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PSYCHOMEDIA
FORMAZIONE PERMANENTE
Formazione e Supervisione



Per una formazione in psicologia clinica: l’interfaccia gruppo-dinamica

di Claudio Nudi *



Introduzione

Il presente lavoro, comparso nella rivista "Psicologia Sociale" n.1 del 1991, si riferisce ad un'esperienza di docenza ed organizzazione durata diversi anni in un Istituto di formazione in psicoterapia per medici e psicologi articolato in due canali formativi, l'uno "introspettivo", come l'avevamo denominato all'epoca, ed un altro, cognitivo-comportamentale. A molti anni di distanza, impegnati nella nuova esperienza della "Scuola Romana di Psicologia Clinica", di stampo schiettamente analitico, lo scritto conserva intatti, almeno a nostro parere, molti motivi di genuino interesse, in particolare per quanto riguarda le fantasie d'accesso al percorso formativo e le strategie metodologiche rivelatisi più utili per comprenderle, riutilizzarle, ed eventualmente arginarle in maniera costruttiva. Consapevoli delle trasformazioni e dei mutamenti intercorsi da allora ad oggi a diversi livelli, , abbiamo tuttavia voluto riproporlo qui con solo alcune modifiche per conservarne il senso in qualche modo "storico", mentre, al tempo stesso, la realtà quotidiana della formazione ce ne conferma l'attualità ed anzi ci suggerisce di approfondire ulteriormente la riflessione sugli stessi temi, che ad undici anni di distanza ci appaiono ancora più che mai significativi.


Premessa

Questo lavoro rimanda ad un mio precedente dal titolo “Modelli formativi e tutela del paziente”, letto all’ultimo Congresso della nostra Associazione e pubblicato su queste stesse pagine nel numero di ottobre 1990 ("Psicologia Sociale", 1990, n. 3/4). L’oggetto della riflessione era già da allora articolato chiaramente su due livelli: l’uno, teorico, che poneva il problema di pensare un tipo di formazione psicologico - clinica che fosse comunicabile, condivisibile e falsificabile, cioè non preclusiva di altre possibili conoscenze, ma anzi che andasse verso una integrazione di queste; l’altro, pratico, dove il problema era quello di realizzare questa ipotesi formativa all’interno di un Istituto privato come il nostro, evitando di incappare nello svuotamento di senso che, come vedremo, può conseguire dal dover rispondere ad una richiesta per molti aspetti “di mercato” nell’Italia del ‘91, alle soglie dell’Unità Europea, e sotto le inevitabili pressioni che il (finalmente!) raggiunto stato giuridico della figura dello psicologo inevitabilmente genera. Tenterò qui di seguito di illustrare i problemi e le difficoltà inerenti alla realizzazione pratica di questa ipotesi, e di esporre alcune strategie possibili per aggirarle, così come risulta dalla nostra esperienza di formatori all’interno della Scuola di Qualificazione di Psicologia Clinica e Psicoterapia annessa al Centro Studi PsicoSociali di Roma.


1) Modelli e qualità della domanda

Per esemplificare il tipo di difficoltà cui accennavo vorrei ricorrere ad un possibile confronto con un modello illustre e storicamente sedimentato di formazione, e cioè quello psicoanalitico; e ciò a maggior ragione in quanto la strategia “conservatoriale” che la Scuola ha scelto di darsi, prevede come fondante per la preparazione degli allievi - indipendentemente dalle inclinazioni di ognuno, e all’interno di un contesto formativo che propone la scelta tra un indirizzo introspettivo ed uno comportamentale - l’esperienza del gruppo “in funzione analitica” e la conoscenza approfondita dei modelli propri della psicologia del profondo, secondo modalità che esporrò in altra parte del lavoro.

