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PSYCHOMEDIA
FORMAZIONE PERMANENTE
Corsi

EDUCARE AL SE'

Formazione psicologica degli adulti
nella società contemporanea



Il conflitto individuale del malato si rivela conflitto generale dell'ambiente che lo circonda e del suo tempo.

La nevrosi è dunque, in realtà, null'altro che un tentativo individuale (peraltro non riuscito) di risolvere un problema generale.

C. G.Jung , 1912


Incontri, seminari, corsi di formazione per adulti:

- genitori
- educatori della prima infanzia
- insegnanti della scuola dell’obbligo e della scuola superiore
- istruttori sportivi
- personale ausiliario della scuola
- operatori sociali
- psicologi
- medici
- personale paramedico
- personale amministrativo
- altre professioni su richiesta

psicologi analisti ed altri specialisti nel campo dell'educazione, della salute e della gestione sociale e comunitaria delle risorse umane e ambientali (medici, fisici, ambientalisti, architetti, artisti, economisti, ecc. a seconda della richiesta)  


Progetto a cura della Dott. Elena Liotta, didatta della Associazione Italiana di Psicologia Analitica (Istituto di formazione in psicoterapia, Legge n. 56/89, D.M. 29/9/94)  e docente di formazione in istituzioni pubbliche.  

Per ulteriori informazioni:

Loc. Torre S. Severo, 51 – 05018 ORVIETO (TR)

tel. 0763-28590  e-mail: elenaliotta@infinito.it


 

DESCRIZIONE E FILOSOFIA DEL PROGETTO
 

Sulla necessità della Formazione per adulti:

Io sono dell'avviso che neppure chi ha terminato la scuola e persino l'università
abbia completato del tutto la sua educazione.
Dovremmo avere corsi di perfezionamento non soltanto per i giovani,
ma scuole per adulti, dove si potesse proseguire la loro formazione.

C.G. Jung, 1924

Sapere e metodo

Il metodo di educazione è la conseguenza di aver assistito allo sviluppo di fenomeni psicologici che erano rimasti inosservati e sconosciuti per millenni.
Il problema, quindi, non è pedagogico ma psicologico.
L’educazione che aiuta la vita è un problema che concerne l’umanità.

M. Montessori, 1948 

La fatica nelle professioni di educazione, cura e governo: 

Sembra quasi che quella dell’analizzare sia la terza di quelle professioni “impossibili” 
il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo.
Le altre due, note da molto più tempo, sono quella dell’educare e del governare.

S. Freud,  1937

La poesia 

Ogni seme è un desiderio

K. Gibran, 1926 


 

La citazione da Freud e il verso di Gibran adombrano due modi diversi di pensare all’educazione.

Nella prima, colui che è responsabile del processo educativo e di cura soffre perché pensa di doverlo controllare, facendo, modificando, ottenendo, raggiungendo qualcosa di prefissato, un modello a priori. Tuttavia, dato che il materiale su cui l’educatore esercita il suo influsso non è inerte, il suo sforzo comporta molta fatica e un costante parziale insuccesso.

La sensazione di ansia che accompagna la modalità di controllo nelle professioni di educazione e di cura, spinge inevitabilmente a incrementare gli sforzi, a elaborare sempre nuove strategie e tecniche, a strutturate istituzioni, gerarchie, leggi, regole, sempre più fitte, nell’illusione di arginare l’impotenza rinforzando il potere.

Lo scopo ultimo di questa enorme fatica sociale è, nel caso dell’educazione, adattare le nuove generazioni alle richieste del mercato del lavoro e della società contemporanea in generale.

Nella seconda citazione - Ogni seme è un desiderio – l’autore allude poeticamente alla semplicità di un processo naturale, a una intrinseca voglia di fiorire e di apprendere il mondo che appartiene a ogni forma di vita. Chi si occupa di semi che crescono può dunque scegliere tra assistere e facilitare il fenomeno, cercando di contenere il proprio interventismo o protagonismo, oppure appropriarsi del processo, costruendolo, forzandolo a suo piacere, modellandolo nella forma che vuole l’uomo e non il seme.

Mantenendo la metafora vegetale, nel mondo contemporaneo assistiamo alla compresenza  di opposte tendenze: da un lato, le biotecnologie, i semi transgenici e l’agricoltura forzata che rispondono tanto alle esigenze di mercato quanto all’angoscia collettiva di fame e di esaurimento di quelle risorse - che, nel frattempo, gli uomini stessi continuano a sprecare. Dall’altro, abbiamo l’agricoltura biologica, il richiamo alla biodiversità, il recupero di specie naturali quasi estinte, le raccolte di semi ormai introvabili.

