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PSYCHOMEDIA
FORMAZIONE PERMANENTE
Formazione e Supervisione



Il lavoro di supervisione per una comunità di adolescenti

di Salvatore Capodieci



INTRODUZIONE STORICA

La Congregazione della Carità di Venezia aveva ereditato dalla Repubblica della Serenissima gli istituti - luoghi tradizionali della beneficenza cittadina - che si ispiravano al metodo del Santo veneziano Girolamo Miani, fondatore dei Somaschi.
Si trattava di quattro ospedali (che furono anche conservatori musicali) e come data di fondazione può essere preso il 1527, anno in cui San Girolamo Miani realizzò all'Ospedale dei Derelitti e subito dopo agli altri tre ospedali: le Zitelle, i Catecumeni e le Penitenti.
Il gesuita Benedetto Palmio, fondatore delle Zitelle, aveva l'obiettivo di trasformare le ragazze ("zitelle") in "donne di valore che da questa casa bandiscono l'ozio fomento di tutti i mali" [Costituzioni, 1588, p.19].
Nel 1802 nasceva l'istituto Manin, voluto dall'ultimo doge Ludovico Manin; il metodo educativo era in linea con quello del Miani e si basava sull'istruzione artigianale dei giovani. Nel 1812 nasceva l'orfanotrofio femminile e tre anni dopo quello maschile.
Nel 1922 tutti gli istituti femminili inviarono alle Zitelle le loro ragazze, contestualmente l'anno dopo l'istituto Manin raccoglieva tutti gli orfani maschi da istruire nelle arti e nei mestieri.
Nel 1973, sulla scia della nuova sensibilità educativa e psicologica nei riguardi del disagio giovanile, si decideva la creazione di "gruppi famiglia" in alternativa alle grosse istituzioni e così dopo varie fasi sperimentali si istituirono il Gruppo - Famiglia "L. Manin" e tre Comunità alloggio intitolate a vecchi e nuovi benefattori. Nel novembre del 1973 inizia l'esperienza del Gruppo - Famiglia, denominato "L. Manin"; i ragazzi accolti sono 7 e sono affidati ad un Direttore responsabile, a 2 educatori e ad un operatore addetto all'assistenza.
Nello stesso periodo (1971 - 74) veniva avviata l'esperienza del Centro Educativo Occupazionale Diurno (CEOD) per portatori di handicap, in collaborazione con l'ANFFAS, all'interno dell'Istituto "Manin".
Le tre Comunità Alloggio vengono istituite, invece, nel 1980 per offrire a quei minori che sono temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo, un 'luogo' che li tuteli e assicuri loro il mantenimento, l'istruzione e l'educazione; si tratta per lo più di soggetti con disturbi della personalità con gravi carenze affettive e rifiuti da parte del nucleo familiare di origine.
Agli inizi degli anni '90, viene constatata la crisi del Servizio per i minori; nel 1992 viene chiusa per mancanza di domande una Comunità alloggio; nel 1995 rimanevano 2 minori in una e 5 nell'altra comunità. Visti i costi delle strutture, l'Amministrazione colloca l'utenza rimasta presso altre strutture e approva la costituzione di una nuova Comunità Alloggio per ragazze dai 14 ai 18 anni di età .
E così, nonostante la volontà testamentaria del Doge Manin fosse stata di destinare metà del suo lascito all'istruzione dei ragazzi del popolo e metà alla cura dei "pazzi", di tutte le attività per i minori non rimaneva nel 1995 più nulla, se non una delibera, che stabiliva la costituzione di una nuova Comunità alloggio per adolescenti.

IL MITO DI "FONDAZIONE"

Per rilanciare il Servizio per minori, l'Istituto stampa un depliant illustrativo della nuova attività e lo invia a comuni e ULSS del Triveneto.
Per avviare il servizio, il Consiglio di Amministrazione affida l'incarico di formazione e di supervisione del personale della nuova comunità, consistente in 6 educatori e 2 operatori di assistenza, a tre tecnici: la dr.ssa Daniela Gatto psicologa e psicoterapeuta, la dr.ssa Annalisa Sacerdoti medico scolastico con formazione in psicoterapia dell'infanzia e dell'adolescenza e il dr. Salvatore Capodieci, medico psichiatra e psicoterapeuta.
Il gruppo degli operatori si avvale, inoltre, di un Coordinatore con un esperienza ventennale di lavoro con i minori.
Il Direttore Generale nell'incontro di conoscenza con i supervisori ha sottolineato l'importanza per l'Amministrazione di riuscire a riprendere il lavoro con i minori, che per secoli ha caratterizzato una delle principali attività dell'Istituto che adesso rischia di diventare solo un ricovero per anziani.

L'ATTIVITÀ' DI SUPERVISIONE per il servizio dei minori e per l'équipe della comunità.

