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Strumenti in Psico-Oncologia

RIVISTA SEMESTRALE

Numero 6, Settembre 2010


Stati borderline transitori nei pazienti oncologici: un caso clinico
TESTO SCRITTO IN RETE


Domenico A. Nesci, Mariarosaria Squillacioti



INTRODUZIONE

Questo lavoro è scritto seguendo un modello strutturale già sperimentato (Pecci, Nesci, 2009) sull’altra rivista scientifica online creata dall’Associazione senza scopi di lucro The International Institute for Psychoanalytic Research and Training of Health Professionals (IIPRTHP) che ha dato vita anche a Strumenti in Psico-Oncologia. In pratica il testo che presentiamo è frutto di una doppia scrittura, quella originaria (Squillacioti, 2002), concepita per la Tesi di una allieva della Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università Cattolica, oggi psichiatra da anni e Docente della Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale (SIPSI), e quella successiva, del supervisore del lavoro clinico da cui è nata la Tesi, che ha deciso di riprenderne il testo per questo numero della nostra Rivista.

Il risultato è frutto del cut and paste del programma di scrittura e poi di aggiunte e rimaneggiamenti che somigliano alle velature di un dipinto ad olio, dove l’attesa che gli strati successivi si asciughino è ancora più importante della giustapposizione di nuovi strati di colore.

Il testo si presenta così doppio, con in corsivo le parti scritte dall’allieva (oggi psichiatra e psicoterapeuta) ed in carattere normale le parti come questa, scritte dal Collega più anziano.

Dell’enorme lavoro di scrittura originario resterà, purtroppo, molto poco, ma per pubblicare bisogna

avere il coraggio di limitarsi ad un solo tema, ed anche nell’esplorazione di questo, a pochi frammenti che si sceglie di evidenziare. Il senso più profondo di questa rielaborazione a quattro mani è quello di richiamare l’attenzione di chi lavora nel campo della Psico-Oncologia sull’esistenza di stati borderline transitori che, con diversa intensità e frequenza a seconda della pregressa struttura di personalità dei soggetti, compaiono sia nei malati di cancro che nei loro familiari, “allagati” dal transfert dell’angoscia dei pazienti (per non parlare dei curanti, che non sono affatto immuni da reazioni controtransferali dello stesso tenore).


STATI BORDERLINE TRANSITORI

Il lavoro con pazienti e loro familiari nell’area della Psico-Oncologia, all’interno del Servizio di Consultazione Psichiatrica del Policlinico Universitario “Agostino Gemelli”, ed, al tempo stesso, il lavoro di elaborazione di casi clinici complessi nei Balint-like groups dei Corsi di Perfezionamento e Formazione in Psico-Oncologia (Nesci, Poliseno, e Coll., 2009), organizzati in collaborazione tra il Centro Ricerche Oncologiche dell’Università Cattolica, The International Institute for Psychoanalytic Research and Training of Health Professionals - I.I.P.R.T.H.P. – e la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori, hanno indotto uno di noi ad ipotizzare che in una percentuale significativa di casi le patologie oncologiche maligne producano le condizioni per l’instaurarsi di un quadro nosografico transitorio in cui l’angoscia centrale ha un’intensità ed una natura che si colloca in una zona di confine tra il versante psicotico e quello nevrotico. Nella prima formulazione di questa idea, presentata al Dipartimento di Psichiatria della University of California Los Angeles (Cedars Sinai, Beverly Hills), si era pensato di definire questa nuova figura nosografica come “psicosi sottosoglia” o “subliminal psychotic states of the mind” (Nesci, 2001) dove il termine “sottosoglia” rendeva conto del fatto che questi stati mentali transitori sono generalmente non riconosciuti e non trattati.

In quel lavoro preliminare il punto di partenza era il pensiero di Freud sul disconoscimento (1938), un meccanismo di difesa che consiste in una scissione dell’Io finalizzata al rinnegamento di una porzione di realtà troppo dolorosa o angosciante. L’ipotesi era quella che il disconoscimento è una chiave di lettura illuminante per descrivere gli stati mentali attraversati, transitoriamente, in momenti diversi dell’iter oncologico, dai malati di cancro e/o da alcuni dei loro familiari. Grazie a questa difesa, che appartiene sia al versante nevrotico che a quello psicotico e che si colloca nel registro delle soluzioni perverse – intese da Freud come soluzioni “ingegnose” per operare un distacco dalla realtà senza impazzire – sia i pazienti che i familiari (ma anche altre persone che entrano a stretto contatto con i malati di cancro, inclusi i membri del team oncologico interdisciplinare) possono “reggere” emotivamente i momenti più traumatizzanti dell’iter diagnostico-terapeutico-riabilitativo. Se dunque il cancro rende inevitabile l’adozione di difese di disconoscimento, non è sorprendente che le malattie oncologiche si prestino pure a favorire una regressione a fasi dello sviluppo in cui questo tipo di soluzione era già stato adottato, in una qualche misura, dal soggetto.

