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PSYCHOMEDIA
CONGRESSI E SEMINARI

Centro Psicoanalitico di Roma

Roma, Sabato 13 ottobre 2001

Convegno:
LA PSICOANALISI E LA FILOSOFIA DEL DIALOGO

Introduzione
Ezio Maria Izzo
Dalla psicoanalisi del sospetto alla psicoanalisi del dialogo

Luogo di svolgimento:
Centro Psicoanalitico di Roma - Via Panama 48 - Roma


“Bisogna distinguere nella storia del pensiero le epoche in cui l’uomo possiede una sua dimora dalle epoche in cui egli ne è senza. Nelle prime l’uomo abita nel mondo come se abitasse una casa, nelle altre egli è come se vivesse in aperta campagna e non possedesse neppure i quattro picchetti per innalzare una tenda.”
Martin Buber “Il problema dell’uomo”

“La conversazione , come il gioco, può riuscire soltanto nella misura in cui ciascuno ci si impegna pienamente e spontaneamente.” Così scrive Erving Goffmann affrontando il tema del dono di parole, (citato da Caillé “Il terzo paradigma” 159) sostenendo che è in questa esperienza che l’uomo trova la propria quotidiana felicità o infelicità, la quale quindi non dipende soltanto dal mondo interno dell’individuo, ma anche dalla non facile opportunità di ritrovarsi in una conversazione sostenuta mutuamente. Ne consegue che l’Io stesso non è una istanza originale, bensì “prestata” dagli altri attraverso le forme di interazione.
Così si muove il pensiero del “paradigma del dono” delle scienze sociali contemporanee, ma come dice Alain Caillé nell’introduzione al suo libro “Il terzo paradigma”, bisognerà sottoporre questo nuovo paradigma “Éalla prova del dialogo con tutte le scuole di pensiero sociologiche, psicoanalitiche, ermeneutiche, che gli sono tanto vicineÉL’avventura è appena cominciata.” (Caillé pag. 15).
Questa giornata organizzata dal Centro Psicoanalitico di Roma, vuole essere un piccolo momento di questa grande avventura.
Nel 1963 Nacht, allora Vicepresidente dell’International Psychoanalytical Association pubblica la raccolta dei suoi lavori sotto il titolo significativo “La presenza dell’analista”. Nell’introduzione scrive che fattore di guarigione essenziale è l’atteggiamento profondo dell’analista che deve essere improntato ad un accoglimento, ad una disponibilità autentica e ad una “capacità di far dono di sé”, un dono riparatore che possa far vivere al paziente l’esperienza di un rapporto con l’altro sostenuto da un sentimento d’amore di cui “..ha bisogno per imparare a vivere.” (Nacht pag. 9)
Ma nello stesso tempo la teoria psicoanalitica, indagando sull’origine dell’identità, ha indicato la natura inevitabilmente problematica del rapporto Io-altro, rilevando l’ineliminabile compresenza di seduzione e turbamento, di desiderio di appropriazione e impulso all’espulsione. Anche per la psicoanalisi l’Io è un’istanza che si istituisce nella relazione con l’altro, ma si istituisce a partire dal riconoscimento dell’altro dentro di sé e l’identificazione e la rimozione sono i meccanismi che ne sostengono la costruzione, ma anche la forte ambivalenza.