a) Almeno a livello teorico, il modello formativo psicoanalitico prevede che la scoperta della “vocazione” clinica venga fatta nel corso del cammino personale di chi, originariamente, si sia posto come paziente. Su questa opzione una volta tanto la quasi totalità delle scuola “storiche” sembra convergere: nei limiti dell'umano, si cerca in tal modo di preservare da un lato la “purezza” dell’analisi, e dall’altro - in seguito - di ricondurre all'interno del setting le “impurità” vocazionali”, perché possano in tal modo essere tenute sotto osservazione. In questo contesto sembra accettarsi dunque comunemente che: 1) l’essere passati attraverso il disagio psicologico anche grave sia esperienza fondante rispetto a questo tipo di formazione; 2) che un’analisi personale possa essere realmente efficace, e quindi genuinamente propedeutica alla successiva preparazione, solo se effettuata sotto la spinta propulsiva della sofferenza, come del resto era nell’originario dettato freudiano; e che, in definitiva, 3) la domanda di formazione successiva alla scoperta della vocazione debba germinare nello spazio recuperato alla sofferenza, dalle acque chiare di un “interesse disinteressato”, totalmente agli antipodi di richieste del tipo “fare l’analisi per fare l’analista”, così intimamente legate a problemi di appartenenza, di lavoro e - perché no - di narcisismo e di potere.

b) La domanda di formazione in Psicologia Clinica è alquanto diversa dalla precedente, tanto nella sua storia quanto nella forma e nella sostanza. Sino a ieri serviva a sedare le coscienze, e si consustanziava in un ennesimo titolo sparso da mettere agli atti (anche se già allora c’era qualcuno che si preoccupava di fare le cose seriamente). Si trattava di apprendere tecniche diverse e spesso senza alcun nesso tra loro (il modello “caotico”), o di riflettere sulla storia della psicologia (il modello “storico”) o su tutt’e due le cose insieme; in altri casi si trattava di spurie riedizioni del training analitico in chiave minore, e spesso proposte da personaggi dall’ottica francamente sincretica. Eppure, nonostante la sottolineata diversità, le due domande hanno in comune aspetti falsificatori su cui è urgente soffermarsi, e circa le quali proprio l'inizio di una riflessione seria sulla figura dello psicologo clinico ha recato un ulteriore contributo, segnando una svolta profonda nella storia stessa della psicologia europea, nella misura in cui ha riportato alla luce, insieme alla tanto attesa regolamentazione della professione, paradossi già noti e tuttavia irrisolti, ancora recentemente sottolineati da Autori illustri quali ad esempio O. Kernberg nel notissimo articolo "Problemi istituzionali nel training psicoanalitico" (Psicoterapia e Scienze Umane, 1987, n.4, pp. 3-32). Certamente in maniera più "forte" che non in ambito psicoanalitico, anche in quello psicologico-clinico si ripresenta la maggiore delle contraddizioni: e cioè che la domanda di formazione - se per psicologo clinico si intende un professionista in grado di tenere conto anche delle dinamiche inconsce e di cogliere gli aspetti “non noti e non organizzati” della personalità e dei rapporti perché possano ricongiungersi in unità dotate di senso - è per definizione impura, nella misura in cui non nasce anzitutto dalla sofferenza né, al limite, da un interesse disinteressato, ma da una richiesta esplicita di formazione, di legittimazione e di lavoro all’interno dello spazio vuoto offerto da una legge, e resa ancor più pressante dalla spada di Damocle delle scadenze giuridiche.

Ritengo dunque che se in epoche immediatamente precedenti era lecito parlare di “resistenza al cambiamento” come qualcosa di strettamente personale che tutto sommato riguardava il paziente e l’analista, o il candidato ed il proprio didatta, nell’intimità dello studio, ora dovremmo riguardare alla presente contingenza storica come ad uno stimolo ad una resistenza di massa: “Sono costretto a formarmi, per di più come vogliono loro, e ancora entro certe scadenze”, credo che recitino l’inconscio ed il preconscio di ognuno, e neanche del tutto a torto. L’imperativo categorico sembra dunque “resistere” costi quel che costi, e le pressioni del sociale vanno a caricare le nostre già radicate tendenze a conservare lo status quo ante. E tuttavia, poiché a nessuno sfugge che non si debba uscire da una scuola di specializzazione nelle identiche condizioni in cui ci si è entrati, e visto che la personalità del clinico entra così massicciamente nel rapporto terapeutico, a maggior ragione non è pensabile che una specializzazione si esaurisca in un che di puramente cognitivo. Se dunque si tiene conto della logica tutta primaria che sottende questo tipo di domanda di formazione, cioè formarsi "per adempimento", il paradosso che ne discende sembra essere quello di dare una formazione "vera" su richiesta, per così dire, “d’ufficio”; e la difficoltà intrinseca quella di esaudire tale richiesta senza esaudirla, distillandone - per così dire - le parti " buone" e rendendo egodistoniche quelle che si oppongono ad una formazione genuina.