L’équipe oncologica ha sempre l’impressione che il paziente riconosca e disconosca, al tempo stesso, la realtà della sua situazione clinica… da qui l’impoverimento dell’Io (per la scissione) l’oscillazione tra comportamenti contraddittori, e la transitoria comparsa di sintomi che rivelano l’attivazione di difese di secondo livello in funzione del prevalere, in momenti diversi, nel paziente (e quindi anche nel transfert del paziente sui familiari e sugli operatori sanitari) dell’assetto “Io che sa” (nevrotico) o dell’assetto dell’altro Io, di quello “scisso” che “non sa” e “non vuole sapere” (assetto perverso, ai confini con il distacco dalla realtà e la psicosi).

Nel vissuto del paziente, infatti, l’angoscia di avere il cancro è un’angoscia di tipo persecutorio: a livello inconscio, infatti, la mutazione maligna si presenta come la materializzazione di un altro Sé corporeo che, dall’interno, minaccia realmente di morte il soggetto.

I Colleghi presenti, tra cui Peter Panzarino, Dean Wolcott e Thomas Strauss, avevano accolto con molto interesse il lavoro, in cui si descrivevano alcuni casi clinici seguiti con Levosulpiride ed altri antipsicotici atipici, sempre a bassissimi dosaggi, aggiungendo però che per loro era comunque difficile pensare al modo in cui proporre un antipsicotico ad un paziente oncologico americano senza la presenza di franchi sintomi di psicosi (allucinazioni e delirio). Raccogliendo queste indicazioni, dopo la discussione, si è ritenuto opportuno abbandonare l’uso del termine “psicosi” continuando però a raccogliere dati clinici sui nuovi schemi terapeutici che erano già stati utilizzati con successo al Policlinico Gemelli (Levosulpiride, su pazienti oncoematologici, Quetiapina e Risperidone su donne con tumori al seno, per i quali il farmaco suddetto poteva essere controindicato, sempre a bassissimo dosaggio e per brevi periodi di tempo, dell’ordine di poche settimane o alcuni mesi) nell’attività di Consultation Liaison-Psychiatry. Questi psicofarmaci vengono tuttora utilizzati nella nostra pratica clinica per trattare le intense angosce vissute dai pazienti oncologici e che si manifestano, transitoriamente, nei modi più diversi: atteggiamenti impulsivi o di chiusura paranoide nei confronti dei familiari dei curanti o del mondo esterno, rifiuto della diagnosi o della malattia, scarsa compliance alle cure, idealizzazione e svalutazione dei curanti, bruschi cambiamenti comportamentali, rabbia, depressione, insonnia, somatizzazioni dell’ansia.

Gli antipsicotici atipici a bassissimo dosaggio sono risultati di netto ed immediato beneficio. Il loro impiego è assolutamente razionale se la condizione del malato di cancro viene rivisitata da una prospettiva psicoanalitica, a prescindere quindi dalla diagnosi psichiatrica.

L’analisi del controtransfert consente infatti di pensare che il cancro induca, in questi pazienti, un vissuto specifico, caratterizzato da fantasie inconsce (o preconosce) in cui il malato oncologico avverte che nel suo corpo si è materializzato un “Doppio” persecutorio: il “Doppelganger” della tradizione letteraria, psichiatrica e psicoanalitica tedesca (Rank, 1914). Questa figura “unheimlich”, approfonditamente analizzata da Freud (1919) in un celebre saggio sul perturbante, come ciò che è “familiare” e “non familiare” al tempo stesso, è sempre, letteralmente, un “Doppio errante” sia nel senso della mobilità (la capacità di invadere, infiltrare, metastatizzare a distanza) sia nel senso dell’alterazione rispetto al modello originale (la mutazione maligna come paradigma dell’errore). Il cancro dunque sembrava essere vissuto, in questi pazienti, particolarmente angosciati e problematici (al punto che per loro veniva richiesta la consulenza psichiatrica dalle équipes dei reparti oncologici) come un’intollerabile trasformazione del mondo, una catastrofe non semplicemente mortifera ma alienante, come una metamorfosi kafkiana...

L’originaria definizione di questa sindrome come psicosi (sia pure sottosoglia o subliminale) è stata abbandonata e sostituita con quella di “Stati Borderline Transitori” per evitare il rischio di aggiungere un trauma emotivo supplementare (la diagnosi di psicosi che evoca sempre lo stigma della follia) a quello già vissuto dal paziente e dai familiari per la malattia tumorale maligna. E’ noto che i malati di cancro, come quelli psichiatrici, vengono spesso, di fatto, emarginati… ed è altrettanto noto che, nel tentativo di contrastare queste dinamiche, sono nate innumerevoli associazioni di pazienti e familiari.