Identità ego-centrica e identità altero-centrica

L’identificazione consente all’Io di riconoscere la realtà di un altro che esiste e funziona con identiche modalità, la rimozione consente di mantenere l’altro, estraneo e perturbante fuori dalla dimensione della coscienza. La rimozione istituisce quindi l’area dell’inconscio, un’area straniera all’Io stesso, un’area che lo fa diventare “straniero a sé stesso” e “ospite in casa propria”.
Sono le prime cure fornite dalla madre al piccolo neonato ad aprire la strada alle vicissitudini pulsionali con il perturbante richiamo (se-durre) che la cura sempre porta con sé, (la pulsione erotica si appoggia su quella di autoconservazione).
Come sostiene Lucio Russo (Aut Aut 2000) la psicoanalisi finisce quindi per assegnare una preminenza dell’altro sull’io, ed è l’Io, fin dal suo primo apparire sulla scena del soggetto, ad essere nella condizione di vittima della forza e della preminenza dell’altro.
L’originaria asimmetria Io-Tu pone l’altro in posizione di superiorità, una superiorità che può diventare traumatica proprio per l’incontro di una impotenza con un’onnipotenza, di una condizione prematura rispetto ai livelli di organizzazione psichica a cui l’altro rimanda.
Siamo nell’area della prima scoperta dell’altro, del bambino che va verso il primo oggetto e poi verso la scoperta del terzo, e qui appare la pesante responsabilità di evitare una traumatica “confusione delle lingue” (Ferenczi), di non scambiare il linguaggio adulto della passione con il linguaggio infantile del bisogno di tenerezza per non capovolgere la relazione di aiuto in una relazione traumatica.
L’altro originario è portatore di fantasie, desideri e significati asimmetrici nei confronti del livello di organizzazione della fragile e impotente psiche dell’infante. Non può che derivarne uno scenario di intrusione dell’estraneo e di posizione di difesa dell’Io che si muove fra desiderio di appropriazione e spinte all’espulsione. L’Io ha bisogno di molto tempo per raggiungere la capacità di portare verso l’esterno la forza pulsionale dell’Es che in principio è tutta rivolta all’interno per tenere insieme l’Io, e l’altro che convoca alla relazione è pertanto amato e temuto, perchè se-duce e perturba nello stesso tempo, mettendo inevitabilmente l’Io di fronte ai propri limiti e spingendo al crollo la sua onnipotenza.
E’ l’altro dunque che originariamente sostiene e nutre l’Io, fornendogli esperienze di rispecchiamento e di riconoscimento, la cui mancanza sottrae forza al processo evolutivo. Nella teoria freudiana l’incontro Io-altro ha pertanto un’origine problematica, fortemente ambivalente fra il bisogno di rispecchiarsi nell’altro e la paura di esserne catturato e gli analisti conoscono bene quanto sia lungo e a volte interminabile, il percorso di maturazione e di elaborazione di questa originaria ambivalenza affettiva. “Nella relazione con l’altro- scrive Lucio Russo (Aut Aut 2000) - l’Io alternativamente o si suicida o diventa altruicida.”
La diffidenza e poi la violenza verso gli stranieri,la violenza verso le posizioni politiche diverse, il razzismo ed i genocidi, la violenza contro le donne, contro chi non è come noi o non pensa come noi, sono tutte testimonianza dell’odio residuale verso l’altro diverso.
Le pagine freudiane che più spingono alla riflessione su questo tema sono del 1919 e sono raccolte intorno alla nozione di “Unheimlich”, parola intraducibile che è stata resa nella traduzione italiana delle opere di Freud, con “Perturbante”. Il fatto è che questo concetto è indefinibile e la stessa parola tedesca è indefinibile e finisce per coincidere con il suo opposto heimlich. Heimlich significa sia familiare, di casa, che segreto, nascosto e si avvicina quindi ai significati del suo opposto Unheimliche, che è ciò che è spaventoso, sconosciuto, estraneo. Un’unica parola sembra indicare una cosa e l’opposto di essa, la dimensione di ciò che è noto, di ciò che è di casa, ma anche l’opposto cioè la dimensione di ciò che è estraneo, di ciò che è altro.
Dall’indeterminatezza linguistica Freud ci rimanda allo sconfinamento fra le nozioni di familiare ed estraneo, allo sconfinamento fra le nozioni di segreto e conosciuto, all’altro che abita l’Io, all’altro che ci appare paradossalmente come colui che da sempre è stato presente, da sempre ha abitato dentro di noi.
