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Dipartimento di Salute Mentale
S.O.C. Psicologia Clinica e della Salute



Una metodologia per progettare e lavorare insieme: la ricerca-intervento a vertice formativo

Maria Teresa Fenoglio
Psicologa, Associazione Choròs, Torino


Quando si intende dare vita ad un nuovo progetto, in questo caso la creazione di una rete di promozione della salute mentale in una comunità, i progettisti hanno a disposizione due diverse metodologie.
La prima, apparentemente “forte”, è forse quella che ha alle spalle più tradizioni. Essa, di tipo eminentemente prescrittivo, fa riferimento ad un modello che è possibile chiamare “ingegneristico”.
Individuate le finalità, i progettisti tracciano due disegni: il primo consiste in una fotografia dello stato attuale delle cose; il secondo in un modello di come le cose si presenteranno a fine lavori. I progettisti fissano obiettivi intermedi e finali; quindi stabiliscono sulla carta ruoli e competenze; vengono assegnati incarichi; viene stabilità una certa temporalità, ecc.
Questa metodologia, che chiameremo “del gigante”, in quanto si basa sull’assunto che esista un artefice molto potente che controlla e guida l’intero sistema, contiene alcuni presupposti:
- che si possegga, a monte, la conoscenza di una determinata realtà, concepita come “fotografabile” in un lasso di tempo presupposto immobile, sia nel presente, sia nel corso del progetto;
- che il prodotto finito e il processo siano interamente prevedibili;
- che gli attori coinvolti, date le buone intenzioni del progettista e la bontà del progetto, comprendano le finalità generali e vi aderiscano, muovendosi con coerenza verso azioni pre-concertate.
In questa impostazione i soggetti coinvolti vengono rappresentati o in quanto funzioni (il personale, operatori e tecnici) o in quanto elemento standardizzato (gli utenti). Il cambiamento è concepito come effetto di cause controllabili ed è esso stesso descritto in termini di prevedibilità. La realtà è immaginata scomposta in elementi semplici, che entrano nel puzzle che la compongono. Il processo di progettazione è definito in tappe consequenziali, secondo un andamento lineare. Gli obiettivi raggiunti o non raggiunti sono sempre quelli previsti; per quelli non raggiunti, in particolare, si tenderà a individuare cause esterne, più spesso un colpevole.
Questa impostazione, che ha comunque una sua giustificazione, specie nel caso di azioni semplici e circoscritte, si dimostra inadeguata quando le variabili del sistema sono esseri umani e quando lo scenario è una realtà sociale, economica e culturale complessa e in continuo movimento. Tale realtà, anche quando si predispongano, come è necessario, strumenti accurati di rilevazione, non è soltanto definibile in termini strutturali, di natura socio-economica, bensì:
- in termini di interazioni: tra singoli, gruppi, istituzioni;
- in termini di visioni che i soggetti hanno maturato su temi quali quelli che ci riguardano (salute mentale, crescita sana, felicità infelicità, successo insuccesso, adeguatezza non adeguatezza, tanto per citarne alcuni);
- in termini di riferimenti culturali dei soggetti;
- in termini di orizzonti valoriali;
- in termini di significati assegnati alle istituzioni e al loro operato e al proprio coinvolgimento in esse.
In particolare, i professionisti coinvolti nella progettazione/ attuazione di cambiamenti, anche quando condividono le finalità di quel progetto, sono portatori di rappresentazioni della realtà che derivano loro sia da variabili strutturali (l’età, l’origine sociale, il genere sessuale) che dalle loro esperienze pregresse, legate ad esempio alla specifica professionalità e alle circostanze e luoghi in cui l’hanno sperimentata. Si tratta di parzialità, di vertici di osservazione specifici, in genere altamente differenziati. Essi, anziché costituire un ostacolo verso le sinergie, da dover essere superate o integrate da una sorta di burattinaio “super partes” -come nel modello del gigante-, possono invece costituire una risorsa cruciale sia sul piano dell’analisi dell’esistente che in quello della progettazione.
I destinatari di un progetto, immaginati come “recipienti” passivi, sono a loro volta portatori di esperienze e di visioni. Essi, ad esempio, hanno maturato aspettative circa i servizi e le possibilità che un territorio offre loro che derivano da quelle esperienze, di natura diversa, a cui tuttavia implicitamente riconducono quella nuova. Così, ad esempio, può capitare che lo psicologo sia assimilato al confessore, o l’Assistente Sociale alla infermiera, ecc.. I rapporti che l’utenza stabilisce con le istituzioni sono anche di natura emotiva e affettiva: il cittadino si sente accolto o respinto, prova delusioni, esprime in maniera più o meno diretta richieste e aspettative.