Negli ultimi tempi la tendenza a chiedere l'intervento di supervisori esterni nelle Istituzioni pubbliche è andata sempre più crescendo rispetto agli inizi pionieristici di 15 - 20 anni fa. La diffusione massiccia di questa esperienza si è consolidata al punto che in molti Servizi si considera ormai l'esistenza del supervisore una necessità, di cui non è quasi immaginabile fare a meno.
E' importante, però, che i Dirigenti delle Istituzioni comprendano quali siano gli obiettivi che un moderno lavoro di supervisione può perseguire e quali siano le richieste che un Servizio può prospettare e i benefici che può aspettarsi.
Il tipo di supervisione, che viene effettuato da circa quattro anni, è una supervisione istituzionale che si rivolge a - e si svolge in - un gruppo, che è appunto il gruppo degli operatori che a vario livello e con diverse funzioni si occupano della Comunità per minori.
La supervisione istituzionale - occorre sottolineare - rappresenta una modalità di risposta alle relazioni complesse tra i membri dell'istituzione, come riattivatrice di aree di pensiero istituzionale bloccate o atrofiche, come elemento di rinforzo del senso di appartenenza all'istituzione stessa e comunque come risposta a una serie di esigenze dell'istituzione stessa.

IL LAVORO IN ÉQUIPE

E' ormai nozione diffusa e ampiamente accettata che l'équipe, che costituisce il gruppo di lavoro in un contesto istituzionale, può essere considerata non solo come una somma di ruoli e di funzioni, ma come un vero e proprio insieme di esperienze, affetti e rappresentazioni comuni, dotato di una sua storia, di una memoria affettivizzata e di una sua progettualità condivisa.
La richiesta di discussione dei casi con un supervisore esterno diventa così per l'équipe l'espressione di un bisogno di attivazione di una serie di funzioni che debbono essere maturate in gruppo e che l'équipe teme possano perdersi o indebolirsi, se restano relegate al lavoro e alla 'memoria' del singolo membro del gruppo di lavoro.

LE FUNZIONI CHE L'ESPERIENZA DI SUPERVISIONE FAVORISCE e il perché di un'équipe di supervisori:

1. Innanzitutto la supervisione ha riattivato le possibilità di riflessione comune e di pensiero condiviso nei membri dell'équipe. Fra tutte le situazioni vanno ricordate quelle relative all'impatto con i casi gravi o con le fasi evolutive gravi che possono venirsi a creare nell'età adolescenziale delle minori affidate agli educatori.
2. La supervisione favorisce momenti di sospensione del giudizio e la possibilità di approfondire e studiare meglio il "da farsi".
3. La possibilità di cogliere un senso di coesione e di appartenenza. La supervisione soddisfa una serie di modalità di incontro con caratteristiche di tipo rituale (il martedì mattina ogni 2 settimane), che permettono ai singoli membri di sentirsi parte di un unico ambito affettivo-emotivo, di costituirsi cioè insieme una storia e un patrimonio comuni. Si ritrova - in altre parole - uno spirito di corpo, che dà vitalità agli appartenenti al gruppo istituzionale.
4. Una funzione narrativa: gli eventi relativi alle minori, che vivono in comunità non solo sono raccontati e commentati, ma entrano gradualmente nella memoria collettiva e diventano parte di un patrimonio formativo comunicabile e condiviso [*].
5. Altre funzioni: in relazione alle situazioni che rappresentavano l'aspetto più urgente, come nuovi ingressi, cambiamenti socio-familiari nelle famiglie di provenienza delle minori, ecc. i supervisori di volta in volta hanno articolato dei momenti all'interno della supervisione per l'osservazione, lo studio e l'approfondimento delle principali dinamiche specifiche dell'adolescenza. I supervisori sono stati coinvolti nel momento di riflessione con le Assistenti sociali dei comuni di provenienza delle ragazze per riformulare il progetto educativo; in altre occasioni è stato necessario contattare colleghi del Servizio di Neuropsichiatria Infantile e/o del Consultorio Familiare per problematiche psicologiche o psicopatologiche che riguardavano le minori. Di fronte a situazioni di urgenza "emotiva" di alcune ragazze sono state necessarie delle psicoterapie mirate alla risoluzione dell'angoscia, che disturbava i comportamenti e le relazioni di alcune minori. Anche in questo caso la possibilità offerta dal fatto di avere tre supervisori ha consentito di coordinare queste varie funzioni: supervisione dell'équipe, coordinamento del lavoro con le assistenti sociali, contatti con i colleghi dei servizi pubblici territoriali, interventi psicoterapici specifici, momenti di formazione.

[*] Grinberg L.: "La supervisione psicoanalitica". R. Cortina, Milano 1989.

LA PRIMA FASE: la formazione e l'integrazione degli operatori

La prima fase di Formazione degli operatori si è svolta da ottobre a dicembre 1995 e si è articolata in una decina di incontri.

1o incontro: presentazione reciproca di operatori, dirigenti e supervisori.
Tematiche affrontate:

a] la linearità direttamente proporzionale tra una buona inter- relazione tra operatori e la possibilità della circolazione delle "consegne" delle informazioni all'interno del gruppo.
b] valutazione delle modalità di inserimento delle adolescenti basata su una selezione delle informazioni (sufficientemente ampie) ricevute dai servizi invianti.
c] bisognerà fare un progetto educativo ...?!
d] elaborare in gruppo le precedenti difficoltà o i rimpianti che i singoli educatori hanno delle loro precedenti esperienze
e] formare "gruppi di lavoro"
f] quali sono le difficoltà specifiche dell'adolescente femmina?
g] riflessione sui precedenti fallimenti delle Comunità alloggio degli anni '80.