Nelle pagine sull’ “Unhemlich” Freud (fine del secondo capitolo) scrive: “ É tra le cose angosciose dev’essercene un gruppo nel quale è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritornaÉ” Se il rimosso ha a che fare con qualcosa che attrae e che respinge, con qualcosa da cui l’Io è sedotto e turbato, di cui vorrebbe appropriarsi o che vorrebbe espellere, allora l’angoscia denuncia la sua causa nell’estraneità familiare, cioè in qualcosa di sé che non si conosce. Il perturbante non è quindi l’estraneo esteriore al soggetto, ma è ciò che gli fu un tempo familiare e che ora non lo è più.
Il problema è quello di tenere nascosto a noi un qualcosa di noi stessi, un qualcosa di cui quindi vogliamo disfarci o che vogliamo tenere a distanza. Nel momento in cui questa difesa non funziona, quando ciò che era familiare e poi occultato torna alla luce e ad esso non ci si può sottrarre, allora viene messo in gioco lo statuto stesso dell’Io. “Nemico”, “Folle”, “Demone”, sono i nomi che abbiamo dato a quelle nostre dimensioni che sfuggono alla padronanza dell’Io, i “fantasmi” che determinano i comportamenti del soggetto forzando l’Io stesso verso l’irrigidimento e la chiusura totalizzante dell’identità che genera gli integralismi e la violenza.
I momenti del percorso del soggetto sono allora: l’identità, la separazione dall’identità, il ritrovamento dell’identità. Ma ciò che si ritrova non è l’identità dalla quale ci siamo separati, bensì il superamento dell’identità originaria totalizzante.
Ricordando Buber direi che l’uomo deve passare da un’epoca nella quale possiede una sicura dimora, ad un’altra nella quale “è come se vivesse in aperta campagna e non possedesse neppure i quattro picchetti per innalzare una tenda.” (Buber “Il problema dell’uomo”). Alla fine sarà però necessario ripiantare in campagna alcuni alberi che ricordino l’originaria dimora.
Unheimlich è allora ciò che mette in crisi il soggetto stesso, perché mette in discussione la stessa possibilità di definire l’identità escludendo la diversità, mette in crisi la possibilità di mantenere separati gli opposti. “Si potrebbe dunque direÉ-scrive Graziella Berto (letto al CPR)- che l’Unheimlichkeit, o lo “spaesamento”, -così la Berto traduce l’intraducibile parola- ha fondamentalmente a che fare con un vacillamento- o, più radicalmente, con una “decostruzione”- del confine e delle nozioni di “proprio”, di “identità” e anche di “origine”, che su di esso si reggono.”
La Berto sottolinea quindi che questa nozione porta al pensiero dell’alterità, chiama l’altro con cui l’Io deve confrontarsi e da cui non può sfuggire, che non può né tenere lontano, né rendere assimilabile, che non può escludere, ma neppure addomesticare. E nell’incontro l’Io prova angoscia perchè non c’è soluzione, non è possibile escluderlo, ma neppure è possibile la rinuncia all’identità e l’abbandono all’altro. La risoluzione non può che essere quella di non nascondere il “segreto” che ci attraversa, di accettare l’indefinitezza della stessa identità, di accettare l’extimitè, direbbe Lacan, una diversità non assimilabile nell’identità dell’Io. Secondo Deridda Freud non sembra andare verso questa dimensione, non riesce a mettere da parte l’idea di una familiarità che diventa estraneità non inglobabile. Il fatto è che la psicoanalisi fa emergere un’estraneità, che, quanto più cerca di inglobare, tanto più si ripresenta come inassimilabile, come la più radicale delle esteriorità, perché è sottesa dall’idea che il perturbante corrisponde alla pulsione di morte nostalgica dell’identità originaria.
Ciò che l’Io rimuove, ma che poi ritorna alla coscienza è l’irriducibile estraneità della morte, quella morte metafora di una totalità perduta, di un antico spazio, il corpo della madre, che il soggetto ha dovuto abbandonare per costituirsi come tale. Nell’esperienza del perturbante accade quindi che l’estraneo ritorna come il familiare più radicale, che determina angoscia poiché rivela al soggetto il suo portare dentro di sé la contraddizione insanabile fra l’egofilia e l’eterofilia, contraddizione che è un elemento intrinseco alla vita, è un fatto ineliminabile, strutturante per l’Io.
Freud e Heidegger