Lo scenario in cui gli attori si muovono è tutt’altro che immobile. Non solo dal momento di inizio di un’azione esso può modificarsi più volte. Il contesto può mutare rapidamente con il variare delle condizioni economiche locali, con l’introduzione di modificazioni legislative o sotto l’influsso dei media. Inoltre, spesso è proprio il progetto stesso a mettere in moto processi inattesi. Un caso classico è l’uscire allo scoperto di risorse umane di cui non si era tenuto conto, o di conflitti che restavano sopiti. La stessa osservazione della realtà, che tende ad essere pregiudizialmente considerata come esterna a sé e neutrale, mette in moto la modificazione di quella realtà, sotto la sollecitazione di uno sguardo esterno e interessato. Le indagini sul campo, tra cui anche la semplice osservazione, inducono una data realtà a definirsi/ridefinirsi. Ciò che osservo, inoltre, è sempre anche l’interazione con me che osservo.
Un medico, uno psicologo, che predispongano dei colloqui per fare il punto di un determinato problema sanitario presso i propri destinatari, li sensibilizzerà a quel problema, ne sottolineerà l’evidenza presso di loro, indurrà nei pazienti la stessa definizione del problema. In altre parole, gli esiti di una certa azione o di un progetto in qualche misura sono prevedibili; ma è anche vero che al termine del processo quella iniziativa ci ha condotto anche altrove, in luoghi che non ci aspettavamo, o non del tutto.
Per far fronte a queste variabili occorre perciò fare riferimento a una metodologia di lavoro nella comunità che assuma la complessità come un dato di fatto e come una risorsa e le teorie della complessità come paradigma teorico. Secondo i teorici di questa corrente di pensiero, per muoversi nella complessità occorre fare ricorso a una capacità specifica, chiamata “capacità negativa”. Con capacità negativa si intende una capacità razionale diversa da quella del modello “del gigante”. E’ una razionalità in realtà molto diffusa, molto “quotidiana”, ma proprio per questo tradizionalmente mai assurta agli onori conferiti alla razionalità supposta “forte”. La razionalità a cui vogliamo fare riferimento è legata alla capacità di tutti gli attori di mettersi in una posizione di ascolto non generico e profondo, sviluppata attraverso la frequentazione di una realtà specifica e delle persone che la compongono. Si tratta di una razionalità che nasce non dalla imposizione sulla realtà di un qualche schema mentale precostituito ma dalla sintonizzazione con essa. Non è basata su principi e regole necessitanti ma su successive sistematizzazioni dei messaggi provenienti dalla realtà, a partire dai “segnali deboli” che essa esprime. Tali segnali vengono messi a fuoco attraverso continui confronti con modi diversi di vedere la stessa scena, fino a giungere, per approssimazioni, a un’identificazione sempre meno approssimativa della realtà.
Questa metodologia si oppone a quella “del gigante”, immaginato come essere solitario, potente e super partes, in grado di risolvere ogni problema. Essa ha invece a che fare con l’essere “nani sulle spalle del gigante”: esseri piccoli e limitati, ma con la possibilità di acquisire una visione dall’alto attraverso la collaborazione e la creatività; capaci, proprio in quanto accettano il proprio limite, di utilizzare l’handicap delle proprie visioni parziali proprio per acquisire, agendo direttamente sulla realtà, una visione di insieme ricca e complessa.
E’ in base a questi assunti che l’attività di promozione del benessere mentale in adolescenti e giovani adulti sceglie quale metodologia quella della progettazione in gruppi di lavoro.
Tali gruppi saranno composti da professionisti dei vari settori e discipline e supportati da un coordinatore. I partecipanti opereranno in veste di ricercatori, progettisti e valutatori. La loro prima responsabilità sarà quella di portare nel gruppo il proprio patrimonio esperienziale e il proprio vertice di osservazione particolare; il materiale grezzo della propria esperienza così come le deduzioni, le ipotesi, le generalizzazioni già operate. Il primo lavoro sarà quello di trovare un posto a questo materiale, e di assegnarvi un nome. Il lavoro successivo quello di trovare una terminologia comune, significati condivisibili, che diventeranno il presupposto per iniziative concertate. Le iniziative concertate costituiranno a loro volta la base per la costruzione di linguaggi e significati comuni, secondo un andamento circolare.
L’idea di circolarità ricerca/pensiero-azione è alla base della metodologia prescelta, quella della ricerca-azione. Secondo la classica definizione di Lewin, essa consente di perseguire il duplice obiettivo di conoscere la realtà e tentarne un cambiamento. Secondo questa teoria, infatti, la realtà si conosce solo intervenendo su di essa, nel momento in cui si cerca di modificarla.
Il secondo caposaldo del modello è quello dello scambio continuo tra sapere dei tecnici e quello esperienziale/professionale degli operatori sul campo. I “tecnici”, cioè lo staff dei consulenti e la segreteria scientifica, metteranno a disposizione alcune chiavi di lettura che fungeranno da “mappe” per muoversi nella esplorazione delle realtà complesse; a loro volta i partecipanti confronteranno queste mappe con il proprio sapere professionale e l’esperienza sul campo.
