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A. M. P. 
SEMINARI 1998 - '99 
Prof. Francesco Di Raimondo
Primario Emerito dell'Istituto di Ricovero e Cura
a Carattere Scientifico "Lazzaro Spallanzani" di Roma. 

Antropologia Medica per la Clinica


Introduzione

 Sono particolarmente grato al Prof. Rocco Pisani che, con l'affettuosa partecipazione di Mario Giampà, mi ha convinto che avrei avuto titolo e ascolto per presentare le mie riflessioni, su esperienza clinica e interessi culturali correlati, ad un pubblico altamente qualificato in ambiti di cui so la rilevanza per un medico anche se non ne ho la preparazione specifica. Se oso parlare in questa sede interdisciplinare dagli obiettivi alti ed ardui è perchè avverto una spinta interiore, forte, a partecipare talune proposte concettuali e certe suggestioni operative che nascono dall'attenzione crescente, nel praticare clinica, a tentare un passaggio essenziale e certamente atteso dall'universo dei sofferenti: dalla "verità sulla malattia" alla "verità sul malato".
Si tratta certamente del prolegomeno essenziale per una rivisitazione e forse per una vera rivoluzione culturale della prassi medica, oggi non più rinviabile a fronte della caduta di fiducia reciproca tra medico e malato; ci troviamo così ad affrontare l'impatto con l'obbligo del consenso informato, il crescere della conflittualità per ritenuta "mala sanità", l'allargarsi di fenomeni come l'automedicina e il ricorso a medicine "alternative". Già da anni avevo cercato di cogliere possibili chiavi di quel mistero che mi è sempre parsa la malattia esistenzialmente "incarnata" nell'irripetibile realtà globale del soggetto colpito: una realtà che andavo incontrando nel mio cammino professionale ma di cui moltissimo ignoravo, per poter capire a fondo il vissuto personale di malattia e la reattività positiva di ogni singolo malato per uscirne al meglio e non solo in virtù delle mie prescrizioni.

 Da quella lontana sensibilità e attenzione generali e da una serie di contributi in merito a "tutto l'uomo" è scaturita, nell'ultimo decennio, la scelta di riversare le mie riflessioni in una disciplina di confine, l'Antropologia Medica. Questa, infatti, può offrire la conoscenza di componenti fenomeniche e di approcci culturali finalizzati alla praticabilità di un percorso clinico "integrato", cioè funzionale a perseguire, insieme, la doppia verità - un diritto-dovere di un medico "Medico" - cioè quella sulla malattia e quella sul malato. Le circostanze fecero maturare l'assegnazione di una docenza in materia alla Pontificia Università "Gregoriana": un corso post-laurea di tipo seminariale che mi ha molto arricchito per i contributi di tesi da parte di discenti di varie nazionalità, e quindi portavoce di sensibilità e problematiche diversificate nei vissuti individuali e socio-culturali della salute, della malattia e del morire. Il testo che segue si richiama a quell'esperienza didattica, sviluppando quanto può più immediatamente costituire stimolo e indicazione concreta per tradurre in opzioni comportamentali coerenti ai nuovi assunti la prassi medico-assistenziale attuale, specie di quella esercitata in determinati contesti temporo-spaziali di strutture sanitarie pubbliche. E qui va fatta un'annotazione: l'intera materia del testo che segue era già in fase di avanzata elaborazione e in stesura di base per conto del "Canale Parallelo Romano", il Corso di Laurea in Medicina della "Sapienza", coordinato dal Prof. Aldo Torsoli; un corso che propone una didattica integrata da nozioni formative "umanistiche", funzionali quindi a sviluppare una figura professionale preparata all'ascolto-risposta anche alle istanze "inespresse" di quel mistero vivente che ogni malato è. Tenuto conto di questo dato di fatto, e con il consenso dei Colleghi Pisani e Torsoli, il testo previamente prospettato al Seminario nel suo impianto generale appare in questa sede editoriale così come appena pubblicato nel volume II (1999) di "Scienze Umane, Letteratura ed Arte per la Medicina", a cura dello stesso Canale Parallelo Romano.


1 - Introduzione

 Obiettivo del testo è persuadere dell'utilità della disciplina più oltre definita Antropologia Medica per un'adeguata formazione pre- e postlaurea, in ordine allo sviluppo di una personalità professionale rispondente ad antiche e nuove domande di salute "globale". In questa prospettiva le informazioni ed i richiami culturali necessari sono stati selezionati per la loro applicabilità immediata a percorsi formativi, che tentino la massima integrazione possibile tra discipline scientifiche e umanistica medica [1].
 

 2 - Antropologia Medica: una Definizione ad uso Clinico

 Un approccio antropologico alla Medicina esige in primo luogo una definizione della terminologia adottata [Tabella I]. L' Antropologia Medica è una componente rilevante di quella globalità di dimensioni della realtà Uomo, che si è ritenuto di chiamare "Antropologia Globale".
 

