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RIVISTA SEMESTRALE

Numero 7, Maggio 2011


Riflessioni sulla sindrome del burnout in un corso di psicologia sociale per infermieri
TESTO SCRITTO IN RETE


Domenico Arturo Nesci, in collaborazione con Grazia Cassatella ed Edith Eleonora Mincuzzi



Dott. Nesci: Nella lezione di oggi riprenderemo insieme il tema del burnout (Nesci, Poliseno e Coll., 2009). Riassumeremo il rituale dei pharmakoi nell’antica Grecia e poi lasceremo che si sviluppi nel gruppo/classe una catena associativa di vignette cliniche e riflessioni che ci aiutino ad elaborare le dinamiche inconsce di questo rischio professionale che inevitabilmente corriamo, tutti noi operatori sanitari, indipendentemente dal ruolo specifico di ognuno per il fatto che siamo comunque impegnati in una relazione di aiuto.

Il rituale era molto semplice: consisteva nel fatto che due persone, un uomo e una donna, ogni anno, venivano consacrate a svolgere un doppio ruolo, accrescitori prima e capri espiatori del gruppo, alla fine del ciclo, in un secondo tempo. In quanto sacri essi non dovevano lavorare, ma venivano in tutto e per tutto mantenuti dalla comunità. Ogni loro desiderio veniva esaudito, per un anno. Al termine del periodo rituale, nella ricorrenza della festa, essi venivano denudati, coperti solo da collane di fico, e portati in processione per essere simbolicamente caricati di tutti i mali della comunità. Il rituale prevedeva che questo trasferimento del male interno avvenisse per contatto fisico con la mediazione di un ramo di fico con il quale tutti i cittadini, che attendevano il passaggio dei pharmakoi assiepandosi lungo le vie della polis, tentavano di toccarli. L’idea era quella che nel contatto fisico, mediato dal ramo di fico che ognuno teneva in mano, il male interno di ciascuno lasciasse il corpo del soggetto e si trasferisse nel corpo del pharmakos dello stesso sesso. Gli uomini dovevano spostarlo sul personaggio sacro di sesso maschile, le donne su quello di sesso femminile. Il ramo di fico era una specie di cordone ombelicale che nel rapporto simbiotico col personaggio sacro consentiva il trasferimento del male interno nei due pharmakoi. Questo male interno, nel caso della polis, come in tutti i gruppi umani primordiali, era la sterilità perché, essendo molto alta la mortalità infantile, l’angoscia che ogni anno si rinnovava ad Atene era che non nascessero e sopravvivessero abbastanza bambini. L’angoscia fondamentale dei gruppi umani primordiali, e quindi anche la nostra, sedimentata negli strati più profondi del nostro inconscio collettivo (Jung, 1912) o, in termini Freudiani, della nostra “memoria filogenetica” (Freud, 1911), era e rimane quella dell’estinzione della specie. Se oggi temiamo il suicidio collettivo per una catastrofe ecologica, ieri si temeva la sterilità (Nesci, 1991)… Ad Atene, dunque, nel momento in cui il male interno era stato espulso dalla comunità e trasferito nei pharmakoi, questi venivano portati fuori dai confini della polis dove venivano bruciati e le loro ceneri disperse al vento, affinchè tutto il male accumulato andasse via e quindi la polis fosse del tutto risanata, tutta fertile, pronta a ricominciare un nuovo ciclo vitale, a rigenerarsi.

Ora perché a noi questo rituale interessa? Per molti motivi. Innanzitutto già attraverso il nome “pharmakoi” = farmaci, noi capiamo che il farmaco, che oggi siamo portati a considerare come una sostanza chimica che viene somministrata al paziente, anticamente invece era in primo luogo una persona fisica. Più precisamente era una persona fisica oggetto di transfert, e cioè una persona sulla quale psicologicamente si pensava di trasferire per contatto, per magia simpatica, il proprio male interno. Dunque noi, qualunque sia il ruolo che abbiamo come operatori sanitari, medici infermieri, psicologi, siamo sempre esposti a questo transfert di un male interno che i pazienti pensano (inconsciamente) di mettere dentro di noi. E anche noi, altrettanto inconsciamente, pensiamo di assorbire il male interno che i pazienti ci “mettono dentro” e quindi anche noi proviamo, a livello immaginario, il vissuto, la sensazione profonda, emotiva, che pazienti e familiari ci hanno messo dentro il loro pathos, la loro sofferenza emotiva. Dunque anche noi possiamo avere l’angoscia che al termine di un ciclo rituale (della nostra “carriera”) abbiamo accumulato così tanto male interno che siamo buoni solo per essere bruciati via, trasformati in cenere, e dispersi al vento. Questo vissuto sta dunque su un doppio versante, nel versante dell’inconscio dell’operatore sanitario e nel versante dell’inconscio dei pazienti.

