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CONTEMPORARY PSYCHOANALYSIS
 

Volume 57

Winter 2021

Number 1
 
 

 

Vai all'Indice on-line del n. 1/2021 di Contemporary Psychoanalysis

 

In questo n. 1/2021, Steven Seidman discute la qualità dell'essere uomini da parte di pazienti e terapeuti, una qualità che è spesso trascurata in favore di altri aspetti quali razza, classe sociale, età, etc., e propone una revisione del concetto di fallicità in cui l'uomo non è visto come sicuro di sé ma come debole e ansioso. Noa Bar-Haim esplora lo stato di catastrofe interpersonale nei sopravvissuti a prolungati abusi infantili. Matt Aibel discute la sonnolenza dell'analista, un fenomeno molto più diffuso di quanto si creda. James E. Gorney parla della figura di Otto Will, di cui fu studente e poi collega per 23 anni, un famoso terapeuta che fu paziente di Harry Stack Sullivan e Frieda Fromm-Reichmann e che era umile, sempre disponibile e noto per la sua "arte della relazione". Mia Medina parla della curiosità non tanto del paziente di cercare su Internet informazioni sul proprio analista, quanto della curiosità dell'analista di fare la stessa cosa verso i propri pazienti. John Dall'Aglio propone un suo modo di concepire un fertile incontro tra psicoanalisi e neuroscienze.

Interessante in questo n. 1/2021 è la recensione di Arthur Fox di un libro del 2018 in due volumi curato da Lewis Aron, Sue Grand e Joyce A. Slochower, tre noti esponenti della psicoanalisi relazionale (Lew Aron è deceduto poco dopo lcuscita di questo libro): "De-idealizzare la teoria relazionale: una critica dall'interno" e "Decentrare la teoria relazione: una critica comparata" (Deidealizing Relational Theory: A Critique from Within. London: Routledge, 2018; Decentering Relational Theory: A Comparative Critique. London: Routledge, 2018). Questi due volumi sono interessanti perché mostrano bene una certa evoluzione della psicoanalisi relazionale e anche la sua ingenuità nel rendersi conto solo adesso di certi semplicismi che caratterizzano questo approccio. In questa recensione si legge, ad esempio, che certi concetti che erano stati al centro della psicoanalisi relazionale, come l'autenticità e la spontaneità, possono a volte trasformarsi in autoritarismo mascherato, o in una intrusività dell'analista che schiaccia e respinge il paziente. Non solo, a volte il paziente può sentirsi sopraffatto, spaventato o anche umiliato da un analista che insiste nel dialogo esplorativo, nell'indagare cosa accade nel qui e ora, spingendo nel sottosuolo certi stati mentali che invece potrebbero emergere. Viene detto apertamente che si era creduto nel mito che l'analista relazionale si conosce così bene da potersi permettere di essere autentico, quando invece forse andrebbe rivalutato il silenzio, che una volta veniva guardato con sospetto perché parte dell'atteggiamento "classico". E assieme al silenzio analitico vengono rivalutate le associazioni libere, che a suo tempo erano state criticate perché "monopersonali". Viene anche detto che mettere troppo in primo piano l'aspetto interpersonale rischia di sottovalutare la complessità del mondo interno del paziente e dello stesso analista. Il rischio insomma è quello di un'altra mistificazione dopo che era stata tanto demistificata la psicoanalisi classica. Pensare sempre che tutto quello che accade in seduta sia co-creato, come insegna la psicoanalisi relazionale, spesso e volentieri serve a non voler vedere il contributo specifico del paziente, come se la psicoanalisi relazionale fosse una difesa. Ci si chiede anche se non possa essere stato un errore aver criticato e abbandonato i concetti classici di neutralità, astinenza e regressione. Viene addirittura detto che un errore è stato quello di restringere l'attenzione al campo della diade paziente/terapeuta, dimenticando il campo esterno alla diade, quello sociale, della comunità. Lo nota Jessica Benjamin in una intervista nel secondo volume, affermando che gli analisti relazionali molto raramente si sono interessati ai problemi sociali. La Benjamin dice anche che gli analisti relazionali e i loro studenti dovrebbero avere una migliore "cassetta degli attrezzi" intrapsichica, cioè dovrebbero imparare a lavorare meglio sul mondo intrapsichico perché tendono a ignorarlo. Lew Aron, autore dell'ultimo capitolo del secondo volume, è critico persino dell'intero progetto di questo libro, perché non è facile fare una critica dall'interno dato che nessuno è così bene analizzato da vedere i propri errori, come il pesce che non si accorge dell'acqua in cui vive. La recensione termina ricordando che una volta «Aron insegnò che una vera crescita avviene quando siamo capaci di ascoltare attentamente coloro che secondo noi certamente sbagliano. Questo sembra un bel monito per un movimento di controcultura che, almeno a New York, è diventato ortodossia» (p. 161). Queste considerazioni parlano da sole, c'è ben poco da aggiungere.

 


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