     Tab. I. - Antropologia: conoscenza e pensiero sull'uomo nelle sue dimensioni formali, funzionali, psicologiche ed esistenziali

     Possibili Approcci Antropologici:

     - Antropogenico: analisi del processo di discendenza del genere umano da antenati animali

     - Antropogonico (antopologia filosofico-religiosa): Spiegazione mitologica e religiosa della comparsa del genere umano e del suo manifestarsi nel mondo

     - Biomedico: studio dell'uomo nella sua variabilità individuale di composto psico-fisico

     - Culturale: studio dei fenomeni nel loro concreto manifestarsi nelle diverse società umane

     - Globale: sintesi pluridisciplinare e pluriprospettica delle conoscenze e delle teorie interpretative della realtà uomo nella sua fenomenologia individuale e nella sua dimensione relazionale-comunitaria

 La costituzione dell'Antropologia Medica in disciplina autonoma non ha datazione certa; la prima comparsa del termine è dovuta a Von Weizsacker nel 1941 [2]. Autori posteriori hanno sostanzialmente seguito due percorsi epistemologici, tra loro in qualche modo complementari: 

a. un'Antropologia Medica come aspetto dell'Antropologia culturale, legata cioè a concezioni e prassi di diverse civiltà e Paesi, di cui sono espressione le cosidette medicine tradizionali o empirico-popolari. Tali l'interessante lavoro di Schirripa [3] in questa stessa sede editorale, come gran parte di quelli prodotti dalla Società Italiana di Antropologia Medica. In questa direzione i contributi provengono soprattutto da studi di estrazione filosofica, sociologica, psicologica e letteraria.

 b. Un'Antropologia Medica costruita intorno ad un ripensamento antropologico dell'atto medico, visto come relazione "integrale" fra medico e paziente e come occasione per un nuovo umanesimo. In questa seconda direzione i contributi vengono in prevalenza da studiosi con esperienza clinica diretta [4, 5, 6, 7, 8]. Le due posizioni non sono tuttavia mutualmente escludenti [9].

 Nel testo che segue si cercherà di isolare, nello spazio biomedico di un "Uomo in situazione", realtà e vissuti di immediata salienza per un rinnovato percorso medico e clinico. L'autore è un clinico, e naturalmente la voce medica che si tenterà di rappresentare dovrà richiamarsi, di volta in volta, ad altre aree (filosofia, antropologia generale, psicologia e sociologia). 
 

3 - Corporeita': Significato e Vissuti

 Il corpo dell'Uomo, oggetto primo di ogni atto medico, racchiude in sé realtà e valenze tanto numerose e complesse da apparire un mistero ancora mal penetrabile. S.Agostino affermava: "sono diventato io stesso un grande problema per me". Da un lato si svolgono nel corpo umano attività strettamente biologiche, dall'altro si ha una produzione immateriale convenzionalmente distinta in "razionalità" e "affettività": attività e funzioni cui le neuroscienze si sforzano di attribuire specificità di sede e di modalità esplicative. La consapevolezza della propria psico-fisicità e l'incontro esistenziale con innumerevoli altre unità umane si pongono come valori cardine nell'avventura della vita.
La corporeità dell'Uomo è lo status specifico dell'esistere. In termini biomedici si potrebbe dire, parafrasando Cartesio, sum in sum, ergo cogito: per sottolineare che non esiste un pensare disincarnato. La produzione immateriale prima accennata ha la sua fondazione nell'efficienza, irripetibilmente individuale, di neurostrutture specifiche: substrato anatomo-fisiologico devoluto alla sussistenza ed allo sviluppo della memorizzazione critica, rievocabile o repressa, di ogni esperienza, sensazione, gioia e sofferenza morale, del linguaggio per trasmettere se stesso, della capacità di progetto e di scelta fra varie opzioni comportamentali e operative, e infine di un pensiero simbolico e metafisico. In una parola, di quell'unicum propriamente umano, con il suo farsi, evolversi e spegnersi della coscienza individuale, di cui le ricerche e le speculazioni di neuro-scienziati, fisici, cibernetici, linguisti, psicologi, filosofi e degli stessi teologi, anche le più recenti, non sono state in grado di fornire una lettura più precisa e condivisa. Si veda al riguardo la distinzione fra consapevolezza (awareness) e coscienza vera e propria (consciousness) [10].

 Il problema coscienza ha un rilievo centrale per la persona, al quale l'attività clinica non può sottrarsi. Si considerino alcune condizioni fondamentali, in cui la coscienza è coinvolta da protagonista. 

a. Fenomenologie reattive e comportamentali [Tabella II] relative al desiderio, spesso ansioso, di conoscere i meccanismi della propria biofisicità specie in ordine all'esercizio della sessualità, di attività sportive o di tempo libero in generale, ma anche del come perseguire l'obiettivo, impossibile in assoluto, di un binomio perfetto salute-bellezza.

 b. La tendenza a superare la condizione tradizionale, nel caso di malattia, di sentirsi "oggetto" nelle mani del medico, per divenire soggetto decisionale: un passaggio di vissuto che può anche portare, non sempre motivatamente, a rendersi criticamente autonomi dalla competenza professionale, donde possibili interventi arbitrari e rischiosi sul proprio corpo e l'utilizzo di pratiche non scientifiche, tradizionali o meno, oggi purtroppo diffuso.

 c. L'aumento di patologie indotte da fattori o cofattori collegati o attivati da determinati stili di vita. Si espandono inoltre condizioni di sofferenza anche fisica per il fluire impetuoso, su vasti territori somatici, dell'ansia-malattia [11] e della stessa anoressia-bulimia.
 