Si tratta di una questione importante perché, trascurandola, si rischia di indurre nel consulente psichiatra (ma anche negli altri membri dell’équipe oncologica interdisciplinare) un atteggiamento di disconoscimento della sindrome (e dunque della specificità borderline della transitoria sofferenza mentale del paziente) “a fin di bene” e cioè per evitare una stigmatizzazione sociale del paziente, con il conseguente evitamento della prescrizione di una terapia psicofarmacologica adeguata, producendo così invece, di fatto, paradossalmente, un maltrattamento. E’ noto infatti che spesso i malati di cancro non vengono trattati o vengono trattati con scarsi risultati, generalmente con antidepressivi ed ansiolitici, in base ad un inquadramento diagnostico del loro malessere come disturbo dell’adattamento con ansia e depressione, mentre farmaci antipsicotici vengono loro somministrati solo per una diagnosi di psicosi franca, ed a dosaggi standard o solo lievemente ridotti se le condizioni fisiche sono precarie.

Il nostro punto di vista teorizza invece l’esistenza “naturale” di stati borderline transitori nei malati oncologici e la nostra pratica clinica documenta l’efficacia di una terapia psicofarmacologica coerente con l’ipotesi clinica psicodinamica (trattamento con antipsicotici atipici, quasi privi di effetti collaterali utilizzando dosaggi che sarebbero inefficaci in un qualunque quadro di psicosi o disturbo di personalità ma che invece sono efficaci proprio per la natura specifica dell’angoscia – al confine tra nevrosi e psicosi – e per la transitorietà dello stato mentale borderline).

Risultati preliminari del nostro lavoro con la Levosulpiride sono già stati pubblicati altrove, limitatamente al trattamento di pazienti che sono stati sottoposti a trapianto di midollo in camera sterile dal 1995 al 1997 per tumori oncoematologici (Nesci e Coll., 1998). Ulteriori risultati sono stati pubblicati più di recente (Nesci e Coll., 2009). In questa sede ci preme comunicare che l’impiego di questo farmaco è entrato nella cultura del reparto di Ematologia del nostro Policlinico Universitario e che la Levosulpiride è diventato il farmaco di scelta non solo quando viene diagnosticato uno stato borderline transitorio ma anche per prevenire manifestazioni psicopatologiche nell’iter complesso delle chemioterapie in stanza sterile nei casi che richiedono un trapianto di midollo. In questi casi infatti il vissuto della chemioterapia come un veleno pericoloso, che rischia di uccidere il paziente piuttosto che salvarlo dal cancro, è inevitabile e quindi la materializzazione sulla scena clinica del fantasma del Doppio persecutorio richiede un trattamento preventivo.


Un caso clinico

Chiunque segua pazienti oncologici nella Struttura di Psico-Oncologia del Servizio di Consultazione Psichiatrica del Policlinico Gemelli ha modo di elaborare i suoi casi clinici negli incontri di gruppo dei Corsi di Psico-Oncologia organizzati dal Centro Ricerche Oncologiche della Facoltà (in collaborazione con The International Institute for Psychoanalytic Research and Training of Health Professionals e con la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori). Questo significa che c’è un gruppo di pari, un gruppo interdisciplinare formato da Operatori Sanitari di ogni parte d’Italia, che seguono in co-visione l’evoluzione dei casi clinici seguiti da ciascuno nella sua istituzione di appartenenza.

In questo modo nessuno è lasciato solo a gestire il malato oncologico… e questo comporta che il paziente, anche quando viene visto in un colloquio individuale, “sente” che dietro quell’Operatore con cui sta parlando c’è un più ampio contenitore gruppale che protegge il curante e ridimensiona i fantasmi di distruttività che aleggiano nella relazione terapeutica.

Nella presentazione di un caso clinico si è quindi cercato di rendere palpabile l’atmosfera di questo setting gruppale che è stato fondamentale per permettere agli operatori di reggere l’angoscia che la paziente comunicava transferalmente (Squillacioti, 2002).

La storia di Sara è una vicenda clinica la cui evoluzione ha richiesto l’uso di diversi setting (incontri individuali, familiari, riunioni di équipe, ecc.) e di diverse figure professionali (psichiatri, ematologi, specializzandi, infermieri, ecc.). Ciascuno, grazie alle proprie competenze e grazie alla capacità di lavorare in équipe e condividere la propria esperienza, ha potuto fasarsi con il variare dei vissuti della paziente per calibrare gli interventi armonicamente. Il gruppo ha sorretto ciascun membro dell’équipe nei momenti difficili della malattia di Sara e ha impedito la pietrificazione emotiva. Infatti le emozioni transferali e controtransferali, a volte violente, sono state assorbite quasi in una sorta di reverie e questo ci ha dato la possibilità di aiutare la paziente a non far cristallizzare la sua angoscia in una forma di chiusura e ritiro sociale, trattandola, nel periodo transitorio della sua fenomenologia borderline, nel modo necessario. Questa storia clinica, carica di sofferenza e di pathos, è un esempio di come un trattamento integrato (farmacologico e psicoterapeutico) in un lavoro d'équipe (ematologi, psichiatri) possa aiutare il paziente a superare momenti di breakdown trasformandoli nei primi passi verso un processo riparativo di adattamento alla malattia ed agli esiti invalidanti delle terapie oncologiche.