Molti pedagogisti e psicologi sostengono una autonomia dei processi di crescita e di autoguarigione dell’essere umano, i quali vanno semplicemente sostenuti dall’ambiente sociale che lo circonda. Esserci pienamente ma non con invadenza, da parte dell’adulto, è per questi autori la chiave di un’educazione rispettosa che rende liberi e responsabili, ma è anche il punto nevralgico dell’educazione e della cura poiché tutto dipende da che cosa l’adulto mette in gioco, e da come lo fa.

Molti genitori e insegnanti sono autenticamente convinti di stare facendo del loro meglio e di dare tutti sé stessi nel compito che si sono assunti, ma non hanno abbastanza consapevolezza di sé e della propria identità professionale per sostenere la fatica e le eventuali fragilità personali che interferiscono, da un lato nel rapporto con i bambini, dall’altro con le loro istituzioni di riferimento. Io mi occupo degli adulti, nel senso di aver cura e interesse per il loro stato psichico e fisico, e da anni ascolto la diffusa insoddisfazione che regna nell’area educativa, sanitaria e anche amministrativa della nostra società.

La prevenzione dall’alto non funziona come potrebbe perché ha tempi troppo lunghi e troppi interessi aggiunti. Tra la prevenzione e l’esplosione del malessere nei bambini, nei giovani, negli adulti stessi, c’è la direzione che io percorro: rinforzare gli adulti che pensano, decidono, scelgono in quel margine di autonomia loro concesso: lo spazio-tempo della classe e l’atmosfera che vi regna o la scelta di un testo o di un tema di discussione; il rapporto con i figli e tutto ciò che un genitore può riversarvi, dai valori alle decisioni, alla qualità delle interazioni; l’intervento sociale con le persone svantaggiate e il modello psicologico con cui lo si interpreta; la seduta psicoterapica, che può essere riempita di contenuti e di modi molto diversi a seconda dell’orientamento teorico a monte; l’ambito burocratico-amministrativo e le sue continue trasformazioni, che richiedono capacità di gestire gruppi e risorse e competenze per comunicare efficacemente. Ormai in tutti questi contesti, da una parte si ribadisce l’importanza della relazione, della comunicazione, dell’ascolto, degli aspetti socio-emotivi, del coinvolgimento dell’operatore e del suo stress, ma dall’altra non si offre la formazione opportuna per gestire tutta questa complessità, né si riconosce insieme alla responsabilità, l’autorevolezza della posizione e una vera delega per l’azione educativa, terapeutica, amministrativa o altro.

A parte l’identità professionale dell’operatore, esiste poi anche il problema della direzione e dei contenuti dell’intervento educativo, riabilitativo o terapeutico. Torniamo così al punto di partenza e alla biforcazione tra: maggiore controllo, efficienza, produttività, valutazione oppure maggiore fiducia nella naturale autonomia dei processi di crescita e guarigione, date le condizioni favorevoli che vanno identificate, favorite e tutelate.

Il modello che propongo si ispira a questa seconda visione: partire dall’individuo, dalla sua dotazione iniziale, dalle sue particolarità e mirare all’espressione consapevole e matura di sé all’interno della sua comunità. Il rapporto con il bambino può servire da ispirazione per ri-creare una possibilità per l’adulto, non viceversa come sta accadendo. Da troppo tempo, infatti, l’educazione, la scuola, la preparazione tecnica alla vita è diventata una pesante sovrastruttura di massa che appiattisce e non rappresenta desideri e forme degli esseri umani, piccoli e grandi, che la popolano. L’adulto, con la sua organizzazione gruppale in enti, società, corporazioni, accademie, amministrazioni, stati, leggi, con i suoi tempi e spazi, ha rubato il posto al seme per far crescere onnipotentemente quello che vuole lui, diventando il  protagonista di un desiderio dalle radici deboli e dal futuro precario.

Bambini e ragazzi, contagiati dall’ansia catastrofica di famiglie, educatori e amministratori, sono costretti ad acquisire, sempre più precocemente, abilità, capacità tecniche, talenti e saperi  specifici, per poi essere proiettati in un mondo presentato come competitivo e scarso di risorse. Questo ambiente, sempre più artificiale e artificioso, non può essere una base di adattamento sano per quella dotazione di funzioni che l’organismo umano presenta da millenni sempre uguale, ad ogni nascita.

Sia dal punto di vista fisico sia da quello sociale, l’ambiente ha bisogno di essere ridefinito in relazione a un soggetto, nel senso dello spazio, del tempo e delle relazioni tra esseri umani all’interno di una comunità.