     Tab. II - Possibili vissuti di corporeità

     - Identità accettata o rifiutata da se stessi

     - Immagine riconosciuta, accolta o rigettata da parte di terzi

     - Consapevolezza, corretta o distorta di benessere/malessere

     - Fonte o eco di sofferenza

     - Luogo di estinzione della vita o di trasformazione dopo la morte

 La tipizzazione soggettiva della corporeità dipende da un insieme di componenti variamente distribuite: peculiarità temperamentali, vicende di vita, cultura personale e dell'ambiente di appartenenza, esperienza di malattie pregresse e/o in atto, specie di quelle a decorso cronico-invalidante.
La corporeità rinvia naturalmente all'antropologia filosofica, quella dimensione metafisica cioè ove si affrontano i grandi interrogativi su di sé (realtà, percorso esistenziale e destino) [Tabella III]. Ma per il medico può essere già sufficiente tener presente il diritto-dovere di illuminare e sostenere una buona autogestione della vita fisica e psichica del proprio interlocutore, un compito che il "soggettivismo" crescente rende urgente per i rischi di un suo esercizio acritico. Ecco quindi che una lettura antropomedica della corporeità si pone come elemento primario della stessa prassi clinica, nella sua variabilità di impatto individuale.
 

     Tab. III - Livelli di autocomprensione della corporeità

     - Avvertenza "animale" del corpo in base a messaggi provenienti dal sistema biologico

     - Consapevolezza del valore identificante e comunincante del corpo nell'esperienza esistenziale personale

     - Coscienza di problematiche superiori e metafisiche, possibile per la mediazione corporea ma di natura aperta ad interpretazioni diversificate

 

 4 - Salute e Malattia: un'unica Antropologia

 Le due realtà, corpo "sano" e corpo "malato", sono state sempre distinte come antagonistiche , l'una escludente l'altra. E' tipica in proposito la lettura biologica sviluppatasi con la medicina ottocentesca, che focalizzava un guasto di tessuto, organo o sistema, una volta riparato il quale la "macchina corpo" riprendeva il modulo funzionale precedente, ritornava cioè in salute. Nell'ultimo cinquantennio si sono invece sempre più diffusi modelli più articolati circa il modo individuale con cui ogni uomo avverte in se stesso gli stati di salute e di malattia, non tanto come due condizioni distinte dell'essere quanto come momenti spesso compresenti e mal distinguibili tra loro. La stessa attuale "medicina del sano", cioè la valutazione di status biopatologico quale risulta da accertamenti a scopo preventivo, consente di rilevare soltanto parzialmente le possibili anomalie in atto e di identificare tendenze patologiche in fieri.

 La "sanità" d'altra parte, secondo la concezione dell'OMS, si realizza e si mantiene non soltanto per l'assenza di malattia avvertita o rilevata, quanto come dispiegamento di tutte le proprie potenzialità fisiche e psichiche, in un contesto in cui siano assicurati fabbisogni esistenziali essenziali in termini nutrizionali, ecologici e di insediamento abitativo. Ne seguono due percorsi di ricerca epistemologica: 

a. La concezione di sanità umana una e tripartita insieme, cioè fisica o corporea, psichica o mentale, ambientale o ecologica, componenti strettamente interrelate ed interdipendenti tra loro.

 b. Il nuovo territorio interdisciplinare delle medical humanities o"umanistica medica" di cui si ha un insegnamento ad hoc nel Canale Parallelo Romano della Facoltà di Medicina dell'Università La Sapienza, nella Facoltà di Medicina dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, nel "Campus Bio-medico", sempre in Roma, e nell'Istituto San Raffaele di Milano.

 Tutto ciò aumenta il distacco dal concetto di malattia come di un bioguasto, contribuendo ad accrescere la rilevanza della duplice soggettività -malato e medico- in gioco nel realizzarsi di ogni atto clinico. L'ovvietà del richiamo è solo apparente, in quanto è proprio la relazione tra i due ad apparire sempre di più in crisi senza che possano darsi per scontate analisi ed ipotesi di soluzioni semplici e di validità universale.
Si tratta solo del rapporto tra professionista e cliente, sia pure ineccepibile sul piano tecnico e deontologico, oppure l'esercizio clinico ha una sua originalità di impianto che lo fa unico e diverso in ogni sua fattispecie? A quali condizioni e costi un modello ideale di relazione medico-paziente appare praticabile? Per rispondere è necessaria una preliminare riflessione in termini antropomedici sul binomio salute-malattia, una dinamica bi-direzionale che si realizza e viene vissuta in modi propri alla natura di soggetti autocomprendenti, consapevoli della loro finitezza e della loro reattività a stimoli e messaggi endogeni ed esogeni.

 Due funzioni fondamentali consentono ad ogni uomo di vivere la propria corporeità nella salute e nella malattia, in modo individuale ed autonomo, e servono alla mens clinica per strutturare un giudizio diagnostico capace di cogliere i tratti essenziali dell'originalità personale; l'omeostasi e la cenestesi. 
 

    - "Omeostasi" come "equilibrio del mezzo ambiente dell'individuo" ed "omeostasia" come "mantenimento, al valore nornale, delle diverse costanti fisiologiche dell'individuo (temperatura, tono cardiovascolare, composizione del sangue, ecc.), regolato dal sistema nervoso vegetativo e dalle ghiandole endocrine (Dizionario di Terminologia Medica di G. Panzera; Ed. Medi, Roma, 1992). Aitualmente, con il termine "omeostasi" ci si riferisce all'insieme dei due aspetti.