La metodologia adottata apporta tuttavia delle modificazioni al modello classico. Nel modello che prendiamo a riferimento, infatti (e che abbiamo chiamato “ricerca-intervento a vertice formativo”) il gruppo non è concepito come qualcosa di meramente funzionale (“tante teste pensano meglio di una sola”), né si accoglie la concezione ingenua che un insieme di persone costituiscano automaticamente un gruppo di lavoro. Il gruppo non viene inteso come un dato indiscusso, in altre parole come se fosse una “cosa”, ma come un processo (il processo che ci vede lavorare come gruppo, che ci vede affrontare difficoltà a lavorare come gruppoÉ): una realtà mai scontata, da costruire e ri-definire attraverso il dispendio di energie specifiche.
Oltre a ciò, il gruppo è concepito come un fatto emotivo (sentire di esserne parte) e come uno stato mentale: cioè come spazio di sospensione dell’azione all’interno del quale sviluppare un pensiero sulla realtà.
Quando parliamo di ricerca intervento “a vertice formativo” abbiamo in mente il gruppo in quanto luogo per pensare. In questo senso il gruppo è “gruppo di formazione”, in quanto i suoi componenti:
1) si aiutano reciprocamente a distanziarsi dal proprio angolo di visuale;
2) trovano le parole per descrivere il proprio angolo di visuale;
3) ac-colgono l’angolo di visuale dell’altro, mettendolo a confronto con il proprio;
4) assumono una visione più articolata e complessa dei soggetti, della realtà e dei problemi che vivono, così come delle risorse che essi rappresentano;
5) si esercitano a immaginare scenari diversi;
6) progettano iniziative, le sperimentano, le valutano;
7) costruiscono un linguaggio comune, sulla base di significati condivisi;
8) riprendono da 1).
In altre parole, il gruppo, proprio in vista di un “fare” più integrato e concertato, opera nella sospensione del fare per fare, consentendo ai soggetti di pensare a sé nel contesto sociale, storico, evolutivo, utilizzando a questo scopo dati, ricerche e consulenze tecniche che si rivelino via via necessari.
A partire dalla disamina dei particolari angoli di visuale di ciascuno, il nostro metodo mira alla costruzione di rappresentazioni sufficientemente condivise:
- dei soggetti di cui ci vogliamo occupare;
- delle azioni che si vogliono intraprendere e della storia/funzioni dei servizi che se ne occupano;
- della specifica collocazione di ogni servizio in questo panorama;
- delle risorse che l’altro può rappresentare per me e io per l’altro (e di un servizio per l’altro servizio);
- del significato individuale e collettivo che vogliamo attribuire alle azioni comuni.
E’ parte della metodologia, inoltre, il recuperare, all’interno dei gruppi, la storia dei servizi territoriali nei quali si è lavorato, non soltanto nel senso di una raccolta di dati, ma in quanto narrazioni vive dei soggetti che hanno intrecciato con i servizi stessi le proprie visioni, investimenti, emozioni, desideri.
Narrare infatti è qualcosa di diverso dal descrivere. Compiere una narrazione significa comporre in un quadro organico elementi del passato e del presente, includendo aspirazioni e desideri che proiettano il soggetto nel futuro. Narrare comporta un’implicazione personale negli eventi descritti e un’assegnazione di significati agli eventi stessi.
Le narrazioni, eventualmente confortate da dati più generali, proprio perché coniugano istanze del mondo esterno con altre del mondo interno, possono restituire una visione pluridimensionale, dinamica, sia dei fatti sia del “motore” che ha mosso quegli eventi e che ha dato loro significato.
Tutto questo non è un processo breve né semplice. Lavorare in gruppi può essere entusiasmante ma richiede che ciascuno, più che aspettarsi soluzioni dal gruppo e dal coordinatore, si faccia attore protagonista, assumendosi la responsabilità del gruppo stesso. Nel gruppo, ciò che si raccoglie è ciò che personalmente ciascuno ha investito.
C’è un aspetto del gruppo, tuttavia, di cui si parla meno: è quello del gruppo di lavoro in quanto serbatoio emotivo-motivazionale per la propria professione.
Spesso la condizione di chi opera nei servizi alla persona è di relativa solitudine; tale solitudine non è una buona premessa per poter affrontare le ansie e le incertezze che, se pur ineliminabili in quanto intrinseche al lavoro con oggetti immateriali, possono bloccarci o sopraffarci.
Le esperienze maturate negli anni scorsi all’interno del DSM e in quello che diverrà il servizio di psicologia, e che ha visto il coinvolgimento di operatori del servizio, insegnanti e cittadini di Asti, hanno fatto emergere un valore, un significato aggiunto al lavorare insieme, che è risultato basilare. Si tratta del lavorare insieme avendo a riferimento, al di là del proprio particolare compito istituzionale, la comunità allargata. Quelle prime esperienze ci hanno fatto comprendere che la volontà di spendersi, per i singoli, risiede in buona misura nella sensazione di “essere parte”, cioè di essere protagonisti di un evento comunitario, di un cammino che la comunità sta compiendo in direzione di una capacità di auto-cura; di svolgere in questo percorso un ruolo significativo, che si riverbera sul senso di identità sociale e personale del singolo.

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