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PSYCHOMEDIA
FORMAZIONE PERMANENTE
Giornate di Studio



Giovanni Gozzetti*

Riflessioni sulla presentazione del corpo nella depressione e nel delirio

Relazione al congresso:
Ai Confini del Reale, corporeità nella relazione terapeutica


Sono accompagnato in questo percorso da un libro di Resnik: Persona e psicosi edito in Francia nel 1972 ed in Italia nel 1976, ormai esaurito, ma, di cui, mi dicono, sta per uscire una nuova edizione, libro così pregnante per il nostro tema che gli potrebbe benissimo essere dato il titolo di Corpo e Psicosi. In questo prezioso libretto la fenomenologia e la clinica sono un tutt'uno colla psicoanalisi, in continuità colla tradizione inaugurata da Schilder.

Parlare di corpo abbraccia tutto lo scibile della psicopatologia: il divenire e riconoscersi come persona, la dialettica interna tra l'Io, che Freud definisce come essenzialmente corporeo e l'aspetto cosificato del "me", tra l'essere ed avere un corpo; e, a partire dal mio corpo, riconoscere l'altro da me, come portatore della propria identità. Ciò che, in maniera fondante Husserl, ha chiamato appresentazione.

Prima di tutto, come mi riconosco nell'essere corpo? Essere corpo, avere un corpo rimandano a distinzioni fondamentali nella psicopatologia fenomenologica, che sono state bene chiarite, in Italia, specialmente da Cargnello e poi riprese da Callieri e da Borgna. Il primo, assai noto, e, direi, scolastico chiarimento preliminare va fatto tra "corpo-vissuto e mondanizzato Leib e corpo anatomico o compagine somatica Körper. "Quest'ultimo è la specificazione estrema della tendenza ad obbiettivare il corpo in quanto "cosa", una tale obbiettivazione si rende possibile riguardo al corpo degli altri (ad esempio, si consideri l'operare del chirurgo o dell'anatomico o dell'anatomopatologo), specie tralasciando ogni rimando significativo personologico. Nell'esperienza del proprio corpo, anche nelle forme estreme della depersonalizzazione somatopsichica o del delirio di influenzamento somatico, questa polarità non è compiutamente raggiunta. Invece, ci si dibatte costantemente tra i poli dell'avere un corpo e dell'essere un corpo, secondo l'accentuazione del momento riflessivo o di quello preriflessivo od antepredicativo" (Callieri)

Il medico che indaga, magari con strumenti, sul corpo-Körper spesso se lo rappresenta come oggetto senza tempo. Il corpo-Körper, ci dice Borgna, "si lascia indagare, misurare, sezionare senza che si tenga presente la sua storicità (la sua storia). Non è così se si considera il corpo come corpo-Leib. Non posso percepirlo senza non percepire-insieme la sua storia. Nel Leib sono segnate le esperienze, le sofferenze, le angosce, le gioie e le possibilità della condizione umana (dell'uomo sano o malato) ".

Sono un corpo, ho un corpo sono conoscenze immediate, che non trovano riferimento ad in una figura statica e fissa, al contrario, anzi l'immagine del corpo muta in molti aspetti della sua configurazione spaziale e temporale, cangia in ogni momento, eppure sono sempre io o, è lo stesso, sono-ho il mio corpo con i miei schemi corporei, nei quali mi riconosco. Questa struttura cangiante, ma che rimane la stessa è stata bene espressa da Schilder come Gestalt, che conserva il suo senso rappresentativo, non solo nel far vedere, ma ancora nel presentare e preservare la forma, l'unità in ogni cambiamento e dislocazione. Prima di Schilder, se ne aveva una conoscenza diretta da secoli se il grande chirurgo Ambroise Paré, citato da Kolb, nel sedicesimo secolo dedicò uno scritto all'immagine corporea. "Notando la frequenza con cui si verificava il fenomeno dell'arto fantasma in seguito ad un'amputazione, Paré consigliava ai chirurghi di non lasciarsi distogliere da un'ulteriore amputazione a causa di questo disturbo, se essa si fosse dimostrata necessaria." (Kolb)

Per Schilder l'immagine del corpo umano è quello schema o quel quadro del nostro corpo che ci formiamo nella mente come unità tridimensionale che coinvolge fattori interpersonali, ambientali e temporali. Egli metteva in relazione l'immagine del corpo anche con la curiosità, l'espressione delle emozioni, le relazioni sociali, il dovere, e persino con l'etica. Secondo lui, il confine tra l'immagine del corpo e il concetto psicoanalitico dell'Io è oscuro. Egli afferma anzi specificamente che si deve andare al di là del lato puramente percettivo dello sviluppo dell'immagine del corpo, per raggiungere il lato espressivo. Schilder concepiva l'Io come una costante per tutta la vita, qualche cosa che assume o vede il corpo come un oggetto verso il quale ha delle percezioni, dei pensieri e dei sentimenti.