     - Il termine "cenestesii" indica " la sensazione vaga che si ha del nostro essere indipendentemente dal concorso dei sensi; od anche, secondo Deny e Camusn, la sensazione che si ha dell'essere grazie alla sensibilità vaga e debolmente cosciente nello stato normale, derivante da tutti i nostri organi e tessuti compresi gli organi si senso. Nel Dizionario medico italo-inglese di M.L. Petrilli (ed. Le Lettere-Firenze, 1992) "coenesthesia" viene definita come "sesto senso", una scelta concettuale sintetica e convincente.

 La prima appare come il meccanismo principe di autoregolazione organismica nelle oscillazioni minime e massime di valori accettati come "normali" per ogni sistema e funzione biologici: l'omeostasi termica, l'omeostasi metabolica e si può aggiungere - la più misteriosa omeostasi psichica o meglio somatopsichica. Se dunque un corpo può definirsi "in salute" quando tutti i suoi comparti omeostatici sono a perfetto regime, la malattia dovrebbe essere intesa come evento fisiopatologico conseguente alla rottura di uno o più di detti sistemi. L'epifenomeno è rappresentato da segni, sintomi e reperti analitico-strumentali anomali. Il problema è di capire quando e con quali modalità una rottura omeostatica di settore raggiunga la soglia clinica e insieme, ma spesso preceduta da, la consapevolezza diretta, da parte del soggetto colpito, di una qualche anomalia nella propria fisicità: anomalia il cui significato può essere variamente interpretato dall'interessato.

 Si tratta qui della seconda funzione, la cenestesi. Di essa fanno parte complessi elementi di "umanizzazione" del puro biologico, che a loro volta influiscono sulla risposta personalizzata alla comparsa avvertita di segnali di malattia, in particolare del dolore. Per cenestesi (una sorta di autofeeling) si intende l'avvertenza, comune a tutti, del proprio corpo come di un insieme in stato di "normalità" o meno. E' difficile classificare determinate sensazioni come segnali certi di anomalia emergente, ed è proprio qui che l'avvertenza di una rottura biologica si carica di infinite caratterizzazioni personali (psicologiche, socio-culturali, ideologiche, religiose). Si potrà così parlare di una cenestesi complessiva o indeterminata ("non mi sento in forma", "devo avere qualcosa", "mi sento stanco anche senza essermi affaticato", "mi sta passando l'appetito", e di una mirata ("ho una sonnolenza inspiegabile", "non ho più fame di carne", "ho difficoltà a concentrarmi ed a ricordare"). 

Nel colloquio anamnestico con il medico l'estrinsecazione cenestesica è un momento cardine per il risultato finale dell'atto medico,ed è ovvio che anche da questo punto di vista il malato resta la principale fonte informativa [12]. D'altra parte una cenestesi modificata non è necessariamente annunzio di malattia: la soggettività può tradire l'autenticità dei messaggi che provengono dal corpo, con oscillazioni individuali tra timorosa sottovalutazione ed eccessiva esaltazione, talvolta con annotazioni patofobiche. 
La fenomenologia cenestesica è un territorio su cui si fonda buona parte delle riflessioni sulla malattia . E' singolare, forse a causa della concezione di malattia come di un bioguasto, che la didattica medica prescinda in genere dal fare ascoltare a studenti e specializzandi il racconto e le risposte di soggetti colpiti dalle diverse patologie. L'uno e le altre costituiscono un'importante fonte di informazioni intorno alla tipologia e sequenza di sensazioni sospette e di variazioni significative di stati e funzioni, e non meno intorno alla turbativa esistenziale complessiva indotta dall'evento malattia. Proprio qui i cultori di umanistica medica potrebbero determinare una svolta culturale, offrendo al mondo clinico, suggestionato dal protagonismo strumentale ed analitico, le ragioni e i modi per sviluppare una relazione più efficace non solo con i corpi, ma con le persone malate [13].

 La malattia non è un accadimento a sé, di cui sono o si pensa siano responsabili fattori del mondo inorganico o biologico, è un'esperienza rilevante nella vita dell'uomo colpito, e non è cancellabile dalla sua memoria emotiva. C'è un salto antropologico essenziale tra una concezione puramente biologica della malattia e quella di un evento umano globale, con echi ma anche con matrici esistenziali complesse, cioè con un suo vissuto anche metabiologico; il tutto ovviamente moltiplicato quando si tratta di infermità grave o cronico-invalidante. [Tabella IV]. 
 

    Tab. IV - Vissuti di malattia

     - Incidente di percorso

     - Evento accettabile se si ha certezza di durata breve e di ritorno perfetto allo stato di salute

     - Inizio di cambiamento radicale nella qualità della vita residua, nel caso di cronicizzazione, con sofferto abbandono di attività e stili di vita incompatibili con l'infermità

     - Sensazione di essere in un tunnel (se resta speranza) o in un pozzo (se si ha certezza di morte) 

    - Spinta ad un'auto-analisi a 360o

     - Causa di onere economico diretto e/o indiretto (riduzione di introiti lavorativi e/o di capacità professionali)

     - Esperienze nuove ed imprevedibili nelle relazioni interpersonali e sociali (in peggio o in meglio)

     - Passaggio, temporaneo o protratto, dall'autonomia personale allo stato di dipendenza, anche totale. 
     

Già una semplice riflessione storica consente di cogliere una evolutività soggettiva e sociale cui il clinico non può sottrarsi, basti pensare alle principali variabili in merito tra una società a prevalente cultura agricolo-patriarcale o di famiglia "allargata" [Tabella V] e l'attuale società post-industriale, di nuclei familiari "monadici" [Tabella VI].
 
