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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2006 - 2007

Psicoterapia, due modelli interpretativi: modello evoluzionistico e modello di apprendimento

Dr.ssa Maria Antonia Ferrante
Coordinatore Dr.ssa Maria Antonia Ferrante
(t) testo di relazione fornita dal relatore (r) elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani



PSICOTERAPIE E CAMBIAMENTO.PROGRESSIONE LINEARE EVOLUTIVA OPPURE PROGRESSIONE DISCONTINUA?

Tratterò qui di alcune teorie e tecniche di psicoterapia; di quelle più note per stabilire, conoscendone gli indirizzi di base, se nel supposto processo di guarigione, prevalga l’andamento a gradi di cambiamento, (+-+-+ etc...) oppure l’andamento a scatti discontinui di cambiamento. (+ - -+-etc...). Un esempio calzante, per quanto concerne il processo a gradi di cambiamento susseguentesi, ci è dato dalla teoria dell’evoluzionismo.
Non è certo il caso di addentrarsi nella teoria darwiniana per utilizzarla quale modello per l’analisi delle psicoterapie che presuppongono processi lineari continui. Citerò solamente, avendo usato nel titolo del presente scritto i termini “progressione evolutiva”, un piccolo brano tratto dal capitolo I dell’opera di Charls Darwin: “L’origine dell’uomo”, brano sufficientemente eloquente. “Evidenza della origine dell’uomo da qualche forma inferiore. Lo studioso verrà quindi a questo importante quesito, se l’uomo tenda a moltiplicarsi così rapidamente che ne debbano nascere gravi lotte per la vita, in conseguenza delle quali i mutamenti benefici tanto nel corpo quanto nella mente sarebbero conservati e quelli nocevoli sarebbero eliminati. Le specie o le razze umane(si può adoperare l’uno o l’altro vocabolo) si invaderanno desse e si sostituiranno l’una all’altra per modo che alla perfine alcune si vengano ad estinguere? Noi vedremo che tutte queste questioni, siccome per alcune di esse la cosa è evidentissima, si possono risolvere affermativamente, come per sottostanti animali”.
Premetto che qui non si vuole parlare dei diversi indirizzi psicoterapeutici in maniera assolutistica; perché in realtà e generalmente tutte le teorie, mentre privilegiano un certo modello di intervento e formulano delle previsioni sugli esiti della terapia, non escludono la possibilità che il modello possa tradire le previsioni e non essere valido in certi particolari momenti del processo. L’intento di questa relazione è quello di evidenziare la tendenza, più o meno marcata, di alcune scuole di psicoterapia a supporre l’andamento del processo curativo in maniera evoluzionistica, oppure in maniera, diremmo, “di andata e ritorno” nell’alternanza, cioè di successi e di insuccessi. Secondo l’antropologo Leonard Greenfield di Philadelphia “Il processo evolutivo ha carattere stocastico, risultato di fenomeni casuali di combinazione indipendente. Ci troviamo, dunque, di fronte a due sistemi stocastici che in parte interagiscono ed in parte sono isolati l’uno dall’altro. L’uno è nell’individuo e lo chiamiamo apprendimento; l’altro è immanente all’ereditarietà e lo chiamiamo evoluzione”. Naturalmente, il confronto fra questo concetto e l’andamento di certi modelli psicoterapeutici va preso con le dovute cautela. L’analogia serve a sottolineare che una previsione standardizzata, preordinata e prevista, dei modelli utilizzati nelle psicoterapie, non può essere concepibile; può essere ingannevole. Il risultato che l’operatore si aspetta spesso è il risultato che egli vuole ottenere. Di certo alcuni fenomeni, sia nelle terapie individuali che nelle psicoterapie gruppali, appaiono realmente, ma in particolare situazioni potrebbero non apparire, soprattutto quando il modello è scandito a livelli. Come vedremo, la struttura della teoria psicoterapeutica, con i suoi principi di base più o meno scientifici, con il suo momento storico di azione, i suoi assiomi, definizioni e slogan, decide degli interventi e delle tecniche utilizzate nel processo del supposto cambiamento. Tuttavia, mi sembrano appropriate a questo riguardo le osservazioni di un archeologo e di uno psicoterapeuta gruppale di indirizzo umanistico.
“L’applicazione di una rigida legge evolutiva ai fatti umani è impotente, quanto meno a spiegarli tutti. La civiltà non è costringibile in alcuno schema meccanico, in quanto in essa interviene, determinante, la capacità creativa dell’uomo. E questa,come fatto spirituale legato all’autonomia della personalità, evade da rigidi schemi naturalistici e più propriamente biologici dove questo termine non comprende, come si deve comprendere quel quid imponderabile ed insieme ponderabilissimo che è l’intelligenza anche nelle sue forme più primigenie di attitudine”. (Renato Peroni)
“La teoria delle fasi è una mappa, non il territorio. E’ importante non dimenticare che , come le impronte digitali, nessun gruppo può essere uguale all’altro. Ogni esperienza di gruppo è unica e non aderirà a un preciso modello di fasi che si susseguono. I gruppi sono in continuo movimento e ci sono sovrapposizioni, spirali, regressioni e una continua oscillazione tra le polarità di amore e volontà. Talvolta entrambe le energie sono attive in un gruppo, in special modo in momenti di transizione, e il gruppo può scegliere se restare fermo, andare indietro o avanti. Non c’è alcuna garanzia che il gruppo progredirà automaticamente, e per questo è essenziale che il leader sia attento a quanto sta accadendo in un dato momento, concentrandosi sui bisogni e i problemi legati all’amore ed alla volontà, piuttosto che ricercare la conferma di un modello che si predilige.
Molti leader si sentono frustrati e arrivano a dubitare della loro competenza quando i loro gruppi non sembrano seguire i precisi schemi delineati nei libri sul lavoro di gruppo. E’ importante ricordare che la teoria delle fasi è solo una mappa. Non è il territorio. Il territorio deve essere delimitato mentre lo si sta attraversando. La mappa può fornire indicazioni e punti di riferimento solo se viene usata in modo intelligente e non seguita pedissequamente”. (Benson, J. F., “Gruppi”, trad ital. 1993, Sovera Multimedia, Roma)
Mi soffermerò brevemente sul modello terapeutico psicoanalitico per passare dopo ad una sommaria rassegna delle psicoterapie di gruppo ad andamento psicoanalitico e non; infine, con respiro più ampio, illustrerò i nuovi indirizzi della psicologia e delle psicoterapie in essa incluse tenendo presente il mio obiettivo: evidenziare il modello predittivo delle scuole prese in esame.