2) L’interfaccia gruppo - dinamica

L’arrière pensée di un “formarsi senza formarsi” non è ovviamente una novità in psicologia applicata. Siamo qui a contatto diretto con una caratteristica peculiare del vivente che affonda le sue radici nell’istinto stesso di sopravvivenza, tanto che Freud parlava di una “naturale inerzia della psiche”: e che questo concetto sia ancor oggi più che mai valido ce lo dimostra la frequenza con cui l’espressione “cambiamento” ricorre nella letteratura più avanzata. Pertanto nessuno dovrebbe stupirsi o vergognarsi nel constatare che probabilmente una delle attività nella quale spendiamo la maggior parte del nostro tempo è proprio quella di non cambiare. In "Nuovi consigli sulla tecnica" del 1913 Freud scriveva: "Chi abbia familiarità con l'essenza della nevrosi non si stupirà di sentire che anche colui il quale è perfettamente capace di esercitare l'analisi sulle altre persone può comportarsi come qualunque altro essere umano e produrre le resistenze più intense non appena egli stesso sia fatto oggetto della psicoanalisi. ( … ). Ancora una volta ci si rende conto di quanto sia profonda la dimensione della psiche e non si trova nulla di sorprendente nel fatto che la nevrosi sia radicata in strati psichici ai quali la cultura analitica non è pervenuta.". Come si può vedere, dunque, nihil novi sub sole: l’ansia del mettersi in discussione è sempre in agguato, e può di per sé svuotare di senso qualunque processualità.

Storicamente, in ambito formativo (ma non solo in quello ), il problema è stato trattato in vari modi :
1) Ignorandolo;
2) Forzando più o meno selvaggiamente le resistenze del malcapitato allievo;
3) Riservandosi di esplorarlo nel corso del suo manifestarsi.

Considerata per definizione inammissibile la prima soluzione, si pone l’interrogativo se la seconda e la terza abbiano, ed in che misura, ragion d’essere. A questo proposito, la mia esperienza di allievo, di professionista ed infine di docente mi suggerisce alcune riflessioni che propongo qui come tali, ma della cui giustezza confesso di essere intimamente convinto. Avendo avuto infatti nel corso del tempo l'opportunità di sperimentare tutte e tre le strategie, mi sento anzitutto di affermare che il metodo dell’abbattimento frontale delle resistenze è fallimentare, non tanto rispetto ad un’opzione metodologica (“è meglio farlo subito piuttosto che dopo”), quanto perché semplicemente non rispetta i tempi fisiologici di ognuno e, producendo livelli altissimi di ansia, incrementa furiosamente le difese in un clima di tensione che invece di stimolare la riflessione la paralizza. Nel gruppo - classe, e (come nel nostro caso) nel "gruppo in funzione analitica" utilizzato come strumento formativo, un atteggiamento di questo tipo provoca arroccamenti inestricabili, schieramenti difensivi massicci, e talvolta ferite dolorose dalle conseguenze imprevedibili che possono determinare il cedimento del sistema nei suoi punti più deboli.

La strategia di cui al punto 3) è teoricamente sempre possibile ma sovente poco efficace, poiché chiunque abbia avuto l’opportunità di inserirsi in un corridoio formativo e sia seriamente motivato a percorrerlo, ben difficilmente se lo lascerà sfuggire per un’esigenza di coerenza interna: vivrà piuttosto il “placet” iniziale come una accettazione incondizionata e duratura nel tempo, e probabilmente si guarderà bene dal toccare quegli aspetti che potrebbero metterla in discussione: anzi inconsciamente li proteggerà, sprofondandoli nelle trincee di un’agguerrita resistenza strisciante, il che tra l’altro gli impedirà di accedere in modo significativo a molti aspetti della teoria che, invece di essere utilizzati come nuove chiavi di lettura di sé e della realtà, resteranno puri dati cognitivi congelati tra le pagine della letteratura, o tutt’al più da riconoscere con chirurgico distacco. Gli Autori sono peraltro concordi nel definire questo punto come uno dei più problematici della formazione, e propongono come possibile rimedio lunghe analisi “centrate sull'io” che spesso assumono valenze assai curiose e paradossali, tanto che qualcuno ha voluto irriguardosamente paragonarle tali procedure ad una sorta di “ordalìa”, o di singolar tenzone, dove le ragioni del candidato si scontrano con quelle del didatta sino alla resa di una delle parti in causa. Il paradosso qui è evidente, e potrebbe essere verbalizzato come segue: “Come posso mostrarmi nudo davanti a chi poi dovrà valutarmi, e decidere del mio destino futuro, magari dopo anni di cammino?” Personalmente, mi permetto di ritenere che le resistenze specifiche dell’individuo posto in una situazione del genere, anziché cedere, si specializzino, strutturandosi in modo più sottile e subdolo piuttosto che non facendo posto a nuove verità, come invece sarebbe auspicabile aspettarsi. Se a queste considerazioni già così problematiche sovrapponiamo poi quelle già descritte, peculiari alla qualità della domanda di formazione in psicologia clinica, ci accorgiamo della necessità di mettere a punto nuove e differenti strategie formative che siano in grado di difendere la congruenza interna del processo dagli attacchi non solo delle resistenze individuali, ma anche da quelli suscitati da una società fortemente orientata alla produttività che spinge il singolo a crearsi innaturalmente una competenza estremamente complessa, impossibile a circoscriversi in una legge, e che anzi reca in sé un imperativo di fondo paradossale nella misura in cui prescrive ciò che non può essere prescritto ma solo scelto.