Gioco spontaneo, esperienza personale, piacere di esplorare, contemplare, apprendere naturalmente, sono scomparsi dalla vita delle nuove generazioni, e con essi anche il piacere degli adulti di vederle fiorire.

Il tempo che ci vuole e lo spazio che serve, non sono più due categorie fondanti della realtà, ma un ricordo nostalgico o dimensioni immaginarie. E non basta proporre il quality time – il tempo speciale, riconosciuto ai genitori negli Stati Uniti, affinché lo dedichino ai figli, un tempo determinato per dare ossigeno a una relazione che ha invece bisogno di una qualità globale.

Infine, anche negli ambiti sociali si assiste a un eccesso di proposte e di stimoli che occupano il luogo dell’eventuale creatività e propositività dei soggetti coinvolti.

Gli esperti, i formatori, accademici e non, sperimentano, ricercano, intervengono con autorità, senza necessariamente costruire modelli di intervento condivisi, magari capovolgendo da un decennio all’altro il senso e l’applicazione delle metodiche educative o terapeutiche.

Credo che le persone che si prendono cura degli altri – a partire da genitori, educatori e terapeuti di ogni genere, fino agli amministratori, architetti, artisti, economisti e scienziati più sensibili a queste tematiche, possano insieme dare inizio a un’opera pacifica ma inesorabile di smantellamento del superfluo, di eliminazione dell’insensato, di ritrovamento dell’essenziale, nel loro pensiero tanto quanto nel lavoro quotidiano. Una pratica di sobrietà e una disciplina di essenzialità a favore dei loro allievi, di sé stessi e del mondo circostante, verso quel benessere collettivo e quella comunità da ri-anima-re, di cui tanto si parla e che nei fatti poco si pratica.

La mia esperienza personale e professionale di ascolto e contatto con il disagio psicologico e sociale a vari livelli - nell’ambiente interno e profondo della pratica psicoanalitica, in quello dei gruppi di formazione di insegnanti, educatori, operatori sociali, in quello dell’amministrazione pubblica - mi ha permesso di osservare il diffondersi progressivo di un malessere che sempre di più attraversa l’individuo e la sua comunità, nei corpi, nelle menti e nelle relazioni umane.

Di contro, una specie di rimozione o di inconsapevolezza di questo malessere, e il suo costante spostamento altrove, rinforzano i sintomi più diffusi, cioè la depressione, l’ansia e lo stress, portandoli a livelli di epidemia più o meno riconosciuta. Nessun farmaco potrà mai sostituire una comunità sensibile e attenta ai bisogni fondamentali dell’individuo, né dare senso alla vita, anche se esso può risultare utile ad attutire tensioni insopportabili.

Il punto è che fare comunità, fare pensiero o cultura, fare anima, e costruire relazioni autentiche è molto più lento, faticoso e frustrante di qualunque processo o attività umana che venga oggi praticata o trasmessa alle nuove generazioni. Ma è anche l’unica via praticabile per rendere significativi i processi educativi e terapeutici. Purtroppo la capacità di pensare e di essere autenticamente in relazione, non si insegna nel modo lineare con cui si insegnano le altre discipline, ma si trasmette con l’esempio e la comunicazione profonda, dall’adulto all’allievo che dipende da lui.

Per questo è importante la formazione dell’adulto, che a sua volta non può essere una formazione lineare, scolastica, di apprendimento intellettuale o libresco, ma un lavoro più profondo sul senso dell’impegno professionale, sulle caratteristiche e le potenzialità della professione, sugli aspetti personali e le capacità individuali di interpretare la professione, su altri fattori da valutare volta per volta nella reale situazione di lavoro.

Ri-creare vuol dire ri-partire da ogni inizio, non ritornare indietro. Ogni nuovo seme è un’occasione che riguarda bambini e adulti, è la possibilità di una nuova creazione di Sé e di relazioni più vere nella propria comunità e con l’ambiente naturale che la accoglie.


L’INTERVENTO

Uneducazione puramente tecnica e utilitaria non impedisce alcuna illusione
e non ha nulla da contrapporre ad abbagli ingannatori.
Essa manca di cultura, la cui legge più intima è la continuità della storia,
cioè della coscienza umana sovraindividuale.