E’ in questo evocare e nello stesso tempo voler sfuggire ai fantasmi che Freud e Heidegger si incontrano e si fermano insieme. Anche Heidegger subordina l’umano all’anonimia dell’essere e allontana il Dasein dalla familiarità, abbandonando il soggetto.
Come ha sostenuto Deridda, Freud e Heidegger si ritrovano nello stesso luogo dove hanno lasciato lo straniero che non hanno potuto far diventare “uno di casa” e che neppure hanno potuto “mettere alla porta”, perché presso la nostra casa abitava da sempre. I due grandi pensatori si incontrano pur ignorandosi, l’uno si rifiuta di leggere l’opera dell’altro e l’altro legge non volendo capire, eppure la domanda che ci hanno entrambi consegnato è la stessa: e se proprio l’altro fosse l’unico in grado di dare significato alla nostra vita ed alle nostre scelte? Se fosse proprio l’abitare lo spaesamento la condizione in grado di dirci quale è la nostra casa?
Se entrambi, Freud e Heidegger, non riescono a risolvere l’oscillazione dell’Io fra il perdersi nell’altro o assimilare l’altro, se in Freud l’opera di bonifica dell’Es da parte dell’Io resta incompiuta ed in Heidegger la dimensione dell’essere resta lontana dal soggetto, abbandonandolo a sé, è proprio nel luogo dello spaesamento, per dirla con Berto, che i due grandi pensatori del XX° secolo si colloccano insieme. Entrambi ci dicono che non possiamo governare i nostri confini, che non possiamo deciderci né per l’Io né per l’altro, che la vertigine della disidentizzazione ci viene incontro ed è questo il luogo che dovremo abitare. Penso al segnale somatico della vertigine che così spesso ritroviamo nella clinica quando le persone stanno per perdere le certezze dei propri confini, dei propri contenitori.
L’angoscia nasce dal sentire che paradossalmente proprio il luogo del confine è anziché luogo di contenimento, luogo di incertezza e di spaesamento. L’unheimlich, l’altro perturbante diventa quindi un radicale, quasi un tratto costitutivo del soggetto, diventa un fattore essenziale della soggettività, senza il quale il soggetto non può istituirsi, non può agire.
Ma “Che né è di un “soggetto” - si domanda allora Graziella Berto - che non può chiudersi su sé stesso, costitutivamente abitato dall’alterità, e che si dà solo come incessante apertura a essa, come fattore di disturbo più che di garanzia alla “presenza”? Che ne è della sua “identità”? Che ne è in questo contesto, della “decisione” e dell’agire?” (Berto pag. 7). Sono le domande dalle quali parte la filosofia del dialogo ed alle quali dà risposte che rappresentano una rivoluzione copernicana nella nozione di soggetto.
Se ogni soggetto non può che istituirsi nell’apertura all’altro, allora è solo nella consapevolezza della impossibilità di ritornare ad una totalità, nella consapevolezza della ineluttabilità di doversi aprire all’alterità, che può trovarsi l’unità del soggetto ed il suo ricollocarsi nella dimensione dell’agire, ma capovolgendo l’universo da ego-centrico in altero-centrico.
La questione è di pensare al soggetto proprio nel compito di esporsi verso l’altro senza però volerlo contenere, ma piuttosto nel compito di riuscire ad ascoltare, ad accogliere, a condividere per fondare un’autentica relazione, di riuscire a trovare il luogo della reciprocità, dell’abbandono di quella mortifera chiusura con cui si presenta l’Io quando cerca di essere padrone assoluto in casa propria. Se al centro dell’universo mettiamo l’altro, sarà più logico ascoltare invece che insegnare, donare invece che dominare, “abbandonarsi invece che difendersi, condividere invece che competere”. (G.De Gennaro. Civiltà Etica. Supplemento a “L’Altrapagina” I-3 - 2001 pag. 30).