Credo che l'immagine del corpo vada vista come un aspetto indivisibile dell'immagine di Sé, non per un ordinamento espositivo, ma perché così ci sentiamo, ci vediamo. Se, come ha detto Freud, l'Io è soprattutto Io corporeo; questo non vuol dire un Io di superficie con dietro un vero Io, ma piuttosto un tutto unitario, dinamico, mutevole, che possiamo chiamare "l'essere Sé stesso", ed ogni distinzione, ogni atteggiamento artificiosamente di distinzione, di analisi, che il soggetto si trovi a vivere, non rappresenta altro che una scissione, e come tale una manifestazione di sofferenza.

Quando il tutt'uno si sfrangia e dilata o si distingue, uscendo dalla sua opacità, prendono rilievo aspetti parziali: è allora che l'Io si allontana dal "Me" e si guarda, come Pinocchio bambino guarda sulla sedia il Pinocchio, burattino di legno inanimato, e ne avverte la lontananza, in un atmosfera di estraneità. Non solo è perduta la famigliarità (unheimlich), ma anche quella che Callieri, seguendo Merleau-Ponty, chiama abitualità. Con quest'ultimo termine si vuol intendere che a parti del corpo è sempre legata parte di mondo. Merleau-Ponty spiega il fenomeno dell'arto fantasma, come legato all'abitualità: "Avere un braccio fantasma significa rimanere aperti a tutte le azioni di cui solamente il braccio è capace, conservare il campo pratico che avevamo prima della mutilazione".

La depersonalizzazione è in parte anche questo sentimento iniziale esitante e temibile di perdita o lontananza dalla dimora famigliare del proprio corpo, che, nei casi in cui sopravviene la psicosi, si fa uscita, esilio e percorso nello spazio desertico. Della depersonalizzazione, Scharfetter così scrive: "Il senso di essere lontani da sé stessi, di sentirsi come estraniati, non familiari, vaghi, non vivi, irreali. Un Io che osserva sta di fronte e nota il mutamento, di solito senza porsi interrogativi su quanto accade. Ponendo domande adeguate si rileva che all'estraniazione di sé o Depersonalizzazione corrisponde l'estraniazione dalle persone o dalle cose Derealizzazione. Anche, se inizialmente, o l'uno o l'altro dei fenomeni appare più evidente: entrambi procedono poi in parallelo, il che testimonia dell'unitarietà Io-Mondo. Quanto meno una persona esperisce sé stessa in modo logico e naturale, tanto più le appare infido ed estraneo il mondo circostante". Come si esprime Scharfetter, non si tratta anche qui di vedere un sintomo, ma sempre di cogliere un fenomeno. Le artificiose distinzioni, che circolano ancora, vorrebbero delineare ambiti di disturbo più specifici o addirittura patognomonici del disturbo psicotico, ad esempio distinguendo la derealizzazione nei confronti della semplice depersonalizzazione. Tutto questo è arbitrario e semplificatore, noi non siamo mai in presenza di veri sintomi, ma solo di segni, come ha sempre insegnato K.Schneider, e non possiamo sottrarci al compito di intuizione empatica e di un giudizio provvisorio. Se si vuole intendere come sintomo la depersonalizzazione, si deve sapere che essa è aspecifica dal punto di vista nosografico e non è affatto patognomonica, come perentoriamente afferma Scharfetter: si presenta, infatti, con elevata frequenza negli adolescenti, negli stati di affaticamento, specialmente per esami difficili così come in condizioni patologiche.

Per seguire la tradizione, vi espongo le distinzioni che risalgono a Wernicke e che troverete bene illustrate da Callieri, Henry Ey e altri.