     Tab. V - Il malato nella società patriarcale

     - Nessuna discontinuità tra modello "domestico" e prestazioni assistenziali da parte dei familiari 

    - Sensazione di una sinergia protettiva e rassicurante tra familiare e "medico di capezzale"

     - Semplificazione delle procedure diagnostiche-terapeutiche

     - Sicurezza, o quasi, di finire i giorni nel propio letto, con i familiari intorno

     - Sensazione di essere ancora un soggetto ascoltato e corresponsabile di decisioni. 

 
 
    Tab. VI - Il malato nella società post-industriale

     - Frattura con i propri "mondi vitali" soprattutto se ospedalizzati

     - Emarginazione istintiva da parte dei sani-attivi, "non sta bene, è fuori gioco, inutile sentirlo"

     - Possibili contenziosi tra familiari circa la presa in carico, a rotazione o meno

     - Difficoltà di tempo e di "sentire" nello stabilire relazioni "terapeutiche" con un familiare infermo

     - Obiettivi ostacoli temporo-spaziale e/o economici ad una assistenza adeguata

     - Negligenza nella somministrazione di farmaci prescritti e/o nella dietetica consigliata

 Una costante sottende tutte le variabili di reattività personale e sociale alla malattia, quella della sofferenza umana e di una sorta di mutazione antropologica dei colpiti. Il termine sofferenza caratterizza bene lo stato di pena esistenziale, comune in ogni malattia, anche in assenza, spontanea o farmacologica, di algie somatiche [14, 15]. Accanto al dolore per malattia esiste quello da malattia [16].
La tipologia umana del soffrire è mal conosciuta nei suoi meccanismi, nonostante gli sforzi congiunti della ricerca neuroscientifica e della psicologia [17]. Vi è comunque apparentamento o reciproca provocazione tra dolore fisico e sofferenza del vivere, tanto più evidente - ad esempio - nel contesto di una senilità opaca e solitaria, che non infrequentemente è concausa, assieme alla disabilità e alla cattiva assistenza, del suicidio di tanti anziani. Per contro, il male fisico può avere anche valenze e riflessi non sempre negativi nei tempi successivi (Tabella IV).

 In sintesi, i punti più qualificativi di una lettura autenticamente umana della malattia si possono così elencare:

 a. La malattia come rottura della "sintesi a priori" che l'uomo in salute è ed avverte in sé. Il medico ha il compito di aiutare a ristabilire tale sintesi [13].

 b. Medico e malato si riconoscono nella reciprocità e debbono formare un "noi", una "dualità" collaborativa tra due "esperti", l'uno di medicina, l'altro di sofferenza.

 c. Il malato, specie negli stati di cronicità, deve sforzarsi di realizzare un modulo personalizzato di convivenza con la propria infermità (coping) . Il medico deve aiutare il malato a realizzare tale reazione ad un evento che lo coinvolge, oltre che nel fisico, nelle sue relazioni umane, nella visione della vita, nei suoi progetti di futuro. 

d. A parte le malattie lievi e/o fugaci, la guarigione non è un semplice ritorno allo stato precedente, ma l'instaurazione di una nuova consapevolezza di sé, della necessità di nuove regole, di nuovi obiettivi, di diverse relazioni con gli altri [4]. Anche di ciò il medico deve tener conto, tanto più che come esito positivo di un evento morboso è da considerare non solo quello di una conversione liberante, ma anche quello di un miglioramento o della stabilizzazione di una patologia che consenta, almeno entro certi limiti, di sentirsi liberi "nella" malattia anche quando non si è ancora o non si potrà più essere liberi "dalla" malattia.
 

     Tab. VII - Concezioni di malattia (sequenziali e/o associate)

    - Mitologico-religiosa - Biochimico-fisiopatologica
    - Ippocratica - Immunologica
    - Umorale-miasmatica - Genoma-dipendente
    - Costituzionale - Psico-somatica
    - Anatomopatologica e microbiologica - Multifattoriale-esistenziale

 
     Tab. VIII - Concezione multifattoriale-esistenziale di malattia come evento umano "globale"; per:

     - La compresenza di fattori, bioligici e non, anche in patologie apparentemente monoeziologiche come le infettive

     - L'influenza di condizionamenti psico-culturali e socio-ambientali sulla espessività clinica individuale del medesimo stato morboso

     - Un effetto, rivelatore a monte e promotore a valle, di problematiche soggettive e relazionali

 In altri termini è necessario per il medico:

 1. Andare preventivamente incontro alla richiesta dei malati, esplicita o inespressa, di ascolto e di rispetto delle modalità di reazione individuale ad un evento così coinvolgente il loro modulo esistenziale.

 2. Contribuire a mediare fra il controllo tecnico-scientifico e farmacologico dell'organismo umano e l'esercizio di una libera corresponsabilità nel governo di sé persona. 

Di qui la necessità di una rifondazione educativa del medico, consensuale alla crescita di consapevolezza del malato nel gestire al meglio il suo status di debolezza personale e sociale. In proposito è anche da ricordare l'importanza che nella relazione diagnostico-terapeutica medico-malato ha l'affettività ("intelligenza emozionale", 18). La categoria della "tenerezza" confidenziale è un'arma potente per ridurre la sensazione di distacco professionale, frequentemente avvertita e lamentata nel contatto con anche medici di alto livello tecnico-scientifico.
 