L'idea di un'interfaccia tra gruppoanalisi e corso teorico di psicodinamica strettamente correlati tra loro, si basa sull'accettazione di una gradualità fisiologica necessaria per far posto a nuovi apprendimenti che coinvolgono anche gli strati profondi della personalità. Si pensa cioè che l'allievo, nell'arco della formazione, passi da uno stato iniziale A di serrata resistenza ad uno finale B che ho proposto di chiamare “alleanza didattica”, e che coincide con l'accettazione spontanea di alcune posizioni condivisibili e falsificabili quali ad esempio: l) che la formazione in psicologia applicata sia permanente, e corrisponda mutatis mutandis al concetto di “interminabilità” dell'analisi proposto da Freud; che 2) la condizione necessaria e sufficiente per riconoscere il funzionamento del sistema inconscio e ricomporlo in unità dotate di senso sia quella di aver anzitutto riconosciuto l'ineluttabilità dell'essersi prioritariamente interrogati su se stessi e sui propri limiti; e infine che 3) il conseguimento di un titolo abilitante non coincide affatto con l'acquisizione del diritto a diagnosticare e trattare il disagio psichico dell'eventuale futuro paziente dimenticandosi del proprio, ma, al contrario, con l'impegno costante di tenere a bada il proprio come condizione irrinunciabile per trattare di diritto 1'altrui. Per arrivare nel corso della formazione a questo obiettivo è possibile avvalersi del dispositivo dell' "interfaccia" in modo da trattare dapprima separatamente gli aspetti emotivi e quelli cognitivi della preparazione, per poi ricomporli in una possibilità di riconoscimento del vissuto emotivo personale nei modelli teorici proposti. Ciò equivale non ad un semplice sperimentare, come accade nel gruppo o nella seduta, dove non è bene introdurre troppi elementi teorici per non turbare il naturale decorso della relazione: ma piuttosto ad un capire, attraverso il medio offerto da modelli teorici condivisibili, il senso della propria esperienza iscrivendola per quanto possiede in nuclei di significazione comuni.

In ultima analisi, si potrebbe dire che una formazione di questo tipo fa leva dapprima su un processo di scissione tra "sapere" e "conoscere", avvalendosi di una tendenza difensiva arcaica che ha ragion d'essere nella sua natura di primo organizzatore della conoscenza; e che successivamente tenta di approdare ad un ri-conoscere, che comporta la partecipazione per quanto possibile totale dell'individuo all'oggetto di tale conoscenza. Il senso di un dispositivo quale quello proposto può essere pertanto descritto come un “riconoscersi nei modelli”, offrendo all'allievo la possibilità, nei tempi e nei modi che gli sono propri, di farlo. In una situazione quale quella proposta, lo specializzando viene a trovarsi in una duplice posizione, che da un lato lo avvicina alla condizione di paziente, e dall'altro lo conferma in quella di allievo in formazione, con la possibilità di osservarsi: condizione non facile, per gestire la quale è opportuno tenere presenti alcune prescrizioni.


3) Prassi dell'interfaccia gruppo - dinamica.