Bini e Bazzi, ad esempio, riportano la distinzione fatta da Wernicke:

a. Stato di depersonalizzazione autopsichica: designa il disturbo tipico dell'estraneità dell'Io riferito all'Io psichico; alcuni o tutti i contenuti di coscienza assumono le caratteristiche già descritte, evocando un sentimento di non appartenenza all'Io, che viene espresso dai soggetti con frasi come: "tutto in me è strano, come se non fossi io a sentire, come se vivessi meccanicamente."Stato di depersonalizzazione somato-psichica: il disturbo è da alcuni considerato come un caso particolare di alterazione dello schema corporeo, mentre altri ritengono che quest'ultimo disturbo non rappresenti una condizione né sufficiente né necessaria, oppure come G. Morselli, che depersonalizzazione e disgnosia (asomatognosia) possano influenzarsi a vicenda. I pazienti riferiscono che tutto o determinate parti del corpo sembrano loro non proprie, come se fossero distaccate, ecc.. Il delirio di negazione di Cotard ed il delirio nichilistico vengono, in genere, considerati espressioni del grado massimo di questo tipo di depersonalizzazione.

b. Stato di depersonalizzazione allopsichica: il disturbo riguarda la percezione del mondo esterno. Corrisponde a quanto è stato descritto anche col nome di Derealisation (Mayer-Gross). I soggetti riferiscono il disturbo con frasi come: "Tutto l'ambiente mi sembra strano... come se tutto quello che vedo o sento sia distaccato É lontano da me irreale".

c. Le tre suddette forme possono manifestarsi isolate o variamente combinate secondo i soggetti, oppure nello stesso soggetto durante il decorso della depersonalizzazione

Caratteristica del corpo proprio è la appartenenza, l'essere costantemente esperito per mio. Husserl sostiene: "Il mio organismo animato è l'unico oggetto sul quale io regno e governo immediatamente, governando particolarmente in ognuno degli organi". Chiarisce Callieri: "Tuttavia, tale possesso non va confuso con la strumentalità, la padronanza o la disponibilità del corpo, poiché anche se questo per malattia - non è in grado di esaudire le mie richieste e divenire uno strumento per me, tuttavia resta pur sempre mio, non perde la qualifica dell'appartenenza. Il mio corpo proprio, inoltre, si pone come abitualità corporea, che mi si rivela "Come un irriducibile dato di coscienza, sfuggente alla possibilità di descrizione e tanto meno di definizione. Però io so che, quando dico: in fondo sono sempre lo stesso, questo sempre si riferisce soprattutto a me stesso in carne ed ossa (Cargnello) ".

Un'altra caratteristica è che il corpo, come dice Sartre, passa sotto silenzio nell'ambito della vita di ogni giorno.

H.Ey introduce a proposito di depersonalizzazione il concetto di allucinazione negativa (che è ripreso da Resnik), si chiede se si tratti di un particolare disturbo o se si debba prendere in considerazione per tutte le allucinazioni corporee o addirittura per tutte le allucinazioni. Non deve sorprendere, continua, se si comprende come l'allucinazione non sia tanto una costruzione positiva di una immagine, quanto una negazione o meglio il rovescio della realtà. La depersonnalizzazione ci appare come il fondo (Hintergrund) dell'attività allucinatoria corporea, ma anche di ogni allucinazione (R. Mourgue). Così che la realtà negata alla persona psico-fisica come corpo animato si riempie o riveste dell'irrealtà dell'oggetto allucinatorio.

Osserva ancora Henry Ey che la definizione dello stato di depersonalizzazione è in forma generale molto semplice: si tratta di una illusione. Essa è ancora il disturbo negativo primordiale di ogni esperienza allucinatoria delirante. Con questo suo concetto Henry Ey tocca e trova un concetto generatore, che richiama non solo l'automatismo mentale anideico del suo maestro De Clerambault (e a noi ricorda gli studi di Huber e Gross), ma specialmente la negazione (Verneingung) di Freud.

Ecco l'esemplare descrizione del delirio di negazione, presa e riassunta dallo scritto di Henry Ey, un classico della psichiatria: "Il delirio di negazione, descritto da Cotard come un delirio ipocondriaco, esprime nella sua tematica l'esperienza dell'annientamento e della morte fino ad una specie di eternità, in cui la morte non può più giungere, condannando però alla dannazione. L'esperienza corporea è negata o rimossa per essere rimpiazzata da una produzione allucinatorio di infinita morbosità. L'allucinazione negativa della negazione degli organi costituisce il fondo di questa esperienza, che tende ad essere continuamente riempita fino al delirio di enormità, da un'infinità di contenuti fantastici.