                                                                                  C.G. Jung,1943
 

A seconda del tipo di richiesta e dopo aver costruito insieme agli interessati la modalità più opportuna dell’intervento, si possono immaginare le seguenti configurazioni: 

- Conferenze-dibattito una tantum o introduttive

- Seminari costituiti da un numero determinato di incontri

- veri e propri Corsi di formazione annuali o pluriennali, con verifiche successive

- Aggiornamenti su temi specifici da concordare con gli interessati

- Laboratori

- Sportelli di ascolto

- Supervisione e Consulenza su situazioni o eventi specifici

- Altre forme


Nei corsi di formazione che tengo, dopo una introduzione generale sui fondamenti teorici della psicodinamica, cioè di quell’area della psicologia che indaga gli aspetti più profondi, inclusi quelli inconsci, che caratterizzano la formazione della personalità e le interazioni e comunicazioni tra esseri umani, soprattutto nei loro aspetti emotivi e affettivi, mi soffermo su tutti quegli argomenti che emergono spontaneamente in ogni gruppo di lavoro, dai problemi pratici, o apparentemente banali, alle difficoltà di relazione o di altro genere.

Si configurano così, in modo spontaneo, alcune zone prima di indagine e poi di elaborazione, che piuttosto regolarmente riguardano: lo stato attuale fisico e psichico delle persone, il vissuto del singolo e del gruppo nel suo insieme; i problemi di rapporto con altri adulti, spesso all’interno delle istituzioni, più raramente con i bambini; carenze sul piano concreto – spazio, tempo, attrezzature, sicurezze, fondi per attività, ecc. - specifiche situazioni relazionali, riguardanti episodi di conflitto o tensioni non risolte, spesso causate da difficoltà a stabilire e mantenere limiti o da una non chiara definizione di ruoli, mansioni e responsabilità; assenza di orientamento o direzione; assenza concreta di figure di riferimento; problematiche particolari che caratterizzano in modo differente ogni contesto lavorativo nel suo territorio, con i suoi utenti, nel collettivo di lavoro, con le istituzioni.

Dall’esperienza varia e prolungata nel tempo con più servizi, emergono elementi comuni alle situazioni umane, individuali e di gruppo, ed elementi differenzianti per ogni professione e per ogni territorio. La Formazione psicologica ha comunque una sua trasversalità che prescinde dalle specifiche attività, lavorando su qualità importanti per ogni tipo di lavoro come ad esempio: saper stabilire e tenere i limiti, conoscere le proprie forze e debolezze, saper comunicare in modo appropriato, saper tacere, riuscire a prendere decisioni tollerandone le conseguenze, reggere i conflitti, avere pazienza, rispettare sé stessi, accettare la realtà di ciò che non può cambiare e molte altre ancora.

Nel caso di seminari e corsi, durante gli incontri che occupano l’intera mattinata, c’è tempo per momenti diversi come: leggere alcuni brani da testi di varia origine, che io scelgo in relazione a ciò che via via mi trovo davanti e commentarli; suggerire e fornire materiali per ulteriori letture e approfondimenti bibliografici, i quali verranno poi ripresi negli incontri successivi con i commenti e la discussione degli operatori; parlare liberamente nel gruppo, per far emergere situazioni esemplari di intervento su cui analizzare il comportamento, il vissuto, l’interazione sociale, la comunicazione verbale e non, vale a dire tutto ciò che offre possibilità di riflessione per la conoscenza di sé e degli altri; entrare in alcune dinamiche interne al gruppo stesso per comprenderle e facilitarne la soluzione o una migliore gestione.

Solo dopo tutto questo, si ipotizzano modalità nuove, possibilità diverse di comportamento, le quali, nascendo dal gruppo stesso, hanno maggiori probabilità di essere gestite veramente dagli operatori al momento necessario. Ciò rinforza l’identità personale degli individui e del gruppo e una loro maggior autonomia e maturità di fronte alle responsabilità. Questa ‘personalizzazione’ risulta indispensabile se si vogliono impostare trasformazioni autentiche e durature, poiché risulta inefficace proporre modelli, decaloghi di comportamento in apparenza giusti per tutti, ma in realtà inapplicabili per via di caratteristiche individuali di personalità. Il gruppo stesso manifesta una sua personalità, uno specifico taglio emotivo, una sua atmosfera che va rispettata, pur nell’esigenza di cambiamento.

L’importante è che si crei uno spazio per pensare, per diventare consapevoli e poi poter agire con convinzione.

In questo modo ha luogo una spontanea riorganizzazione dell’assetto lavorativo allargato, all’insegna di una maggiore professionalizzazione e autostima degli operatori.

L’identità professionale è un aspetto importante dell’identità personale dell’individuo, ma è anche un aspetto fondamentale per la funzionalità di qualsiasi servizio, per la sua immagine, per l’istituzione a monte, e infine per la soddisfazione sia dell’utenza sia dell’operatore stesso.


La stragrande maggioranza degli esseri umani sceglie di seguire
non la propria strada ma le convenzioni;
essi di conseguenza non sviluppano sé  stessi,
bensì un metodo, e quindi una dimensione collettiva,
a spese della propria interezza.

                                                                                   C.G. Jung, 1934


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