Nei suoi aspetti pratici, 1'interfaccia si presenta come un lavoro in stretta collaborazione tra il conduttore del gruppo ed i docenti, e segnatamente con quello di teoria psicodinamica, mirato ad uno specifico obiettivo: osservare la processualità del gruppo, valutarla in rapporto alla teoria e confrontarla nel suo evolversi nei due momenti esperienziale e teorico, con la specifica prescrizione di conservare reciprocamente il segreto professionale circa le comunicazioni dei singoli. Questo provvedimento è essenziale sotto diversi aspetti:

1) Delimita i rispettivi setting conservandone la purezza e facilita il processo scissionale "virtuoso" di cui ho detto sopra;
2) Garantisce la non - intrusività dei formatori nei confronti degli individui;
3) Permette una visione più limpida dei dubbi, delle angosce e dei problemi del gruppo, che come tali in gruppo dovranno essere chiarificate e trattate come cercherò di chiarire qui di seguito, in modo diversificato rispetto all'uno o all'altro contesto.


4) Le resistenze nel gruppo di apprendimento.

Che la gruppoanalisi , o per meglio dire la "dinamica di gruppo in funzione analitica", possa essere un valido strumento di formazione è cosa nota da tempo, anche affiancando, seppur naturalmente su un piano diverso, l'esperienza di analisi personale condotta altrove. Scrive il collega Longo, gruppoanalista della Scuola, in Psicologia Sociale (n. 3/4, 1990): “Caratteristica operativa fondamentale del modello gruppoanalitico è la focalizzazione dell'indagine sul “qui ed ora”, con l'accento posto sul gruppo come insieme, sull'esperienza condivisa dai partecipanti. Si tende così da una parte a favorire il riconoscimento dei fenomeni psicodinamici di gruppo (...) e dall'altro a promuovere lo sviluppo di
una maggiore capacità di ascolto e di collaborazione all'interno di una situazione sociale, anche in
condizioni emotive personali o relazionali fortemente stressanti”. Longo precisa poi, trovandomi in questo solo parzialmente d'accordo, che “il problema non è tanto cosa e in che modo insegnare ai futuri terapeuti, quanto fornire loro la possibilità di vivere concretamente un'esperienza formativa e di apprendere a partire dall'analisi dell'esperienza stessa”; e si ritrova però d'accordo con me nel concludere che “L'utilizzazione della gruppoanalisi accanto ai corsi teorici si presta bene a questo scopo, in quanto consente all'allievo di essere non solo l'oggetto più o meno passivo di un sapere, ma anche e soprattutto il soggetto attivo di un'esperienza che lo vede coinvolto nel rapporto con gli altri”.

Chiarirò' adesso il motivo per cui la seconda affermazione del Collega non mi trova del tutto d'accordo. Il senso profondo dell' "Interfaccia" è da ricercarsi in una realtà a mio parere basilare della mente, e cioè che questa abbia bisogno di enunciati precisi per sapere dove collocare e come richiamare le informazioni sottratte al dominio dell'inconscio, e che questa urgenza sia particolarmente forte nel caso della formazione. A partire dalla tesi precedentemente posta, “riconoscersi nei modelli”, nella mia ottica la lezione teorica viene pertanto solo gradatamente ad assumere il suo vero significato, che è dapprima quello di organizzare ed ordinare conoscenze in un piano di lavoro che è precursore del concetto di “setting”, e più tardi quello di gestire un vero e proprio spazio di pensiero, cioè dei parametri mentali all'interno dei quali ripensare più lucidamente il vissuto inquadrandolo in un possibile contesto teorico e confrontandolo con l'esperienza vissuta in gruppo. In tal modo si tende a favorire l'instaurarsi di una modalità del riflettere psicologico all'interno di una sorta di “setting mentale” introiettato, di cui è possibile studiare le leggi e comprendere la ragion d'essere, nello stesso spazio psichico in cui se ne fa l'esperienza. Naturalmente, in questa ottica è possibile, ed anzi auspicabile, anche il percorso inverso, dove, nel corso dell' esperienza del gruppo in funzione analitica, l' Allievo si riconosca in qualche aspetto dei modelli studiati nella lezione teorica. Credo che queste considerazioni abbastanza complesse possano essere riassunte in una semplice frase pronunciata da un'allieva ai suoi primissimi approcci con la realtà professionale: “Ho scoperto che le cose che ci ha insegnato sono vere”.
Mi sembra che questa affermazione abbia un'elevata portata euristica: in primo luogo ci informa sull'entità della resistenza che ognuno dapprima oppone a nuove conoscenze che lo implichino direttamente, il che potrebbe a sua volta essere riassunto nell'affermazione: “Ho dubitato fino ad oggi”; d'altro canto, ci testimonia che la formazione in psicologia clinica col metodo dell'interfaccia è possibile, e che è bastato qualche piccolo input di realtà perché essa acquistasse all'improvviso tutto il suo valore. Quanto precede potrebbe infine complessivamente essere riassunto in un'affermazione del tipo “mi riconosco nella realtà di certe asserzioni, e quindi nella validità di una teoria che asserisce cose per me rilevanti”.