Talora il delirio di negazione degli organi diviene un delirio di negazione universale. Ecco cosa scrive Cotard: "In tutti i pazienti il delirio ipocondriaco presenta grandi analogie, essi non hanno più cervello, stomaco, più cuore, sangue, non anima e talora non hanno più corpo. Presso questi dannati l'opera di distruzione è compiuta, gli organi non esistono, il corpo è ridotto a simulacro. Subentrano le reazioni metafisiche, rarissime nei deliri di persecuzione, che sono invece più ontologici. Alle idee ipocondriache si aggiungono facilmente idee di immortalità. Accanto all'eternità temporale si fa strada la dilatazione del corpo nello spazio: si sentono immensi, la loro dimensione è gigantesca, arrivano a toccare le stelle, invasi dai demoni, la loro testa ingrandisce fino a occupare un'intera chiesa. A volte il corpo non ha più limiti, si estende all'infinito e si sperde nell'universo."

Borgna osserva come nella melanconia non ci sia solo la morte volontaria o la morte possibile, ma ci sia anche la morte impossibile: "la morte che non è sentita, e non è provata, come esperienza umana fatale e precaria, imminente e attesa ma come esperienza a cui non si può arrivareÉLa morte non corrisponde più ad una fine, ad un termine, ad una conclusione; ma si trasforma in una esperienza negata e vissuta in un presente destituito di avvenireÉ Come dice Jean Starobinski si vive la morte (si può vivere la morte) come realtà costitutiva dell'esistenza solo se sia presente il futuro: se questo viene meno, frantumandosi, si può intravedere come l'anticipazione che ciascuno di noi ha della morte, e che è la premessa essenziale perché essa abbia luogo, si dissolva e la morte scompaia dall'orizzonte: facendosi esperienza impossibile."(Borgna) O ancora:" Non potere più vivere la morte come realtà possibile non spegne l'angoscia della morte, la differisce nel tempo dilatandola senza fine."

Barison, in una comunicazione personale, si sofferma sul salto metafisico, incolmabile che c'è tra la negazione parziale di organi e la negazione dell'esistenza e del mondo e si chiede:" L'essere del non essere che dura in eterno. Allora non conoscevo certo il nascondersi dell'essere di Heidegger, ma la formula del Cotard (allude ad un suo paziente) mi colpì colla potenza di un assurdo. Che non è quello schizofrenico, perché non lo è?"

Potrei rispondere che il pensiero psicopatologico cercando di allargare il comprendere, procede secondo le consequenzialità di una patogenesi esistenziale o psicoanalitica in cui si succedono i vissuti con relazioni di comprensibilità, dando l'impressione, per necessità espositive, di una chiarezza, che non appartiene assolutamente ai fenomeni che sta osservando. Quando sopravviene la trasformazione, colla caduta nell'abisso melancolico, questa non rappresenta un fenomeno riduttivo, ma assume sempre aspetti di originalità e di un fatto nuovo, così che la trasformazione melancolica non è altro che un rovesciamento totale, nel senso dialettico di conservare il preesistente, della personalità premelancolica e delle situazioni precritiche della rimanenza e della includenza: al posto del chiudersi si può arrivare alla condizione opposta della espansione, al posto del tempo immobilizzato e ristretto del debet e della rimanenza al vivere eterno. Nel Cotard si tocca un punto abissale e vertiginoso che sorpassa largamente la metafisica per giungere nella sfera, pur appartenente all'uomo, della religiosità, perfino nel versante negativo della possessione. Il paziente carico di un elemento divino o talora diabolico si fa testimone e partecipe della colpa e della espiazione.

Come scrive Borgna e come aveva detto Freud è la coscienza dell'Io o sentimento del Sé che si sfalda, in questo senso il Cotard rappresenta una melancolia al limite e di questa conserva quei caratteri formali che la distinguono dal vissuto della schizofrenia. Qui infatti la colpa delirante e megalomane appartiene al Soggetto, dall'esterno non giunge a lui il macchinoso, l'agito, il Gemacth, l'esterno è solo il contenitore di questa tragedia.