Il concetto di resistenza, nella teoria psicoanalitica è, già di per sé, sufficiente per indicarci che Freud non prevedeva una progressione per gradi lineari nella cura dei suoi pazienti.
“La resistenza-egli afferma-costituisce, in fin dei conti, ciò che ostacola il lavoro terapeutico”. La resistenza è un’opposizione, una forza che protegge verso memorie che l’analizzando non vuole rievocare. Come dire che il malato non vuole guarire. Tali ostacoli, inevitabilmente, incidono sul processo terapeutico sottoposto, secondo la gravità del disturbo e le caratteristiche personali di ogni analizzando, a momenti di stasi. Per cui non sono prevedibili passaggi per fasi susseguentesi. Basta leggere alcuni dei casi clinici di Freud per aver conferma degli ostacoli , spesso imprevedibili, che egli incontrò nel condurre un’analisi.
Melania Klein in “Invidia e gratitudine” dichiara, esplicitamente:”Nel corso dell’analisi dobbiamo essere preparati ad incontrare oscillazioni tra miglioramenti e ricadute che possono manifestarsi in molte forme”. Ed ancora, sempre nella stessa opera:”Un’altra difficoltà che ostacola l’analisi per lunghi periodi è la tenacia con cui il paziente si aggrappa ad un forte transfert positivo”. Anche la Klein riconosce il ruolo che nell’analisi gioca la resistenza: “Quanto più profondi e complessi sono i problemi che noi analizziamo, tanto maggiore è la resistenza di fronte a cui ci veniamo a trovare, e ciò conferma la necessità di dare un’importanza adeguata alla elaborazione” che secondo la Klein, come già prima aveva affermato Freud, “è uno de compiti principali del procedimento analitico”.
Siamo nell’ambito delle psicoterapie, in questo caso della psicoanalisi, individuali. Risulta da queste poche citazioni che né Freud, né Melania Klein, credevano in un andamento terapeutico evolventesi per stadi progressivi continui.
Alcuni psicoterapisti individuali degli anni Ottanta, fra i quali Wolberg, 1977; Stewart, (1980) ed altri, dividono il processo terapeutico in fasi. Nel caso degli autori succitati, in quattro fasi. Wolberg e Stewart sottolineano che i confini delle fasi non sono rigidi, ma la loro tecnica eccede nella schematizzazione e nell’ottimistica previsione della conclusione delle fasi.
Fase I, iniziale.
Punto a: stabilire una interazione di lavoro tra paziente e psicoterapeuta;
Punto b: obbiettivi terapeutici specifici: analizzare il problema e la situazione del paziente; dimostrare che lo psicoterapeuta è capace di comprendere il suo problema...
Fase II, intermedia/prima parte. Punto a: focalizzare e analizzare le cause e le dinamiche dei problemi del paziente...
Fase III, intermedia/seconda parte...e così di seguito.
Fino alla fase detta “finalità”: chiudere adeguatamente il rapporto terapeutico. (da Foglio Bonda, P. Principi e Tecniche di Psicoterapia, 1983, Franco Angeli, Milano, pp.62-63)
Chi garantisce il risultato delle quattro fasi di Wolberg e Stewart? (osservazione mia )
Sembra che nelle psicoterapie di gruppo i modelli predittivi rimarchino, più che nelle psicoterapie individuali, il passaggio da una fase all’altra del trattamento.
Inizio con il prendere in considerazione la psicoterapia gruppale analitica secondo Bion. Leggendo le opere di questo psicoanalista, quelle relative alla pur breve sua esperienza nei gruppi, si constata che l’autore considera il gruppo terapeutico come un individuo unico. Tutti i membri del gruppo tendono ad uniformarsi, agendo all’unisono nei diversi stadi della terapia, prima che tale gruppo si trasformi e diventi “gruppo di lavoro”.
Cito alcuni passi dell’opera di Bion “Esperienze nei gruppi” (trad. ital. 1980, Armando) ”Sembrava che ci fosse come un tacito accordo fra tutti i membri del gruppo e che in tutto quello che facevamo agissimo tutti come una equipe”. (pag. 78) “Certamente le mie interpretazioni non riuscivano a determinare nessuna modificazione nel comportamento del gruppo, che continuò a restare impenetrabile per tutti i trenta minuti che rimanevano”. (Stessa opera, pag. 79)
Possibile che tutti i membri siano assoggettati ad una unica volontà? (osservazione mia). Non voglio utilizzare una famosa frase del filosofo inglese degli ultimi anni dell’800, J:(Gion) S.(Stiuart) Mill, individualista classico, perché la trovo di carattere estremistico, pur tuttavia ve la leggo in quanto, almeno nel caso della teoria dei gruppi bioniana, ci induce a riflettere: “Gli uomini, quando sono assieme, non si mutano in un altro genere di sostanza”.
Ancora Bion
“Come si può immaginare, mi domandavo perché non riuscivo ad ottenere risposta...In realtà sentivo di trovarmi in una situazione simile a quella che si può avere in psicoanalisi quando si verifica una mancanza di risposta da parte del paziente e solo in una seduta successiva risulta come questa fosse in effetti molto relativa. Questo fu proprio quello che successe. Nella seduta successiva, il gruppo si costituì secondo lo schema che ho descritto, come gruppo di accoppiamento...Preferirei comunque non portare avanti la descrizione di questo gruppo e descrivere invece una situazione verificatasi in un altro gruppo, che potrebbe servire meglio a illustrare il passaggio da un tipo di “cultura di gruppo” ad un altro”. (Stessa opera, pag. 79)
Sembra che nei gruppi bioniani, caratterizzati dagli assunti di base, sia generalmente impossibile all’individuo, cioè al singolo, emergere dalla cultura gruppale del momento.
“In questo caso gli obbiettivi coscienti che i singoli avevano nel riunirsi in gruppo sarebbero stati ostacolati invece che avvantaggiati dalla partecipazione al gruppo”.
Il bioniano Claudio Neri dice:”Il mio modo di considerare il gruppo è stato profondamente influenzato dall’idea del gruppo come totalità (unità del gruppo) e in particolare dalla visione di Bion relativa agli stati mentali collettivi (mentalità). Queste idee, a mio avviso, non sono in contrasto con l’attenzione che il terapeuta deve rivolgere agli individui, alle loro vicende ed ai loro vissuti”. (Da “gruppo”, pag.29).