Nella “lezione” teorica, che d'ora in poi denominerò "gruppo di apprendimento", le resistenze sono ovviamente della stessa qualità profonda di quelle che si presentano nella situazione esperienziale, poiché provengono dalle stesse sorgenti inconsce. Tuttavia, cambiando l'aspetto formale del contenitore, mutano anch'esse in senso formale e si manifestano in modalità diverse. Così, ad esempio, nel settore più strettamente cognitivo, potrà accadere che nessuna teoria e nessun modello sembrino mai ripetuti e chiariti a sufficienza, tanto che a suo tempo reputai necessario, e l'esperienza pratica me lo ha in seguito confermato, dedicare l'intero primo biennio di corso allo studio dei due soli modelli che mi parevano più fondanti rispetto ad altri, e cioè - procedendo a ritroso come è fisiologico rispetto ad un lavoro di tipo recursivo - quello freudiano e quello kleiniano. Ma è soprattutto sul piano organizzativo e pratico che la difficoltà a riconoscersi nei modelli si fa più violenta, ed è qui che emergono gli aspetti più originali di questo tipo di formazione. Osserveremo dunque attacchi più o meno violenti alla struttura - genitore, ed al funzionamento e/o all'organizzazione di questa; critiche del resto quasi sempre fondate su dati di realtà, nella misura in cui ogni ricerca è per definizione

incompleta e perfettibile, e tale perfettibilità non può non riflettersi sulla forma e sul funzionamento del contenitore. A queste richieste di adeguamento della struttura si potrà eventualmente rispondere solo in piccola parte e dopo attenta riflessione, tenendo ben presente la loro vera natura di richiamo, di delega e talvolta di strumentalizzazione sadica originariamente rivolta ai genitori, e se del caso chiarendone con delicatezza le dinamiche sottostanti. In altri casi il gruppo di apprendimento sarà invece disciplinato, adulto e benevolmente accettante. Se un simile modo di porsi può darci apparentemente minori preoccupazioni sul piano pratico, nella realtà delle cose non è né meno interessante né meno complesso di un comportamento più “combattivo”, poiché l'apparenza esteriore nulla ci dice circa l'atteggiamento inconscio condiviso a proposito del mettersi in discussione, che potrà apparire chiaramente solo in seguito.

Particolarmente ingrato sarà poi lo sforzo di integrazione per chi abbia già una precedente preparazione, o una esperienza psicologica già sedimentata nel tempo. Qui il travaglio per far posto a nuovi apprendimenti sarà particolarmente violento, e dovrebbe essere compreso e accettato come tale. Il modo migliore per far fronte a questo tipo di difficoltà non sarà comunque quello di rintuzzarla con la forza, ma piuttosto quello di rispondere all'ansia inerente a ciò che viene vissuto - non essendo ancora avvenuta l'integrazione delle conoscenze - come cancellazione o rimessa in discussione di un segmento di storia personale, che a livello profondo equivale alla paura della perdita dell'identità. Onde evitare spiacevoli sorprese, dunque, una preparazione precedente dovrà essere sempre riconosciuta, e dovrà esserne proposta l'integrazione con conoscenze nuove sottolineando la difficoltà del compito ma anche la maggior libertà ed ampiezza di vedute e di possibilità che ne conseguiranno. In altri termini, tutto ciò che accade nel gruppo di apprendimento verrà trattato come fenomeno rilevante dal punto di vista psicologico, inserendolo però ove possibile, con gentile fermezza, all'interno dei modelli teorici contemplati. Certo, a volte potrà essere opportuno porre un freno alla discussione, magari proponendo di rimandarla ad una fase successiva della maturazione; ed in qualche rare occasione potrà essere addirittura necessario aggiustare le distanze ristabilendo i ruoli. Ma il punto di vista del docente di dinamica dovrà rimanere sempre quello di una formazione fondata sull'integrazione e sul riconoscimento del dato di realtà all'interno dei modelli teorici. lo ritengo che gli atteggiamenti vincenti in questo senso siano, oltre evidentemente all'esposizione teorica che richiede la conoscenza dei modelli, dei loro limiti e del senso del loro proporsi rispetto allo Zeitgeist, l'ascoltare e l'indicare, come occasioni di condividere una riflessione ed eventualmente di falsificarla insieme, il che può avvenire in una dimensione di sofferenza ma anche in una ludica, per il piacere disinteressato di dare un senso a ciò che altrimenti è caotico e quindi, in misura diretta, minaccioso. Con l'aumentare delle conoscenze teoriche, e con l' approfondirsi della conoscenza di sé, l'osservazione potrà rivolgersi anche all'esterno avvalendosi di strumenti quali il role - playing e le sedute in simulata.