2o incontro: tema "la comunità ideale"
Tematiche affrontate:

a] tutti gli educatori pensano che l'aspetto più critico sia il 'dopo comunità'; secondo le loro esperienze solo pochi ragazzi hanno conseguito una stabilità sociale e psicologica realizzando una propria famiglia od ottenendo una collocazione lavorativa; anche le adozioni si sono rivelate un fallimento a causa dell'elevata età media degli adolescenti (13 anni).
b] perché il progetto educativo abbia successo si dovrebbero rispettare i seguenti criteri nella scelta delle utenti: minore età possibile, assenza di problemi delinquenziali e presenza di una sufficiente frequenza scolastica.
c] costituire un fondo per garantire alle ragazze un alloggio e dare loro un tempo sufficiente per la ricerca di un lavoro.
d] mantenere attraverso le A.S. (Assistenti Sociali) dei comuni di origine dei rapporti con l'ambiente e la famiglia originaria, affinché non avvengano sradicamenti che rendano difficile se non impossibile un reinserimento.
e] attenzione a non creare una mentalità consumistica e del tipo "tutto è dovuto"

3o incontro: tema: "la giornata ideale"
Tematiche affrontate:
a] per gli educatori la Comunità è come una famiglia normale per quanto riguarda orari, pranzi, momenti di intimità, gusti riguardo al cibo; l'importante è il "fare insieme".
b] regole comunitarie e non del singolo educatore;
c] conoscenza della qualità delle relazioni delle ragazze, simpatie e antipatie, che dovrebbe avvenire nelle riunioni di supervisione e non in situazioni occasionali o in piccoli gruppi non strutturati.

4o incontro: tema: "come arrivano le segnalazioni da parte dei servizi territoriali" oppure "cosa ci aspettiamo di poter sapere dalle storie di queste future ospiti?"

Il Coordinatore della Comunità legge una relazione di un Servizio Sociale riguardante una ragazza di 14 anni (Silvia); tutti gli educatori commentano la relazione che appare carente e "fredda". Si concorda che le relazioni con richiesta di accoglimento debbano possedere una serie di requisiti

5o incontro: "Quali sono le informazioni prioritarie nella presentazione dei casi? Fantasie e timori."

Si prepara una Scheda di rilevazione dati, che sarà spedita ai Servizi invianti delle minori.

6o incontro: "Riflessione sulla minore Silvia e sulle sue manifestazioni comportamentali"

Si legge la nuova relazione dell'A.S. formulata sulla base della scheda rilevazione dati inviatale e si decide che alla riunione con l'A.S. parteciperà oltre alla Dirigente del Servizio e al Coordinatore anche un educatore, un addetto all'assistenza e un supervisore.

7o incontro: "discussione sul caso della minore Silvia"

8o incontro: "Quale accoglienza per Silvia?"

Discussione sul momento dell'accoglienza e role-play sull'accoglienza di Silvia.
Si decide che un educatore andrà in stazione ad accogliere la ragazza e l'A.S. che verranno a visitare la Comunità, mentre Dirigente e Coordinatore attenderanno in Comunità. E' la prima volta che si realizza questo tipo di accoglienza!

9o incontro: "Osservazioni, riflessioni e commenti sulla visita di Silvia"
..... e in conclusione l'idea di una visita a Silvia nel posto della sua residenza e di trascorrervi una giornata insieme.

10o incontro: "Silvia è in cinta: entrerà lo stesso in comunità?"
Alla fine dell'incontro si programmano 3 incontri su seguenti temi:

- normalità dell'adolescente
- comportamenti patologici dell'adolescente
- panoramica sulle principali sintomatologie e patologie adolescenziali.

Si studiano delle attività di analisi del territorio, di visita di altre comunità e di Centri per ragazze; contemporaneamente si pensa a dei lavori di abbellimento all'interno della Comunità.

IL PERSONALE

Nella Comunità lavorano 6 educatori professionali e 2 operatori addetti all'assistenza; sono 6 donne e 2 uomini. L'esperienza educativa dell'Istituto ha suggerito l'importanza della presenza di figure maschili per le adolescenti; la storia delle ragazze accolte in comunità è per lo più caratterizzata dall'assenza del padre e da una presenza precaria della madre.
La comunità aperta 24 ore al giorno per 365 giorni all'anno è organizzata con i seguenti turni: 2 educatori dalle 14 alle 20, uno dalle 20 alle 8 del mattino e uno dalle 8 alle 15 o alle 16, per consentire il passaggio di informazioni; due sono in riposo notte o recupero.
L'educatore del mattino (viene fatto a turno per un periodo di due mesi) tiene i contatti con i Servizi Sociali sia dell'Amministrazione che del territorio, con i Centri specialistici, con gli insegnanti o i datori di lavoro e con i colleghi. Gli operatori addetti all'assistenza effettuano turni dalle 8 alle 14 e dalle 14 alle 20 e oltre a supportare l'educatore, garantiscono la cura della casa e la preparazione dei pasti; aspetti questi che diventano un elemento relazionale ed educativo importante per le ospiti.
Il gruppo storico degli educatori ha un'esperienza ventennale con minori, ma per lo più maturata in strutture destinate a patologie come l'handicap fisico o il ritardo mentale; nessuno aveva esperienze precedenti con adolescenti con disagio psichico o disturbi della personalità. La maggior parte hanno un'età tra i 40 e i 50 anni, in un secondo momento sono state assunte 2 educatrici ventenni.