Della psicoterapia gruppale breve, ad andamento psicoanalitico, la dottoressa Rosa Maria Salerno, dell’Università di Chieti ( Negli anni Ottanta) dice:”Anche un gruppo breve passa attraverso tappe evolutive sovrapponibili a quelle classicamente descritte nel 1956 da Bennis e Shepard. Prendendo a modello una terapia che duri all’incirca 12 sedute, Poey (1985) la articola in quattro fasi, segnalando i compiti principali che ciascuna di esse comporta per il gruppo e per il terapista...Un’altra interessante ed articolata modellistica delle fasi evolutive di un gruppo breve ad orientamento analitico è quella presentata da Mac Kenzie e Livesley (Laisvly) (1983).
Carlo Rogers, teorico della “psicoterapia centrata sul cliente”, parla della psicoterapia come un continuum. “I soggetti non evolvono grazie alla modificazione, da una certa fissità od omeostasi, l’aspetto di gran lunga più significativo del continuum è il passaggio dalla fissità alla modificabilità, dalla struttura rigida alla fluidità, dalla stasi al processo...Ho elaborato questa ipotesi riguardante il processo individuando sette stadi; mi preme tuttavia sottolineare che si tratta di un continuum e che se si individuassero anche cinque stadi vi sarebbero sempre tanti momenti intermedi tra i diversi stadi”. Anche il modello rogersiano rinvia al processo terapeutico come successione di stadi evolutivi.
La Gruppoanalisi si colloca fra le psicoterapie gruppali caratterizzate da un processo evolutivo.
(Cito Foulkes)
“Prenderemo in esame due livelli che si trovano agli estremi opposti di una scala senza soluzioni di continuità: li chiameremo livello conscio e livello latente o primario. Al primo livello troviamo i rapporti coscienti tra i pazienti stessi e il loro medico: è il livello della realtà attuale, adulta. A livello primario troviamo i processi e i meccanismi prevalentemente inconsci propri del comportamento primitivo infantile, primordiale. Approssimativamente questi due livelli corrispondono ai processi primario e secondario del sogno...”Ai due livelli che stiamo per prendere in considerazione corrispondono due problemi di base: il primo, a livello cosciente, riguarda i rapporti umani nella realtà della vita adulta, il secondo l’atteggiamento verso l’autorità dei genitori conferita fantasticamente al terapeuta”. (“Analisi terapeutica di gruppo”, pag. 63) ed ancora: “Nell’analisi di gruppo questi diversi aspetti del rapporto tra gruppo e terapeuta si presentano come stadi transeunti in una situazione in perpetuo sviluppo”. (Stessa opera, pag. 68)
Livelli di comunicazione in gruppoanalisi: livello di realtà; livello di transfert; livello proiettivo; livello primordiale.


NUOVE FRONTIERE PER LA PSICOLOGIA- LA PSICOLOGIA SOCIALE E LA PSICOLOGIA POLITICA E LA POSSIBILE SOLUZIONE DEI CONFLITTI SECONDO TECNICHE DI INTERVENTO INNOVATIVE

Da Freud: “Dobbiamo concludere che la più antica psicologia umana è la psicologia di gruppo; (Oggi è la psicologia sociale) la psicologia individuale, che abbiamo cercato di isolare tralasciando tutte le vestigia del gruppo, si è in realtà sviluppata solo in un secondo tempo dalla psicologia di gruppo, per un processo graduale che possiamo considerare forse ancora incompleto”. Da “Psicologia delle masse ed analisi dell’Io.
Si curano i pazienti affetti da disturbi psichici ancora oggi con le psicoterapie freudiane, junghiane, cognitivisiche, sistemiche etc...; ma a queste si affiancano attualmente nuovi modelli terapeutici che mirano alla valorizzazione del rapporto che intercorre fra la persona, o le persone disturbate ed il gruppo di coloro i quali: coaudiatori del terapeuta (sociologi, antropologi), parenti ed amici dei malati etc... entrano in collaborazione per accelerare e favorire il miglioramento dei pazienti.
I nuovi modelli, come quelli già in uso da tempo, prevedono un processo, un percorso terapeutico più o meno accidentato, ma differiscono, in parte, dai vecchi modelli nella tecnica di conduzione, soprattutto per quanto concerne la soluzione del conflitto.
Antonella Sapio, neuropsichiatra infantile impegnata nella ricerca e nella formazione in campo psicosociale, definisce questi modelli “interattivi-emozionali” in quanto tentano di delucidare il percorso di attivazione emozionale che può spiazzare le parti in conflitto e, a prescindere dai contenuti in discussione, mobilizzare le risorse emotive sottostanti portandole alla luce nel campo dell’interazione”. (Sapio. op. cit., pp.283-284)
Il campo di applicabilità di questi modelli sono soprattutto: la famiglia ( Anoressia; conflitti di coppia; conflitti generazionali), la scuola, le aziende e l’ambito politico.
Naturalmente, essendo modelli di intervento del tutto innovativi mancano ancora di una definitiva sistemazione teorica.
Il termine empatia assume nelle nuove strategie del conflitto un valore rilevante. Alcuni autori, interessati alla psicologia sociale, hanno ridefinito il termine. “La comprensione empatica del vissuto dell’altro risulta diretta conseguenza della capacità di percepire la propria emozione come differenziata da quella dell’altro, con chiarezza e nitidezza nel differenziare il proprio e l’altrui stato d’animo.
Ciò che spesso viene confusa con una qualità empatica di relazione è ciò che nel gergo clinico viene definita “identificazione proiettiva”, corrispondente, cioè ad una proiezione sull’altro dei propri sentimenti, soprattutto se derivanti da percezioni negative. Una comprensione emotiva differenziata consente, invece, una più profonda capacità di interazione benefica con l’altro”. (Sapio, 2004. pp. 301-302)
Segnalando, sia pure a volo, i nuovi ambiti della psicologia: psicologia sociale; psicologia della pace, psicologia politica; strategie del conflitto, etc...ribadisco che con questi nuovi modelli di intervento si perdono, in parte, le classifiche delle psicoterapie concepite a fasi regolari susseguentisi o a fasi discontinue.
Nella nuova corrente di psicologia ad indirizzo umanistico-cognitivistico-relazionale si tesaurizzano, nella cura di disturbi generati dai traumi della separazione, degli abusi sessuali, dell’abbandono, della discriminazione razziale etc., modelli mediati dalle scienze fisiche e dalle scienze matematiche con i limiti imposti dall’uso di tecniche di intervento terapeutico sull’efficacia delle quali lavorano i ricercatori del campo.