Essendo il mio un breve intervento, non procedo sistematicamente, ma tocco solo alcuni punti a proposito della corporeità nella schizofrenia. Anche qui il punto di partenza sta nella negazione della realtà psichica, in quella allucinazione negativa che rappresenta il marchio della mancanza, della negatività da cui nascono deliri ed allucinazioni. Si può chiamare allucinazione negativa od anche depersonalizzazione, come ci ha detto Henry Ey. Le allucinazioni del corpo, egli ci dice, ne costituiscono l'aspetto positivo. Quando la persona è invasa da quello, che viene chiamato processo schizofrenico, accanto alle allucinazioni uditive, sono costanti i disturbi della percezione corporea. L'invasione dell'irreale-surreale, come direbbe Barison, o il lavoro metaforico, nel linguaggio di Henry Ey, che porta alla regressione ed alla metamorfosi, "trasforma il corpo in luogo analogico dove si giocano le scene, i drammi o i fantasmi del corpo spezzettato, della castrazione o del cambiamento di sesso, della decomposizione, della possessione erotica o diabolica, della estraneità, di esperienze malefiche, magnetiche ecc. e porta all'infinito l'angoscia somatica degli schizofrenici. Il loro corpo, vero abitacolo indesiderato è in uno stato di decomposizione metaforica o, la stessa cosa, di regressione fantasmatica. L'irradiazione dei vissuti di depersonalizzazione si estende al mondo con la derealizzazione e l'inquietante estraneità il (freudiano unheimlich) e lo arricchisce con fusioni di immagini e schemi temporo-spaziali. Eccone degli esempi: "il mondo non ha più peso"..."passo come un'ombra in un mondo di apparenza"..."il corpo è diafano e trasparente"..."il mio corpo è di ferro"..."ilcervello è vuoto"ecc. Osserva Henry Ey che i fenomeni di depersonalizzazione negli schizofrenici hanno sempre questo alone immaginario barocco che li prolunga o li dissolve in identificazioni illusorie colla natura, colle persone e con la divinità.

Sta avvenendo, ricorda Borgna, che:" nella forma di vita schizofrenica noi constatiamo insieme con il franare dei confini del corpo il dilatarsi vertiginoso dello spazio vissuto". Si vive " Il deserto del nulla: il livellarsi e lo sprofondare di ogni distanza e di ogni articolazione spaziale; la siderazione di ogni tensione dialettica. Nel silenzio di questi spazi infiniti, in cui il corpo non è più monade vissuta e mondanizzata, ma frantumazione e devastazione, l'esistenza schizofrenica ritrova la significazione emblematica della sua solitudine e della sua lontananza. Questa profonda inconfrontabile trasformazione dello spazio vissuto si accompagna infine alla perdita di ogni movimento nello spazio che non sia quello di una assoluta ghiacciata immobilità."

Jaspers credeva che "le personalità sorte dal processo (schizofrenico) hanno qualche cosa di stranamente incomprensibile, estraneo, freddo, inaccessibile, rigido, pietrificato, anche quando sono lucide ed accessibili verbalmente, e perfino quando parlano volentieri. E' difficile riconoscere in che cosa consista l'elemento comune, è molto più facile descriverlo in modo soggettivo (nell'effetto dell'osservatore) che non oggettivamente".

Sempre da un punto di vista soggettivo e col ricorso all'uso di metafore, come in tutta la psicopatologia fenomenologica, Henry Ey si serve di un linguaggio figurato per rendere le singolarità del decorso verso quello che riteneva l'esito difettuale, paragonandolo ad un viaggio dal mondo vivente al mondo inorganico. E' "come se" dopo l'esplosione e i vissuti catastrofici dell'episodio acuto, si possa giungere alfine in una landa desertica, nella terra desolata, The Waste Land del poema di Eliot, come amava ripeterci Barison.

Binswanger, per rendere la materialità del mondo, nel caso da lui analizzato di Lola Voss, ricorre all'espressione "Cratere spento", volendo esprimere come "il fuoco, l'ardore e il calore della vita l'hanno abbandonata. Una presenza come questa è ridotta in cenere e in terra (verascht und vererdet), nel senso della terra morta".

Freud parla di un mondo angusto dove lo schizofrenico, dopo l'apocalisse o fine del mondo, cerca in ogni modo di poter continuare a vivere.

Non è solo in tal modo che si può cercare di vivere. Mondo e io hanno un legame indissolubile, così che il vivere miseramente in un mondo angusto, si accompagna e si alterna allo spegnere Sé stesso. Proprio di questo scrive Georg Büchner a proposito di Lenz, il protagonista del suo libro: "Pareva del tutto ragionevole; faceva tutto come facevano gli altri, ma c'era un vuoto orribile dentro di lui, non sentiva più alcuna paura, alcun desiderio, la sua esistenza gli era un peso necessario. Così continuò a vivere".