5) L'orologio analitico.

Per esemplificare più chiaramente quanto sopra, intendo ora avvalermi di una rappresentazione grafica ancora valida seppure datata, originariamente proposta da Menninger ed oggetto di tradizione ormai pressoché solo orale nella formazione psicoanalitica, che mi è parsa molto utile in sede formativa sotto diversi aspetti, e che ho proposto di ridenominare “orologio analitico”.

Questo diagramma, come è noto, sintetizza i tre momenti fondamentali del procedere clinico: la realtà (R), l'infanzia (l) e l'analisi (A), quest'ultima definibile come situazione di transfert (T). Se si ammette che il processo analitico consista in una rielaborazione critica di apprendimenti ormai divenuti inconsci - cioè automatici - ed in una ridistribuzione più equilibrata delle cariche emozionali investite nei diversi oggetti internalizzati, allora l'unico modo per arrivare a questi obiettivi consiste nel dar luogo ad un processo regressivo della personalità, che permetta di accedere nuovamente alle informazioni originarie, immergendosi al di sotto del sedimentato storico. L'“orologio” consente tale regressione, dapprima mediante il collegamento tra la realtà attuale e la storia infantile (“oggi mi accade così perché così ho appreso”); e successivamente attraverso l'osservazione del “ciò che accade qui ed ora” nel momento dell'analisi, cioè all'interno del rapporto di transfert tra paziente e terapeuta. Quest'ultima situazione (At nel diagramma) può essere riassunta, dal punto di vista del clinico, nel modo seguente: “Ti faccio osservare che ciò che fai nella realtà, che deriva come tu stesso hai veduto dai tuoi apprendimenti infantili, ed in particolare dal rapporto con le figure significative della tua infanzia, accade ancora con me in questo momento, in vivo, e con tutto il corteo delle emozioni originarie. Ti propongo dunque di osservare insieme tutto questo, e di cercare insieme di modificarlo esaminando: I) La qualità e il valore di tali apprendimenti, e 2) gli aspetto fantasmatici infantili che ne reliquano, che urtano così dolorosamente con la tua realtà di oggi”.

È chiaro che, mentre R > I è un'operazione puramente cognitiva, che tutt'al più coincide con un modesto e parziale superamento dell'amnesia infantile, l'attivazione del circuito I > R > A comporta la presentificazione dell'emozione originaria, e quindi la possibilità di osservarla, che è esattamente ciò che il paziente cerca di evitare in quanto tale drammatizzazione lo mette di fronte ad una realtà non più mimetizzabile dietro il concetto di “inconscio”, Mi pare sensato sostenere che esista un possibile parallelo tra la situazione del paziente e quella dell'allievo in una situazione di formazione quale quella prefigurata: se per formazione in Psicologia Clinica intendiamo anzitutto un lavoro con se stessi, allora è chiaro che anche l'allievo tenterà inconsciamente in ogni modo di restare in (R), tutt'al più rimbalzando in (I), il che corrisponde ad un mero percorso cognitivo da cui escludere qualunque forma di implicazione personale con le emozioni connesse. E possibile ancora tentare un ulteriore accostamento tra i meccanismi intrinseci all'“orologio analitico” ed il processo di formazione: quest'ultimo procede infatti propriamente e solamente quando si stabilisce un sinergismo tra il momento del vissuto emozionale e la “lezione” teorica. Si viene così a creare una vera e propria “area della formazione” all'interno della quale i due momenti si confrontano e si integrano (diagramma 2).