Dalla letteratura psicosociale è stato acquisito il termine RESILIENZA giunto a noi dalla cultura psicologica anglosassone e statunitense.
Sinonimi di resilienza sono: elasticità, mobilità. Essa è anche definibile come somma di abilità, di capacità di adattamento attivo e di flessibilità necessaria all’autoriparazione dopo un danno. La resilienza è presente come potenzialità in ogni essere umano. Le sue caratteristiche sono: l’insight o introspezione, l’indipendenza come capacità di mantenersi ad una certa distanza dai problemi, ma senza isolarsi. (dott. Aurora Fiorentini che opera in Argentina) La resilienza è anche collettiva; agisce nei disastri naturali, durante le guerre. Marco Aurelio la definiva forza d’animo.
La resilienza fa riferimento alle scienze biofisiche e si può definire come la capacità di alcuni materiali di recuperare la forma originaria qualora siano sottoposti a traumi deformativi. Applicata alle scienze sociali denuncia la capacità di un individuo, il quale ha subito un trauma, di resistere all’impatto distruttivo ed, oltretutto, uscirne migliorato.
Al trauma, da sempre sancito come di natura clinica, etichettato come disturbante, si annette con la resilienza, un valore positivo che valorizza, di conseguenza, il dolore quale esperienza di arricchimento umano. La resilienza consolida i legami socioaffettivi; tale termine richiama quello di resistenza; resistenza al dolore.
“La letteratura psicosociale sulla resilienza può essere a nostro avviso distinta in due grossi filoni, relativi a due diversi approcci: a) approccio socio-cognitivista che tende ad identificare, selezionare, valutare e potenziare le abilità o capacità intese come fattori di personalità, che attivano qualità di resilienza; b)approccio umanistico che tende a leggere la resilienza come processo e non come qualità individuale alla stregua della intelligenza o di altre abilità”. (Sapio, pp.221-222)
Il primo approccio, poiché si avvale della selezione, potrebbe rientrare tra quelli ad andamento prevedibile, mentre il secondo, che non pratica la selezione, potrebbe rientrare fra quelli ad andamento più incerto in quanto punta essenzialmente sulla realtà della sofferenza e della resilienza, senza attendere risultati del tutto positivi.
La ricerca scientifica, nell’ambito della psicologia sociale, si sofferma sull’enorme importanza della rete di interazioni socioaffettive dove viene meno il modello di tradizione psicoanalitica secondo il quale: “A determinare la qualità dello stile interattivo sarebbe la forma dell’imprinting della relazione primaria che ne fonderebbe le basi originarie; un tale modello di sviluppo lineare traspare evidente anche in svariate formulazioni successive, come nel caso della teoria dell’attaccamento e delle relative elaborazioni previsionali della “strange situation”.
Secondo l’indirizzo della psicologia sociale sarebbe ipotizzabile, invece, una concezione più complessa dello sviluppo in cui scelte di vita, fattori situazionali, opportunità e vincoli giocano un ruolo significativo nel ridefinire e ricodificare di volta in volta gli stili di interazione dell’individuo”. (Sapio, pag. 238) Il primo tipo di approccio è inserito in una prospettiva dinamico-evolutiva;il secondo contempla una evoluzione migliorativa se uno stile di relazione negativa si riconverte nell’esperienza di una interazione positiva.
Accanto all’applicazione del concetto di resilienza agiscono modelli, per intervenire nella soluzione dei conflitti, mediati dalle scienze matematiche e dalle tecniche dei giochi, soprattutto dal gioco degli scacchi. Tali modelli, già sperimentati negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, fanno uso di una terminologia di lingua inglese alla quale dobbiamo abituarci.
Thomas Schelling, professore presso dell’Università del Maryland, presidente dell’American Economic Association, premio Nobel per l’Economia insieme a Robert Aumann, è stato premiato per i suoi studi finalizzati alla prevenzione dei conflitti nucleari. Ma la sua teoria, detta “STRATEGIA DEL CONFLITTO” (1960, 1980, trad. ital. 2006) si adatta alla soluzione di qualsiasi genere di conflitto; da quello intrapsichico a quello interpersonale, a differenti livelli e situazioni: famiglia, coppia, scuola, ospedali, aziende, fino a livello politico internazionale.
Le nuove correnti della psicologia, in un periodo come quello attuale che vede il dilagare dell’aggressività e della violenza ed il rischio sempre aperto di nuovi conflitti di guerra, tentano di formare psicologi e sociologi i quali sappiano, impegnati in diversi contesti, curare ed educare alla pace. Dallo spazio familiare agli spazi di lavoro; dai piccoli ai grandi gruppi. Termini quali: peacemaking, peacebuilding, peacekeeping, peacethinking innescano processi costruttivi della pace tramite interventi a livello strutturale e nel contesto della interdisciplinarità, per spostare il cambiamento dall’individualismo verso il collettivismo.
La più volte da me nominata, Antonella Sapio, si è avvalsa del testo dello Schelling per riproporne, a sua volta, la teoria.
Le psicoterapie tradizionali seguono, almeno in parte, un iter comune. Mi riferisco alle psicoterapie analitiche, a quelle cognitive, allo psicodramma ed alle diverse tecniche di psicoterapia gruppale. Il sintomo denunziato dal paziente o dai pazienti, molto spesso chiama in causa “l’uomo nero”: colui, colei o coloro che più o meno volontariamente o del tutto in buona fede, hanno favorito l’insorgere della patologia nel paziente. A volte non è l’uomo nero; la genesi del disturbo è da addebitare a cause fortuite: un incidente, la perdita di beni materiali, un lutto etc. Nel primo caso, quando un marito addebita alla propria moglie la sua sofferenza e viceversa; quando i figli accusano i genitori e viceversa o l’impiegato il suo capo ufficio e così via, il terapeuta o conduttore deve aiutare il paziente a risolvere un conflitto. Tradizionalmente, si procede nel recupero dei ricordi narrati insieme ai sogni fatti ed alle fantasie ed il terapeuta è impegnato a riconoscere, quando ne è sicuro, che il suo assistito ha subito una ingiustizia, una frustrazione grave, un trauma. Il processo terapeutico si muove sulla direttiva: stabiliti i ruoli del persecutore e della vittima, si cerca di risolvere il conflitto, ma i ruoli continuano a rimanere gli stessi, tappa dopo tappa.