Martin Buber

Al pensiero di Heidegger ed al pensiero di Freud, fanno seguito in questo difficile, non concordante eppure comune itinerario filosofico-psicoanalitico, le filosofie del dialogo da Buber a Lévinas e alcune nuove proposizioni della psicoanalisi contemporanea anch’essa aperta alla dimensione dialogica.
Il dialogo nasce in un rapporto basato sulla comunicazione fra soggetti che si aprono alla conoscenza fatta divenire esperienza di apertura all’altro e che costituisce la consapevolezza della struttura dialogante fondamento originario del soggetto riscattato dalla malattia narcisistica.
Per Martin Buber senza il dialogo l’esistenza sarebbe impossibile, soltanto nell’Io-Tu si ha, dice Buber, autentica relazione, soltanto in una dimensione di reciprocità l’Io si educa, si costituisce come esistenza autentica. Con il suo scritto “Il principio dialogico” (1923 Ich und Du), Buber è stato il primo filosofo a sottolineare la necessità del dialogo come l’unica via in cui possiamo trovare l’autenticità con noi stessi e con l’altro.
Non possiamo però dimenticare che il Novecento si era aperto proprio con la rivoluzione proposta dalla prassi freudiana che poneva la categoria dell’ascolto nell’incontro medico-paziente, l’ascolto al posto della oggettivante descrizione della psichiatria organicistica. La proposta di Buber di rimettere l’uomo, che l’era della tecnica ha disumanizzato, al centro del pensiero filosofico, non tanto come uomo che si ritrova nel “cogito ergo sum”, non come uomo singolo, ma come Io-Tu, come essere insieme, come Noità, si ritrova nella prassi freudiana e diventa centrale nel nuovo paradigma della psicoanalisi dell’intersoggettività.
Per questo la filosofia del dialogo costituisce un’inevitabile confronto con la psicoanalisi e con il pensiero contemporaneo in generale e Buber e Lévinas ne sono un punto di riferimento centrale, con la proposta levinassiana di far coincidere la filosofia con l’etica e con l’etica della responsabilità.
Ma per operare questo cambiamento, quasi una rivoluzione copernicana nell’area dell’antropologia filosofica è stato necessario un ribaltamento di pensiero intorno all’incontro Io-altro. In Heidegger ed in Freud il presupposto era che la conoscenza dell’altro nasce nella conoscenza di noi stessi, l’altro era già in noi, il rimosso che ritorna.
La base da cui parte il ribaltamento di questo modo di pensare è nel capovolgere la concezione che per percepire ciò che è fuori di sé, l’Io debba fissarsi nella dimensione egocentrica per riconoscere ciò che ancora non ha conosciuto di sé stesso. E’ nel capovolgere il primato della dimensione egocentrica per la quale l’Io non riceve nulla dall’esterno, ma solo ciò che è in sé, come se da sempre possedesse ciò che viene dal di fuori. La concezione dialogica dell’essere umano ritiene invece che il soggetto si istituisce insieme all’altro negli atti del loro esprimersi e manifestarsi reciprocamente. Ciò che l’Io conosce di sé stesso può manifestarsi soltanto nell’ambito della relazione con l’altro Io. Pertanto non ha significato una antropologia filosofica che ponga il singolo al centro del discorso sulla costituzione del soggetto. L’Io si istituisce in un dialogo con un Tu, reciprocamente manifestandosi e rispecchiandosi.
Qui mi preme anticipare ciò che dirò in seguito e cioè che anche per l’inconscio la psicoanalisi contemporanea ipotizza la sua origine, la sua creazione nell’incontro fra i due soggetti nella stanza d’analisi.
“Il dialogo Ð scrive Pietro Prini Ð è una relazione espressiva abitata dall’intendimento reciproco di due esistenze che s’impegnano ad attestare insieme la verità di ciò che sono.” (Prini pag. 41). Ed aggiungerei che la verità di ogni persona è l’insieme delle sue parti consce e delle sue parti inconsce costruite nella relazione. E’ come dire che come soggetti singoli non possiamo dire nulla di ciò che siamo e nulla possiamo neppure conoscere dell’altro.