In un processo quale quello descritto, la stretta collaborazione tra docente di dinamica e conduttore del gruppo di cui al paragrafo 3) può' essere ora meglio chiarita. L' osservare il procedere ed il dispiegarsi del processo formativo da parte dei formatori, ed eventualmente il modularlo sulle realtà e sulle difficoltà emergenti dovra' tener conto di una verifica incrociata dei risultati, nel senso che l'aumentata e più intensa partecipazione personale, e la profondità della riflessione in sede di gruppo, dovranno coincidere con una più acuta penetrazione dei modelli proposti, e con una maggiore capacità di cogliere le complesse interrelazioni tra la teoria e le infinite possibili articolazioni della realtà, e viceversa. Il diagramma 2 è comunque una rappresentazione grafica che non rende piena giustizia ai fatti, giacché lo spazio formativo è in realtà illimitato, congruentemente alla realtà di un sistema mentale inconscio che produce indefinitamente: parallelamente, ammetto con tranquillità che, aldifuori di queste linee generali, la profondità e l'acutezza del processo di valutazione del percorso formativo sono comunque in gran parte affidate alla sensibilità ed al talento dei docenti, laddove giustamente la tecnica deve arrestarsi per lasciar posto all' arte.


6) Conclusioni.

Il fine che ci siamo dati pensando il funzionamento dell' "interfaccia gruppo - dinamica" è che l'allievo possa pervenire per suo conto, e comunque evitando interventi massivi da parte dei formatori, alla condivisione spontanea di una certa quantità di conoscenze “comuni”, rese per quanto possibili “certe” da una prassi sperimentata, con tutte le conseguenze logiche (e le relative assunzioni di responsabilità) che da tali conoscenze evidentemente discendono . A mio parere, questa possibilità di conoscere e ri-conoscere in modo condivisibile costituisce la sostanza di nodi comuni di significazione attraverso i quali - pur tenendo conto della loro natura di mere rappresentazioni del reale - è possibile a nostra volta riconoscersi come simili: e ciò mi sembra essere la chiave di ogni possibile rapporto, ivi compreso quello terapeutico. È pur vero che a tutt'oggi non siamo ancora arrivati alla descrizione compiuta e perfetta di processualità complesse, come può essere anche una sola semplice seduta di psicoterapia; ma ciò non ci autorizza a tirare i remi in barca e qualificare come inconfutabile tout court qualcosa che semplicemente non siamo ancora arrivati a comprendere appieno, situazione del resto comune a tutte le branche del sapere. Atteggiamenti di questo tipo ottengono il solo risultato di precludere altre possibili conoscenze sottraendosi a qualunque falsificazione, e probabilmente germinano dallo stesso humus di cui si nutre ogni forma di resistenza al nuovo. Ma una raccomandazione finale mi sembra urgente perché l'interfaccia gruppo - dinamica possa essere compreso e valutato correttamente. Attraverso questa metodica non si dovrebbe pensare di dar luogo ad un'ennesima tautologia della figura dello psicoanalista, né sperare di pervenirvi evitando i lunghi anni di analisi che invece rappresentano la spina dorsale di questo tipo di formazione. Ciò che tendiamo a realizzare è in realtà più circoscritto, anche se non per questo necessariamente più facile da ottenere: cerchiamo una preparazione vera pur se di base, o, se si preferisce, una disposizione dell'anima fondata sull'alleanza e sulla ricerca, in una direzione che sappiamo essere intellettualmente onesta e scientificamente corretta al fine di trattare i problemi psicologici. L'esperienza fatta in sede di formazione mi convince sempre più che su questo nucleo centrale debbono andare ad impiantarsi tutte le tecniche e tutti gli strumenti che sono pertinenti alla professionalità dello psicologo clinico, e che è verso questo obiettivo che dovrebbero tendere gli sforzi di ogni buon formatore.



* Psicologo Analista
Specialista in Psicologia Clinica
gia' Direttore dei Corsi presso il
"Centro Studi Psicosociali" di Roma
Direttore della "Scuola Romana di
Psicologia Clinica/ IMAGO"
Www.Psychomedia.it/srpc-imago


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