Nella strategia del conflitto il gioco si imposta fin dall’inizio “in maniera tale che i giocatori debbano contrattare il loro modo di raggiungere un risultato o verbalmente o secondo le mosse che faranno, oppure in entrambi i modi. Essi devono trovare modi per regolare il loro comportamento, comunicare le loro intenzioni, lasciare che si realizzi una convergenza dei loro pensieri, taciti o espliciti che siano, per evitare la distruzione reciproca dei potenziali guadagni”. (Schelling, 1980.2006, pag. 124) La strategia del conflitto, in ambito psicoterapeutico, è indicata nella terapia della famiglia e della coppia, negli altri contesti; terapie individuali e di gruppo il ruolo del giocatore mancante deve rivestirlo il terapeuta il quale deve partire dal “presupposto che la maggior parte delle situazioni conflittuali siano essenzialmente situazioni negoziali. Ci sono situazioni in cui la capacità di uno dei partecipanti di raggiungere i propri scopi dipende in misura importante dalle scelte o dalle decisioni dell’altro partecipante. La contrattazione può essere esplicita. Può prendere lo status quo come punto di partenza per cercare accordi che comportino risultati positivi per entrambi”.(Schelling, pp. 5,6)
L’uso della strategia del conflitto, già applicata nell’ambito della psicologia sociale- politica non ha trovato ancora la sua sistemazione in ambito psicoterapeutico. Per poter accedere a nuove forme di intervento nelle psicoterapie è necessario liberarsi della fede cieca nei modelli fino ad ora adottati. Senza perdere ciò che di utile e buono i vecchi modelli ci hanno dato, si impongono strategie nuove, adattate alla storia attuale. Forse non sono più utilizzabili, o lo sono in parte, i modelli che prevedono tempi di terapia lunghissimi, in situazioni ripetitive mirate a rimarcare il conflitto più e più volte e spesso senza un soddisfacente risultato. La ricerca in ambito psicoterapeutico tende, attualmente, alla verifica, non sempre certa, di ordine scientifico dei risultati per sfatare l’innocente ottimismo che fa ci fa dire quando diciamo o scriviamo di un caso clinico: “Il paziente X ha chiuso la terapia con risultati positivi o brillanti”.


LA VERIFICA NELL’AMBITO DELLE PSICOTERAPIE

Eysenck (Aisenck), nel 1952 dichiarò che le psicoterapie non guariscono i pazienti affetti da malattie psichiche. Se i malati migliorano lo si deve, a suo avviso, ai processi maturativi che evolvono per proprio conto. Fortunatamente, non sono molti quelli che la pensano come Eysenck (Aisenck). Tuttavia, qualche dubbio circa l’efficacia della psicoterapia affiora nel lavoro di qualche (o di molti, non so precisarlo) psicoterapeuta. Che ben vengano questi dubbi perché sollecitano la ricerca su quella che oggi si definisce “outcome” (autucam-risultanza), cioè “la ricerca sui risultati”.
Ricerca che si avvale dell’uso di una enorme quantità di strumenti. Nel 1996 ne sono stati classificati 1430. (Dazzi ed Altri, 2006) Essi sono siglati e classificati secondo due modalità di uso; indirizzati ad un solo paziente; indirizzati a gruppi di pazienti.
L’assunto di partenza dei ricercatori è: “Sebbene i diversi approcci si basino su differenti modelli concettuali rispetto alla psicopatologia e al processo di cura, essi sono equivalenti nei risultati. La ricerca sul processo terapeutico nasce dal tentativo di svelare il paradosso dell’equivalenza: se le teorie di riferimento e i modelli tecnici d’intervento sono diversi, perché le terapie, nei loro risultati si equivalgono? Ma le diverse terapie nella pratica clinica differiscono realmente tra loro oppure le differenze si limitano alla concettualizzazione teorica che le sostiene”?
A mio avviso, in base a quanto ho esposto nella presente relazione e cioè che le psicoterapie, suddivise in due grandi gruppi: quelle che presuppongono un andamento a livelli evolutivi e quelle che presuppongono un andamento discontinuo, non possono essere equiparate in quanto differiscono nelle “tecniche di intervento e nei diversi approcci”. “Le ricerche più recenti hanno mostrato che le differenze prevalgono sulle somiglianze.
Certi strumenti della ricerca escludono dalla loro indagine la psicoanalisi; esclusione dovuta al fatto che” i pochi studi che si sono occupati di verificare l’efficacia dei trattamenti analitici non rientrano nei criteri enunciati dal movimento EST (empirically supported treatments)
Una strada attualmente promettente per valutare l’efficacia del trattamento è, secondo il Premio Nobel Eric Kandel l’incontro fra psicoterapia e la neurobiologia. Massimo Ammanniti, riflettendo su due importanti articoli di Kandel dice: “In questi due articoli Kandel mette in luce le grandi innovazioni apportate dalla psicoanalisi nella prima metà del XX secolo. Tali innovazioni hanno rivoluzionato la nostra comprensione della vita mentale, mentre successivamente si sarebbe verificata una certa stagnazione soprattutto sul piano della verifica scientifica delle ipotesi alla base del sistema teorico psicoanalitico. Allo stesso tempo, la psicoterapia dinamica si è affermata intorno agli anni Sessanta come metodo curativo di elezione nel campo delle nevrosi, comportando un allontanamento dall’alveo biologico. Tuttavia dagli anni Ottanta a oggi, la ricerca neuroscientifica si è sviluppata impetuosamente contribuendo a mettere in luce come i diversi aspetti del funzionamento mentale siano rappresentati in differenti regioni del cervello”:(Ammanniti, in Dazzi ed Altri, 2006, pag. 229)


CONCLUSIONI

Dire, a questo punto, quali modelli di psicoterapie siano più efficaci di altri sembra che nessuno ancora lo sappia, soprattutto perché ogni teoria, in questo ambito, declama il proprio buon risultato. Tecniche terapeutiche a livelli evolutivi, tecniche a fasi discontinue, terapie brevi, terapie lunghe, singole e di gruppo, tutte devono presupporre una relazione, un’alleanza tra paziente (o pazienti) e terapeuta di alta qualità; non solo autenticamente empatica, ma anche appassionata e obbiettivamente valutata. Se una buona psicoterapia agisce, come affermano le scienze neurologiche, sulle aree cerebrali modificandone benignamente le funzioni, si deve soprattutto all’intesa che si stabilisce fra il paziente, o i pazienti, ed il terapeuta.