IL PRIMO ACCOGLIMENTO

L'accoglimento di un minore in Comunità avviene per intervento dell'Ente locale, attraverso i servizi territoriali o mediante i servizi specialistici delle U.L.S.S. o, infine, per provvedimento del Tribunale dei minorenni. All'Ente inviante, per lo più all'A.S., viene chiesta una relazione sul caso che deve basarsi sul modello della scheda elaborata dagli educatori negli incontri di Supervisione.
La relazione del Servizio Sociale viene approfondita attraverso incontri tra i servizi dell'Istituto e l'Assistente sociale che ha in carico il caso. A questi incontri è presente anche uno dei supervisori della Comunità con lo scopo di definire meglio il tipo di disagio dell'adolescente e di ipotizzare una diagnosi, che consenta di stabilire se il caso rientra nelle tipologia delle situazioni che la Comunità è in grado di accogliere.
Superate queste fasi, si programma una visita della minore in comunità, accompagnata dalla sua A.S. affinché conosca la struttura e possa scegliere liberamente di entrarvi. In tal caso la minore viene accolta e con il servizio sociale si concorda un primo piano di lavoro, cui farà seguito l'elaborazione del progetto educativo.
Terminato il periodo di formazione, la prima riunione di supervisione vera e propria ha riguardato l'ingresso in comunità di Silvia; ci si è soffermati sull'osservazione e sul lavoro di gruppo sul primo ingresso in comunità. Si studia il tema della maternità e della gravidanza.

In agosto dello stesso anno la Comunità è al completo e in questo modo l'istituzione riusciva a riqualificarsi tanto sul piano della credibilità e del livello educativo della struttura quanto su quello della formazione degli operatori.

L'UTENZA DELLA COMUNITÀ

La comunità ospita adolescenti con problemi di disadattamento sociale e psichico: carenze socio-familiari, disturbi e anomalie dello sviluppo affettivo e relazionale, disturbi della personalità e comportamentali, riconducibili per lo più a disgregazione e a gravi conflitti familiari e all'incapacità educativa dei genitori.
Sono esclusi i tossicodipendenti, i portatori di handicap, i casi psichiatrici gravi, mentre c'è una disponibilità ad accogliere minori con disturbi di personalità e con tendenza alla devianza.
L'età delle ospiti va dai 14 ai 18 anni e il numero massimo è di 8 unità.

Breve profilo delle ragazze:

A. proveniente da C., grave trascuratezza fisica ed affettiva da parte della famiglia, problemi di disadattamento e disturbo della personalità. Dopo circa un mese e mezzo viene trasferita presso una struttura per ragazze madri.

B. nata a Mogadiscio era andata a vivere all'età di 5 anni insieme ad una zia, che era stata adottata da un anziano a V. Assente il rapporto con la madre che vive a L. La situazione problematica e conflittuale creatasi con la zia e l'incapacità dell'anziano a contenere la ragazza inducono il comune di V a chiedere l'accoglimento della ragazza in Comunità. La ragazza ormai 17enne rientrava tardi a casa la sera e a volte dormiva fuori senza avvertire i familiari. La frequenza scolastica era molto irregolare. Adesso compiuti i 18 anni continua a vivere in Comunità e rappresenta un problema la sua collocazione futura. Studia al corso di "vetrinista e figurinista".

C. nata a Pitalito (Colombia), proviene da un istituto religioso di X che non riesce più a contenere i comportamenti aggressivi della ragazzina. La ragazza ha un fratello e una sorella anch'essi istituzionalizzati e provengono tutti e tre da un'esperienza di adozione fallita. Frequenta la 3o media. Ha adesso 14 anni.

D. nata a Francoforte e residente in provincia di U è stata accolta in comunità all'età di 17 anni perché l'ambiente familiare era inadeguato dal punto di vista educativo. Ha frequentato la scuola per segretaria di azienda. E' rientrata in famiglia in gennaio di quest'anno.

E. nata a Mirdite (Albania) era venuta in Italia per essere curata per una lesione alla spina dorsale causata dal conflitto bellico. La comunità ha fornito una residenza necessaria per poter avere le cure dell'ospedale Fatebenefratelli. Il novembre dello scorso anno è stata trasferita presso una Casa di riposo in attesa di andare in una struttura idonea.