È per questo che i pazienti ci trattano così bene, è per questo che ci fanno tanti regali, ci fanno dei doni … ieri mi hanno portato una bottiglia d’olio d’oliva, mi hanno portato una piccola torta di una zona vicino Roma, cioè non passa giorno che non mi arrivi in Ambulatorio un paziente che mi porta un regaluccio, un piccolo dono simbolico… possono essere delle uova fresche, può essere… quel che sia. Comunque arriva un dono simbolico. Perché viene portato questo regalo? Perché in noi viene vista la figura del re sacro, del pharmakos, di chi ha il potere di prendere su di sè il male interno dell’altro che sta male, del paziente, del portatore di un pathos, di una sofferenza. Per ringraziarci del fatto che noi abbiamo assorbito il loro pathos, i pazienti cercano di darci in cambio qualcosa di buono, spesso qualcosa da mangiare, come dire: “Ti ho avvelenato con il mio male interno, ora ti porto l’olio buono, ti porto l’ovetto fresco, ti porto la torta del paese… un buon cibo per rigenerarti e consentirti di continuare a funzionare come pharmakos per me!”

Cosa possiamo fare per evitare che queste dinamiche inconsce si scatenino in modo primordiale e ci danneggino?

La prima cosa da fare è quella di non colludere inconsapevolmente con tutto questo, dunque di imparare a porci in modo corretto nel nostro ruolo professionale. A non giocare a fare i re sacri.

Vi faccio un esempio pratico. Quando un paziente viene da me e mi chiede di prenderlo in psicoterapia, magari perché gli hanno detto che sono molto bravo e posso fargli passare gli attacchi di panico, io dico subito che non è affatto così, che io non ho assolutamente questo potere, che nessuno può garantire che la psicoterapia (o i farmaci) abbiano questo potere nel suo caso specifico, e che fare la psicoterapia con me potrà sicuramente aiutarlo a conoscersi meglio ed utilizzare meglio le sue risorse interiori, e quindi a contrastare meglio la sua ansia, ma nessuno può garantire che questo fatto comporti il superamento del suo sintomo o del suo temperamento ansioso.

Se noi invece ci poniamo, rispetto a questa fantasia di essere dei pharmakoi, di essere dei farmaci viventi, in modo collusivo, se noi cioè pensiamo veramente di essere dei re sacri, se aderiamo veramente a questa imago arcaica di personaggio sacro e dunque finiamo per credere, come gli antichi re sacri, di avere veramente il potere di prendere su di noi il male del paziente e magicamente di guarirlo, sicuramente ci poniamo allora in un modo molto pericoloso. Se infatti colludiamo con le aspettative inconsce del paziente, quelle arcaiche, e poi invece il nostro paziente non guarisce, rischiamo a quel punto di far scattare il rituale nella sua parte terminale e di diventare per il paziente ed i suoi familiari l’incarnazione dell’aspetto secondo del re sacro, e cioè il pharmakos, il capro espiatorio del gruppo. Comunichiamo cioè, nostro malgrado, che il paziente che prima ci ha messo metaforicamente sull’altare, ora può dare fuoco alla pira e incenerirci con una causa di risarcimento danni per “malpractice” dato che ormai ci considera veramente un mero ricettacolo di tutti i mali, e dunque un oggetto da distruggere per il bene di tutti.

Voi sapete che oggi le cause contro gli operatori sanitari sono un problema sociale molto grave. Possiamo pensare che il motivo, uno dei motivi importanti di questo conflitto crescente tra la popolazione dei pazienti e dei familiari dei pazienti e gli operatori sanitari, nasca dal fatto che gli operatori sanitari ancora oggi, come anticamente, si pongono come dei re sacri, cioè si pongono come dei pharmakoi senza rendersi conto dei mutamenti della Medicina nella nostra epoca che rendono impraticabile questo antico stile di lavoro. La Medicina di oggi è infatti molto lontana dall’antica regola “Primum non nocere” e quindi rischia, soprattutto nei pazienti gravi, di proporre terapie estremamente aggressive (interventi chirurgici mutilanti, farmaci con pericolosi effetti collaterali e rischio di reazioni avverse, ecc.) che assimilano piuttosto l’operatore sanitario alla figura di uno stregone malvagio. Se a questo si unisce il fatto che nel mondo di oggi il paziente si aspetta da noi la guarigione in tutti i casi, complici anche i mass media che pur di “fare notizia” non esitano a proclamare che la Medicina moderna ha scoperto la cura per quello, la cura per quell’altro e la cura per quell’altro ancora, noi ci troviamo sempre più spesso nella drammatica situazione in cui se il paziente muore si crea un clima emotivo che ci riporta regressivamente nello scenario delle antiche “culture orali primarie” (Ong, 1991) dove la morte è attribuita alla magia nera di uno stregone cattivo che ha fatto qualcosa di malvagio contro il defunto, ed ecco che i familiari elaborano in modo paranoide il loro lutto e ci troviamo esposti al rischio di una causa…

Studente 1: Ma non potrebbe essere che in una società che fa molto affidamento sulle raccomandazioni, sull’amico dell’amico, e via dicendo… non può essere che nel paziente c’è la paura di essere svantaggiato rispetto ai pazienti raccomandati e per questo appena pensa di aver subito un torto denuncia gli operatori sanitari e l’ospedale… e poi anche per avere soldi facili senza lavorare?