Questa vita in tono minore non è altro che l'autismo, che può assumere varie gradazioni, da quelle più gravi ad altre, in cui si può vivere quasi normalmente, avvertendo con pena, che qualcosa di molto importante è andato via per sempre.

Un qualcosa nello schizofrenico si è modificato, scriveva Tellenbach (1976), questo qualcosa appare in modo caratteristico nella perdita dell'evidenza naturale descritta da Blankenburg: quello che prima uno sapeva agire immediatamente, quasi d'istinto, non può più effettuarsi, se non con un atto volontario. Un'alterazione dell'omogeneità e della norma di orientamento, secondo le quali si compie lo svolgimento temporale dell'uomo.

Un termine atto a rendere la modificazione è l'aggettivo "strano", che deriva dal latino extra (aliter o meglio anders &endash;altrimenti- di Gruhle e poi sostantivato in Anders da Barison), che significa tra l'altro (Dizionario Sabatini e Coletti) "persona", che pensa e agisce in maniera fuori del comune, anomala, eccentrica, ed anche estraneo, straniero. Un termine che è stato, appunto, consacrato alla schizofrenia da Ferdinando Barison: "Come strano, assurdo schizofrenico intendo il carattere costitutivo dell'esistenza dello schizofrenico, che consiste in una deformazione, in uno straniamento di tutto il mondo interiore ed esteriore; una specie di estatico modo di esistere; sia negli atti e negli atteggiamenti del semplice usuale contesto giornaliero, sia negli sviluppi patologici abnormi, che di questo straniamento sono espressioni secondarie".

Nonostante che attualmente si ritenga che il concetto di malattia o di entità morbosa non sia formulabile nel campo della psichiatria, in termini rigorosamente scientifici, e che possa rappresentare al massimo un costrutto pratico, definito da criteri di affidabilità tra osservatori (quando è possibile validati con metodi statistici di Cluster o di analisi fattoriale), utile al fine di impostare una terapia e una assistenza, l'esito in difetto, o la presenza costante di difetti o sintomi negativi, viene preso in considerazione e fa parte della moderna psichiatria, specialmente Nord-Americana, basti fare il nome di Nancy Andreasen, che ci ha onorato di una conferenza presso la Clinica Psichiatrica di Padova.

In questo orizzonte Barison, fin dalle sue prime ricerche, rappresenta una netta presa di posizione divergente, non nel senso che egli si ponga nella alternativa artificiosa biologico-psichico, piuttosto che la mette à coté, ed invece sempre valorizza l'elemento Plus, il positivo ed il creativo nella sintomatologia e nella espressione schizofrenica.

E' molto importante per comprendere cosa egli pensasse della espressività corporea nella schizofrenia un suo studio, ormai divenuto un classico, del 1953 sul manierismo schizofrenico apparso sull'Evolution Psychiatrique e tradotto a cura di Henry Ey.

Tra le qualità fondamentali del manierismo: parassitismo come complicanza aggiunta al comportamento, espressività, e intenzionalità si sofferma su quest'ultima.

I termini di volontà e di intenzionalità sono in questo saggio usati nel loro semplice ed abituale significato. Scrive: "Questa qualità intenzionale del manierismo riguarda un aspetto fondamentale del pensiero schizofrenico e non vi è motivo per non prenderla in considerazione a proposito di quei comportamenti motorii universalmente assegnati dagli psichiatri come manierati e affettati implicando necessariamente in tal modo che essi derivino da una intenzionalità. Non si tratta di derivare il manierismo dall'atimia, da una carenza di impulsi affettivi che toglie ogni modulazione e armonia, ogni flessibilità fino a farne un marionettismo saccadico e meccanico, come scriveva E. Bleuler, perché perfino nel marionettismo vi è un plus nel senso di Gruhle, un valore di intenzionalità che ricerca il complicato ed il superfluo."

Come si vede il suo pensiero s'ispira e concorda con quello che Gruhle chiama "diverso volere", "volutamente inconsueto", e col cogliere piuttosto che un momento Minus, il Plus o "l'essere altro o altrimenti"; questi termini e particolarmente "altro", o "essere altrimenti", nella versione tedesca (sostantivata) di "Anders", rimarranno un motivo costante della sua opera fino agli ultimi lavori.