Una garanzia sul buon esito di una psicoterapia, individuale, di gruppo, di grandi gruppi, etc. può generarla, con una certa sicurezza, l’alleanza terapeutica che “costituisce uno dei fattori più indagati in psicoterapia; si è rilevata come una delle variabili maggiormente predittive di outcome positivo del trattamento, in maniera indipendente dai modelli teorici di riferimento del terapeuta”. (Gianluca Lo Coco ed Altri, 2006)
Aspettarsi che il processo terapeutico debba evolversi secondo la struttura del modello utilizzato è un rischio. Per cui, a mio parere, utilizzare il modello come mappa e non come territorio salvaguarda terapeuta e paziente da facili e gratuite illusioni.]


Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti:

Il coordinatore, dr. D. Surianello, si complimenta con la dott.ssa M. A. Ferrante ed osserva come dalla sua relazione sia emersa l’impronta originale dell’antropologia culturale.
La dott,ssa M.A. Ferrante commenta di essere stata un pò critica, ma nella sua vita ha sempre dubitato e deve continuare a dubitare anche se il dubbio non deve essere esagerato, ma contenuto.
Il prof. R.Pisani reputa molto approfondito ed articolato lo studio presentato dalla dott.ssa M.A. Ferrante che ha messo a fuoco alcuni temi; in particolare: la psicoterapia evolve in maniera lineare o per fasi? E’ una psicoterapia risolutiva o non risolutiva? Quali sono gli elementi che favoriscono e quelli che ostacolano il cambiamento? Le psicoterapie sono o non sono uguali? Il prof. Pisani solleva la difficoltà a capire i risultati indipendentemente dal tipo di psicoterapia, perché certe volte le valutazioni sono solo sulle apparenze; sono sintomatiche e non riferite a cambiamenti sostanziali. Personalmente in tutti gli anni di attività psicoterapica, sia nei suoi trattamenti che di altri, non ha mai visto una terapia veramente risolutiva, nel senso di cambiamenti sostanziali e duraturi. Si è reso sempre conto che gli stessi psicoanalisti che fatto terapie lunghissime, continuano ad essere disturbati Non parla di soluzioni perché lo psicoterapeuta indirizza il paziente verso un processo di evoluzione; osserva come il concetto di maturazione venga di solito accantonato perché il processo maturativo consiste nel farci passare da posizioni, desideri, conflitti, aspirazioni, ambizioni infantili ad una posizione adulta. Quando uno diventa veramente maturo? Quando la pera è matura? Non quando cade dall’albero: in quel caso è sfatta. Lo stato di maturazione riguarda invece la pera pronta per essere mangiata; quando cioè ha raggiunto la sua essenza di pera; è la pera adulta, mentre la pera iniziale è acerba: è una pera bambina. Il prof. Pisani ripropone il quesito sulla maturazione dovuta solo al trascorrere del tempo. Reputa che, per accertarcene dovremmo fare dei gruppi di controllo per valutare attentamente i parametri e stabilire se vanno avanti i soggetti che fanno o non fanno terapie.
La dott.ssa L. Taborra propone quanto dice Erikson :ogni individuo prima o poi raggiunge la maturazione relativa al proprio sé; evidenzia come sia scontato che ciascun individuo, con o senza terapia, matura nel tempo.
Il prof. R.Pisani dice di attenersi al criterio della pera acerba e della pera matura-adulta. Ci sono quelli che si avvicinano abbastanza all’adulto e quelli che invece non ne vogliono proprio sapere : resistono in tutte le maniere. Propone due considerazioni a proposito dell’evoluzioni a fasi che ormai sappiamo riguarda i gruppi analitici. L’amico Usandivaras parlava della fase iniziale che è la fase del caos; la fase di fusione- disintegrazione; la fase della comunitas e la fase dell’individuazione. La prima fase, del caos, è terribile: il gruppo cerca un capo carismatico che tenga a bada il caos; poi la fase successiva è quella di fusione- disintegrazione nel senso di dare il senso di onnipotenza del gruppo quando siamo tutti insieme, oppure questo gruppo non serve a niente, è una perdita di tempo e tutti se ne scappano. La fase della comunitas è lo strumento della comunicazione: in questa fase i membri scoprono di avere molte cose in comune ed anche profonde differenze. Nella fase dell’individuazione le varie “pere si presentano mature” e sono pronte per essere mangiate: se si lasciano attaccate, diventano sfatte. Bisogna essere molto attenti a cogliere il momento di maturazione: è il momento in cui il paziente se ne deve andare. Altra considerazione riguarda i livelli di Foulkes. E’ vero che è molto importante cogliere nel corso della comunicazione analitica, qual’ è il livello prevalente in ciascun momento; se si parla della bomba atomica di Hiroscima oppure che il tram si è scontrato e ci sono stati di morti, siamo ad un livello di realtà, oppure se parliamo di un paziente che si è innamorato di un altro o del terapeuta, parliamo del livello di transfert oppure quello proiettivo in cui avvengono tante cose: l’invidia, la gelosia, la dipendenza,
La relatrice Dr.ssa M.A.Ferrante osserva che potrebbe non essere il livello di transfert, ma quello di realtà perché l’innamoramento è dovuto al fatto che è una bella donna e non ha nulla a che vedere con la madre.
Il prof. Pisani ribatte che però potrebbe anche somigliare alla madre. Spiega che Foulkes diceva che i livelli sono continuamente presenti ed interagenti: noi facciamo una divisione per capire quale sia il livello in primo piano in un determinato momento, ma sono interagenti; noi li separiamo ricorrendo all’astrazione a livello terapeutico/scientifico, ma sono intergenti e, come sta dicendo la relatrice, se quella è una bella donna, è anche possibile che assomigli alla mamma o alla sorella. Ribadisce lo studio approfondito ed accurato della relatrice e molto articolata la messa a fuoco di dubbi e di dilemmi che ci accompagnano in questo lavoro.