Dott. Nesci: Le cause contro gli operatori sanitari sono iniziate in America, dove le raccomandazioni non esistono. Lì le cause sono nate forse per la seconda e non tanto per la prima delle due ipotesi e cioè perché il denaro è diventato un valore talmente preponderante su tutti che qualcuno (gli avvocati) ha costruito un nuovo business specializzandosi proprio nelle cause contro gli operatori sanitari. In America c’è proprio un business, un giro di affari enorme che ruota intorno a questo e che coinvolge anche le grandi compagnie assicurative. Il malcostume italiano del sistema delle raccomandazioni, che ha fatto tanti disastri, non credo abbia prodotto specificatamente pure questo, anche se certo è possibile che in alcuni casi un incentivo ulteriore a fare causa sia dovuto al fatto che all’interno dell’ospedale la legge non è uguale per tutti e che ci sono figli e figliastri. Sicuramente questo può creare già un clima di risentimento che facilita poi, se il proprio familiare non guarisce o muore, una profonda rabbia ed un desiderio di vendetta o di rivalsa. Io però vi inviterei ora a raccontare qualche vignetta clinica vissuta personalmente che ci aiuti a riflettere insieme su questa tematica del burnout.

Studentessa 1: Io più che altro volevo dei chiarimenti su come ci si può difendere dal burnout perché io già nell’altra lezione, quando abbiamo parlato di questo tema, vi avevo detto del mio problema sulla scelta di fare il tirocinio nel reparto di cure palliative… Un po’ al burnout ci ero quasi arrivata visto che a livello conscio non avevo problemi a stare in quel centro però alla fine del turno di lavoro, la sera, facevo sogni strani che mi turbavano… Alla fine ho capito che io in questi centri non ci posso tanto andare, è meglio per me lavorare in altri reparti… Però mi è successo di recente che ci sono ricascata un’altra volta, nel senso che c’era il nonno della mia migliore amica, che io conoscevo e con cui stavo sempre insieme, al quale ultimamente era venuto, anche a lui, un tumore… che ormai era in fase terminale… infatti ha vissuto solo cinque mesi… e sapeva che ero infermiera… e quindi ogni volta che io stavo a casa voleva che io andassi a trovarlo… se doveva fare delle punture chiamava me … Ogni volta che ci andavo mi diceva: “Tu sei veramente come la mia nipotina, sei come… sei tanto brava!” Mi dava i soldi, mi pagava anche cifre spropositate che io non avrei mai accettato… però insisteva, insisteva, insisteva… A quel punto io mi sono distaccata, allontanata cioè… Io poi, da quando l’hanno ricoverato, io non ci sono più voluta andare perché sì, è vero che ci sono un po’ legata a questa persona, però non è che veramente sono la sua nipotina… cioè mi faceva … cioè io già ho perso mio nonno allo stesso modo per cui era un po’ come rivivere mio nonno in un’altra persona… e quindi diciamo non l’ho fatto proprio a posta ma l’ho lasciato proprio da una parte fino a ieri quando, invece, la mia amica mi ha mandato un messaggio dicendo che alla fine il nonno era morto. E io là ci sono rimasta male perché ho detto: “Ma io sono un’infermiera, alla fine, tra poco, non è che sono una persona qualunque, io non mi devo allontanare dalle persone che stanno male, addirittura da questa persona che io conoscevo non a livello professionale ma a livello tra virgolette familiare, l’ho voluta lasciare un pochino da una parte, non mi posso comportare in questo modo…” Però, da una parte, ho capito che il transfert della mia amica non mi faceva bene perché dopo che le ho risposto con le condoglianze lei mi ha scritto: “Grazie per venire all’esposizione domani della salma perché mio nonno me l’ha sempre detto che ti voleva tanto bene, che per lui eri come una nipote”… E io ho pensato “ma a me queste cose non mi fanno bene perché sì, ok, era una persona gentile, disponibile però non è veramente nonno mio, [la mia amica] non mi deve trattare in quel modo!”

Non riesco a capire come mi devo comportare con queste persone: ho fatto bene ad allontanarmi se però, poi, ci sono rimasta male comunque? Come mi devo comportare? Dovevo trovare un modo corretto per misurare, cioè per compensare tutt’e due le cose? Sento che devo lavorarci …

Dott. Nesci: La Collega ci ha portato un caso bellissimo… Ci volete provare a lavorare?

Studentessa 2: Io preferisco che cominci lei, magari con delle domande, che chiarisca a noi come intervenire…

Dott. Nesci: Io farei due tipi di considerazioni iniziali. Noi “psi” abbiamo una regola che ci vieta di accettare come pazienti delle persone che conosciamo. Questa è una regola che parte dal presupposto che la cura, la terapia, sarebbe inevitabilmente ostacolata dal nostro coinvolgimento emotivo che non ci consente di osservare ed elaborare in modo neutrale i movimenti transferali e controtransferali della terapia. Questi movimenti infatti sono presenti già nel campo osservativo ed esperienziale perché noi abbiamo già una relazione con il paziente prima che la terapia cominci.

Da questo nostro punto di vista “psi” sarebbe meglio che il medico, l’infermiere, o qualunque altro operatore sanitario evitasse, se possibile, di prendere in cura persone che conosce già.

Nella Psicoanalisi classica questa regola è particolarmente raccomandata al punto che viene sostenuto da alcuni che la cura sia possibile solo nel caso di un paziente sconosciuto. E perché? Perché solo con uno sconosciuto noi possiamo sperare di riuscire a distinguere se l’emozione che proviamo è l’effetto di un transfert. Se noi già conosciamo quella persona, inevitabilmente noi abbiamo dei sentimenti verso quella persona, laddove invece se mi arriva un paziente sconosciuto io sono in grado di valutare molto meglio se quello che provo è un controtransfert prodotto dal transfert del paziente oppure no.