Questa affermazione nel pensiero della filosofia del dialogo è speculare, come significato e come portata rivoluzionaria, a ciò che nel pensiero psicoanalitico furono le famose parole di Winnicott che non esiste una cosa che si possa chiamare infante visto separatamente dalla coppia madre-bambino.
Per la filosofia del dialogo conseguentemente l’angoscia originaria di spaesamento è piuttosto uno scacco patologico della relazione Io-Tu, è una malattia dell’interazione e niente affatto una naturale ed insuperabile condizione dell’Io. “Non c’è nulla che si nasconda in noi”, scrive Pietro Prini, per il fondamento del nostro essere nella reciprocità, può solo “Éavvenire che noi blocchiamo le nostre possibilità di realizzarci con gli altriÉ. fingendo agli altri, e perciò anche a noi stessi, di essere quello che non siamo.”(Prini pag. 42)
L’obiettivo non facile della psicoanalisi moderna diventa allora, come afferma Prini, quello di portare alla luce questi aspetti di malafede del soggetto che si oppongono alla conoscenza autentica dell’esistenza dell’uomo, conoscenza che avviene solo nel dialogo con l’altro, autentico e non imprigionato nella malafede con sé stesso. Nella cura la prima difesa da analizzare diventa quindi l’inganno posto all’analista ed a sé stessi sulle motivazioni consce ed inconsce della propria richiesta d’analisi.
Le aberrazioni della “cattiva coscienza” si potranno correggere facendo leva su una energia che sostiene l’Io nella sua ricerca di essere insieme con l’altro in un discorso diadico, in un discorso che si svolge intorno ai due interlocutori nella reciprocità del loro rapporto interpersonale. E’ questo il dialogo nel quale, come dice Martin Buber nel suo famoso saggio “ Ich und Du” (1923) (tradotto in italiano con il titolo “Il principio dialogico”) l’Io si apre al Tu per domandare risposte che solo lui potrà dare in una relazione che comprenda tutta la varietà dei sentimenti, dall’amore all’odio, dalla riconoscenza al disprezzo, dalla sfiducia alla dipendenza.
Nel dialogo diadico l’interlocutore, e quindi anche l’analista, è chiamato inevitabilmente ad essere soggetto che si sottopone al giudizio dell’altro, per il semplice fatto che è lui come persona chiamato a dar prova della verità di ciò che svela e infine l’autenticazione del dialogo, come delle parole che curano, è nella coincidenza fra ciò che si dice e ciò che si fa.Scrive Nacht: “La relazione fondamentale fra analista e paziente sta nel fatto che il secondo percepisce nel suo inconscio l’atteggiamento inconscio del primo, e ciò forse in una misura maggiore delle interpretazioni che gli vengono offerte.” (Nacht p. 162) Nacht è pertanto convinto che “Éimporta meno ciò che l’analista dice di ciò che l’analista è.” (Nacht p. 161).
Il bambino vuol sapere chi sono e che cosa fanno i suoi genitori, e ne ha le migliori ragioni perché vuole capire chi sono coloro a cui deve affidarsi e di cui deve fidarsi. Vuole anche sapere che cosa i genitori fanno nella loro stanza da letto, per mettere a confronto fantasia e realtà nella sua spinta a conoscere e ancora per sapere se fidarsi o no, per sapere se i genitori sono dei violenti o sono persone che sanno amare. Così il paziente cerca di conoscere anche la persona reale dell’analista e quelle parti dell’analista che saranno oggetto dei meccanismi identificatori, base dei fattori terapeutici.
In questo nuovo paradigma i due soggetti che si incontrano cercano di sentirsi entrambi a casa propria, entrambi costruttori di quella casa e quindi abitanti di diritto ed in piena libertà.
Insieme la psicoanalisi e la filosofia contemporanea si sono lentamente allontanate dal loro pensiero classico. Per la filosofia ciò è stato rappresentato dal passaggio della filosofia dell’essere alla filosofia del primato del soggetto e della intersoggettività, egualmente nella psicoanalisi stiamo assistendo ad un pari riconoscimento dell’importanza della dimensione pulsionale e della dimensione intersoggettiva dell’uomo.
Ciò ha comportato un ridimensionamento del significato dato alla soggettività posta in una condizione nuova nella quale viene riconosciuto all’intersoggettività il ruolo di creatrice della storia e di protagonista della socialità.