F. proveniente dalla provincia di Z. Accolta su richiesta del Consultorio familiare in quanto vittima di abusi sessuali. Studia, dimessa dopo circa 1 anno e mezzo.

G. nata a Pozarevac (ex-Jugoslavia), residente in provincia di X. Proviene da un'altra comunità, che si è rivelata inadeguata alle esigenze della ragazza (15 anni). Il padre è un confinato per omicidio e con la madre ha gravi scontri aggressivi. Studia l'istituto per il turismo.

H. proveniente dalla provincia di Z, 15 anni. Motivo dell'accoglimento: incapacità della madre a rispondere sul piano educativo alle esigenze della figlia e pericolosità dell'ambiente sociofamiliare. Frequenta la scuola per addetti alla cucina.

I. proveniente dalla provincia di P, 14 anni. Il padre è deceduto per overdose, la madre tossicodipendente utilizza la figlia nei suoi "traffici" a scapito di assicurare la frequenza scolastica e un'adeguata educazione.

J. proviene da T, 15 anni. Motivo dell'accoglimento: genitori separati, madre etilista, non frequenta nessuna scuola. Dopo circa 5 mesi viene trasferita in struttura idonea in quanto era in cinta già prima dell'ingresso in Comunità.

K. proviene da Z, 14 anni, su richiesta del Servizio Sociale del Comune. Genitori separati, madre con problemi psichiatrici. Il padre è assente. Frequenta la 3o media.

PRIMA RIFLESSIONE

Il lavoro con l'Istituto e con l'équipe degli educatori della Comunità impone una serie di riflessioni che nascono dalla secolare storia di questa istituzione e al contempo dalla neonata comunità per ragazze affetta da disturbi psichici.
Il pensiero va al lavoro di Correale [*] dal momento che si trovano compresenti entrambi i modelli descritti dall'Autore. Il modello che vede l'istituzione concepita come macchinario e caratterizzata da automatismi e meccanismi ripetitivi e al contempo il modello della Comunità collocato all'interno del primo e concepita quale gruppo nato per aderire ad un compito, ma caratterizzato dal fatto che i suoi membri sono tenuti insieme principalmente perché legati da forti vincoli di affettività, storia comune e fini condivisi.
In questi tre anni di supervisione si è percepita in modo altalenante la presenza dell'istituzione del primo modello quando si sentiva la ingerenza di una sorta di grande macchina di regole, leggi, sistemi di ruoli, giochi di parti e un insieme di apparati organizzati diretti a perpetuare e mantenere stabile un meccanismo collegato ad un compito. Il luogo dove tutti questi meccanismi vengono rappresentati è il Consiglio dell'Istituto: le riunioni e le delibere di questo organismo celebrano l'istituzione macchina e i suoi 500 anni di vita. Questa espressione istituzionale tende a perpetuare al suo interno in modo sistematico regole e modi di funzionamento. L'immutabilità del funzionamento esprime l'aspirazione ad una sorta di forma perfetta, raggiunta una volta per tutte e resa immobile. Questa stessa staticità garantisce l'individuo membro, sia esso educatore, infermiere o impiegato amministrativo; a volte si inscena una sorta di balletto di scambi di incarichi e ruoli che sono, però, sempre all'insegna dell'immobilità: educatrici che diventano segretarie e in casi fortunati consiglieri dell'Istituto. Tali situazioni sono l'occasione per scissioni e negazioni verso il ruolo originario. In quest'ottica diventa trascurabile l'aspetto specifico e irripetibile legato all'individuo, di una certa funzione, mentre viene considerata degna di nota solo la funzione in se stessa. Le persone e gli individui - in questa prospettiva - sono tutti uguali e le loro caratteristiche individuali irrilevanti; i ruoli, al contrario, sono distinti e il funzionamento istituzionale viene valutato sul rispettivo gioco delle loro posizioni e fronteggiamenti. L'altra caratteristica segnalata da Correale e riscontrabile nell'Istituto è il carattere di costanza di questa istituzione, non deve subire cioè modifiche nel tempo; eventuali trasformazioni possono avvenire solo lentamente e in regime di assoluto controllo. La costanza si esprime nella vita quotidiana dell'istituzione come ripetitività, prevedibilità e mancanza di innovazione e di sorpresa.
Queste caratteristiche spiegano come, nel corso dei secoli, questa struttura si sia organizzata gradualmente sull'assistenza ai vecchi che, in fatto di bisogno di staticità, costanza e uguaglianza, è molto più rassicurante rispetto a quella che era l'assistenza prevista dal doge Manin: i "pazzi" e i minori.