Potremmo allora [rivolgendosi alla studentessa] pensare che nel momento in cui ti veniva fatta la richiesta, dal paziente o dai familiari, di assistenza infermieristica, avresti potuto dire, con molta semplicità: “L’aiuterei tanto volentieri ma siccome sono legata affettivamente a voi e alla vostra famiglia non lo posso fare perché il mio coinvolgimento emotivo potrebbe farmi fare qualche errore tecnico. Ma non vi preoccupate, perché sceglierò io per voi una persona di cui ho piena fiducia e che potrà fare quest’assistenza infermieristica ancora meglio di me. Voi potete tranquillamente affidarvi a lei come se fossi io”.

Venendo ora al secondo problema, e cioè al messaggino della tua amica, potremmo pensare che potresti rispondere, magari a voce e di persona, con un messaggio che ti scioglie dal presunto obbligo morale che tu vada a vedere il paziente che è morto. Tu puoi dire che proprio perché eri molto affezionata a suo nonno, e lo vedevi anche tu come se fosse il tuo, morto di cancro anche lui, avendo già vissuto per tuo nonno questo forte dispiacere, proprio per questo non te la senti, perché ti darebbe troppo dolore, di andarlo a vedere ora che è morto. Potresti abbracciare la tua amica e dirle che sei con lei affettivamente, oppure col pensiero, spiritualmente, che dirai una preghiera, che manderai dei fiori… non lo so… quello che ti pare… insomma non ci vai … perché è anche importante proteggere noi stessi.

Se noi vogliamo fare per tanti anni questa professione è fondamentale che tuteliamo la nostra igiene mentale e quindi che non ci esponiamo a carichi emotivi superiori a quelli che già la professione richiede e che non mescoliamo vita privata e vita professionale. Questo come primo livello di lettura… A voi che viene in mente?


Studente 2: A me questo sulla regola “psi” non mi sembra del tutto corretto… perché raggiunge un paradosso: perché una persona totalmente sconosciuta mi cura meglio di una che mi conosce? Secondo me, invece, più una persona mi conosce, più su di me raccoglie dati, e meglio è. Abbiamo visto in ospedale che addirittura diminuisce la mortalità tanto più quanto più si riesce a conoscere il paziente da un punto di vista clinico, si riesce a osservarlo bene, e quindi questo si può rapportare a qualsiasi figura professionale... Quindi l’operatore “psi” dovrebbe essere così bravo, anche quando ha una rete di conoscenze, da riuscire a distinguere quali sono [le emozioni] che già preesistono da quelle che invece vengono dopo.

Dott. Nesci: Questa è un’interessantissima obiezione e merita una risposta articolata in due parti. Cominciamo dalla prima parte. L’ operatore sanitario…

Studente 2: Un esempio semplice. Io non vorrei che i miei familiari li curasse qualcun altro, mentre invece già a mia zia, per la quale ho meno interesse, la vedo due volte l’anno, potrei dire, sì: “Ti mando una persona di mia fiducia…” Abito pure lontano da lei… Userei la regola “psi” certo, mi verrebbe proprio spontaneo!

Risate divertite

Dott. Nesci: Cerchiamo allora di approfondire meglio il concetto della regola “psi” che, appunto, può sembrare a una prima disamina una cosa paradossale, nel senso che uno dice: “Quello lo conosco bene, meglio lo conosco e meglio lo posso curare!” L’operatore “psi” ha, diciamo, come target del suo lavoro, l’inconscio. L’inconscio per definizione è il non conosciuto, questo è il paradosso del lavoro dell’operatore “psi”. Io parlo sempre dell’operatore “psi” di formazione psicoanalitica: la regola è stata creata dagli psicoanalisti e per gli psicoanalisti, cioè per quelli che in realtà lavorano sull’inconscio, sia il proprio che quello del paziente. Allora voi capite che se l’obiettivo della cura psicoanalitica non è il paziente per come lui si conosce e per come noi lo conosciamo ma è esattamente tutto ciò che il paziente non conosce neanche lui di se stesso… ecco che noi ci muoviamo tutti sullo scenario del non conosciuto. Se la cura è fondata sul fatto che si lavora sul non conosciuto voi capite che, paradossalmente, la conoscenza pregressa tra paziente e terapista diventa un elemento di disturbo perché uno può agganciarsi subito agli elementi conosciuti ed essere fuorviato dagli elementi conosciuti al punto da non riuscire a scoprire più quelli sconosciuti. L’operatore “psi” di formazione psicoanalitica fa una cura paradossale e si trova messo in una posizione assolutamente paradossale.