La dott.ssa L.Taborra chiarisce che il discorso di Erikson è legato a persone non disturbate gravemente, perché in caso di patologie psichiatriche gravi, cade il discorso della maturazione soggettiva che secondo lui può avvenire perché in ognuno c’è la resilienza, quella forza d’animo che può emergere a 60 , a 40, a 30 anni. Lo stesso Jung, parlando di percorso analitico e di fasi di maturazione, individuava in una certa età dell’ individuo una particolare predisposizione per affrontare un certo tipo di lavoro terapeutico. Il processo d’individuazione si realizza da una certa età dell’individuo in poi allorché, Jung dice, è possibile affrontare determinate tematiche perché se le affronti prima, non è che facciano male, ma l’individuo non è pronto. Personalmente condivide l’ esistenza della maturazione spontanea.
Il dr. V. Lusetti interviene sulla maturazione che è il tema centrale dell’incontro. Come psichiatra valuta che delle situazioni, come faceva presente la collega, sono talmente gravi da non poter parlare di maturazione; tuttavia essendo anche psicoterapeuta, segue situazioni meno gravi e si è accorto che anche situazioni apparentemente meno gravi spesso hanno un decorso che è diverso da quello che si auspica la maturazione. La psicoterapia si risolve con un accompagnamento del paziente lungo gli snodi della sua sofferenza. Per questo si chiede se sia corretto parlare di obiettivi in psicoterapia come quello di guarigione anziché considerarla come aiuto. Chiede alla relatrice se nello studio abbia valutato questo aspetto.
La dott.ssa M.A.Ferrante reputa che spesso si abusa del concetto di guarigione, nelle conclusioni dei casi clinici; è d’ accordo sul mantenere la linea di prudenza, che suggerisce il dr.W. Lusetti, considerando sufficiente quello che si è ottenuto.
Il dr.D. Surianello considera che alla fine della terapia, lo psicoterapeuta o psichiatra rimane un punto di riferimento per la persona che ha ottenuto qualcosa, ma alla quale qualcosa manca sempre.
La dott.ssa M.A.Ferrante considera invece il caso del paziente che non torna più, però utilizza il bagaglio accumulato in terapia.
La dott.ssa L.Taborra espone un pensiero del prof.Tedeschi a proposito di come il terapeuta dispone il paziente e il tempo in cui possa avvenire la squarciaura del velo: quando dici una cosa per dieci volte non succede nulla poi all’undicesima si realizza l’insight. Il prof. Tedeschi diceva che se dentro il terapeuta non c’è il terapeuta, può sortire più effetto la frase della signora che vende la frutta al mercato, fila la lana, insomma si occupa di tutt’altra cosa, che non quella che dice il terapeuta che dentro di sé, non ha il terapeuta.
Fernanda Cerignoli chiede come faccia il paziente a rendersi conto se nel terapeuta c’è il terapeuta.
La dott.ssa L.Taborrra risponde che il paziente direttamente non se ne rende conto, ma può portare dei sogni; può progredire, può verificarsi un cambiamento visibile o che gli fanno notare gli altri e di cui si meraviglia lui stesso.
La dott.ssa M.A.Ferrante richiama l’importanza delle emozioni; sottolinea quanto sia fondamentale che in psicoterapia il terapeuta solleciti la mobilità dell’emozione; evidenzia il sentirsi che svela la condivisione; quel “quid” imponderabile, ma ponderabilissimo, che fa percepire al paziente che il terapeuta l’ha capito.
Fernanda Cerignoli ribatte che non è semplice, come paziente, capire se è un emozione vera o una costruzione.
La dott.ssa M.A. Ferrante evidenzia che il terapeuta lavora anche per far capire le emozioni; è un lavoro a due: un po’ mette il terapeuta, un po’ mette il paziente.
La dott.ssa G. Sgattoni riflette che ci sono elementi dove si intrecciano i livelli più differenziati. Si riferisce a quanto esposto dalla relatrice circa il cambiamento nel modo di approcciare le tematiche della vita umana e del soffrire e come si ricollegano anche al mutare degli studi sul funzionamento umano. Porta l’ esempio dei neuroni specchio alla luce dei quali si analizzano problematiche come quella dell’autismo che ormai è inquadrata come una patologia biologica e quindi come questo sistema biologico possa o non possa recepire e come decodifichi la realtà. Collega tali considerazioni al suo lavoro di psicologa e psicoterapeuta in un ambiente dove individui con una patologia neurologica conclamata, vengono già incasellati come qualcosa di diverso. Parla dell’esperienza che ha iniziato a fare nel ‘94 in maniera empirica sulla base di concetti e di esperienze cliniche e poi sulla base di necessità, con individui che non avevano nessuna collocazione, nessuna definizione di ruolo se non di essere stereotipizzati dentro la patologia neurologica che diventava la loro identità. Si è trovata a metterli insieme partendo dal principio che comunque dovevano dare un senso alla loro vita, al loro tempo. Erano adulti e un adulto lavora, si alza al mattino, mangia; lo spazio da occupare era la giornata, quindi il lavoro; l’idea era quella di far sperimentare il lavoro dove non c’erano i ritmi e quindi che cosa è normalità, che cosa è guarigione, ma c’era un ambiente di lavoro che cercava di rispettare le loro possibilità di stare nei tempi; di esserci e non di subire le spinte; di essere come noi immaginavamo dovessero lavorare, ma vedere come potevano lavorare. I soggetti venivano da 20 anni di manicomio, persone con ritardi cognitivi gravi, persone che presentavano disabilità neurologica e innesto di tipo psichiatrico:residuati manicomiali o da realtà sociali che non erano in grado di assorbire perché si erano stereotipizzati secondo dei cliches di attesa. Spiega che viene da anni di esperienze in ambito neuropsicologico dove si è passati attraverso gli stadi cognitivi piagetiani e gli stadi di Doman Delecato sullo sviluppo dei movimenti, della prensione che si erano rilevati perdenti, per passare a capire la funzione del movimento, la funzione dell’apprendimento della letto- scrittura per cui non erano importanti gli stadi, cioè che si andasse carponi per andare a piedi, ma come poter andare a piedi con quel tipo di funzione. Torna al gruppo e alle funzioni con questo tipo di persone tra cui c’era qualcuno che non parlava o che usava delle metafore in modo stereotipizzato. Porta l’ esempio di un paziente che diceva solo mucca; gli operatori lo portavano nel programma di accoglienza e di progettualità con il compito di accompagnarlo una volta a settimana in una fattoria a vedere le mucche. Con l’andare del tempo, affidandosi al tentativo di decodificare dei messaggi, si è accorta che questi pazienti comunicavano, non sapendo di comunicare; alla fine nei loro discorsi c’erano i discorsi sulla vita, sulla morte, sulle aspettative, sul dolore che appartengono ad ogni essere umano. Indipendentemente dal danno, quello che li accomunava erano proprio le emozioni con cui affrontavano la vita.