I primi, espressività massima di imprevedibilità, incostanza e instabilità sono stati scotomizzati fin dall'inizio nell'esecuzione testamentaria, mentre i tentativi espulsivi dell'assistenza ai minori iniziati negli anni '70 e realizzati nel 1995 sottintendono la difficoltà ad occuparsi degli adolescenti alle soglie della fine del 2o millennio. Proprio in quell'anno per il favorirsi di una serie di congetture: la nomina dopo molto tempo di una Dirigente del Servizio minori che proveniva non solo da un'altra istituzione, ma anche da un'altra provincia, la nomina quale Coordinatore del Servizio di una persona particolarmente motivata e la decisione di avviare un'attività di supervisione hanno favorito il nascere, all'interno di questa istituzione "grande macchinario", di una "nicchia" con caratteristiche del secondo modello istituzionale previsto da Correale. Nel corso del primo anno gli elementi della neonata comunità si sono aggregati costituendo una identità che può oggi essere paragonata ad una 'personalità' della comunità.
In questo senso ha acquistato particolare importanza la funzione del gruppo fondatore e delle sue figure più significative. La formazione nei primi mesi di costituzione della comunità, quando la struttura era "vuota" e il pensare alle ragazze ospiti prima che giungessero fisicamente nell'istituzione ha fatto sì che lentamente emergesse nel gruppo originario una mentalità, un linguaggio condiviso, delle norme che in parte derivano dall'esterno, ma che in parte esprimono la storia del gruppo di operatori, alcune sue abitudini, credenze, vicende personali, eventi significativi della vita collettiva e individuale. Il gruppo, che dà vita all'istituzione - sottolinea Correale - la occupa per così dire e la anima, ed è caratterizzato dall'insieme delle sue produzioni rappresentative, affettive, sensoriali; in una parola dal patrimonio collettivo costruito nel corso degli anni dal gruppo e trasmesso via via alle nuove leve costitutive del gruppo stesso.
Il periodo formativo e gli incontri di supervisione nel corso degli anni hanno favorito l'emergere dell'elemento affettivo nel gruppo; fattori come lo spirito di gruppo, il senso di appartenenza, l'identificazione con il compito, sono tutti affetti e sentimenti che esercitano un'azione modellatrice sui membri dell'équipe terapeutica.
L'aspetto significativo di questa comunità terapeutica è dato, a mio avviso dalla compresenza e dall'intrecciarsi di questa affettività circolante nel piccolo gruppo di educatori della Comunità all'interno dell'istituzione più vasta che funziona come apparato macchinizzato.
Altro elemento strutturante importante è la storia della comunità, che nel corso di questi tre anni ha visto nascere e consolidarsi un insieme di rapporti, tanto degli individui tra di loro quanto degli individui con la cultura del compito, dell'istituzione con le strutture esterne e con l'esterno in senso lato (vicini, 'morosi' delle ragazze, ...). Tutto ciò è servito a costituire quel clima istituzionale, che esprime - a chi per la prima volta si avvicina alla comunità - il momento storico che essa sta vivendo. Anche in questo caso la presenza dell'Istituzione madre ha rappresentato sia un elemento di "tentazione" per fughe verso altri incarichi sia l'opportunità, per chi abbia scoperto di non essere motivato o idoneo ad un lavoro con le adolescenti disturbate, di poter chiedere una mobilità verso altre strutture dell'Istituto; in questo caso la garanzia dello stipendio, a prescindere dall'incarico lavorativo, non ha comportato l'insorgenza del rischio di "falsi adattamenti" al lavoro con i minori per necessità salariali; situazione questa che è possibile riscontrate in varie strutture legate alla helping profession. Negli ultimi mesi, infine, comincia a delinearsi anche quel lento sedimentare di avvenimenti, di figure investite affettivamente, di alcune linee-guida, di vicende ideative ed emozionali che è il presupposto per la nascita di un vero e proprio linguaggio in questo gruppo istituzionale che sta per uscire dalla sua infanzia..

[*] Antonello Correale "Il campo istituzionale", Borla 1991.

IL PROGETTO EDUCATIVO INDIVIDUALE

Il progetto educativo è redatto dall'équipe interna della Comunità ed è formulato sulla base degli incontri e tenendo conto delle indicazioni degli operatori dei Servizi Sociali esterni (in particolare le A.S. che hanno in carico la minore) e a volte dell'intera situazione socioambientale della minore.
E' un operazione importante e difficile al contempo perché si tratta di tradurre bisogni, desideri e domande in un "progetto di vita" realistico.
L'elaborazione del progetto educativo individuale prende le mosse dall'utilizzazione delle informazioni raccolte e dal riconoscimento di quel che è già successo: la natura e la qualità delle relazioni interpersonali precedenti, storia di abusi nell'infanzia e nella prima adolescenza, difficoltà e risultati positivi che la ragazza ha trovato nei suoi vari ambiti esistenziali: lavoro, scuola, tempo libero.
L'esperienza precedente ha insegnato che tanto più si riesce ad individuare e ad approfondire gli specifici fattori che hanno avuto un ruolo significativo nelle problematiche del minore, tanto più sarà facile predisporre l'intervento pedagogico e terapeutico più opportuno.

I 5 obiettivi del progetto educativo:

1. Responsabilità e autonomia personale. La partecipazione della ragazza alla gestione e al funzionamento della comunità viene promossa ed incentivata mediante la responsabilizzazione nella gestione del denaro, nella preparazione dei pasti, nella strutturazione del programma giornaliero e nell'occuparsi della cura della propria persona.