Questa è la prima parte della risposta… poi, come in casa tua, con i “veri” familiari e tua zia, quella che abita lontano… in casa Psicoanalisi c’è una seconda parte della risposta che contraddice la prima… Non si tratta di una contrapposizione tra due risposte possibili, per cui è vera l’una o l’altra. Nel sogno, nel processo primario, che caratterizza i processi mentali inconsci, il principio di non contraddizione non vale (Freud, 1900). Qui stiamo parlando di cose complesse, non stiamo parlando di cose semplici. Le cose non sono o bianche o nere, le cose possono essere sia bianche sia nere…

Quando uno entra in casa Psicoanalisi e quindi postula che esiste una mente inconscia, voi capite che è una complicazione enorme, non è una complicazione del tipo c’è un piccolo problemino in più, no, c’è un secondo problema radicale. Il secondo problema radicale dice esattamente quello che hai detto tu [sempre riferendosi allo studente che aveva mosso l’obiezione alla regola “psi”]. Ci sono psicoanalisti che hanno messo in terapia persone che invece conoscevano o persone che si conoscevano o persone che non erano sconosciute… e quindi che hanno fatto quella che apparentemente può sembrare una trasgressione. In psicoanalisi noi abbiamo molte regole ma tu le puoi trasgredire. La regola viene posta perché uno abbia un orientamento (come delle linee-guida) e le regole, l’insieme delle regole, costituiscono il setting della terapia, ma l’analisi come terapia si basa appunto anche sulle inevitabili trasgressioni del setting. Anzi, quando c’è una trasgressione del setting ecco che lì l’analista subito si mette a lavorare il doppio di prima, perché evidentemente lì deve esserci qualcosa di inconscio molto importante che è intervenuto al punto da fargli trasgredire la regola. Il lavoro psicoanalitico procede solo grazie al fatto che il terapista si accorge degli agiti (suoi e del paziente) che debordano dai limiti del setting ed aiuta il paziente (e sé stesso) a rielaborarli ricollegandoli a memorie rimosse dell’infanzia riattivate dalla relazione transferale. La difficoltà (ma anche il fascino) del lavoro psicoanalitico sta tutto qui, nel riconoscimento continuo della forza dei processi mentali inconsci e del nostro interminabile bisogno di elaborarli, rinunciando alla pretesa onnipotente di controllare in tutto e per tutto (magari alla fine di una cura psicoanalitica) il nostro inconscio. In questo quella dello psicoanalista si rivela una “professione impossibile” e l’analisi un processo “interminabile” (Freud, 1937). Paradossalmente questo aspetto “spaesante” (Rella, 1981) non piace neppure alla maggior parte degli psicoanalisti “ortodossi”…

Mi ricordo un episodio che accadde tanti anni fa, quando invitai qui, al Policlinico Gemelli, Samuel Eisenstein, un grande psicoanalista mio amico di Los Angeles che ormai è morto da tempo e che, diciamo, aveva una storia personale e professionale che lo poneva in una posizione molto particolare. Lui era nato (ovviamente era ebreo, come molti degli psicoanalisti delle prime generazioni) in Romania; da bambino era stato portato in Italia e quindi aveva vissuto in pratica tutti gli anni formativi come cittadino italiano laureandosi in Medicina a Pavia, quindi in una scuola importante, prestigiosa… Poi venne il fascismo, le persecuzioni razziali… praticamente alla fine se ne è andato in America ed è diventato un analista-didatta molto importante, molto famoso, ha scritto dei libri, ha lavorato anche con Franz Alexander, che è uno dei pionieri della Medicina Psicosomatica, e quindi aveva una formazione che era europea più che americana per cui lui non aveva paura di fare trasgressioni di questo tipo nel senso che, all’italiana, lui pensava in un altro modo e quindi si faceva anche molto guidare da considerazioni affettive. Per cui, per esempio, quando ha parlato della sua esperienza clinica, al Gemelli, ad un corso di Psichiatria di Consultazione e Clinica Psicosomatica che organizzavo io, tanti anni fa, ha raccontato un caso clinico particolare. Praticamente lui aveva avuto come pazienti due familiari, due membri della stessa famiglia. In casa Psicoanalisi non si fa: “Se tu segui la madre, non puoi seguire la figlia, non puoi seguire neanche la sorella, il padre eccetera”… come dicevo prima la regola è quella dello sconosciuto ossia il paziente deve essere sconosciuto. La sua venuta a Roma, per fare questa lezione, aveva attirato tanti psicoanalisti italiani e immediatamente questi sono saltati in piedi scandalizzati: “Ma come sarebbe questa cosa?” E lui ha detto: “In realtà invece vi devo dire che pur essendo consapevole che facevo una trasgressione di una regola fondamentale mi sono trovato molto bene a lavorare con questi due membri di una stessa famiglia perché già sapevo dalla prima persona che avevo avuto in terapia molte cose, e quindi io avevo due visioni sulla stessa situazione familiare per cui sicuramente questo, secondo me, mi ha aiutato moltissimo nel lavoro anche perché io ero ben consapevole che tutto questo poteva anche ostacolarmi nel lavoro e quindi ero ancora più attento ad elaborare quello che sentivo nella relazione terapeutica”.

Da notare però che sia la prima sia la seconda persona erano inizialmente sconosciute, nel senso che non c’era in nessun caso un rapporto di amicizia pregresso ma un rapporto professionale.

Dunque c’è trasgressione e trasgressione: un conto è andare a letto col paziente o derubarlo, un conto è prendere in terapia un familiare sconosciuto di un paziente conosciuto come paziente in una terapia pregressa. Sono trasgressioni ovviamente molto diverse, inaccettabili le prime, accettabili con un margine complesso di operatività la seconda.