 5 - Morte e Morire

 Agli studenti di Medicina non si parla mai di morte nè del morire, come se fossero estranei o contraddicessero alla natura stessa della professione medica. In realtà la coscienza di fondo di un destino mortale, usualmente rimossa nella pienezza della salute, si fa angoscia quando il corpo entra in una condizione invalidante sempre meno sopportabile. L'infinita varietà di reazioni dei malati al pensarsi morituri ad essere certi di un exitus a breve termine, deve essere tenuta ben presente dal clinico e da quanti assistono un paziente con prognosi infausta. Una tale sensibilità è indispensabile per ridurre la sofferenza aggiuntiva della "solitudine sanitaria", che in ospedale tiene il paziente lontano dal suo mondo familiare od amicale proprio quando ne è maggiore la nostalgia ed insostituibile la presenza. Ciò vale ancor più nell'isolamento totale in aree di terapia intensiva, ed anche nel caso di malati apparentemente incoscienti, nei quali è pur possibile che sussistano stati di consapevolezza ambientale, capacità di percepire rumori e voci cui non è dato rispondere.
Purtroppo, nell'odierna cultura di massa, la fenomenologia del morire e della morte viene spesso esorcizzata o banalizzata (le funeral homes) o trasformata in una fiction spettacolare dal cinema e dalla televisione. Viene perduta la sensibilità partecipativa alla solennità tragica dello spegnersi di ogni vita, soprattutto quando ciò avviene per mano d'uomo [19] e di qui anche i fenomeni impressionanti dei "giochi di morte" di molti adolescenti e giovani, e l'affrontare volutamente situazioni di rischio "estremo". E' compito del clinico non abbandonare il malato che a casa od in ospedale sta sviluppando il tormentoso itinerario finale della sua esistenza. A tal fine il clinico deve riqualificare in senso antropologico la propria professionalità, valendosi di quegli approfondimenti offertigli dalle scienze umane che consentono di meglio comprendere l'uomo alla sua ultima esperienza e maturando la capacità di immedesimazione col suo sentire. Potrà così trasmettere segnali forti di una vicinanza discreta e solidale [20].
 

     Tab. IX - Mutamenti attuali nel vissuto di corporeità sana e malata e nell'esperienza del morire

     - Tentazione idolatrica: un corpo " sano e bello" a tutti i costi: in alternativa permanente sensazione di un corpo tabù ed ostacolo alle relazioni interpersonali

     - Difficoltà ad accettare in sè e negli altri lo stato di malattia come evento compatibile con la socializzazione

     - Adozione consapevole di stili di vita a rischio di danni fisici e/o psichici (alcool, droga, sessualità non protetta, "giochi di morte")

     - Morte non avvertita nella sua naturalità, ma da esorcizzare e da rimuovere, anche attraverso la virtualizzazione mass-mediatica

     - Consapevolezza di un morire soggetto a tecno-manipolazioni ed alla "solitudine sanitaria"

 

 6 - Fondamenti di una Medicina Dialogica

 L'avventura esistenziale tra medico e malato oscilla tra silenzi e dialogo: i primi erano soprattutto, in passato, frutto della reciproca discrezione, di timore reverenziale da parte del malato e di pietà da parte del medico. Oggi invece il "parlarsi" appare l'essenza di un soddisfacente confronto interpersonale. Il dialogo ha l'obiettivo è di ottimizzare gli effetti diagnostico-terapeutici ed il significato ampio di un'interconnessione di logos individuali, a significare nel medico una straordinaria capacità di "ascolto" anche del non esplicitato, nel malato una domanda di aiuto globale. Dovrebbe cioè farsi svelamento, insieme, di razionalità e di cuore ("intelligenza emozionale") [18].

 La scienza della comunicazione offre strumenti preziosi per l'identificazione delle caratteristiche e delle condizioni di realizzo di un dialogo autentico [20, 21]: questo momento cardine della relazione va visto come uno specchio che, riflettendo la propria immagine nell'altro, ce la fa riconquistare in modo critico: comunicare autenticamente è mettere in comune, far conoscere e far partecipi di se stessi. Per diventare comunicazione piena, il dialogo deve poter evitare i cosiddetti rumori, in particolare quelli psicologici come la diffidenza, l'antipatia, la precomprensione o pregiudizio, il distacco e disimpegno, l'aggressività. Occorre verificare il messaggio di ritorno (feed-back) anche non verbale, per evitare sia ridondanze che deviazioni. Una buona comunicazione medico-paziente garantisce il fluire del massimo di verità informativa sullo status fisiopatologico del soggetto in esame e sulle sue caratteristiche esistenziali. Il parlarsi non dev'essere un frettoloso ed ansiogeno interrogatorio giudiziale ("a domanda risponde"), ma una pacata collaborazione nella comune ricerca di verità su se stesso e sull'altro. Deve servire a far emergere la ragione immediata della consultazione o del ricovero, ma anche a mettere in luce, mediante un'arte maieutica globale, connotazioni personali ed esistenziali che giocano direttamente nel vissuto di malattia e sulla speranza di guarigione [23, 24]. Il contrassegno dialogico è la cifra distintiva della medicina clinica. Purtroppo, quello del medico è spesso un comunicare "facile", in codice, senza lo sforzo di traduzione mentale simultanea dal proprio codice tecnico-scientifico in una lingua costruita in base all'apparente livello socio-culturale dell'interlocutore. E' uno sforzo che esige, accanto alla disponibilità interiore, anche una certa attitudine alla semplificazione concettuale e linguistica. La sua mancanza, più dei deficit professionali, è causa di gran parte delle lamentele del pubblico.
 