Emmanuel Lévinas

La psicoanalisi originariamente aveva contribuito allo sfaldamento scientifico della nozione di soggetto, considerando piuttosto la parte altra ed estranea, che cela il vero, come l’aspetto da svelare e da interpretare, ma mai completamente conoscibile. Ma nello stesso tempo non è mai stata assente nella ricerca psicoanalitica l’esigenza di riflettere sui legami storico-sociali che fondano la nozione di soggettività.
L’esaltazione della scienza operata dal positivismo, che la riconosceva come superiore e unica possibile guida anche per la conoscenza della vita singola e della vita sociale dell’uomo, aveva scavato un profondo solco, una incolmabile distanza dalla conoscenza propria delle scienze umane. Il “volto dell’uomo” che emerge dal positivismo è destinato a perdere ogni significato di persona, di soggetto, come un volto disegnato sulla sabbia vicino alla riva del mare, come scrive Michel Foucault in “Le parole e le cose” (pagine finali).
Anche Freud, figlio del suo tempo, non poteva sfuggire a questa operazione di sfaldamento scientifico della nozione di soggetto alla quale contribuì notevolmente con la scoperta dell’inconscio, di quella dimensione che la fa da padrona e che comunque forse non sarà mai completamente conosciuta. Con Lévinas arriva a compimento il rinnovamento del pensiero post-moderno sul soggetto e sul suo rapporto con l’altro, un rinnovamento che porta la filosofia, in un certo senso, a ricominciare da capo ponendo l’etica al centro della metafisica, l’etica come l’unica possibile filosofia, la “filosofia prima”, un’etica non più fondata sull’essere ma sul rapporto con l’altro, con “il volto dell’altro” che esprime il concreto manifestarsi dell’assoluta alterità “.. che supera l’idea dell’Altro in me.” (1980 “Totalità e Infinito” pag.48).
Il Tu di Buber, come il volto di Lévinas stanno a testimoniare l’unicità di ogni singolo uomo ed il suo bisogno di reciprocità, bisogno di essere amato, di essere ascoltato, di essere capito dall’altro, che nel discorso psicoanalitico è il bisogno del bambino di trovare la sua prima immagine negli occhi della madre, esperienza primaria sulla quale si è particolarmente concentrata la ricerca di Donald Winnicott.
Per Lévinas l’alterità è un rapporto di verità e di giustizia nel quale l’Io e l’altro sono originariamente liberi. Non è presente alcuna ambivalenza, nessun desiderio di appropriazione, né di espulsione. L’amore autentico è individuazione, è personalizzante perché non è un “tu sei mio”, ma un “va verso te stesso”, non è mai un tentativo di abbracciare il tutto in sé. Per Lévinas l’eros è la dimensione più evoluta dell’alterità, è il tipo di relazione massima che non è possesso dell’altro, ma è proprio un invito a partire verso sé stessi, un andare verso il proprio destino.
Pertanto per Lévinas il modello di relazione è la paternità, cioè una relazione con l’altro che fin dall’origine è con l’estraneo pur essendo per l’Io.
L’alterità non può essere assimilata all’identità e l’identità non può essere assimilata all’alterità. L’autentica esperienza dello stare insieme “non è un insieme di sintesi, ma un insieme di faccia a faccia”, (Lévinas “Totalità ed Infinito: Saggio sull’esteriorità.”) cioè un incontro nel quale le due persone non sospettano l’una dell’altra, non cercano né di assorbirsi, né tanto meno di eliminarsi, ma si aspettano soltanto di vedere realizzato il reciproco bisogno di essere riconosciute e rispettate. Questo incontro per Lévinas non avviene nel cerchio magico dell’interiorità e l’altro non è come una specie di alter-ego, l’incontro avviene nella dimensione dell’esteriorità irriducibile al dominio dell’Io. La filosofia di Lévinas non è una egologia, bensì una eterologia che affronta il difficile compito di fare del rapporto con l’altro la struttura stessa della realtà.
Pertanto un’autentica relazione intersoggettiva riconosce la diversità ed il segreto di ognuno, unica esperienza che porta lontano dal totalitarismo che invece abolisce e distrugge l’alterità. L’Io nell’incontro con il Tu non è allora destinato né al suicidio , né all’altruicidio, ciò che egli ha davanti non è un rapporto destinato all’essere posseduto o al possedere, non è destinato alla riduzione dell’altro a sé, ma è la strada per trovare sé stesso e per poter stare con l’altro allo stesso tempo nella separazione e nella responsabilità.
Dal pensiero levinassiano deriva di conseguenza un modo nuovo di considerare la comunità umana, la società ed i rapporti intersoggettivi. Se il fatto fondamentale dell’esistenza umana è l’uomo- con Ð l’uomo, ne consegue che anche la comunità e la società devono essere concepite come il luogo dove si esprime la capacità di valorizzare la vocazione dell’uomo che è l’accogliere e l’aprirsi al dialogo per permettere alle reciproche sorgenti della creatività di esprimersi liberamente e creare insieme la strada dell’altro in un reciproco far dono di sè.
La Psicoanalisi Relazionale