Mi spiego meglio: se la vostra collega, ritorno al caso di prima, ci avesse detto: “Io non potevo sottrarmi al fatto di seguire questo paziente e anche se per me poteva essere doloroso perché mi ricordava mio nonno, tutto sommato il mio istinto, il mio intuito professionale, mi diceva che era meglio che lo facevo…” penso che nessuno di noi avrebbe avuto niente da obiettare; però è importante che voi sappiate che anche la tutela di voi stessi fa parte della vostra professionalità. Voi dovete avere cura non solo dei pazienti ma anche di voi stessi perché voi stessi siete i curanti. Chi sta in una relazione d’aiuto è l’operatore sanitario, e l’operatore sanitario deve avere cura della propria igiene fisica e mentale come di quelle dei pazienti di cui si prende cura, quindi deve essere in grado di valutare volta per volta se quel tipo di lavoro con quel tipo di paziente può farlo, se è un paziente con il quale può lavorare oppure no.

Studentessa 3: Io mi sono chiesta questo… nel senso che io sono completamente consapevole di questo conflitto tra vita privata e professione, infatti a casa mia non sono considerata come una che studia, che è quasi ormai infermiera, ma sono sempre l’incompetente della situazione. Infatti mia madre, che ne so, prendo trenta all’università, lei va dalle amiche e si vanta, però nei fatti poi lei non ha fiducia in quello che faccio e in quello che sono cioè non mi considera proprio. È una situazione brutta, ora la racconto così… però è una cosa molto sofferta e ogni volta che c’è una situazione che richiede magari il parere di qualcuno che ne sa un po’ di più, io non… valgono di più tutte le cose che pensano loro, perché a casa mia c’è la convinzione che sono tutti medici, in realtà nessuno è medico però loro… c’è sempre stata questa cosa di autogestire i farmaci, di dire idee, cose, di fare diagnosi, cose per cui in realtà non hanno le competenze per farle, quindi io che comunque adesso faccio questo lavoro, io vengo sempre dopo rispetto a loro, vale di più la collega che gli da un consiglio sbagliato che magari chiede di fare cose che per tradizione si fanno piuttosto che… non so come risolvere questo conflitto, quindi sicuramente se mi capitasse una situazione clinica in famiglia io sarei la persona meno indicata per assistere qualcuno perché senza considerazione non c’è, non so, non è una cosa solo mia che magari preferirei non assistere una persona cara perché [non sarebbe opportuno]… è proprio una cosa che viene dall’altra parte, visto che non considerano quello che fai, perché sei sempre solo quello e basta.

Studente 3: Però secondo me, scusa se mi intrometto, però tu dovresti dire al Professore che tu hai una sorella che è infermiera e questo è importante, e magari credono più a lei che a te.

Studentessa 3: No, no, anche mia madre stessa [si comporta in questo modo, indipendentemente da mia sorella infermiera]. Mia sorella non vive con me, però se succede qualcosa, se mio padre fa le analisi del sangue, arriva a casa e mia madre le legge, mia madre si mette lì e le guarda, lei non è che è infermiera, si mette a leggerle lei, non è che dice “vieni tu, mi puoi aiutare?” Le legge mia madre.

Studente 4: Ma fa così anche con tua sorella?

Studentessa 3: Mia sorella… c’è sempre la cosa che per qualunque consiglio lei vale più di me.

Dott. Nesci: È più grande tua sorella?

Studentessa 3: Sì… No, nella mia famiglia c’è una situazione un po’ brutta, di classificazione, sia nella famiglia stretta, proprio mia madre eccetera, sia nelle zie, c’è proprio una classificazione di persone cioè: “Tu vali di più, tu vali di meno”. È sempre stato così.

Studentessa 4: A casa mia invece mi mettono sempre in mezzo… mi dicono: “Lei è capace di fare sempre tutto!” Ma io volevo chiederti… ma tuo padre?

Studentessa 3: Lui per qualsiasi cosa viene da me e mi da un consiglio, un aiuto… Noi abbiamo parlato di vita privata e di vita professionale… Noi abbiamo fatto l’esempio di me che sono professionista e non mi avvicino a cose private [curare i propri familiari], invece a casa mia è il contrario sono loro [i familiari] che nella vita privata non mi riconoscono il ruolo, la professione, io in qualsiasi caso [per loro] non potrei…

Studentessa 5: Io penso che è perché ancora non sei laureata… perché sei ancora studente.

Studentessa 3: Ma anche per cose banali, per cui non c’è bisogno di… non ci vuole una laurea… è proprio una mentalità, quando sei classificato in una certa maniera…

Studente 4: Pure a casa mia, ma anche per mettere un cerotto!