 7 - Si può parlare di un'Antropologia Medica del Medico?

 Non sono rintracciabili nella letteratura scientifica contributi che affrontino esplicitamente questo aspetto.Vi sono tuttavia alcuni dati di fatto a sostegno di una risposta affermativa. 

a. Il vissuto di corporeità Cultura biomedica ed esperienza clinica incidono sul proprio sentirsi corpo da parte del medico. Forse più di altri professionisti, egli si rende conto che la sua apparenza fisica è una componente non troppo secondaria dell'indice di gradimento fiduciario da parte dei malati. Una fisicità gradevole, un parlare "pensato", privo di concitazione ansiogena, una gestualità messaggera di attenzione solidale e non solo al servizio di manovre tecnico-professionali, una cura alla buona tenuta di mani, capelli e barba, sono senza dubbio fattori di una buona relazione con il malato. La cenestesi dell'uomo-medico si caratterizza probabilmente per la capacità di attribuire, in modo più precoce e chiaro, un significato di rilevanza clinica a sensazioni di malessere generale o locale. Esiste naturalmente anche qui una notevole variabilità individuale.

 b. L'esperienza personale di malattia Quando il medico avverte mutamenti nella propria cenestesi, la risposta soggettiva può essere razionale, l'affidarsi cioè a un collega stimato, oppure correre un duplice opposto rischio: quello della sottovalutazione per il timore di segnali che egli stesso giudicherebbe allarmanti in un suo paziente, oppure una percezione ansiogena che lo porterà ad affannose consultazioni plurime, magari senza uscirne tranquillizzato. Questo incrocio tra avvertenza profana e consapevolezza professionale di fenomeni fisici ritenuti o temuti come patologici non è facile da analizzare. Spesso la specificità dell'io medico tende a prevalere sulla reattività propria degli altri uomini. Il tentativo di dimenticare il proprio sapere, imponendosi una sana "ignoranza medica" per potersi abbandonare senza riserve alle cure dei colleghi, è sempre difficile. E' del pari mal definibile il prevalere dell'una o dell'altra reattività a rischi di salute legati a stili personali di vita, di cui ogni medico ha consapevolezza scientifica e professionale: basti pensare a quanti medici continuano ad abusare di tabacco, alcool, psicofarmaci, oppure trascurano elementari norme dietetiche e pongono scarsa attenzione al moto fisico ed al necessario riposo!

 c. La reattività alla morte di un paziente Questa reattività è probabilmente modificata e alleviata, nel medico, dalla sua capacità di anticipazione prognostica. D'altro canto il medico può anche identificare nella morte di un suo paziente una sconfitta professionale; forse è un'intuizione del genere che contribuisce alle iniziative di accanimento terapeutico, come per rinviare la scadenza e il peso di una sconfitta.

 d. Impatto e coinvolgimento professionale diretto con malattie di familiari La malattia o l'anomalia fisica o psichica di un proprio caro può essere sconvolgente per il medico, combattuto com'è tra l'affetto e l'esperienza clinica. E' difficile in questi casi un giudizio ad un tempo distaccato e impegnato. Ci sono medici gelosi custodi in prima persona della salute dei congiunti, tentati dalla critica verso pareri espressi da colleghi anche stimati; ce ne sono altri che preferiscono fidarsi della competenza e maggiore serenità altrui. Certamente l'antropologia del medico è permeata dalla doverosa ovvietà di prendersi cura di chiunque chieda soccorso, e ciò gli rende difficile disimpegnarsi solo perché la persona colpita gli è particolarmente cara. 

e. Ricadute dell'esperienza clinica sull'umanità del medico. L'avanzare nell'esperienza clinica fa si che il medico tenda a diventare un osservatore attento di quell'umanità nascosta del malato che si rivela spesso in modo imprevedibile e con un solo sguardo, specie nell'angoscia del morire. Individui apparentemente forti crollano alla prova ed altri, apparente deboli dal punto di vista intellettuale e/o sociale, rivelano impensabili energie reattive anche, e forse più, quando avvertono l'andamento sfavorevole della malattia. Il medico diventa così, quasi senza rendersene conto, un singolare riferimento di cultura antropologica in ordine allo spazio biomedico; d'altra parte cresce la sua capacità di estendere le fondamentali categorie mentali del processo clinico ad altre realtà umane, favorito, in questo, dalla fondamentale unità del procedimento scientifico.
 

 8 - Applicabilita' della Medicina Dialogica nell'attuale Contesto Sanitario

 In rapporto alla natura dialogica dell'atto medico autentico, può essere utile un breve riferimento al contesto operativo del Servizio Sanitario italiano. Il tipo di contatto tra medici e "utenti" in un ambulatorio pubblico od in una corsia ospedaliera rende spesso evidenti difficoltà e condizionamenti per quanto in particolare attiene a:

 - Vincoli temporo-spaziali . Vi è squilibrio tra la richiesta-attesa dei malati in tema di relazioni e prestazioni "personalizzate", e risposta propria di un ambiente e di modalità sostanzialmente irrispettosi della privacy e dei tempi e modi auspicati.

 - La riduzione degli spazi di effettiva autonomia professionale dei medici coinvolti.

 - L' insufficiente preparazione alla relazione dialogica da parte di medici o infermieri

 - L'esitazione o anche l'indisponibilità da parte del medico a rapportarsi con il malato utente di servizio pubblico con la stessa premurosa attenzione riservata ad un paziente del proprio studio.