A partire dalla fine degli anni ’70 si è andata formando nella psicoanalisi nord-americana una numerosa schiera di analisti che hanno portato la psicoanalisi in una “prospettiva alternativa che considera le relazioni con gli altri, e non le pulsioni, l’elemento fondamentale della vita mentale.” (Mitchell 1988 “Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi” pag. 4)
Ma la dialettica fra quanto c’è di personale e quanto di bipersonale nell’essere umano era iniziata fin dalle origini della psicoanalisi con la questione sulla realtà o fantasia del trauma. Sandor Ferenczi, a lungo allievo prediletto di Freud, fu un geniale precursore di molti temi della ricerca attuale. Egli per primo si rese conto di quanto fossero importanti non solo i sentimenti del paziente verso l’analista, ma anche quelli dell’analista verso il paziente, iniziando così a costruire il concetto di controtransfert e poi ponendosi nella prassi, seppure in maniera impropria, il problema della reciprocità fra terapeuta e paziente. Già quindi all’inizio del discorso psicoanalitico, l’Io non è concepito solo come uno spazio interno, ma anche come tensione verso l’altro, tensione all’esterno, comunicazione, relazione con il mondo esterno.
Anche i più grandi analisti dopo Freud, dalla Klein a Bion, hanno descritto meccanismi mentali la cui concezione è relazionale. Nel caso della funzione alfa Bion ha descritto un funzionamento mentale relazionale, con il quale la madre presta al bambino la funzione base della formazione dei significati. Nel caso della identificazione proiettiva della Klein questo meccanismo è stato progressivamente riconcettualizzato sempre più in termini relazionali ed è passato da ricerca di un altro da usare e manipolare per le proprie proiezioni, a ricerca di una risposta attiva di contenimento e reverie per una nuova esperienza nella quale comunque i sentimenti proiettati incontrano i sentimenti dell’analista.
In Europa possiamo dire che lo sviluppo della psicoanalisi relazionale ha radici profonde nel fecondo pensiero degli analisti del Gruppo Indipendente della Società Britannica di cui Ferenczi può essere considerato un precursore.
Ad Edimburgo Fairbairn ha scritto fondamentali lavori nei quali sostiene che la meta della pulsione libidica non è la scarica, ma lo stabilirsi di una relazione con l’oggetto.
In generale il pensiero degli analisti che possono essere definiti appartenenti alla psicoanalisi relazionale si organizza intorno ad una nuova concezione della soggettività, che è vista nascere nella relazione primaria madre-bambino ed il cui sviluppo richiede rapporti intersoggettivi. L’Io non nasce in uno spazio isolato, come ipotizzava la teoria del narcisismo primario, ma è fin dall’inizio in una esperienza relazionale nella quale sperimenta, in una continua dialettica, il bisogno di unione e la spinta naturale verso la separatezza. Per tutto il corso della propria vita il bisogno di dialogo, di reciprocità, di condivisione emotiva coesistono con aspetti pulsionali opposti che cercano nel rapporto il possesso ed il controllo dell’oggetto oppure la dipendenza e la regressione. Se questi aspetti, entrambi comunque generatori di esperienza, mantengono il loro equilibrio dialettico senza prevaricarsi, si creano continui spazi di crescita, se invece l’equilibrio si rompe e prevale il controllo (nevrosi ossessiva o paranoia) o la dipendenza totale (psicosi), allora assistiamo allo scacco della relazione con le varie reazioni nella patologia.
Quindi anche nell’incontro analista-paziente è lo scambio relazionale, apertura alla comunicazione delle parti consce come degli aspetti inconsci, che determina il cambiamento, e l’esperienza della cura analitica è anche una nuova esperienza, una nuova opportunità che offre la possibilità di rivivere antiche situazioni traumatiche in una condivisione in spazi totalmente diversi che aprono nuove aree di significati e cercano di costruire nuove “strutture di esperienza” (Atwood e Storolow 1984, 33).
Anche dalla psicoanalisi contemporanea dunque la nozione di soggetto è ulteriormente decentrata. Dopo la scoperta dell’inconscio, la scoperta di un bisogno primario dell’altro, sposta ancor più il soggetto da una visione auto-centrica ad una visione altero-centrica e pone l’analista di fronte alla responsabilità e alla co-determinazione di ciò che accade nel percorso che fa insieme al paziente.
Una considerazione finale per aprire il dibattito. Anche in una così rapida e sommaria visitazione della filosofia del dialogo e della psicoanalisi relazionale mi sembra evidente un percorso parallelo verso una comune nuova prospettiva da cui guardare l’essere umano ed il suo mondo. Non credo sia utile chiedersi se ci siano stati influenzamenti reciproci, quanto piuttosto se questi influenzamenti hanno fatto perdere alla psicoanalisi la sua specificità. Sono convinto assolutamente di no. L’inconscio, scoperto da Freud, resta l’oggetto primario della ricerca in psicoanalisi, anche se viene ridefinito anch’esso in termini che tengono conto dell’importanza degli aspetti relazionali nella sua formazione. E’ avvenuto certamente un cambiamento concettuale, a testimonianza della vitalità della psicoanalisi, per cui l’incontro fra due persone e quindi fra due inconsci non è più un evento così carico di sospetti e di angosce. Non più demoni, non solo nemici, non solo follia, non solo le parti peggiori di noi abitano l’inconscio, esso è si il contenitore delle esperienze dolorose, ma è anche il serbatoio di un naturale bisogno di comunicarle a qualcuno per renderle elaborabili. “In questa ottica, nell’analisi perde importanza la meta, intesa come conquista e (pretesa) egemonia su interi territori sconosciuti, mentre assume maggiore valore il percorso.” (G. Fiorentini e coll. 2001) Nell’impossibilità di cogliere “l’inesauribilità ermeneutica dell’inconscio “ l’analisi diventa una creazione di spazi da percorrere insieme verso la ricerca di nuovi significati, in un’esperienza di reciproco riconoscimento.

In questa mia introduzione al Convegno non ho citato nessuno dei relatori di questa giornata il cui pensiero, di alcuni di più di altri meno, credo però di conoscere. L’ho fatto volutamente per costruire solo una cornice dentro la quale accogliere liberamente le varietà di pensiero.



Ezio Maria Izzo
Segretario Scientifico del Centro Psicoanalitico di Roma
Via Ettore Romagnoli, 9 - 00137 Roma
Tel. 06 86800945

Centro Psicoanalitico di Roma Via Panama, 48 - Roma


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