Risate in aula

Studente 4: Però io da una parte la capisco… c’è un po’ la visione della mamma, del papà, sei un po’ il bambino di casa… Se cresci puoi dare una mano. Poi magari esci da casa e fai cateterismi… mentre a casa neanche un cerotto! È un po’ svalutante, però tutto sommato poi ti vengono a chiedere un aiuto, riuscire un po’ a contrastarli però [non è semplice]…

Studentessa 6: Io ne ho sofferto anche se adesso assolutamente vengo interpellata su tutto e per tutto, mi chiamano anche se devono fare un’analisi. Mi chiedono quello che penso. Io ho avuto un conflitto quando mi sono iscritta qua alla Cattolica. Io ero laureata in Economia e Commercio e a un certo punto ho voluto cambiare completamente la mia vita e quando ho telefonato a casa dicendo che avevo superato il test di ammissione alla Cattolica mia madre non mi ha parlato per una settimana e poi mi ha passato mio padre e gli ha detto: “Parlaci, sta facendo una pazzia, ha studiato per tanti anni!” Insomma per una settimana è andata così… quando sono entrata poi, per i primi mesi… Adesso per ogni piccola cosa mi chiamano – perché non vivo con loro – mi telefonano: “Che pensi? Mi conviene andare alla Cattolica? Che faccio vado prima dal medico di base?” Per ogni cosa… Mia madre si è fatta fare anche il prelievo al primo anno! Avevamo le provette per esercitarci… mia madre, tranquillamente... Quindi voglio dire che per me è completamente il contrario, addirittura [si fanno mettere] anche un cerotto da me!

Dr. Nesci: Ecco io volevo sottolineare alcune cose. La prima cosa che mi sembra molto interessante è che questo discorso, che apparentemente poteva sembrare non entrarci, se ci fate caso invece si ricollega perfettamente al doppio aspetto del pharmakos perché qui è come se stessimo dicendo che uno può essere, o può essere considerato, di scarto (“Neanche un cerotto! Neanche ti fanno vedere le analisi!”) oppure essere messo su un piedistallo (“Per ogni piccola cosa mi chiamano”). Abbiamo visto addirittura che ci possono essere delle interessanti oscillazioni nell’ambito della stessa persona… L’ultima associazione che è stata portata, la sua, dice che la stessa persona può essere stata reputata matta nella scelta di fare l’infermiera e poi, dopo, può essere diventata, la stessa persona, il punto di riferimento delle cose sanitarie… quindi… Voi vedete che questa oscillazione tra essere uno scarto o essere un punto di riferimento è sempre presente o in una versione o nell’altra. Questo ci interessa molto perché ci dice che il rituale dei pharmakoi ci insegna tante cose e cioè che ognuno di noi che diventa farmaco vivente, operatore sanitario in una relazione di aiuto, è esposto ad oscillazioni di vissuto sia da parte degli altri sia da parte nostra, oscillazioni molto forti per cui a volte ci possiamo sentire sugli altari e a volte invece gettati nella polvere. Questo dobbiamo saperlo perché, se lo sappiamo, lo capiamo, ci facciamo meno prendere sia dal delirio di onnipotenza, quando ci vogliono attribuire responsabilità che non sono nostre e che sono superiori alle nostre reali funzioni professionali (perché può accadere che vengano chiesti consigli a noi su cose di cui non siamo competenti come quando a me il paziente in psicoterapia mi chiede un consiglio ortopedico… “Ma che ne so io? Vai dall’ortopedico: che vieni a chiedere a me?”) A voi può capitare la stessa cosa cioè che vi chiedono, i pazienti o i familiari, cose di cui non avete la competenza ma ve le chiedono perché hanno un rapporto idealizzato con voi per cui vi fanno diventare onnipotenti. Lì non bisogna colludere, lì uno deve dire: “Io non sono competente, ma se vuoi mi do da fare per cercare la persona che può avere una competenza tale da aiutarti…” In questi casi dobbiamo sapere che corriamo sempre il rischio di fare una trasgressione di limiti, di setting e di debordare dai confini della nostra professione. La stessa cosa uno la può fare al negativo, al negativo… Uno può avere una reazione, diciamo così, per esempio, di rifiuto, di rigetto totale.

Studentessa 3: La reazione che ho io è che penso che appena posso devo lasciare quell’ambiente perché dentro non sto bene, questa è la mia reazione, è quello che penso ossia andarmene, non è una realtà che mi fa bene come persona.

Dr. Nesci: Sì, questo però è un altro discorso nel senso che è anche sano che una persona progetti di andare via di casa e di costruirsi una sua autonomia, quindi voglio dire che questo non lo vivrei come il rischio del negativo, questo è esattamente il contrario, un fatto positivo. Questo è il fatto estremamente complesso della vita, se la guardiamo a 360 gradi, che loro ti stanno facendo un grande favore perché ti stanno spingendo a diventare autonoma, a crescere… questo invece è il grande aiuto che inconsciamente loro ti stanno dando, ti stanno autorizzando ad andare via senza sensi di colpa e senza rimpianti e a costruire una tua vita. Tra dieci anni li ringrazierai, con un’altra saggezza e un’altra maturità, perché quando sarai molto contenta di quello che hai realizzato grazie al fatto di stare lontana da loro dirai: “Va bene, l’avranno fatto pure in modo antipatico… ma di fatto molto meglio così che non il contrario.” Perché quanti figli noi vediamo, apparentemente ben trattati e coccolati, che non concludono niente nella vita?

Studentessa 3: Per me è il contrario, dicono: “Vai!”

Dr. Nesci: Ma ringrazia Dio perché in realtà l’altro eccesso è un difetto!