 

Storia familiare ed esordio della malattia

All’esordio della malattia Sara è una ragazza di 24 anni, secondogenita di due figli, e vive con il suo compagno, un uomo di 15 anni più grande di lei, con il quale è legata sentimentalmente da circa cinque anni. La madre di Sara (un’infermiera professionale che chiameremo Sandra) muore di leucemia acuta non linfoide, la stessa forma di cui si ammalerà la nostra paziente, quando lei aveva tre anni. Dopo due anni dalla morte della madre, il padre, un artigiano di 54 anni, si risposa con un'altra donna che prende su di sé con coraggio e amore il carico di questa famiglia. Questa donna, che chiamerò Carla, ha una storia personale non comune: dopo aver vissuto una vocazione religiosa, decide di lasciare i voti, diventa infermiera, e poi si sposa con il padre di Sara. Sara è ancora bambina quando questo avviene, ma tra lei e Carla si instaura subito un rapporto d'affetto profondo. Dopo qualche anno anche Carla si ammala di cancro ovarico e si trova ad affrontare un periodo di grande sofferenza, ma fortunatamente il tumore è ad uno stadio precoce e dopo diversi cicli di chemioterapia ed un intervento di ovariectomia-isterectomia va in remissione completa. La malattia oncologica di Carla e l'angoscia di un'ulteriore perdita, rafforzano ulteriormente il rapporto tra le due donne, tanto che Carla, al telefono, mi dirà: "Sara è molto legata a me, dipende completamente da me… Questo mi spaventa, certe volte è quasi come se volesse che io respirassi al posto suo." Dopo la cura del tumore di Carla seguono alcuni anni di apparente tranquillità. Sara percorre senza problemi le normali tappe dello sviluppo infantile, frequenta con piacere la scuola e dopo la maturità trova lavoro come commessa. Nel 1996 si ricovera per un Herpes Simplex resistente a tutte le terapie. Durante questo ricovero i medici le comunicano che i suoi globuli bianchi sono bassi e che c'è una certa vulnerabilità, le consigliano semplicemente di fare sempre dei controlli. Nel 1998 affronta un periodo di notevole stress e decide di lasciare la casa dei genitori per andare a vivere con il partner, contro la volontà del padre che rifiuta di vederla per alcuni mesi. Sara dice che questa scelta le ha procurato una grande sofferenza; in quel periodo sono cominciate le infezioni, la febbre, l'astenia e numerosi episodi di lipotimia. Mi racconta che si addormentava dappertutto, finché un giorno la madre ed il ragazzo l'accompagnano in ospedale. Qui la madre le fa un prelievo e viene ricoverata d'urgenza. Le viene diagnosticata una leucemia acuta e viene sottoposta a diversi cicli di chemioterapia e ad un trapianto allogenico di midollo osseo donatole dalla sorella. Sara rimarrà per un mese e quattro giorni in camera sterile. Durante questo ricovero i medici del reparto richiedono una consulenza psichiatrica, preoccupati da fenomeni allucinatori e dal brusco cambiamento del suo comportamento. Come spesso accade con i pazienti oncologici, questa richiesta di consulenza diventa il passaggio fondamentale per avviare un progetto di sostegno psico-oncologico. Sara risponde bene ai cicli di chemioterapia, ma gravosi sono gli effetti collaterali. La ragazza, infatti, vive con profondo spaesamento i perturbanti cambiamenti del suo corpo: la perdita dei capelli, l'aumento di peso, la piorrea, la menopausa precoce.

 

Un veleno salvifico

Il caso di Sara è un chiaro esempio di come alcuni pazienti oncologici reagiscono al tumore con una serie di manifestazioni transitorie di tipo borderline. Analizzando la storia di Sara possiamo ipotizzare che per difendersi da una potentissima angoscia di morte ha avuto bisogno di mettere in atto dei meccanismi di difesa di scissione e disconoscimento. Quando i medici le hanno prospettato la situazione e le hanno mostrato la camera sterile, dove sarebbe stata diversi giorni, senza avere la possibilità di vedere nessuno se non attraverso un vetro, e senza nessuna garanzia di un esito positivo del trapianto, Sara ha reagito in modo paradossale, ridendo e scherzando. In quel momento – racconterà poi - non riusciva a vedere nessun pericolo, anzi “quell’acquario” le sembrava un posto interessante. Finalmente sarebbe stata tranquilla, tutta sola a guardare gli altri come in vetrina, e finalmente avrebbe potuto riposarsi e pensare solo a se stessa: ne aveva proprio bisogno, non capiva perché tutti piangessero. Erano questi i pensieri che le passavano per la mente, poi, però, con il passare dei giorni, il suo stato d'animo è cambiato. Sara comincia ad avviarsi verso un vissuto di incredulità, non riesce più a capire il significato di tutto ciò che le sta intorno. Le emozioni diventano sempre più intense e quel posto che le sembrava così affascinante si trasforma per lei in una trappola di cui tutti bene o male sono gli artefici. Sara si carica di emozioni contro gli altri, perché non le hanno saputo spiegare bene le cose, forse l'hanno ingannata… Sono sempre più forti i sentimenti di odio verso il padre che l'ha affidata ad un dottore “che ha fatto morire” sua madre. La paziente agisce questa rabbia non volendo né vedere né parlare con il padre, da cui non si sente protetta, ma “massacrata”. La stessa rabbia la manifesta con il medico che in passato aveva curato sua madre. Accetta, in un'ulteriore scissione, le sue cure, perchè Carla le ha garantito che possono aiutarla, ma per poterlo fare deve negare la presenza del medico impedendogli di interagire con lei. Anche la figura di Carla deve essere scissa e Sara può riconoscere solo il suo ruolo di infermiera, ma non quello di madre. L'immagine materna per Sara assume in quel momento un potente significato mortifero. Sara accetta Carla perché è la madre buona capace di sopravvivere al cancro e sconfiggerlo andando in remissione completa, rifiuta Sandra perché è morta del suo stesso cancro. Carla (la matrigna infermiera sopravvissuta) viene vissuta come la terapia: un veleno salvifico. Sandra (la madre infermiera morta) diventa un oggetto d’amore che deve essere disconosciuto per non cadere vittima di una pericolosa identificazione mortifera.