Il prof. R.Pisani le propone un seminario per il prossimo anno.
La dott.ssa G.Sgattoni si dice interessata perché vi vede l’occasione per elaborare tutto questo materiale che è rimasto come una percezione globale ed emozionale. Chiarisce che ha lavorato con pazienti neurolesi e psicolesi; neurologici ma anche esclusivamente psichiatrici, in particolare pazienti psicotici. Fa notare come alla fine il confine tra normali e non normali non c’era più, tanto da mettere in crisi gli operatori, che dicevano di perdersi in quanto pensavano di stare in una condizione e, ad un certo punto, non ci si ritrovavano più. Collega questo aspetto al concetto di guarigione che definisce un concetto astratto nel senso che guarire vuol dire essere in pace con se stessi, ma anche col mondo. Lei, nella guarigione, ha considerato l’influenza dell’ ambiente esterno.
Il prof.R.Pisani sottolinea l’importanza dell’ambiente in senso relazionale.
Il dr. M.Cecinelli si riferisce a quanto detto sull’accompagnamento del paziente rispetto ad una guarigione che non esiste; afferma che però uno psicoleso o neuroleso nutre l’aspettativa della trasformazione, della maturazione. Valuta come, pur essendo vero che tornano tutti, non è detto tornino dallo stesso terapeuta perché il problema della maturazione dell’io è un problema reale. Non condivide quanto detto dalla dott.ssa L. Taborra circa l’esistenza di tempi più adatti, per affrontare un problema. A questo proposito è convinto che l’analisi freudiana non sia per nulla sorpassata e che, malgrado la diversa lettura di certi psicoanalisti, ogni volta sia possibile riscoprirla forse non in quanto punto di partenza, ma punto di arrivo.
La dott.ssa G. Sgattoni evidenzia che ogni persona può essere in sintonia più con certi psicoterapeuti. Come il terapeuta sceglie la sua formazione, così il paziente ha bisogno di trovare questa sintonia.
Il prof. R.Pisani evidenzia che Jung diceva che il paziente si sceglie il terapeuta che gli è più congeniale.
La dott.ssa L.Taborra valuta come sia il terapeuta a scegliere i pazienti in base alle problematiche del suo universo.
La dott.ssa G. Sgattoni considera che ogni psicoterapeuta si trova ad avere successo più con alcuni tipi di situazioni che con altre, il che rispecchia anche il suo modo di funzionare.
La dott,ssa A.M. Meoni ringrazia la relatrice per lo sforzo prezioso e per il taglio critico che, come la discussione ha dimostrato, è sicuramente propositivo. Conferma ciò che la dott. ssa G.Sgattoni ha detto timidamente, perché per un periodo della sua attività le hanno consegnato l’ex residuo manicomiale chiedendole di “farci qualcosa” e ha avuto un’esperienza analoga. Si è ricordata di uno psicoanalista norvegese che sostiene, in casi particolarmente disperati, di poter rievocare funzioni/ abilità impensabili, attraverso l’attivazione di circuiti paralleli, secondari; un pò come avviene nell’infarto col microcircolo laterale. La considera un’ipotesi suggestiva. Le è poi venuto in mente un aspetto non toccato. Parlando di psicoterapie, all’inizio della carriera ha sottoposto ad un trattamento psicoterapico ortodosso, anche se non psicoanalitico, un paranoico. Il paziente è molto migliorato, anzi è guarito, ma le ha detto “A dottorè, come stavo meglio prima!”. Questo è l’outcome: la valutazione soggettiva del soggetto. Le è capitato altre volte in guarigioni sintomatiche molto apprezzate socialmente e dai familiari, laddove un sintomo ossessivo, un sintomo fobico si attenua, scompare oppure viene sostituito da un altro meno disturbante per l’ambiente. Il paziente però ha molta nostalgia per la funzione sedativa che il sintomo ha per lui, mentre manifesta una grande sofferenza per la funzione matura adulta che è una grande fatica. Sull’aspetto outcome della psicoterapie non ci crede per niente perchè nessuno si metterà mai d’accordo sul metro da usare; ci saranno sempre delle critiche. L’outcome si farà sempre sul sintomo quindi sarà completamente indifferenziato, come è l’aspirina per la febbre così la psicoterapia per l’ansia. Altra considerazione è sullo sforzo di codificare il lavoro psicoterapico. Secondo lei è un discorso teorico applicato ad una realtà che non coincide mai, perché gli schematismi applicati alla realtà non funzionano; aiutano verso una metodologia di studio, ma non è un risultato. Molta della letteratura che la relatrice ha citato di carattere psicoanalitico ci propone degli schemi come aspetti eziologici patogenetici, allora i conti non tornano: dire che piove quattro gocce al minuto, non può essere assimilato all’origine della pioggia. Il trattamento, rispetto alla descrizione in letteratura e alla proposizione teorica psicoanalitica, è in realtà pieno di diverse difficoltà.
Il prof. R.Pisani invita a non svilire troppo l’analisi che, pur con tutti i limiti possibili, è uno strumento approfondito.
La dott,ssa A.M. Meoni è del parere che debba essere proposta come una psicopatologia non come una terapia; il lavoro psicoanalitico è un contributo alla psicopatologia; non è una conoscenza, ma una descrizione del funzionamento.
Il prof.R, Pisani sottolinea come l’intervento psicoanalitico tenda a migliorare il funzionamento; personalmente ha avuto ottimi risultati con i suoi pazienti, non solo nel cambiamento del sintomo.
Il dr. V.Lusetti commenta: “Forse grazie a Rocco Pisani”.
Il prof. R.Pisani evidenzia che nel suo lavoro ha usato Freud, Foulkes, Jung: ha arrangiato il tema.
La dott.ssa L. Taborra osserva che se il tema non è arrangiato bene, non si hanno risultati; si rifà a quanto affermato circa l’esserci del terapeuta nel terapeuta.
Il prof. Pisani propone alla dott.ssa G. Colangeli un seminario per l’anno prossimo, sull’esperienza del trattamento dei pazienti cefalalgici al policlinico, di cui si occupa da due anni. La dottoressa è d’accordo.]

Note di redazione:
(t) La relatrice Dr.ssa M.A.Ferrante ha fornito il testo integrale e rivisto il dialogo nel dibattito a seguire la registrazione vocale degli interventi dei partecipanti.
Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com


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