Ma l'essere diverso Anders ad ogni costo assume fin da questo lavoro una connotazione, ancorata profondamente ad una radice creativa unica e singolare: l'essere diverso della schizofrenicità; infatti dice: "Al fondo del manierismo spunta questa ironia schizofrenica che ingloba ambiente e soggetto al tempo stesso, ironia che sembra emergere da un profondo distacco scettico da sé stessi e soddisfare un desiderio calcolato di non mendicare, né dall'ambiente, néâ da sé stessi, un benché minimo movimento di compassione." Ed anche in quella che vien considerata apatia o deterioramento il vero motore è sempre il conformismo e formalismo e "l'analisi rivela spesso una grande ricchezza di fenomeni affettivi e l'atimia apparente non è che il frutto di una sovrapposizione attiva di istanze e comportamenti ispirati ad una sorta di rispetto per un'autorità astratta, per una forma di burocrazia assoluta.

Il manierismo è una teatralità il cui scopo evidente è quello di annientare la realtà espressiva di sfuggire il senso diretto deviando continuamente l'accento espressivo su di una cascata di comportamenti parassitati la cui efficacia espressiva viene a sua volta svuotata di senso...La teatralizzazione del tentativo di derealizzare la realtà, questa è l'essenza del manierismo...come un modo di essere al mondo, di essere nei riguardi dell'altro, un modo in cui le peculiarità sembrano essere lo stile di un'esistenza che risulti il più possibile irreale. L'espressione diventa la meno espressiva possibile, quasi per togliere ogni realtà alla realtà dei sentimenti e per sfigurarla ostentatamente sotto la maschera di falsi sentimenti. A questo incalzare di derealizzazione va aggiunto un ulteriore sottinteso espressivo, se si ammette l'ipotesi che il malato giochi con se stesso un ruolo, quello del personaggio che rappresenta il nucleo più profondo della sua personalità schizofrenica."

Barison conclude chiedendosi se tutto il comportamento schizofrenico non possa essere considerato come manierismo.

Anche qui Barison (siamo nel 1953) apre all'orizzonte della psicopatologia fenomenologica profondità e prospettive -un vero mistero della superficie- che precorrono i tempi, penso all'affermazione che H.Maldiney farà nel 1976 come in tutte le psicosi si assista alla conversione della presenza in rappresentazione, affermazione mitigata da Tatossian col dire che ciò potrebbe valere per le sole forme deliranti della melancolia e della schizofrenia. Nella melancolia, ad esempio, Freud tra i primi constata una peculiare tragica teatralità, che a me ricorda certe espressioni del coro nelle tragedie greche e sostiene: "Il malato ci descrive il suo Io come assolutamente indegno, incapace di fare alcunché e moralmente spregevole; si rimprovera, si vilipende si aspetta di essere respinto e punito. Si svilisce di fronte a tutti.."

Mi sembra particolarmente interessante ricordare che W.Blankenburg ha più volte scritto (1991) che "numerosi schizofrenici non riescono a tollerare -al pari della maggior parte degli esseri umani che accettano con naturalezza di vivere nella deiezione (nel Das Man, nell'On, nel si dice)- questo abituale oblio e ordinario coinvolgimento nel quotidiano. Ed è per la loro incapacità di ricorrere a quei compromessi che sono ovvi e un tutt'uno col vivere nel mondo inautentico della deiezione, che sono portati a quelle rigide alternative che Binswanger ha descritto sotto il nome di esaltazione fissata e di stramberia. Non è tanto l'inautenticità che li caratterizza, ma questa incapacità di potersene appagare nella vita quotidiana".

Barison si spinge ancora più in là nella analisi del manierismo, trovando come l'essere schizofrenico, la schizofrenicità raggiunga rapporti intimi colla creatività "Si è schizofrenici quando ci si rivela teatralmente a se stessi e agli altri. ..Quale differenza esista tra l'attività artistica e questa precisa espressività irreale dello schizofrenico. L'arte ci sembra essere l'espressione pura di una realtà sovrumana, mentre il manierismo è espressione dell'irrealtà, in quanto negazione fondamentale di ogni realtà, poiché proprio qui sta l'ultima parola del mondo schizofrenico, di essere nella sua essenza teatralità in quanto negazione della realtà".