 

La consulenza in camera sterile

La consulenza in camera sterile viene richiesta perché i medici sono molto preoccupati per l’evoluzione dell’atteggiamento di Sara nei confronti della sua malattia. L’iniziale negazione del cancro (espressa da un’eccessiva ilarità e da un’apparente mancanza di angoscia) aveva infatti lasciato presto il posto ad una apparente depressione e, successivamente, alla comparsa di comportamenti aggressivi ed ostili verso i familiari ed il personale. In particolare la paziente rifiutava violentemente la figura del medico che, in passato, aveva curato la madre senza riuscire a salvarla. Quello che però più preoccupa il reparto è che Sara, in alcuni momenti, è particolarmente agitata perché dice che Sandra (la madre biologica) vorrebbe prenderla per mano e portarla via. Le urla di Sara, al di là del vetro della camera sterile, che la paziente chiama “il suo acquario”, provocano una profonda angoscia in tutto il personale. Sara è confusa, non riesce a capire se è un sogno o è la realtà: ogni giorno è una battaglia che deve combattere per "respingere la mano della madre”. Le notti poi si popolano di fantasmi. Sara ha paura di addormentarsi, teme che il sonno possa renderla più fragile ed incapace di vigilare sul suo corpo. Cresce la rabbia nei confronti di tutto il personale da cui non si sente protetta, rifiuta di vedere il padre ed il ragazzo perché la loro presenza "la indebolisce”. Nel suo vissuto "è per colpa loro”, per la scelta che è stata obbligata a fare, quando ha deciso di andare a vivere con il compagno (un uomo divorziato) contro il volere del padre, “che si è ammalata”. L'unica persona che Sara accetta di vedere è la madre adottiva che obbliga però a restare fuori dalla stanza, a vegliare su di lei per tutta la notte per assicurarsi che nessuno le possa fare del male, soprattutto quando il sonno vince sulla sua volontà di restare sveglia. In quei giorni, ci riferiscono i medici del reparto, nessuno poteva toccarla se non in presenza di Carla, che doveva controllare, in virtù delle sue competenze professionali, tutto ciò che veniva fatto. Da un punto di vista psicodinamico si potrebbe pensare che il quadro fenomenologico di tipo borderline esprimesse l’impossibilità di elaborare un conflitto tra un vissuto dei familiari come cancerogeni (ivi inclusi i curanti che erano gli stessi della madre morta) ed un bisogno di aiuto da parte di figure familiari-nonfamiliari (la madre adottiva malata ma poi guarita di cancro). Carla era cercata da Sara solo per la sua funzione di infermiera-vigilante. Non le riconosceva una funzione materna. La lasciava fuori dalla stanza, come un’infermiera da cui era separata grazie alla distanza terapeutica… vicina e lontana al tempo stesso… non troppo vicina (per evitare un pericoloso contagio) e non troppo lontana (per averla comunque a portata di mano o di voce, in caso di bisogno). In quel periodo, infatti, Sara si tappava spesso le orecchie per non sentire il rumore del vomito degli altri pazienti… un suono che le faceva temere di mettersi anche lei a vomitare. La scelta dell’impiego della Levosulpiride, sia per le proprietà antiemetiche che per la non mielotossicità e le proprietà polivalenti del farmaco stesso (che è considerato ansiolitico, antidepressivo ed antipsicotico, a seconda del dosaggio) ha favorito, unitamente ad una gestione psicodinamica della consulenza, il superamento della crisi già durante il ricovero.