Studentessa 7: Tu fai il tuo percorso fino a diventare una professionista riconosciuta e loro avranno modo poi [di riconoscerti e stimarti per quello che fai nel tuo lavoro]…

Dr. Nesci: Loro hanno già la sorella che fa loro da infermiera, non gliene serve un’altra. C’è un’altra logica… però in realtà [questo fatto] l’aiuta perché così lei può andare a fare l’infermiera dove vuole e può fare la sua vita in santa pace, lei non si dovrebbe arrabbiare…

Studentessa 3: Sono delle situazioni paradossali che fanno ridere perché se mio padre deve fare delle iniezioni gliele fa mia madre…

Studentessa 8: Lei si sente offesa!

Dr. Nesci: Male, non ti devi sentire offesa, devi accendere un cero a Sant’Antonio e ringraziare Dio, tu non sai che fortuna che hai!

Risate in aula

Dr. Nesci: Chi altro ha qualche altra associazione?

Studentessa 9: A me è successa la stessa cosa che dice lei, sono successe due cose: all’inizio i miei genitori non volevano neanche [che io studiassi per diventare infermiera], volevano che facessi Medicina, poi è successo come diceva lei, che alla fine ti chiedono tutte le cose, vengono da te… Però comunque sono io che mi sono irrigidita nei loro confronti, io non voglio assolutamente dargli una mano cioè io, diciamo, non glielo metterei un cerotto perché, non lo so, è come un distacco, non mi va! Prima non mi avete considerato e io adesso devo…

Dr. Nesci: Questo discorso che sta adesso emergendo è molto importante perché finalmente vi aiuta a capire una cosa che voi all’inizio non avevate capito… quindi io ve la sottolineo. Vi ricordate quando vi ho detto della regola “psi”? Che i familiari, i conoscenti, i parenti non si possono curare? Perché gli “psi” hanno messo questa regola? L’hanno messa perché sanno che quello che la collega, evidentemente più matura, ci dice con coscienza: “Io non li voglio aiutare per il modo in cui mi hanno trattato all’inizio”, gli psicoanalisti, che hanno fatto una lunga analisi come pazienti, sanno che ha delle implicazioni molto importanti. L’inconscio umano è ambivalente. Ambivalente vuol dire che rispetto a qualunque oggetto di amore l’inconscio ha sempre sentimenti d’amore e sentimenti di odio e non può essere altrimenti, c’ha l’uno e c’ha l’altro, contemporaneamente, ergo è meglio che uno che già conosci tu non lo vedi proprio… come dice lei: “Io neanche un cerotto gli voglio mettere…” c’ha ragione!

Perché lei non gli vuole mettere il cerotto? Non solo perché si vuole coscientemente vendicare ma perché, a livello inconscio, ha paura che la sua ambivalenza verso le cure familiari esca fuori e che, suo malgrado, lei invece di mettergli il cerotto sulla ferita glielo metta sull’occhio! “Non mi hai visto? Allora adesso non vedi neanche tu!” O sulla bocca! “Mi hai detto cose cattive? Ora cuciti la bocca!” Insomma: “Neanche un cerotto ti devo mettere, perché inconsciamente sono molto arrabbiata.” Lei ce l’ha detto… ma ce l’abbiamo tutti questo problema… perché è inevitabile… perché l’essere umano da bambino dipende totalmente dalle figure che si prendono cura di lui e rispetto a queste figure inevitabilmente, siccome ci sono frustrazioni nella cura, sviluppa anche l’odio e non solo l’amore… per cui è meglio che i familiari non li curiamo. È meglio che non li curi neanche il collega che diceva: “Io sono contento di curarmi i miei parenti perché voglio bene a loro”… Non ti fidare, tu di sicuro vuoi bene a loro ma il tuo inconscio? Che ne sai? Sai quello che il tuo inconscio pensa veramente? Come minimo è ambivalente! Come minimo… E comunque, se proprio vuoi curarli tu, fatti aiutare da un collega che stimi… Quattro occhi vedono sempre meglio di due… Va bene, ce ne possiamo andare… alla prossima… arrivederci!

Bibliografia

Freud S. (1900): “L’interpretazione dei Sogni” in Opere, vol. , Boringhieri, Torino.

Freud S. (1911): Lettere a Jung, 273F e 274F, in W. McGuire (Ed.) The Freud/Jung Letters The Hogarth Press and Routledge & Kegan Paul, London, 1974.

Freud S. (1937): “Analisi terminabile e interminabile” in Opere, vol. , Boringhieri, Torino.

Freud S. (1937): “Costruzioni in analisi” in Opere, vol. , Boringhieri, Torino.

Jung C. G.: Simboli della trasformazione (1912), Opere, vol. 5, Torino, 1952.

Nesci D. A. (1991) La Notte Bianca – studio etnopsicoanalitico del suicidio collettivo. Armando, Roma.

Nesci D. A., Poliseno T. A., in collaborazione con: Catellani S., Ciurluini P., D’Ostilio N., Linardos M., Squillacioti M., Bonanno M., Lorenzi S.: Il setting transizionale nei Balint-like groups per operatori sanitari di equipes oncologiche. In Bria P, Nesci D.A., Pasnau R.O. La Psichiatria di consultazione e collegamento: Teoria, Clinica, Ricerca, Formazione. Alpes Edizioni, Roma, 2009.

Rella F. (1981): “Il silenzio e le parole”, Feltrinelli, Milano.


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