Dopo l'apparizione nel 1956 del noto saggio di Binswanger sulle Tre forme di esistenza mancata; Esaltazione fissata, stramberia e manierismo è stato possibile rilevare le differenze: per Barison il manierismo non è un angolo di sosta prima del naufragio dell'esistenza coll'aggrapparsi in un ultimo sforzo ai modi convenzionali della pubblicità del "si dice, si pensa", del "Das Man", della deiezione nel senso di Heidegger. Non si tratta di un conformismo, una convenzionalità esasperata come ultima ancora di salvezza, ma piuttosto di un proprio modello, il più assoluto possibile. Barison pone al centro quello che Binswanger aveva posto alla periferia. Per quest'ultimo la presenza manierata privilegia il periferico e l'esterno a spese di ciò che è centrale ed interiore, essa vuole elevarsi, ma grazie ad un altro da sé. Così che, per Binswanger, l'intenzione cosciente del manierismo è quella di manifestarsi in modo artificioso e perciò rifiuta ogni analisi in termini di volontà o non volontà nel senso del "voler essere altrimenti" di Gruhle. Sembra proprio che Binswanger riduca il voler essere altrimenti - Anders- ad un non poter essere che altrimenti, il suo pensiero, come ha scritto Barison (1990), traduce il momento Minus piuttosto che il momento Plus.

Dovrei dirvi tante altre cose, da esempio sulla radicale dissociazione l'io e il corpo nella esperienza catatonica, come si esprime Borgna:" questa auto-gestione del corpo che nella sua significazione gestuale e motoria si separa (si distacca) dall'io che mantiene una sua propria attività e una sua propria funzione anche se divenute incorporee e de-finalizzate. Nella esperienza catatonica assistiamo alla separazione del movimento (di ogni movimento) del corpo da quella che è la regione funzionale dell'io."

Avviciniamoci al mondo autistico, laddove, alle volte, ci è dato renderci conto del lavoro creativo che comporta l'instaurarsi ed il consolidarsi della schizofrenia, quello che Jaspers aveva intuito quando scriveva: "E' un fatto straordinariamente impressionante: questa sublime comprensione, questo sconvolgente gioco melodico mai ritenuto possibile, questo impeto creativo (come in Van Gogh e Höderlin)... La visione del mondo nuovo che sorge come fatto reale, è tutto ciò che finora possiamo raggiungere".

Ed ancora con molta coerenza J.Wyrsch precisa che "nella schizofrenia i sintomi vanno sempre al di là di ciò che rappresentano e se si procede per astrazione e li si isola dal quadro clinico, scompare il loro carattere trascendente e tutto ciò che conferisce loro l'impronta schizofrenica".

Sempre per Wyrsch "in questa creazione di un mondo proprio alla quale non giungono tutti i malati appare un qualcosa che non è colto dall'uomo benpensante, cioè la capacità di creare....perché non si può negare che anche negli schizofrenici d'estrazione comune, non artisti, qualche cosa di nuovo e creativo si fa strada accanto alla distruzione del mondo e della persona...".

Per Barison è proprio nelle forme a lungo decorso che s'instaura ed è coglibile colla comprensione ermeneutica "l'irreale, geometrico deteriorato arido lunare mondo dello strano schizofrenico".

Il mondo schizofrenico ci appare illuminato da una luce lunare, sempre uguale, senza notte o giorno, senza una presenza umana, fermo nel tempo, colla nostalgia non più dolorosa dell'altro mondo comune agli uomini, da è separato non tanto da un difetto negativo, quanto da una fantasia onnipotente, da una allucinazione negativa. Lo possiamo spesso solo intuire, nell'incontro con loro o col genio schizofrenico: leggendo, ad esempio, i versi dello schizofrenico Höderlin:

Dove stai tu? Ho vissuto poco, ma respira fredda
Già la mia sera: E silenzioso simile all'ombra
Io sono qui; e già senza canto
Dorme il cuore fremente nel petto.

Il lato piacevole di questo mondo l'ho goduto
Le gioie della gioventù sono trascorse da tanto tempo!
L'aprile, il maggio ed il giugno sono lontani
Io non sono più nulla, io non vivo più volentieri.

 

* Giovanni Gozzetti è Psichiatra, Libero docente di Psichiatria, Presidenta ASVEGRA, Vice-Presidente della Società Italiana per la Psicopatologia, Padova.


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