 

Il supporto psico-oncologico ambulatoriale

Sara si rivolge al nostro ambulatorio dopo due anni dal trapianto. Il motivo apparente è un profondo disagio conseguente alla menopausa precoce causata dalla chemioterapia. Dopo la prima visita, in cui Sara presenta problematiche legate alla sua incapacità di riprendere una vita sessuale e di accettare il suo corpo trasformato a seguito delle cure, il dottor Nesci mi propone di seguire questa paziente che sembra aver bisogno di un supporto psico-oncologico e di un rispecchiamento con una figura femminile. Dopo una accurata riflessione su come effettuare il passaggio, decidiamo che l'idea più semplice, anche in relazione al nostro setting istituzionale, in cui gli specializzandi degli ultimi anni vengono richiesti di eseguire alcune psicodiagnosi prima di ricevere un sostegno psicologico individuale, sia quello di inserire Sara in questa nostra prassi del Servizio di Consultazione Psichiatrica. Programmiamo allora una serie di incontri per fare dei colloqui e due tests: il Rorschach ed i Reattivi Grafici di Disegno. Al primo colloquio è piuttosto agitata e diffidente; il suo aspetto è quello di una ragazza forte e grintosa ma il suo sguardo, sospettoso e duro, e la sua voce impostata, mi fanno sentire un grande senso di smarrimento… quasi ho paura a portare avanti quell’incontro, temo di sbagliare, di innervosirla, ogni cosa che mi viene in mente mi sembra quasi un'offesa al suo dolore ed alla sua storia. Mi limito allora ad ascoltarla. Quando Sara lascia la mia stanza mi sento molto turbata e soprattutto mi rendo conto di averle offerto uno "spazio vuoto". I miei pensieri, mentre mi raccontava la sua storia, continuavano a girare intorno al mio senso di impotenza; rispetto a quella giovane donna ogni cosa mi sembrava banale e non riuscivo a permettermi nessuna frase di leggerezza intesa come possibilità di alleggerire certe strutture di pensiero e stati d'animo che mi investivano come un macigno. Parlando al dottor Nesci e al gruppo delle mie emozioni mi rendevo conto di essermi sentita mummificata, forse perché non avevo ascoltato bene le richieste che in quel momento mi faceva Sara, ma la guardavo come se fosse ancora nel suo acquario, la sentivo ancora come una sopravvissuta o meglio “come un simile/dissimile di cui è difficile dire se appartiene ancora alla massa dei vivi” (Nesci e Coll., 1992). Il gruppo mi fa notare che probabilmente io la vivo in questo modo perché è lei che si sente di essere ancora insidiosamente segnata dalla massa dei morti. Decido allora di cominciare dal presente e di lavorare subito con lei sulla sua richiesta di aiuto. All’incontro successivo, con imbarazzo, in modo all’inizio stentato, le chiedo di parlarmi dei disagi dovuti alla menopausa precoce. Sara mi parla del suo corpo appesantito, della pelle macchiata da tutte le terapie, e del suo non ritrovarcisi più. Ogni volta che esprime disprezzo per quel corpo così cambiato, subito si giustifica e quasi si sente in colpa di provare desideri sessuali, di bellezza, piuttosto che accontentarsi dell’essere sopravvissuta alla malattia che aveva combattuto. Mi rendo conto allora che il mio sentire sciocca ogni domanda era in realtà il suo imbarazzo; Sara quasi si vergognava di provare certi sentimenti, normali per una giovane donna, ma non per lei che avrebbe dovuto essere immune da ogni vanità. La sua forza ora era anche quella, cioè di non arrendersi al sentimento di sopravvissuta, ma vivere i desideri di sentirsi una giovane donna… un desiderio che la spingeva a ricercare anche in una bella fisicità la gioia di vivere in pieno la vita. Sara ci stava chiedendo un aiuto a risolvere i suoi problemi sessuali, dovuti alla sua metamorfosi. Riuscire in questa impresa, forse, può avere per lei il significato profondo di Eros che riprende ad abitare in lei dopo aver sconfitto Thanatos.

Nel ripercorrere le difficili tappe della sua storia e della sua vicenda clinica, da cui era impossibile prescindere per cominciare un lavoro di ricostruzione riparativa e non irrealisticamente restaurativa (Cassatella, 2010) dell'identità, mi racconta un sogno antecedente alla malattia. Il sogno è ambientato in un castello di cui lei è la custode. Il castello, nel sogno, appartiene alla madre, e Sara deve mostrarlo a dei visitatori. Percorre le diverse stanze fino ad arrivare nella stanza da bagno. Qui, in uno scrigno, trova una ciocca di capelli della madre e scoppia in un pianto disperato. Per Sara quel sogno era come uno dei pochi chiari ricordi riferiti alla madre. Le emozioni del sogno sono tante: nostalgia, dolore, sentimenti di identificazione ed un senso di predestinazione. Sara è venuta in ambulatorio per un problema legato all'intimità, alla genitalità, e comincia il suo percorso terapeutico con un sogno in cui parte delle scene si svolgono nel luogo più privato di una casa o di un castello (un bagno). Il sogno offre l'occasione per rivedere l'immagine materna che non viene solo ricordata come un incubo di morte, ma come la proprietaria di un castello che lascia in eredità parti di sé pericolose, dolorose, ma anche oggetti-sé di cui essere orgogliosi, da fare vedere agli altri e che Sara deve custodire. È questo aspetto del sogno che ora Sara è pronta a valorizzare. La femminilità viene elaborata non più come eredità di geni pericolosi, ma finalmente, dopo aver aperto il triste scrigno, può diventare oggetto di attenzioni.

