente crei ostacolo all’indagine analitica, anzi: l’interscambio affettivo è il vero  cuore dell’incontro analitico.
A proposito dell’autonomia del paziente e del campo della teoria analitica, Renik ritiene che l’autonomia del paziente sia favorita quando gli interventi dell’analista sono proposti per quello che sono: "giudizi personali, spesso ispirati dalla teoria, ma comunque sempre formati nel contesto del coinvolgimento emotivo dell’analista. In questo modo, vengono scoraggiate la sopravvalutazione irrazionale dell’esperienza dell’analista e la sua assunzione di un’autorità indebita." (ibid., p. 21).
In rapporto all' autodisvelamento dell’analista e alla prospettiva intersoggettiva, sembra che il concetto di neutralità analitica si muova in direzione opposta, favorendo la erronea persuasione che gli interventi analitici debbano essere liberi da giudizi e  sentimenti personali.
Così pure, la teoria della tecnica, se pure limita l'influenza dell’analista in modo più utile e meno restrittivo, non può tuttavia trasformarla in qualcosa di meno personale, poiché continua a comunicare anche i punti di vista individuali dell’analista, dato che non ci permette di determinare quale sia il contenuto che essi dovrebbero avere o il timing della comunicazione. "Una teoria della tecnica può tenere conto della soggettività dell’analista, ma non può eliminare tale soggettività dall’influenza che l’analista intende esercitare nel trattamento." (ibid., p. 22). 
Inoltre, essa può formare i giudizi personali dello psicoanalista, come nel caso dei disturbi narcisistici, concettualizzati da Kohut,  precedentemente considerati condannabili da un punto di vista morale.  
Secondo Renik, la riluttanza degli analisti ad abbandonare il concetto di neutralità analitica, nasce dal timore di essere accusati di usare una terapia non basata su fondamenta scientifiche, connotando l'analista in un consulente-confessore. 
In realtà, secondo l'A, la non neutralità giace nel cuore stesso del nostro metodo clinico, permettendo di rifiutare l'alone indebito di autorità. Le attuali discussioni sul  narrativismo, sull’intersoggettività dell’incontro psicoanalitico e i temi ad essa collegati mettono sempre più in luce la natura altamente personale del nostro lavoro e una visione veramente scientifica della psicoanalisi clinica come dialettica tra due partecipanti non neutrali.
Altro rischio, se non si rispetta la neutralità, è una sorta di "tutto fa brodo", che può facilitare lo sfruttamento dei pazienti da parte degli analisti. Rispetto a questo, la tecnica non può  funzionare con modalità preventiva, ma bisogna ricorrere alle indispensabili norme etiche stabilite nelle comunità professionali.
Renik conclude: "Se non la neutralità, allora cosa? Come potremo caratterizzare la partecipazione ottimale dei giudizi personali e dei sentimenti dell’analista nel lavoro dell’analisi clinica? Il tentativo di rispondere a queste domande costituisce il compito che si trova di fronte a noi" (ibid., p. 25).
E, dato che aumenta la nostra fiducia nella scienza psicoanalitica , possiamo riconoscerne i limiti e i punti di convergenza tra il nostro lavoro e quello di altri terapeuti. Per questo, è necessario lasciarci alle spalle l’idea della neutralità, concettualizzando in modo più utile l’influenza costruttiva dell’analista.

Qualche perplessità  di chi recensisce riguardo a questo scritto. 
A  dire di Renik, il concetto di neutralità analitica non è più utile, né tanto meno costituisce una linea direttiva tecnica. Fermiamoci su questo punto per qualche spunto di riflessione.
Innanzi tutto, non credo che si possa negare né sottovalutare che la neutralità sia una di quelle qualità  imprescindibili che definiscono l'atteggiamento dell'analista nella cura, impostasi  fin dagli inizi della psicoanalisi, proprio in contrapposizione ai metodi basati sulla suggestione, a cominciare dalla stessa ipnosi, da cui peraltro Freud ha mosso i primi passi. 
Se Freud inizialmente usava il termine indifferenza, ad intendere il guardarsi da ogni influenza intenzionale e cosciente, è pur vero che subito dopo gli psicoanalisti cominciarono a parlare di neutralità. Pregnante al proposito l'immagine di Ferenczi (1912), che avvicina la situazione dell'analista al lavoro a quella dell'ostetrico, spettatore di un processo naturale, e attivo solo nei momenti critici, il che credo che tutti noi facciamo, quando assistiamo allo scorrere del processo sull'onda della emozionalità del paziente, pronti ad intervenire solo quando questo flusso vitale si arresta.
Qui mi pare di vedere che c'è una separazione soggetto-oggetto, che garantirebbe la neutralità, anche se bisogna riconoscere che, entrando nel campo dell'intenzionalità, cioè di un obiettivo perseguito dall'analista, è possibile che ci si collochi comunque al di fuori della neutralità. 
Questione molto complessa, quindi. Queste sfaccettature sembrano estranee a Renik, che  riduce il concetto tecnico di neutralità ad un residuato della nozione ampiamente screditata  di un processo analitico, in cui il paziente proietta sé su uno schermo assolutamente bianco e neutro.
La lezione di Hartmann (1966), poi, ha mostrato come sia importante il concetto di "attività di neutralizzazione" da parte del terapeuta, che implica una progressiva distanza dal conflitto, dando luogo ad un processo dinamico, che raggiunge e costruisce neutralità , continuando a neutralizzare il conflitto, per cui una eventuale regressione si configura come una regressione al servizio dell'Io e della sua funzione integratrice. Già  Alexander (1956), nel suo famoso articolo che sfortunatamente ha dato luogo a non pochi fraintendimenti, aveva sottolineato che  quello che va salvaguardato è l'esame di realtà del paziente. In tempi più recenti, Friedman ha sottolineato come  l'atteggiamento tradizionale di neutralità faciliti l'indagine del paziente, in quanto gli mette a disposizione "un oggetto umano  quanto più semplice e generico possibile, consentendogli al contempo di ricevere un feedback coerente e minimo" (Friedman, 1993, p. 88). 
E' veramente il caso di pensare di mettere il concetto di neutralità analitica nell'armamentario delle cose obsolete da buttare via, o si tratta di un concetto altamente complesso, tutto da ripensare

Bibliografia aggiuntiva del recensore:
ALEXANDER F., FRENCH T.M. (1946), Psychoanalytic Therapy: Principles and Applications, New York, Ronald Press (trad. it. dei capitoli 2, 4 e 17: ALEXANDER F, La esperienza emozionale correttiva, Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 85-101).
FERENCZI S. (1912), Sei quadri sintomatici passeggeri nel corso dell'analisi, Opere, I, p. 30, Guaraldi
FRIEDMAN L. (1993), Anatomia della psicoterapia, Boringhieri, Torino
HARTMANN H. (1966), Psicologia dell'Io e problema dell'adattamento, Boringhieri, Torino

Questo articolo è comparso col titolo "The perils of neutrality" sulla rivista The Psychoanalytic Quarterly, 1996,  3: 495-317. Ringraziamo l’autore per avercene concessa la pubblicazione. Traduzione di Fabiano Bassi.

Owen Renik, 244 Myrtle Street, San Francisco, CA 94109, USA

 

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