2. Il mantenimento dei rapporti con la famiglia d'origine. Tali rapporti coordinati e concordati con il Servizio Sociale vengono modulati tra il favorire il permanere del legame con la famiglia d'origine e il non essere quest'ultimo motivo di "disturbo" o di intrusività nel progetto di vita dell'adolescente.

3. Recupero scolastico. Solitamente i minori accolti in comunità presentano carenze e ritardi di tipo scolastico, non tanto per deficit cognitivi o per incapacità di apprendimento, quanto piuttosto per ritardi dovuti a carenze affettive e a situazioni di abbandono. Nei progetti educativi si dà rilevanza al recupero della scolarizzazione con l'obiettivo di garantire il diploma della scuola dell'obbligo. In base alle capacità individuali in un secondo momento alcune giovani continuano la carriera scolastica per lo più con frequenza di corsi professionali, 150 ore o Scuola superiore.

4. Il lavoro. Alla fine dell'attività scolastica uno dei più importanti obiettivi è l'inserimento lavorativo compatibile con le capacita della giovane. Il rapporto e la collaborazione con aziende e datori di lavoro hanno una doppia finalità; dapprima per il giovane in questione e successivamente come risorsa già conosciuta per altri ragazzi da avviare al lavoro.

5. Tempo libero e socializzazione. L'obiettivo è quello di individualizzare un giusto equilibrio tra il tempo necessario per svolgere le attività richieste dall'educatore e il tempo libero p.d. "autogestito" dall'adolescente. Vengono favoriti gli incontri con altri ragazzi/e del quartiere, della parrocchia, con i compagni di scuola, le associazioni giovanili, gli scout e i gruppi sportivi. Questi ultimi sono particolarmente incentivati sulla base delle attitudini e delle propensioni delle ragazze.

SECONDA RIFLESSIONE

"nessun minore ha chiesto di andare via, né è stato necessario un allontanamento per incapacità da parte degli educatori"

La riflessione si impone per due motivi:

1. i minori accettano di vivere in comunità, ma vengono sottratti da un ambiente originario
2. molte ragazze provengono da precedenti esperienze di istituzionalizzazione presso altre strutture, dalle quali sono state allontanate per episodi di intolleranza o di gravi anomalie comportamentali, aggressività, etc.

Probabili motivi del successo nell'accoglimento rispetto alle altre istituzioni:

n maggior numero di educatori nel rapporto operatore/utenza
n operatori qualificati a differenza di strutture che utilizzano obiettori di coscienza che non garantiscono motivazione, professionalità e continuità nel progetto educativo
n momenti privilegiati di riflessione del lavoro di équipe e possibile approfondimento delle problematiche presentate dalle ragazze offerto dagli incontri di supervisione
n compresenza di educatori cinquantenni con ventennale esperienza lavorativa affiancati da educatori ventenni "freschi di scuola"
n la presenza quale riferimento amministrativo di un Coordinatore che, oltre ad essere un ex-educatore, fa da garante del lavoro dell'équipe affrontando i problemi amministrativi e tenendo i rapporti con l'Ente.


Altre caratteristiche della Comunità

Le adolescenti usufruiscono dell'opportunità di frequentare dei soggiorni estivi.
Fino agli anni '80 i minori partecipavano a vacanze estive presso Colonie montane e marine comunali, della curia, della Caritas o di altre istituzioni, i responsabili del Servizio minori valutarono che queste vacanze finivano per riprodurre il modello istituzionale tipo collegio per quanto riguarda spazi, affollamento di ragazzi, ridotte possibilità di buoni scambi interpersonali e scadente vitto e alloggio e pertanto dai primi anni '90 è iniziato una modalità di soggiorno estivo presso una "Pensione" per le ragazze ospiti della comunità.

Progetti per il futuro:

- dal momento che uno dei principali problemi per il servizio minori dell'Istituto è rappresentato dal compimento del 18o anno di età e per il fatto che l'età adolescenziale appare prolungata in tutti i ragazzi delle attuali generazioni giovanili, l'Amministrazione ha il progetto di creare un pensionato per giovani adulti che si configuri come "una struttura di transizione verso l'autonomia e l'autosufficienza, una struttura che per il tipo di organizzazione e per le persone che vi lavorano, offra occasioni di sperimentazioni e di prova, sia come verifica della tenuta psicologica del soggetto, sia come approccio al vivere sociale".
- La comunità pensionato accoglierà 8 ospiti dai 18 ai 23 anni con esclusione di tossicodipendenze, importanti patologie psichiatriche ed handicap grave.