 Sono da aggiungere i riflessi negativi della pletora medica italiana, che costringe molti giovani laureati a sommatorie di prestazioni diversificate senza la possibilità di un contatto protratto e gratificante con la popolazione di pazienti con cui viene a contatto. La contabilità ospedaliera, a sua volta, rivoluzionata dalla prescrizione dei cosiddetti D.R.G., ha accresciuto i tempi burocratici rispetto a quelli assistenziali veri e propri, con sofferenze e disagi aggiuntivi per molti pazienti dimessi in tempi standard senza adeguate garanzie per i seguiti domiciliari; ed ha portato a rilevare meno la variabilità di espressività clinica di una medesima patologia e dei contesti socio-familiari dei singoli pazienti, con conseguenze negative proprio per la salvaguardia della medicina dialogica. Si noti, a questo riguardo, quanto una medicina dialogica sia rilevante per l'istituto di un reale, non burocratico consenso informato.
 

 9 - Derivate per la formazione medica e l'aggiornamento

 L'analisi antropomedica rimane inadeguata se non è sorretta dal rigore della metodologia clinica [25] e da una formazione umanistica ad hoc. La maggior parte dei cultori di umanistica medica appartiene peraltro al mondo delle scienze umane non mediche, come filosofia, psicologia, etica, religione, sociologia. Si tratta di persone molto informate su diverse problematiche mediche ma prive di esperienza clinica, ed il loro insegnamento può apparire aggiuntivo, interessante, ma cosa ben diversa dall'insegnamento clinico. Potrebbe cioè essere prezioso un modello formativo unitario, che rappresentasse in chiave multidisciplinare l'insieme di nozioni, tecniche e testimonianze utili per un approccio ideale alle complesse fenomenologie propria dell'atto medico, ed ai coinvolgimenti antropologici che fanno della malattia un evento tanto rilevante nella vita dell'uomo.
Un obiettivo del genere non è facilmente perseguibile, ma in tale direzione dovrebbe procedere ogni iniziativa tesa a migliorare la relazione medico-malato, che certamente è in crisi crescente. Un'altra occasione potrebbe essere offerta dall'estensione in atto dei cosiddetti percorsi per la "qualità totale" nei Servizi sanitari, ospedalieri e non [26]: perché non prevedere l'inserimento della tipologia relazionale tra medici, altro personale sanitario, utenti e congiunti, nei parametri di "accreditamento" della struttura sotto esame?

 Esistono in Italia alcuni programmi di insegnamento universitario, per lo più ancora sperimentali, arricchiti variamente di umanistica medica, è anche da segnalare il contributo dell'Istituto "Giano" di Roma, che organizza corsi e seminari ad hoc e pubblica la prestigiosa rivista pluridisciplinare l'Arco di Giano. Si è tuttavia lontani dall'auspicato superamento di un taglio solo bio-scientifico, tecnologico e specialisticamente troppo frammentato degli studi di Medicina: caratteristica evidente anche nell'aggiornamento o qualificazione post-laurea, che ha diretti riflessi sul modello di professionalità. Sarebbe auspicabile una riflessione da parte delle Facoltà Mediche, dagli Ordini dei Medici, delle Associazioni professionali e delle Società medico-scientifiche, che delineasse una strategia comune, tendente a riconoscere alla Medicina, nel suo complesso, un ruolo centrale nella promozione umana integrale [27].
 

 10 - Conclusione

 Viviamo in un'epoca di sempre più frequenti corto-circuiti informativi mass-mediatici tra sedi della ricerca medico-scientifica e potenziali utenti di procedure diagnostiche o terapie innovative, di moltiplicazione delle volgarizzazioni con conseguenti iniziative sempre più diffuse di autodiagnosi e autoterapia. Nuovi mezzi diagnostici, nuove e più sofisticate terapie (come quella genica), nuove frontiere della trapiantistica, progressi straordinari nelle neuroscienze, quale impatto avranno sulla soggettività del vissuto salute-malattia? Quale espansione potranno assumere correnti di pensiero e prassi ispirate a o promuoventi medicine c.d. alternative? Sono tutte ragioni in più per auspicare una formazione di base e ricorrente di tipo insieme scientifico e umanistico, che consenta di capire più a fondo un'umanità rapidamente mutevole; e porti i clinici a compiere il loro compito non soltanto secondo una professionalità predeterminata, ma come una vera e propria avventura dello spirito [Tabella IX].
Per la Medicina la maggior sfida del terzo millennio sarà non soltanto di natura tecnico-scientifica, ma anche di natura antropologica di fronte ad una società sempre più largamente plurietnica.
 

 Bibliografia

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3. Schirripa P. Introduzione all'Antropologia Culturale e all'Antropologia Medica in Scienze Umane, Letteratura e Arte per la Medicina- Roma 1998: V, 83-105.
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23. Jandolo C. Tecnica, arte ed errori della comunicazione. Armando Ed, Roma 1983.
24. Spinsanti S,. Pappalepore V. Il medico e il paziente: una relazione complessa, Mediamix Ed Scient, Milano 1995.
25. Cagli V. Elogio del metodo clinico. Armando Ed, Roma, 1997.
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27. Di Raimondo F. Medicina e promozione umana: didattica, ricerca, assistenza. Medicina e Morale 1976; 4/2: 65-66.
 


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