Nei Reattivi Grafici di Disegno la prima figura che Sara mi disegna è la sagoma di una persona, un fantoccio senza forme e senza capelli, ma con un gran sorriso. Quando le chiedo il sesso di quella persona, mi risponde che non ha sesso, perché io le ho detto di disegnare una sagoma e non una persona. Ancora una volta il gioco delle proiezioni è una difesa dall’angoscia, ma anche un utile strumento di lavoro. Ancora una volta Sara mi offre la chiave per accedere al suo dolore. Il secondo disegno (una donna dalle linee morbide) diventa così il primo tentativo di ricostruire l'immagine di una identità femminile. Sappiamo entrambe che è il punto da cui partire per desiderare una vita normale, infatti il disegno successivo è una coppia a cui aggiunge un bambino. Sara non nega la sua impossibilità ad avere figli, ma accetta il suo limite e dice che potrebbe adottarlo un figlio, anzi aggiunge: “forse è meglio, così non posso trasmettergli nessun gene malato, ma prima di adoperarmi per realizzare questo progetto devo risolvere i miei problemi”. Il Test di Rorschach, a cui Sara si sottopone con grande curiosità, evidenzia che le energie mature a disposizione dell'Io sono ancora minacciate da tensioni e conflitti, ma l’Io è ben strutturato e buona è la capacità di attaccamento. Il test denota anche la ricerca di un rapporto con l'esterno che ancora non ha assunto una forma ben definita. In Sara è chiaramente forte il conflitto tra i desideri ed i limiti, ma la paziente sta comunque cercando una soluzione per vivere una vita normale. Per i malati di tumore, soprattutto ematologici, le variabili implicate nell'adattamento alla malattia sono di ordine medico e psicosociale ed è fondamentale che noi operatori “psi” siamo pronti ad accogliere le loro richieste e a capire i loro vissuti. Il lavoro ambulatoriale con Sara è stato soprattutto un condividere ed affrontare i disagi dovuti agli esiti della malattia ed alle terapie. Insieme abbiamo cercato delle soluzioni creative ed insieme abbiamo ripercorso quei momenti della sua vita che ancora le davano angoscia e paura. Spesso il limite della realtà ci obbligava a lavorare sull'adattamento alle nuove condizioni, ma con Sara c’era sempre la possibilità di intravedere una buona motivazione per andare avanti. Dopo tutto, nonostante il futuro spesso le sembrasse incerto, la paziente conservava la fierezza e la forza per aver compiuto già un'impresa titanica… e questo ci ha aiutato molto nella riabilitazione alla vita.

 

Riflessioni successive

Rivisitando negli incontri ambulatoriali il periodo critico del ricovero e del trapianto di midollo, Sara racconta che la sua battaglia quotidiana era nel non cedere al desiderio di stringere la mano che la madre in quello strano “sogno” che viveva nella camera sterile le porgeva. La sua era una lotta con un'allucinazione e con un corpo tenuto in vita da sangue potenzialmente mortifero. I tumori ematologici sono molto particolari, perché non c'è una parte solidamente individuata che si ammala e che si trasforma in un’altra distruttiva e mortifera, ma il carattere ubiquitario e circolante del sistema emopoietico costringe sin dall'inizio a tenere conto della invisibilità della malattia e della difficoltà a localizzarla e delimitarla per controllarla. Tale confusione è difficile da elaborare. A livello fantasmatico, l'assenza di una forma e di un luogo identificabile rendono difficile immaginare parti di sé preservabili e sane. Il coinvolgimento di funzioni primordiali di nutrimento e di difesa rimandano a fantasie di una ereditarietà colpevole e di una contaminazione mortale. La vicenda onco-ematologica più delle altre rimanda all'imago placentare proprio per le sue funzioni di nutrimento e di difesa (Nesci, 1991), e la persecutorietà sta nel doppio materno-fetale. Quindi per parlare nei termini di Fornari, non c'è solo un senso potente di dannazione primaria, ma una forte identificazione con un oggetto morto e l'identicazione mette in gioco un'autocolpevolezza.. Il persecutore sta proprio "nel sangue del mio sangue", come del resto la placenta è fatta da un doppio disco, appunto materno e fetale, praticamente fusi insieme. Infatti, Sara riferisce che in quel periodo la percezione di sé era alterata da frequenti episodi dissociativi di depersonalizzazione. Spesso vedeva il suo "corpo brutto" dall'alto, pensava che forse era quell'acquario a renderla quasi evanescente e galleggiante, a volte si spaventava e questo accresceva ulteriormente la sua rabbia nei confronti di tutti coloro che stavano lì fuori a dire che le facevano compagnia, ma in realtà lei era nel suo bunker trasparente da sola a lottare contro amici/nemici e padri/carnefici. Il vissuto dominante era quello di un'aggressione a cui reagiva ribellandosi prevalentemente ai curanti. La terapia per lei, per quanto più volte rifiutata perché vissuta in modo ambivalente, come un veleno salvifico, era diventata un compito in cui doveva concentrarsi (doveva assumere trecento compresse al giorno) a dispetto di tutto e tutti. Sara riferisce che sentiva crescere risentimento verso coloro che la indebolivano e la distoglievano dal suo compito, era necessaria una grande concentrazione per assumere la terapia, così carica di ambivalenza (tossica fino al punto da uccidere tutte le cellule immunitarie ma salvifica per la possibilità di rigenerarle grazie al trapianto di nuove cellule sane). Sentiva se stessa fragile e penetrabile ad ogni sensazione che provenisse dagli altri, quasi come se il suo corpo e la sua mente potessero assorbire il male degli altri. Era per questo che si tappava le orecchie quando gli altri pazienti vomitavano. Il loro senso di nausea poteva diffondersi anche in lei, così come lo scoraggiamento degli altri contro i quali lei voleva vivere. La malattia aveva creato intorno a Sara un mondo regressivo, simbioticamente persecutorio, che alimentava la sua rabbia, il suo rancore, i suoi momenti di disperazione in cui voleva che tutti andassero via e si chiudeva in un mutismo tenace e duro, ma carico di voglia di vivere. Sara, durante la nostra ultima lunga telefonata, dopo la fine della terapia ambulatoriale, mi dice che quei giorni in camera sterile non li dimenticherà mai: in qualche modo si era creata un mondo di amici e nemici che la proteggeva dall'angoscia di morte. Sara mi spiega che l'odio per il medico o per suo padre, le battaglie contro tutti i traditori, le davano la forza per andare avanti, ma la vera malattia è dopo, paradossalmente, quando si guarisce. È questo il momento più difficile, la quotidianità, infatti, si riempie di limiti e di paure, i ricordi poi sono un'ombra sul futuro. Sara, comunque, fortunatamente conserva quello spirito battagliero e facilmente infiammabile che le ha consentito di vincere la sua lotta per la vita, di riaprirsi ai rapporti con il partner e di riconciliarsi col suo corpo trasformato dall’esperienza di malattia e dalle cure.