TERZA RIFLESSIONE

"il lavoro della supervisione come creazione di un campo condiviso che ha la funzione di attivare momenti di pensiero collettivo e individuale "

Il lavoro pionieristico negli interstizi di un'istituzione secolare ha fatto sentire più volte come ci sia sempre un declivio che fa scivolare giù verso le zone di affossamento, di risacca e di chiusura che rappresentano un valore e una funzione tanto nello spazio del soggetto quanto in quello del gruppo. "Sembra che i raggruppamenti umani si possano formare soltanto mantenendo alcune zone di oscurità profonda, delle no man's land comuni, negatrici dello spazio psichico condiviso, la cui formula culturale è l'utopia, il luogo che non esiste da nessuna parte, il non-luogo del legame. In tal modo il gruppo gestisce una parte di rimozione di ciascun soggetto e quindi alcune formazioni dell'inconscio" [*]. Kaes chiama "patto denegativo" la formazione intermedia generica che, in ogni legame - si tratti di coppia, di un gruppo, di una famiglia o di un istituzione - vota a un destino di rimozione, di diniego e di sconfessione, o mantiene nell'irrappresentato e nell'impercettibile, tutto ciò che metterebbe in causa la formazione di tale legame e degli investimenti di cui è oggetto. Il patto denegativo è una sorta di contratto inconscio, di un accordo tra i soggetti interessati mediante la creazione di un consenso destinato ad assicurare la continuità degli investimenti e dei benefici legati alla struttura del legame con l'istituzione e a mantenere gli spazi psichici comuni necessari alla sussistenza di certe funzioni ancorate nell'intersoggettività o in forme di raggruppamento più specifiche: funzione dell'ideale, organizzazione collettiva di meccanismi di difesa. Questi sono gli aspetti che sono stati trovati nella valutazione iniziale e lungo il percorso dell'esperienza della supervisione; il lavoro della supervisione - consapevoli di questi aspetti inconsci - si è faticosamente svolto sugli aspetti preconsci degli operatori. L'aspetto elaborativo della supervisione è consistito nel far passare l'"istituzione comunitaria" dal 1o al 2o modello - in base a quelli descritti da Correale - in modo tale che gli aspetti di diniego e di silenzio si trasformassero negli anelli mancanti della catena dei legami istituzionali.
La concomitanza tra questa "rinascita" e riqualificazione della Comunità e il lavoro di supervisione ci ha fatto sentire come questa modalità di approccio (tre supervisori, momenti di formazione, la continuità della verifica dei casi, la supervisione anche dei momenti istituzionali più significativi come l'ingresso delle ragazze in Comunità o il presenziare agli incontri con le A.S. dei paesi di origine, prendere contatti con i colleghi della Neuropsichiatria Infantile o dei Consultori Familiari, momenti di psicoterapia incentrati sulle urgenze emotive delle ragazze ospiti delle comunità, momenti di riflessione e di studio all'interno del 'gruppo' dei supervisori) abbia acquisito un'importanza centrale in tutto il lavoro pedagogico, sociale e terapeutico della Comunità. Da quanto detto finora appare chiaro come questa supervisione favorisca una condivisione atta a produrre funzioni di pensiero collettivo e individuale.

RIEPILOGO sinteticamente le caratteristiche più importanti del lavoro di supervisione:

1. la non appartenenza dei supervisori al gruppo istituzionale e la capacità di resistere a movimenti fagocitanti del modello "macchinario" della grande istituzione. Questa estraneità garantisce che il supervisore non sia influenzato dalla rete di rapporti predominanti nel gruppo e in una certa misura dall'ideologia istituzionale.
2. La supervisione si è sempre proposta - anche nei momenti di formazione - come una attività clinica e non teorica; scopo dei supervisori è stata la creazione di un terreno condiviso dove possano avvenire dei confronti di diverse posizioni in un clima aperto alla messa in discussione degli assetti ideologici individuali e istituzionali.
3. Gli incontri di supervisione non hanno mai seguito una linea operativa prestabilita, ma si configurano come uno spazio in cui si attivano le dinamiche dei singoli operatori, del gruppo e dei sottogruppi in relazione agli aspetti più o meno strutturati delle ospiti, specie le più gravi, della comunità. Parti più o meno evidenti, che spesso sono anche dei partecipanti dell'équipe oltre che delle ragazze oggetto degli incontri.
4. La supervisione ha anche l'obiettivo, già ricordato, della creazione di quel clima di sospensione delle attività quotidiane, che rappresenta un opportunità privilegiata per riuscire ad entrare in contatto con il mondo interno delle ragazze che sono state affidate alla comunità.
5. I supervisori con le loro differenti competenze favoriscono i momenti di apertura culturale del gruppo educativo e riabilitativo; i supervisori infatti non hanno verità da trasmettere, ma sono in grado di far riemergere quegli aspetti oscurati o "non visti" del materiale clinico che l'incontro offre. Per dirla con Correale la supervisione diviene quel momento particolare in cui l'istituzione pensa, o se si preferisce, in cui "sogna" i suoi casi.
6. La supervisione diventa il momento trainante di tutta una serie di altre attività (passaggio delle consegne, discussione in gruppi più ristretti di operatori, i momenti dell'accoglienza di nuove ragazze, etc.) che si possono replicare sul modello della supervisione. In alcuni casi - come ho già sottolineato - alcuni gruppi si avvalgono di più momenti di supervisione, proprio perché la presenza di tre supervisori consente di evitare quei meccanismi di trasformazione di un'esperienza in ripetizioni automatiche e sclerotizzate, ma fa sì che ogni momento rimanga una situazione unica e significativa della vita dell'istituzione.


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