 

Conclusioni

E’ importante sottolineare la fugacità degli Stati Borderline Transitori. Questa fugacità è dovuta al fatto che, durante le varie fasi della malattia oncologica, il paziente cerca di superare l’assetto borderline rimpiazzandolo con altri assetti difensivi socialmente più accettabili. I drammatici acting out evolvono così, spontaneamente, nella maggior parte dei casi, in una cronicizzazione di sintomatologie che rimandano ai quadri classici dell’ansia e della depressione, a seconda della struttura di personalità di base del soggetto. Se la natura borderline dell’angoscia, tra psicosi e nevrosi, viene riconosciuta e trattata adeguatamente, i pazienti rispondono molto positivamente agli antipsicotici a bassissimo dosaggio perché l'angoscia di fondo evocata dal cancro è sempre un'angoscia di morte che racchiude vissuti di depersonalizzazione, derealizzazione, destrutturazione. Il caso di Sara mostra al massimo grado la natura più profonda delle angosce suscitate dal cancro… angosce che i pazienti cercano generalmente di occultare in assoluta collusione con i familiari ed i curanti, incapaci di accogliere il transfert oncologico perché troppo “pesante”.

L’uso della Levosulpiride, a basso dosaggio, si è dimostrato prezioso con i pazienti oncoematologici che seguiamo dal 1997 nel nostro policlinico universitario (Nesci e Coll., 1998; Nesci e Coll., 2009). Il successo terapeutico ci ha fatto riflettere sulla natura delle angosce dei pazienti che, a nostro avviso, non possono essere descritte semplicemente come ansia e depressione ma rimandano a qualcosa di molto più serio e profondo anche quando la loro sofferenza acuta si manifesta in modo fugace e transitorio. Riteniamo che l’intensità delle angosce provate dai malati di cancro meriti l’inquadramento nosografico di “stati borderline transitori” dando al termine borderline il significato ampio di qualcosa che si colloca tra la psicosi e la nevrosi intese in senso psicodinamico.

Ci auguriamo che il nostro lavoro contribuisca a stimolare altri ricercatori impegnati nel campo della Psico-Oncologia a verificare queste ipotesi ed incoraggi i clinici ad impiegare antipsicotici atipici a basse dosi nelle malattie oncologiche.

Ci auguriamo che il riconoscimento di questa nuova figura nosografia faciliti la diffusione dei nostri schemi terapeutici psicofarmacologici, sempre comunque da integrare con un supporto psicoterapico se si vuole che la malattia oncologica non crei solo dei “sopravvissuti” ma restituisca alla vita delle persone che hanno ancora il gusto di viverla.


Bibliografia

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Nesci D. A., Manolio V. A., Laurenti L., Piccirillo N., Sica S., Salutari S., Leone G. (1998) L’impiego della Levosulpiride nel trapianto di midollo osseo: risultati preliminari di un’esperienza di psichiatria di consultazione. Psichiatria di Consultazione, Suppl. al n. 1, 97.

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